venerdì, settembre 11, 2009
Storia di San Giuliano l'Ospitalario
Ci fu anche un altro Giuliano, che uccise, non sapendolo, entrambi i genitori.
Questo Giuliano era giovane e nobile, un giorno a caccia, inseguiva un cervo che aveva stanato lui stesso. Di colpo, obbedendo a un ordine divino, il cervo si voltò verso di lui e gli disse: “Tu che ora mi insegui sarai l’assassino di tuo padre e di tua madre!” Udendo quelle parole Giuliano si spaventò moltissimo, e temendo non gli capitasse davvero, ciò che aveva udito dire dal cervo, abbandonati di nascosto tutti i suoi compagni se ne partì da solo fuggendo dal suo destino.
Giunse in una regione remota e qui entrò al servizio di un Principe; si comportò in modo così leale in tutte le circostanze, in pace come in guerra che il Principe lo fece cavaliere e gli diede in moglie una castellana rimasta vedova che gli portò in dote il suo castello.
Nel frattempo i genitori di Giuliano addoloratissimi per la scomparsa del proprio figliolo andavano vagando qua e la e lo cercavano con somma diligenza . Finalmente giunsero al castello in cui viveva Giuliano. Giuliano, però, quel giorno, si era allontanato dal castello per qualche sua commissione. Quando la moglie di Giuliano li vide, domandò loro chi fossero e quando essi le ebbero raccontato per esteso la storia del loro figliolo, comprese che si trattava dei genitori del marito, avendone, come credo, sentito parlare da lui di frequente. Pertanto gli accolse benevolmente e per amore del marito cedette loro il prorpio letto e si ridusse in un letticiuolo collocato in un’altra stanza. Venuto il mattino, la castellana se ne andò alla chiesa. Ed ecco che Giuliano giungendo entrò in camera da letto come se dovesse svegliare sua moglie e trovando due persone che dormivano, pensò che dovesse trattarsi di sua moglie con il suo drudo, allora, estratta la spada in silenzio, li uccise entrambi. Uscendo poi di casa vide sua moglie che tornava dala chiesa e, meravigliandosi, le domandò chi fossero allora quelli che dormivano nel suo letto. Ella gli rispose: “sono i Vostri genitori, che Vi hanno cercato per moltissimo tempo e io li ho fatti mettere nel Vostro letto”. Udendo queste parole egli quasi senza conoscenza cominciò a piangere amarissimamente e a dire: “oh misero, che cosa farò! Io che ho ucciso i miei dolcissimi genitori. Ecco si è adempiuta la parola del cervo, e io ho compiuto ciò che volli evitare. Addio dolcissima sorella, perché non troverò pace in nulla, finché non saprò quale penitenza Dio vorrà impormi”. Ed ella rispose: “Non pensare, dolcissimo fratello, di potermi abbandonare e di andartene senza di me, ché se condivisi con te la gioia con te condividerò anche il dolore”.
Allora si ritirarono insieme presso un grande fiume, che molti cercavano di attraversare. Quivi, per fare penitenza fondarono un grande ospedale nel quale ospitavano tutti i poveri che giungevano e traghettavano senza sosta tutti quelli che lo desideravano. Dopo molto tempo, nel cuore della notte, mentre Giuliano, sfinito, dormiva e il gelo era fortissimo, egli udì la voce di un infelice che si lamentava in modo penosissimo chiedendo a Giuliano, con lugubre tono, di poter essere traghettato. Egli udendolo si alzò in tutta fretta e trovando colui che gridava proprio quando era sul punto di venir meno per il gelo lo portò nella sua capanna e accese un fuoco cercando di riscaldarlo. Ma ogni sforzo sembrava inutile, allora, per non lasciarlo morire, lo pose nel suo letto e lo coprì con molta cura. Ed ecco che subito colui che sembrava malato, forse lebbroso, ascese in splendore verso il cielo dicendo: “Il Signore mi manda a te per dirti che la tua penitenza è accetta e tutti e due fra breve riposerete in lui”. Così disparve e Giuliano poco tempo dopo per le buone opere sue e per le elemosine trovò anch’egli riposo nel Signore.
***
trad genseki
giovedì, settembre 10, 2009
Antonio Labriola
A Labriola
Lettera a Spaventa.
mercoledì, settembre 09, 2009
De Luce
Ovvero
L’origine delle forme
Di
Roberto Grossatesta
Vescovo di Lincoln
Ho supposto che sia la luce ciò cui solo è possibile di compiere questa operazione di moltiplicare se stessa e di diffondersi immediatamente in ogni parte. Qualunque cosa faccia ciò o è la luce medesima oppure della luce partecipa quando questa agisce per virtù sua propria.
La corporeità dunque o è la luce stessa o è, come detto qualche cosa che produce le dimensioni nella materia in quanto partecipa della luce e agisce per virtù di questa. Ma, invero, non è possibile che la forma prima produca le dimensioni nella materia per virtù della forma conseguente. La luce non è quindi forma conseguente la corporeità ma è essa stessa la corporeità.
Più dettagliatamente i sapienti pensano che la prima forma corporale sia più degna di tutte le forme conseguenti e di essenza più eccellente e più nobile e più simile alle forme che sussistono separatamente. La luce, invero, è di essenza più nobile e più degna e più eccellente di tutte quante le cose corporee e più simile alle forme che sussistono autonomamente, che sono le Intelligenze. La luce è dunque la prima forma corporea.
Ecco allora che la luce che è la prima forma creata nella prima materia moltiplicandosi da sé infinitamente, ovunque egualmente estendendosi, al principio del tempo dilatava la materia che si diffondeva così in tanta per una misura pari a quella dell’intera macchina del mondo senza tuttavia poterla oltrepassare.
L’estensione della materia non poté avvenire per una moltiplicazione finita della luce, perché il semplice moltiplicato per un numero finito non genera la quantità come dimostra Aristotele nel “De Caelo et Mundo”.
E’, invece, necessario che infinitamente moltiplicato generi una quantità finita perché il prodotto di una moltiplicazione infinita di qualche cosa supera infinitamente ciò della cui moltiplicazione è prodotto. E il semplice non è superato infinitamente dal semplice ma basta soltanto una quantità finita per superarlo infinitamente. Infatti, la quantità infinita supera il semplice infinitamente infinite volte. La luce, dunque, che in sé è semplice, infinitamente moltiplicata, estende in dimensioni di grandezza finita la semplice materia.
E’ poi possibile che un insieme infinito di numeri sia proporzionale ad un insieme infinito secondo un relazione numerica o anche non numerica. Vi sono infiniti maggiori e altri minori di altri infiniti.
L’insieme di tutti i numeri pari e di tutti i numeri dispari è infinito e, tuttavia, è maggiore dell’insieme di tutti i numeri pari che è comunque lo stesso infinito perché lo eccede per la quantità di tutti i numeri dispari. Anche l’insieme di tutti i numeri moltiplicati per due a partire dall’unità in avanti è infinito, e similmente l’insieme di tutte le metà corrispondenti ai loro doppi è infinito. L’insieme delle metà dovrebbe essere la metà dell’insieme dei suoi doppi. Allo stesso modo l’insieme di tutti i numeri triplicati a partire dall’unità e andando sempre avanti è triplo rispetto all’insieme dei terzi corrispondenti a questi tripli. E’ così chiaro che ogni tipo di proporzione numerica può essere una relazione tra finito e infinito.
Prendiamo allora un insieme infinito di tutti i doppi a partire dall’unità e un’insieme infinito di tutte le metà corrispondenti a questi doppi, se sottraiamo un’unità o un altro numero finito dall’insieme dei doppi, una volta compiuta la sottrazione non vi è più una relazione proporzionale tra il primo insieme e quanto resta del secondo. Non vi è qui una proporzione numerica perché se restasse una proporzione numerica fra il primo insieme e quanto resta del secondo dopo la sottrazione, quello che è sottratto sarebbe una quota parte di una quota parte, ovvero una quota di parti di una parte di ciò da cui è sottratto. Ma un numero finito non può essere una quota parte o una quota di parti di una quota parte di un numero infinito. Perciò se noi sottraiamo un numero da un insieme infinito di metà non resta nessuna proporzione numerica tra l’insieme infinito dei doppi e quanto rimane dell’insieme infinito delle metà.
Ecco allora che diviene chiaro come la luce attraverso la propria moltiplicazione infinita estenda la materia in dimensioni finite più o meno ampie secondo le diverse proporzioni che si stabiliscono tra l’una e l’altra e che possono essere numeriche oppure non numeriche. Per questo la luce per mezzo della sua moltiplicazione infinita. Se quindi la luce per mezzo della sua moltiplicazione infinita estende la materia per uno spazio di due cubiti raddoppiando la medesima moltiplicazione infinita ecco che la diffonde per uno spazio di quattro cubiti e dividendola per due la amplia di un cubito e così via secondo le altre proporzioni numeriche e non numeriche.
Questa penso fu l’idea di quei filosofi che supposero che ogni cosa sia composta di atomi o di quelli che affermano che i corpi sono composti da superfici, le superfici da linee e le linee da punti. E non si oppone a questa affermazione chi dice che la grandezza si compone soltanto di grandezze. Infatti, quando si definisce la parte si definisce anche il tutto. Detto altrimenti si dice metà quella parte del tutto che presa due volte ci ridà il tutto. Analogamente il raggio è una parte del diametro ma moltiplicato per tante volte quante si vuole non ci ridà mai i diametro e rimane sempre minore di quello. Ancora, l’angolo di contingenza è una parte dell’angolo retto in cui è contenuto infinite volte e tuttavia, se ve lo sottraiamo un numero finito di volte lo rende più piccolo, mentre se sottraiamo un punto dalla linea di cui esso è una parte questa non ne resta in alcun modo diminuita.
Ritornando al mio assunto dico che la luce per mezzo della sua infinita moltiplicazione estende in ogni parte egualmente la materia in forma sferica. Ne consegue per necessità di questa estensione che le parti estreme della materia siano più rarefatte e più diffuse delle parti più interne più prossime al centro. Quando le parti estreme siano sommamente rarefatte ecco che anche quelle interne divengono suscettibili di rarefazione.
In questo modo, dunque, la luce estendendo la prima materia in forma sferica e rarefacendola nelle sue parti estreme, attualizzò perfettamente le possibilità della materia nell’ultima sfera non lasciando in essa nulla che fosse suscettibile di ulteriore impressione. Il primo corpo all’estremità della sfera è tanto perfetto da essere detto firmamento perché nella sua composizione non entra nient’altro che la prima forma e la prima materia. Per questo è un corpo semplicissimo quanto alle parti che ne costituiscono l’essenza e quanto alla grandezza che è massima e non differisce dal genere corporeo che per il fatto che in esso la materia è perfetta soltanto grazie alla forma. Ma il genere corporeo che si trova in questo e in altri corpi, avendo nella sua essenza la prima materia e la prima forma prescinde dalla completa attualizzazione della materia attraverso la prima forma e dalla diminuzione della materia per mezzo della prima forma.
Raggiunta così la perfezione, il primo corpo, cioè il firmamento, diffonde da solo la sua luce da ogni sua parte verso il centro del tutto. Infatti, siccome la luce è a perfetta attualizzazione del primo corpo essa si diffonde necessariamente verso il centro del tutto. Ma poiché la forma nella sua interezza non è separabile dalla materia mentre si diffonde dal primo corpo diffonde con sé la spiritualità della materia del primo corpo. Così dal primo corpo procede la luce che è un corpo spirituale o se si preferisce uno spirito corporale. Dal momento che la luce nel suo passaggio non separa il corpo che attraversa essa immediatamente penetrò dal primo corpo celeste verso il centro. Il suo passaggio non deve essere inteso come un passaggio di qualche cosa che sia misurabile benché istantaneo dal cielo verso il centro del tutto, questo, infatti, non sarebbe possibile, ma il suo passaggio avviene per mezzo della sua moltiplicazione e generazione infinita di luce. Questa luce diffusa dal primo corpo verso il centro raccolse la massa esistente al di sotto del primo corpo; e poiché non poteva diminuire il primo corpo che è completo e invariabile non trovando nessun vuoto dovette necessariamente, per raccogliere questa massa, disgregarne ed estenderne le parti estreme. Così le parti interne della massa divenivano più dense e quelle esterne più rarefatte; e fu tanto grande la potenza della luce che raccoglieva e contemporaneamente disperdeva ciò che aveva raccolto che le parti estreme della massa che si trovava al di sotto del primo corpo furono massimamente rarefatte e assottigliate.
Veniva così formandosi ai margini di questa massa una seconda sfera perfetta e non suscettibile di ulteriore impressione. La completezza dell’attualizzazione la perfezione della seconda sfera dipende dal fatto che la sua luce è generata dalla prima sfera ma mentre in questa è semplice in essa è doppia.
In questo modo, dunque furono prodotte le 13 sfere di questo mondo sensibile: cioè le nove sfere celesti inalterabili, inaccrescibili, ingenerabili e incorruttibili in quanto completamante attualizzate, e le quattro esistenti secondo modalità opposte, ovvero alterabili, accrescibili, generabili e corruttibili in quanto incomplete. E’ chiaro, inoltre che ogni corpo superiore secondo la luce che d sé trae è forma e perfezione del corpo successivo; così come la potenza dell’unità è contenuta in ogni numero successivo all’uno allo stesso modo il primo corpo, in virtù della moltiplicazione della sua luce è contenuto in ogni corpo successivo.
La terra poi contiene la potenzialità di tutti i corpi superiori in quanto in essa è contenuta l’aggregazione di tutte le loro luci. Per questo i poeti è stata chiamata Pan, cioè il tutto; e anche Cibele, che deriva da cubo, per la sua solidità, perché essa è più compatta di ogni altro corpo, Cibele madre di tutti gli dei, giacché in essa sono adunate tutte le luci superne, che non sono sorte da lei per opera sua sebbene sia possibile trarre da lei con atti e operazioni appropriate la luce di qualsivoglia sfera. Così sarà da lei procreato, quasi come da una madre qualunque Dio. I corpi intermedi poi hanno due tipi di correlazioni. Per quanto riguarda i corpi inferiori essi hanno con loro le stesse relazioni che il primo cielo ha con gli altri corpi, per quanto riguarda quelli superiori hanno con essi lo stesso tipo di relazione che la terra ha con tutti i corpi.
Forma e perfezione di ogni corpo è la luce ch’è spirituale e pura nei superiori, più corporea e complessa negli inferiori. Tuttavia tutti i corpi non hanno la medesima forma pur procedendo tutti dalla stessa luce semplice o complessa, così come non l’hanno i numeri benché derivati dalla somma di più o meno unità.
Con questa frase è chiarita l’idea di quelli che dicono “tutte le cose sono uno in virtù della perfezione di una luce” e di coloro che dicono “le cose molteplici sono tali in virtù della differente moltiplicazione della sola luce”.
Poiché, poi, i corpi inferiori partecipano della forma di quelli superiori, un corpo inferiore a causa della partecipazione alla forma del corpo superiore è in grado di ricevere il moto dalla stessa virtù motoria incorporea da cui è questo è mosso. Per questo la virtù motoria dell’intelligenza o dell’anima che muove la prima suprema sfera con moto continuo muove anche tutte le altre sfere celesti inferiori con il medesimo moto. Ma quanto più in basso si trovano tanto più debolmente ne ricevono il movimento, perché quanto più una sfera è bassa tanto meno pura e più debole è in essa la prima luce corporea.
Sebbene, poi, gli elementi partecipano della forma del primo cielo, non sono tuttavia mossi dal motore del primo cielo con moto continuo. Sebbene partecipino di quella prima luce, purtuttavia non obbediscono alla prima virtù motoria perché la loro luce è debole, impura e lontana da quella del primo corpo e perché la loro materia ha densità che è principio di resistenza e di disobbedienza. Alcuni ritengono tuttavia che la sfera del fuoco ruoti di moto continuo e portano come prova la rotazione delle comete e dicono che questo moto influisce persino sull’acqua del mare generandovi le correnti. I veri filosofi, tuttavia, affermano che la terra è immune da un tale influsso.
Allo stesso modo le sfere che si trovano dopo la seconda sfera, che contando a partire dalla terra è detta ottava, dal momento che partecipano della sua forma hanno tutte in comune con essa il moto, e ne hanno anche, oltre questo, uno loro proprio.
Dal momento che le sfere celesti, in quanto perfette, non sono suscettibili di rarefazione e di condensazione in esse la luce non spinge parti di materia lontano dal centro in modo che si rarefacciano né verso il centro in modo da farle addensare, per questo tali sfere celesti non ricevono, dalla virtù motoria intellettiva, un moto verso l’alto e neppure uno verso il basso ma solo un moto circolare. Questa riverberando su di loro nel suo aspetto corporeo le spinge ad una rivoluzione corporea.
La luce che è in loro, invece spinge gli elementi incompleti e suscettibili di rarefazione e di condensazione verso il centro per condensarli o lontano da esso per rarefarli. Per questo essi sono mobili verso l’alto oppure verso il basso.
Nel corpo supremo, che è il più semplice di tutti i corpi vi sono quattro costituenti, cioè la forma, la materia, la composizione e il composto. La forma in quanto semplicissima vale come unità, la materia per la sua duplice possibilità, quella di essere impressionabile e ricettiva e quella di essere densa, proprietà quest’ultima fondamentale della materia si manifesta per prima cosa e principalmente in modo binario e perciò le è assegnata una natura binaria. La composizione ha in sé la trinità. Perché in essa appare la materia formata, la forma materiata e la proprietà stessa della composizione che distinta sia dalla materia sia dalla forma si trova in ogni composte ciò che è composto oltre questi tre è compreso come quaternità. Lo si trova nel primo corpo nel quale esistono virtualmente tutti gli altri corpi, come appunto quaternità, perciò, fondamentalmente il numero di tutti gli altri corpi non può superare la decina. Infatti, l’unità della forma, la binarietà della materia, la trinità della composizione e la quaternità del composto prese insieme costituiscono la decina. Per questo la decina è il numero dei corpi delle sfere del mondo, poiché, sebbene la sfera degli elementi sia quadripartita, resta tuttavia una per la sua partecipazione alla corruttibile natura terrestre.
Ne deriva che la decina è il numero dell’universo perché è un tutto perfetto ciò che in sé contiene forma e unità, materia e binarietà, composizione e trinità e composto e quaternità. Non vi è bisogno di aggiungere un quinto costituente perché ogni perfetta totalità è nella decina.
Da ciò si vede chiaramente come che le sole cinque proporzioni presenti nei quattro numeri uno, due, tre e quattro bastano a costituire la composizione e la concordia di ogni composto.
Per questo queste cinque sole proporzioni bastano a produrre l’armonia della musica dei gesti e delle danze.
Qui termina il trattato della luce del Vescovo di Lincoln.
trad. genseki
mercoledì, luglio 29, 2009
Genesi
Nell'oceano indistinto
Sorgono, grandi isole
Dalla schiuma salmastra
Di stridenti richiami
Vivono di voli radenti
Il guano le copre nasconde
Il loro segreto silenzio.
Fonti da esse sorgendo
D'acque faconde
Nell'intreccio di metallici
Splendori di libellule
Frenetiche elitre
Ali e becchi variopinti
Cantano il senso
Ancora oscuro nel morbido
Maturare soterraneo
A radici micorrize
Dando alimento
Fronde distendono
Nel prurito della luce
Nella pelle luminosa
Che il sole allunga
Da clorofilla a clorofilla
Evocano, non parlano,
Al dormiente tra steli di sparto.
Finalmente la pelle tesa
Dei tamburi scoppia
Sorda, bisognosa di occhi
Rispecchia lo smarrimento
Della separazione
Lontana dal centro
La coscienza articola
La leggenda del proprio terrore
La morte è levatrice del senso.
Parole, di nuovo, rinnovate
Separate, gravato il suono
Di senso e significante
Staccionate, limite,
Fallo, faglia confine
Tracciano del sacro
Sul limite della palude
Timide come ninfee
Como fiori di loto
Schiacciati dallo zoccolo del Centauro.
genseki
Hector Murena
Esta dicha terrible
Que es cualquier barco
Hacia odo naufragio.
Che sia compresa
La terribile sorte
D'essere qualche battello
Verso ogni naufragio
trad. genseki.
Altre ronde, altre ore
Ad aprirsi piú leste
E l'eco delle strade
Nelle foglie di gelso
Con una mela in tasca
Con il fuoco negli occhi
Abbandonar la patria
Riempire le bisacce
Nutrire pulci e pulci
Lavarsi con la nebbia
Scaldarsi con il fumo
Rubare le castagne
Lottare con un angelo
Tra i rami di un immenso
Faggio dell'appennino
Nel mezzo dell'autunno
Come puzzano i piedi
Il sudore, il fustagno
la cenere di frasca
La diarrea da muscaria
Altre ronde, altre ore
Or piú lente or più spente
E l'eco del cammino
Che quell'altro ha percorso.
*
La giga delle quattro e venti
Parteciparono tutti i corni
I cani gialli a gruppi sotto i meli
Sporgevano le lingue come stami
I cedroni ed i cervi profumavano
Con incensi di sangue
La posa delle roveri
Con i rami protesi verso la tempesta
Come le mani di un soprano drammatico
Il Duca ululava a Despina
Che piangeva nuda di rose
Nel mezzo del temporale verde e viola
Ed il carro dei comici traballava
Avanzando penosamente nel fango
Nel rumore assordante delle casseruole di rame
Che rappresentavano la commedia
Del concerto delle sfere.
Un filosofo straccione, dalla barba di stoppa
Seduto su un frammento di colonna corinzia
Tramandó questa scena fino ad oggi
Per deliziare una dama fiamminga.
genseki
sabato, luglio 25, 2009
La Torre di Nesle
Brantôme
- Fante di fiori! -
- Donna di picche! - E il soldataccio che perdeva, con un pgno sulla tavola faceva saltare la sua posta fin contro la volta.
Allora Messer Hugo, il prevosto, sputó in un braciere di ferro con una smorfia egna di uno straccione che si sia inghiotito un ragno con la zuppa.
- Puah! I macellai spellano i porci a mezzanotte? Per Dio! È una barcaccia della fienagione che brucia sulla Senna! -
L'incendio, che d'apprima non era che un folletto innocente perduto nella bruma del fiume, si mise a fare di colpo il diavolo a quattro sparando cannonate e archibugiate a filo d'acqua.
Una folla innumerevole di illuminati, storpi, straccioni notturni, accorse sulla riva, danzavano gighe di fronte alla spirale di fiamma e di fumo.
Arrossavano una di fronte all'altra la Torre di Nesle da cui uscí la ronda con gli schioppi sulle spalle, e la Torre dl Louvre da dove, da una finestra, il Re e la Regina osservavano tutto senza essere visti.
Aloysius Bertrand
Trad. genseki
venerdì, luglio 24, 2009
La figlia dell'ambasciatore
Vive nuda per le strade
Mangia l'immondizia
È coperta di croste
Vaga coperta di croste
Per il quartiere alto della cittá
Quello delle palme
Quello delle profonde terre rosse
Si libera dei vestiti
Che le fanno indossare
Le suorine azzurre
Le suorine leggere come petali
Che sembrano volare attraverso le siepi
La figlia dell'ambasciatore,
Del vecchio ambasciatore
Vaga nuda per le strade
Coperta di croste, soprattutto sulle ginocchia
E le labbra gonfie di piaghe
- È la figlia del vecchio ambasciatore -
Mormorano le venditrici di pomodori
Avvolte nei loro pagne sgargianti
E quelle di kaolino
O del burro di Karite
Che sembra sangue sul punto di coagularsi
- Che se ne va per le strade tutta nuda -
Ha grandi occhi acquosi, sporgenti e rossi
E il collo sempre piegato a destra
Ti guarda con la testa bassa
E canticchia litanie bantù
I vestiti li getta via
Come le bande che con mano delicata
Le stringono sulle piaghe
Le infermiere dell'ospedale cinese
Con le loro divise grige e la pelle del viso tostata
- Guardate, è la figlia dell'ambasciatore, -
Dicono i sarti in fila con le loro singer
Sotto il jacarandá o il braquiquito sbandierando
Le maniche di camicie innocenti
- Che se va nuda per le strade, con quel pancione di sei mesi!-
La figlia dell'ambasciatore si sente libera
Come un uccello cui abbiano strappato gli occhi
E che vola in una notte piovosa
Sbattendo le ali contro i rami spinosi,
genseki
mercoledì, luglio 15, 2009
Alessandra tra i lillá - parte II
Oggi vedo un parco
Una signora celeste
I lillá dei muri,
La macchia di arbusti che cresce
Oggi ascolto
Una canzone lontana
Una storia di principesse
E di castelli
E addii estivi.
La cicala
Mi sveglió per dirle
Che dalla finestra
Entra l'odore dei pini.
Cristina Peri Rossi
1976
trad. genseki
La cosa in sé
Hegel
Fenomenologia dello spirito
trad. genseki
*
Certamente nessuno oggi, che entri in qualunque supermercato o centro commerciale puó nutrire qualche dubbio relativamente al fatto che gli oggetti che gli si presentano davanti in uno spettacolo multicolore abbiano qualche caratteristica di relatá e di certezza.Il mistero del mercato si manifesta nella pura cirolazione della merce che è una forma di ingestione e di assimilazione simbolica, non molto distante da quello che fu il mistero di Cerere e Bacco, ma con molta meno sapienza.
La certezza della nulla delle cose sensibili è sapienza comune di qualsiasi consumatore. Nessuna parola è piú adeguata di consumatore per indicare questa prosimitá al nulla. Consumatore o nullificatore è colui che entra nella sfera variopinta del mercato.
Il consumatore, infatti, non i ferma davanti alla cosa come se fosse davvero una cosa in sé, ma disperando della sua reaktá al di fuori della sfera ella circolazione, si getta su di essa la compra e appunto la consuma e consuma anche quest'ultimo residuo soggettivo del suo cosnumare.
Il Mercato, col la M maiuscola di Macdonald, celebra cosí con lui il mistero postistorico della merce.
genseki
Günther Eich
Sul verde dicembrino dell'altura
Si apre un pioppo come un monumento
Con lente ali tracciano cornacchie
Caratteri esoterici nel cielo
L'umida aria contiene suoni e segni
L'alta tensione vibra con i grilli
Gelano i funghi sul margine del bosco
Ed un nido di tordi sta marcendo
Il campo sta nelle linee ondulate
Il gelo delle pozze brilla per le crepe
Nubi pregne di neve van passando
Sull'alfabeto di questa amarezza.
Traducendo questi versi di Günther Eiche en scopro le affinitá con Trakl che alla lettura mi erano sfuggite
Secchi dietro il prato
Gli steli del luppolo
I fianchi del bosco
Mi donano l'autunno.
Verdi gli abeti
Vuoto il focolare
Non so piú da quando
Non en esce fumo
Il filo spinato
La terra bruciata
qualcuno è partito
io l'ho conosciuto?
Verdi gli abeti
La luce vivace,
I boschi silenti
Non hanno ricordi.
Come in Georg Trakl questa poesia è solo apparentemente una poesia della natura. La natura, anzi è assente anche come sfondo, essa fornisce soltanto la materia sonora e le forme per una cerimonia della disperazione. Cerimonia che si svolge interamente all'interno del linguaggio poetico nel blocco totale di qualunque deissi, nell'ossessione che lascia un particolare gusto di cenere nella memoria del lettore.
genseki
martedì, luglio 07, 2009
lunedì, luglio 06, 2009
Nuove traduzioni di Alejandra Pizarnik
Ricevi volto mio, muto, mendico
Ricevi questo amore che ti chiedo
Ricevi ció ch'è in me, quello tu sei
***
Distruzioni
In baci, non in argomenti.
Quevedo
Dalla lotta con le parole occultami
Spegni il furore del mio corpo elementale.
***
Amanti
Un fiore
non lontani dalla notte
si apre
alla delicata urgenza della rugiada.
***
Riconoscimento
Sei tu che porti il silenzio del volo di lillá
Nell tragedia del vento nel mio cuore
Hai fatto della mia vita un racconto per i bambini
Dove naufragi e morti
Sono pretesto di cerimonie adorabili.
***
Incontro
Qualcuno entra nel silenzio e mi abbandona
Ora la solititudine non è piú sola
Parli come la notte.
Ti annunci come la sete.
***
L'oblio
all'altra riva della notte
possibile è l'amore
--portamici--
portami tra le dolci sostanze
Che alla memoria ti muoiono ogni giorno
Prima fu luce
nel mio linguaggio nato
a pochi passi dall'amore.
Notte aperta. Notte presenza
trad. genseki
mercoledì, luglio 01, 2009
Carassone e la cicuta
Stamattina
Ho bevuto la mia cicuta
Prima di uscire, ascoltando il GR3
Ho conrollato che il freddo
Mi avvolgessse correttamente i piedi
Come uno scarpone
Poi sono sceso in strada
Giù giù fino dal Piemontese,
Quello dei polli e delle uova
Per pagare finalmente quel gallo
Quello che avevo offerto al mio oncologo
In segno di omaggio, con stupore
Qualche ora prima di morire.
***
Sul Sentiero di Carassone
Sul sentiero di Carassone
Entravo in un altro tempo
Un tempo di spazzacamini provenzali
Di farandole e di Beatniks
Un tempo di autunno e di pannocchie
E intorno avevo solo occhi malevoli
Occhi pieni di odio, di punti esclamativi
di asterischi taglienti
Occhi di loden bleu in naftalina
Ma non me ne accorgevo allora
camminavo felice come uno scemo
Tra il nuovo messico e le alpi marittime
nel ritmo folklorico di un verso di Mistral
Impregnandomi di autunno.
+
genseki
martedì, giugno 30, 2009
Alessandra tra i lillà
Di cose cosí finirè per morire
A.P. (suicida il 27 settembre 1972)
Alessandra tra i lillà
I
Forse fu il nome dolce di Alessandra
O quei lillà dui muri
Il loro alito nella note densa
O, forse,
La caccia nottuna
Di parole che scivolano
Sui vetri
Che le lascerá precipitare verso la morte
Nella solitaria
Durata di un grido
A mezzanotte
Complice di nomi oscuri
Imronunciabili.
*
II
Parola per parola
Facevi la notte
Agli angoli delle strade
Che il silenzio abbandonava
Restando in agguato
Come se fossero
Le dame rosse delle rivelaioni.
*
III
Si parola
Per parola
Facevi la note
Sussurrandola
- i piú bei suoni -
Perché quella notte
Non giunsero le parole alla riscossa?
Come ti fermarono
Sprovvista?
Dove stavano i ibri cinerini
Dei parchi
Dei rampicanti e delle pareti
Dove le dam porpora, le misterise
Dove tuo padre e tua madre?
- Forse fu il dolce nome: Alessandra -
Forse le cerimonie dei parchi.
Forse una dama rossa che non venne
Alla notturna
Festa di parole
Una che non mantenne la promessa
Qualcuno che non venne all'appuntamento
O la noia delle parole - a volte accade -
Te precipitó oltre i suoni
Quando finamene tutto fu detto
- Tutto fu detto -
E si alza ancora tenebrosa
La solitudine di Alice nello specchio d'altroqui.
*
IV
E il silenzio nascosto dentro la casa
E nel silenzio che resta
Quando gli amici se ne vanno
Nel silenio dei portacenere
Dei bicchieri senza acqua
Volesti stabilire la parola giusta,
Senza sapere
Che il silenzio e le parole
Sono solo agonie.
*
V
Il nome dolce di Alessandra
La simmetria nei parchi
Una bambina spaventata
- Oggi ce nebbia a Barcellona -
Parigi fu una festa
Che non hai voluto compartire
Lettere agli amici
Ove mancava una i o una iota
Il miserere notturno intonato
Da vecchie lescbiche
Un foglio bianco
Toujours
Un foglio bianco
La lettera che non arriva
La parola che manca
Ce la fanno
A spaventare una bambina.
*
Alessandra
Oggi vedo un parco
Una dama azzurra
Lillá sui muri
Cespugli che crescono
Oggi ascolto
Una canzone lontana
Una storia di principesse
E castelli
E congedi estivi
La cicala
Mi svglió per dirti
Che dalla finestra
Entra odore di pino.
lunedì, giugno 29, 2009
Victor Ségalen
Ecco l'impero che sta al centro del mondo. La terra aperta alle opere dei vivi. Il continente in mezzo ai Quattro-mari. La vita protetta, Propizia allla giustizia, alla felicità, all'accordo.
Ove gli uomini si alzano, si inchinano, si salutano i conformitá con il loro rango, i fratelli conoscono la loro posizione e tutto si ordina sotto l'influsso chiarificatore del cielo.
Laggiú il miracoloso Occidente, pieno di montagne che perforano le nubi; con i suoi palazzi volanti, i suoi templi leggeri, le sue torri mosse dal vento.
Ogni cosa è prodigio, ogni cosa è inattesa: la confusione si agita: la Regina dai desideri cangianti vi tiene la sua corte. Nessun essere ragionevole mai vi si avventura.
Ê laggiù che per magia Mu Wang ha proiettato la sua anima in sogno colà vuol dirigere i suoi passi.
Prima di abbandonare l'Impero per riunirsi con la sua anima egli en ha fissato, Qui, il punto di partenza.
trad. genseki
domenica, giugno 28, 2009
Se incontri una poesia
Se tra te e il silenzio
Si trova una poesia
Lasciala dove sta
Tu salta
Salta all'altro lato del senso
Sul versante dove c'è
Ancora tanta neve
Bianca comela pagina non scritta
E una luna sottile sottile
Come una parentesi aperta.
Se sul cammino del silenzio
Incontri una poesia
Non la salutare
Semplicemente
Passale accanto
E svolta dietro l'angolo
Dietro la siepe. dietro la staccionata
Cerca l'altro lato dietro qualsiasi cosa ne abbia uno
Va bene anche un vecchio tronco
O una pila di cassette vuote di acqua minerale
Ma cerca l'atro lato
Quello dove cade la neve ancora
E anche giá da prima
E la neve cade senza far rumore.
Se sul cammino del silenzio
Un poesia ti intralcia
Non ribellarti
Taci come il muro
Tace alla lucertola nel sole
Taci e corri cerca l'altro lato
Del paesaggio quello bianco
Quello gelato, quello dove gli alberi
Sono di brina
E dalle bocche esala
Il vapore del fiato
Senza suono
Se sul cammino del silenzio
Già intravedi la meta
Giá assapori la quiete
Della realizzazione
Siediti sulla soglia
Del giardino muto
E cerca una poesia
Nel muschio, o tra le fragole
Cerca una poesia
Tra le pietre della fonte
Che non sa mormorare
Tra le rughe di quel vccchio mendicante
Che ha perso la voce
Di tanto ringraziare
Cercala con dedizione assoluta, e
Abbi fiducia, ti troverá lei,
Tu allora non fare niente, non alzarti,
Semplicemente
Assaporala
Come un'immensa anguria
Nell'agosto marino
Della tua infanzia.
genseki
venerdì, giugno 26, 2009
La grande rinuncia
la rinuncia intermedia consiste da una parte nel seguire il Dao e diffondere i suoi insegnamenti, dall'altra a rinunziare ai benefici che da questo derivano mano a mano che essi si manifestano.
La piccola rinuncia consiste nel compiere ogni sorta di bene, nell'avere speranza e nel riconoscere la vacuitá attraverso lo studio dei testi fino a non avere piu nessun attaccamento ai propri meriti.
Con la piccola rinuncia la luce sta alle spalle e non si possono vedere fossi e crepacci.
Lo spirito del Bodhisattva è simile allo spazio vuoto da cui tutto è escluso.
Il fatto che i pensieri passati siano introvabili è la rinuncia al passato.
Il fatto che i pensieri del presente siano introvabili è la rinuncia al presente
Il fatto che i pensieri del futuro siano introvabili è la rinuncia al futuro.
Tale è la rinuncia ai tre tempi
Huangpo
Dialoghi
trad. a cura di genseki
mercoledì, giugno 24, 2009
Nichita Stanescu
Le nonparole
Mi ha teso una foglia come una mano a dita
Gli ho teso una mano come una foglia a denti
Egli mi ha teso un ramo come braccio
E come un ramo io ho disteso un braccio
Su di me si é chinato con il tronco
Come melo pesante per i frutti
Anch'io ho piegato il mio novello tronco
Udivo la sua linfa che saliva
Come sangue,
Egli udiva il mio sangue salire
Lentamente come linfa.
Ho trapassato il suo corpo
Lui ha percorso il mio
Io – sono rimasto un albero solitario
Lui – un uomo solo
Nichita Stanescu
Trad genseki
martedì, giugno 23, 2009
Sermone sulla morte
Veniamo, infine a trattar della morte
Che agisce per squadroni, previa parentesi quadra,
Graffa, paragrafo, mano grande, dieresi,
A che serve la cattedra assira, il pulpito cristiano?
La rapida avanzata del mobile vandalo?
E ancora meno questo rifugio sdrucciolo?
È per finir
Domani in gloria fallica
Diabetico e con sputacchiera
Volto geometrico, defunto,
Che ci servono le prediche e le mandorle,
Di patate ne abbiamo fin troppe,
E lo spettro fluviale d'oro ardente
Ove brucia il prezzo della neve?
Solo per questo dobbiam morire tanto?
Soltanto per morire,
Quel che ci tocca è morire ad ogni istante?
E questo paragrafo?
E la graffa deista che sollevo?
E lo squadrone cui mancó il mio casco?
La chiave che puó aprire ogni porta?
E a graffa forense, la mano,
La patata, la carne, le mie contradizioni da camera?
O matto, gatto, topolino,
O sensato cavallissimo che sono!
Cattedra, sì, tutta la vita, púlpito
E per tutta la morte!
Sermone di barbaria; queste carte
Questo rifugio sdrucciolo, le pelli.
Pensoso, in questo modo, aurifero, bracciuto,
La preda la difendo in due momenti,
Uno la voce, l'altro la laringe,
E con l'olfatto fisico con cui prego
L'istinto di immobilitá con cui avanzo,
Finché vivró potró sempre vantarmi
Ne saranno orgogliosi i calabroni
Perché io sto nel mezzo ed alla destra,
Ed egualmente mi trovo alla sinistra.
trad genseki
lunedì, giugno 22, 2009
Leo Ferre La Memoire et la mer.
La marea la porto nel cuore
Mi va crescendo come un segno
Muoio di mia sorella, di me mambino e del mio cigno
Una barca diepende come
Attracca in porto per un pelo
Piovono nel mio universo
Gli anni luce che abbandono
Sono il fantasma col girocollo
Che esce per la mascherata
Ti lancia nebbia di baci
Ti da rifugio nei suoi versi
Come la rete in giugno
Vi brillava il lupo altero
Quello che vidi splendere
Alle dita dell'arena.
Ricordi il can marino
Che liberammo su parola
Che abbaia nel gran deserto
Della necropoli di alghe
Io so che la vita è qua
Coi suoi polmoni di flanella
Quando certi giorni piove
ll freddo grigio col suo appello
Ricordo quelle serate
Le corse vinte sulla schiuma
Sbavavano i cavalloni
A filo degli scogli erosi
Angelo dei piaceri persi
Rumori d'altra abitudine
Le mie brame son divenute
Angoscia dell'abitudine
Diavolo di sere vinte
Col pallor delle riscosse
Lo squalo dei paradisi
Nel muschio madido del mezzo
Torna con i violini
Fanciulla verde dei fiordi
Nel porto russano i corni
Le fanfare dei ritorni
Profumo raro raro di salino
nel pepe fuoco dei geloni
Quando andavo geometrizzando
Il cuore al cavo della tua piaga
Nel disordine del tuo culo
Unto tra garze d'alba fina
vedevo un'altra vetrata
Faciulla verde del mio spleen
Le conchiglie dipinte
Sotto i sunlights spezzati e liquidi
Scuotono tante nacchere
Che sembran la Spagna livida
Dio di granito accogli
Il loro voto da parada
Quando il coltello penetra
Nelle nacchere del volto
Vedevo i presentimenti
E presentivo l'intravisto
Tra le persiane sanguinose
E i globuli che tracciavano
Matematiche azzurre
Su questo mare mai etale
Da dove poco a poco sale
la mia memoria delle stelle
Questo rumore che mi giunge
Dal caro arco ove m'accieco
le mani che van tremando
E ruminando muggiscono
Il rumore mi segue a lungo
Qual mendicante maedetto
Come l'ombra che perde tempo
A disegnare il mio teorema
E sotto il mio trucco da rosso
Sbatte come una porta
Questo rumore che sta in piedi
Per calli di musiche morte
Addio al mare, è finita
Sulla spiaggia la sabbia bela
Sono greggi di infinito
Quando il mare pastore chiama.
trad genseki
Nichita Stanescu
Quella dell'uovo
In uovo nero mi lascio scaldare
Nell'attesa del volo che mi infesta
Congiunte stanno una all'altra
Identitá con identitá.
Sentimento di ali sulle spalle,
La sensazione di un occhio
Va alla ricerca di un'orbita.
Oh, Tu! Immensa oscuritá
Nascita interrotta nel disgusto.
Su di me è discesa un'idea
Che materna mi cova.
Adesso, tutto ció che è
È calor rotondo e odo:
Esce da me una specie di becco
Simultaneamente e ovunque
Si rifiuta di essere obelisco
Intima colonna vertebrale ricurva
Rompo il mio guscio di pelle calcinata,
Che aderisce direttamente all'anima
Perché non faccia marcia indietro
Imparando a camminare.
Salta il guscio nero, olé!
Mi ritrovo piú grand e senza aver volato
Aderente a quel verso dove
Come l'abbraccio di una volta.
Indosso occhi dallo sguardo irreale
A destra, a sinistra, sopra e sotto,
Prtorendo stirpi di figli animali
Che sanno morire di una bella morte
Mi crescono iridate piume d'osso
Fino al negro cóncavo.
Saltano i gusci neri, tuti insieme,
Eccomi qua, ancora una volta, dolce,
Rinchiuso in un uovo piú grande
Covato da u'idea maggiore di molto
Mezo tuorlo, mezz'uccello
Nel gioco dei passi rubati
Grande uovo, sillaba stentorea
In crescita perpetua colta
Senza tetto
Stalattite
Sedotta.
Uova concentriche, nere, rotte
Una per una e in parte.
Pulcino rifiutato dal volo
Che penetra un uovo dopo l'altro
Fino ad Alcor dal cuore della terra
In un ritmico eco che si espande.
L'identitá vuole sfuggire all'identitá,
L'occhio dall'occhio, e sempre
In se stesso ricade pesante
Come neve nera.
Da un dentro a un altro maggior dentro
Nasci all'infinito, ala senza voli,
Solo dal sonno
Ci si puó risvegliare
Nessuno si sveglia dal guscio dell'esistenza, nessuno,
mai.
Trad. genseki
domenica, giugno 21, 2009
Montaignismi
La lingua di Montaigne ha una patina arcaica che sospetto fosse giá arcaica nel momento in cui egli scriveva ma che acquisisce una bellezza ancora piú rara oggi che si sviluppa sullo sfondo di quella perfetta struttura cristallina che è il francese classico.
Tradurre quesa meraviglia nel povero, stentato italiano che mi appartiene sarebbe uno stupro.
Se fossi capace di mimare la scrittura di un classico, e non lo sono, nemmeno saprei che pesci pigliare tra le eleganze della prosa umanistica e i riboboli toscani della coeva lettaratura italiana.
Così non lo traduco, lo contemplo in tutta la sua bellezza:
Montaigne e lo Zen
Quand je dance, je dance, quand je dors, je dors. Voire, et quand je me promène solitarement en un beau verger, si mes pensées se sont entretenues des occurences étrangères quelque partie de temps, quelque autre partie je les rameine à la promenade, au verger, à la douceur de cette solitude....
Essais
Livre III XIII De l'Expérience
venerdì, giugno 19, 2009
Louis Armstrong - St. James Infirmary
Sono sceso all'ospedale di San Giacomo
A cercare la mia bambina
Lei giaceva su un lungo tavolo bianco
Era dolce tranquilla e ordinata
Sono salito a parlare col dottore:
“È proprio giú” mi ha detto
Son tornato dalla mia bambina
Mio dio Mio dio, era morta
Sono entrato nel bar di Gianni
All'angolo della strada
Mi ha servito come sempre
C'era sempre la stessa gente
Alla mia sinistra stava il vecchio Gianni
I suoi occhi come inondati di sangue
Fissavano tutta quella gente
Queste furono le parole che disse:
Lascia ora che vada in pace,
Signore con la tua benedizione
Se andasse fino alla fine del mondo
Non troverebbe un uomo migliore di me.
Quando morró vi prego seppellitemi
Con il mio Stetson da dieci dollari
Mettete un moneta da venti all'orologio
Gli amici sapranno che non son morto di fame
Sei buoni cavalli voglio per la mia bara
Sei ragazze per cantarmi una canzone
Una banda di jazz mi accompagni
Fino alla porta dell'inferno
Qui finisce anche la mia storia
Presto qualcuno paghi un altro giro
A chi lo voglia sapere rispondo:
Questo è il blues dell'Ospedale di san Giacomo.
Trad genseki
giovedì, giugno 18, 2009
Maurice Scéve
Traduzioni di genseki dedicate a Maresa.
In libertá vivevo nel mio aprile
Senza preoccupazioni, adolescente,
dagli occhi ignari del danno incombente
Pronti a stupirsi per la dolce presenza
Che con l'alta, divina sua eccellenza
Abbaglió l'alma ed i sensi talmente
Che dei suoi occhi l'arcier, semplicemente,
La mia volontá tutta ha asservita
E da quel dì, oramai continuamente
In sua beltá giacciono morte e vita.
Quellla beltá che abbelliva il mondo
Quand'Ella nacque in cui morendo vivo
Impresse al centro di un bagliore rotondo
Non solamente il suo viso ben vivo
Ma tanto ha lo spirto mio rapito
Nell'ammirare mirabil meraviglia
Che, come dea, quasi morto mi svegli
Alla chiarezza della mia brama funebre
In cui piú mi da luce, o meraviglia!
Piú mi lascia affondare nelle tenebre.
mercoledì, giugno 17, 2009
Se vuoi leggere ancora
Se vuoi leggere ancora
Fatti tu stesso scrittura
Divieni la tua essenza.
Angelus Silesius.
*
martedì, giugno 16, 2009
Servo padrone
Simone We
I Catari e la Civiltá Mediterranea
lunedì, giugno 15, 2009
Il sermone delle cose inanimate
L'insegnamento del mondo inanimato
Se cerchi di ascoltarlo con le orecchie
Non hai speranza di comprnderlo
Lo puoi comprendere soltanto
Se lo ascolti con gli occhi.
Tong-Chan
Trad. gensekidomenica, giugno 14, 2009
Non so davvero chi puó aver scritto
L'ho trovata in mezzo a vecchi appunti incompleti e senza data.
gensek
Cuor di carciofo
Dove si spegne la luce dei carrubi
La carne è prescindibile se il sole
Non si stanca di tessere tesori:
Scarabei, cetonie, altri diamanti,
Scintille che negano il corpo
Lo diffondono in schiuma di clorofilla
A inondar l'ariditá dell'argilla.
genseki
venerdì, giugno 12, 2009
Come datteri
Come il bagliore delle unghie
In un gesto distratto
Nello sbadiglio di lavanda degli armadi
Tra le coltri di fieno e di cotone
Piú non avremo sognato di ciliege
Di dentifricio e cubetti di ghiaccio
Che i topolini dell'incomprensione
Venivano a rosicchiare di notte
Come fosse formaggio
Infine tramontavi anche tu
Come i collletti inamidati e i cicli
Di letture popolari
Tramontavi dietro la barriera
dei barattoli di conserve e le lattine di crema di cocco
Le staccionate degli asparagi si facevano allora
Ancora piú scure, scrutavamo il destino
Oltre gli steli per l'ulima volta
Con dita secche, noi due,
Come datteri
E lingue smemorate.
Gaspard de la Nuit
Mercurio: Bah! i gatti non han che gli occhi per lanterna
Il Lanternone
Una notte di carnevale
Ma perché diavolo, stanotte dovevo andare a pensare che c'era abbastanza posto per accoccolarmi, protetto dal temporale, per me, folletto di grondaia, nella Lanterna di Madame de Gourgouran!
Me la ridevo di cuore ascoltando uno spiritello, fradicio dell'acquazzone che ronzava attorno alla rimia lampada luminosa senza riuscire a trovare la porta da dove io ero entrato.
In vano mi supplicava, raffredato e rauco, di lasciare almeno che accendesse il suo moccolo per trovare la strada.
Di botto, s'incendió la pergamena gilla della lanterna, strappata da un colpo di vento che fece gemere, nella strada, le insegne a penzoloni come bandiere.
- Gesú, misericordia!- Esclamó la begina, facendosi il segno della croce. - Che il diavolo ti possa straziare, brutta strega! - Esclamai, sputando piú fiamme io di un fuoco artificiale.
Ohimé! Ero cosí grazioso questa mattina rivaleggiando con la mia acconciatura in grazia ed eleganza, con il cardellino dalle alucce scarlatte del signorino De Luynes!
Aloysius Bertrand
trad. genseki
giovedì, giugno 11, 2009
Dagli occhi mi parlavi
Perduta tra capelli fili di fiato petali
Il cenno era un supplizio tra caduta
E timore, ceree le dita avvolte in poca luce
Dipanavi dagli occhi un filo di sospiri
Come un gatto tossivi palpiti di fringuello
Sfinimento di tendini e pupille, sopore
Crescente fino all'esplosione
Rossastra del sonno e delle onde
Lontana dipanata, sviluppata in sequenze di voli
Finalmente intrapresa inafferrata
Nella veritá dell' asssenza
libero io dai ceppi del tuo sguardo.
genseki
mercoledì, giugno 10, 2009
Onda, onda dicevi
Con la mano scostavi acque di sogno
dagli occhi salsi
Sul crinale i palmizi percuotevano
La grancassa del sole celebrando
Un mardi gras mediterraneo
Con le variopinte livree le piume di pavone
E i galli da sgozzare la testa penzoloni
I tuoi piedi si muovevano tra spruzzi di sangue
Leggeri come il mio desiderio di te
Il sole si insediava vincitore, poi,
Tra le tue dita, nel cono oscuro
Dove avevo creduto fino ad allora che si nascondesse il mio cuore
Talismano della mia persistenza
A illuminare le vane regioni del nulla
I piccoli tsunami dell'impermanenza:
Il mio divenire altro
Per troppa troppa luce
Appena un palmo piú in là
Di dove fino ad allora
Avevo continuato ad essere io.
genseki
venerdì, giugno 05, 2009
Lacrime. Da dove?
Quante lacrime gocciolavano sulle mie guance
Sulla fronte, sul mento
Lacrime amare, lacrime di bronzo
Lacrime azzurre lacrime taglienti
Lacrime concave lacrime stremate
Lacrime profumate di magnolia
Lacrime al dente o bianche come
Il tuorlo del solo uovo di un pavone albino
Lacrime dotte lacrime di selva
Lacrime spore lacrime scintille
Lacrime grani del grande melograno
Che fioriva a jabalsa nel giardino
Del re del rame
Lacrime rupestri
Lacrime rune
Lacrime alla salvia
Lacrime a fiotti
Lacrime a cascata
Mi lavavano il volto tumefatto
Dai baci freddi di tanto lacrimare
Lacrime, da dove?
Da quale fonte di infinito dolore
Inflitta al cielo alla terra alle radici
Cadevano a quell'ora sui miei occhi
Che non sapevo aprire a lacrimare?
genseki
giovedì, giugno 04, 2009
Non vi è differenza
Huangpo
trad a cura di genseki
mercoledì, giugno 03, 2009
Note sulla poesia cinese
Le posie lüshi sono tutte composte di otto versi che sono o tutti pentasillabi o tutti eptasillabi.
Il jueju è una strofa di quattro versi.
Il pailü una strofa di piú d otto versi.
Il jueju è come un lüshi di quattro versi che possono essere i primi quattro, gli ultimi quattro o i quattro intermedi. Il venticinque per cento delle poesie dell'era Tang sono jueju.
genseki
martedì, giugno 02, 2009
Poesia sul cinghiale
"Poesia sul cinghiale"
In questa poesia sul cinghiale
Non c'è proprio nessun cinghiale
Non ci sono nemmeno le idee
Che permetterebbero di afferrarne
Uno
Per le setole
E trascinarlo su e giú per tutta la rete
La ragnatela, insomma,
Come se lo meriterebbe.
Guardate bene, o segugi di google!
Guardate bene!
Di cinghiali non ce ne sono
Nemmeno di nascosti dietro le t o nell'anello
Delle O
È un abbaglio
Orsú andate da un'altra parte
A caccia.
genseki
Nichita Stanescu
Ottava elegia
Iperborea
Così ella poi mi disse osservando le cose fisse
Della mia costiuzione:
"Vorrei fuggire a Iperborea
E vivo partorirti
Come cerva sulla neve
Mentre corre e geme
Con lunghe grida appese alle stelle
Nella notte.
Noi, nel freddo e nel ghiaccio
Mi spoglieró
Mi tufferó in acqua. anima indifesa,
Che adotta quale suo limite gli esseri marini.
Come crescerá l'oceano, sicuro, quanto crescerá!
Crescerá tanto che ogni sua molecola
Sará come l'occhio di un cervo
No, di piú, come una balena.
Mi tufferó in quell'acqua bella gonfia
Urtandomi con paeaggi browniani
Muovendomi, come una spora disperata,
A zigzag tra i colpi
Delle grandi molecole fredde
Figlie di Ercole.
Senza poter annegare, senza
Poter camminare e nemmeno volare
Solo zigzag e poi ancora zigzag
Imparentandomi con la felce,
Per un destino di spora...
Deh! Fuggiamo a Iperborea
A partorirti vivo
Bramendo, correndo spezzettata dagli affilati angoli
Del cielo violaceo
Sul ghiaccio che si crepa in Iceberg
Perduti sotto il cielo viola.
trad. genseki