giovedì, aprile 21, 2011
Lezama Lima
Di nuovo vidi il volto di mia madre
Era una notte che pareva aver separato
La notte dal sogno.
La notte avanzava o si arrestava,
Come un coltello che pareggia i margini
Soffio di uragano,
Il sogno, tuttavia, non procede verso la sua notte.
Sentiva che tutto pesava verso l'alto,
Era dove parlavi, dove appena sussurravi,
Per le orecchie di un piccolo granchio,
Lo so bene, lo so perché vidi il suo sorriso
Che voleva giungere
Regalandomi questo animaletto,
Per vederlo camminare con grazia
O impanarlo in ardente farina.
La pannocchia matura come il dente di un bambino
Come una cassetta con formiche platinate
La similitudine della cassetta come una vipera,
Quella grande come un braccio, quella che trucciolo
Lingua nella sua estensione ripiegata, quella degli orologi
Vecchi, la temibile
E risibile cassetta parlante.
Percorreva i fili della porta,
Per cominciare a sentire, tappandomi gli occhi,
Sebbene lentamente non immobilizzava,
Che la parte restante pesava di più,
Con la leggerezza del peso della pioggia
O le persiane dell'arpa.
Il pubblico in cortile comprendeva
La luna completa e gli altri satelliti invitati.
Propizio, era e magico l'itinerario della sua consuetudine.
Ma il resto del corpo restava tra quanto su sottratto,
Come chi cominci a parlare,
Ritorni a ridere,
Però come si passeggia tra la porta
E chi altri resta,
Sembra che se en sia andato,
Ma è proprio allora quando torna.
Chi resta forse è Dio,
Meno son io,
A volte la raschiatura solare
E in esso forse a crepapelle, forse, l'io.
Al mio fianco l'altro corpo,
Respirando, non staccava lo sguardo
Dalla rocca della vuotezza sferica.
Venne riducendosi
A un metallo volante con i bordi
Assaliti dalla brevità delle fiamme,
All'evaporazione di una tazzina
Mattutina di caffé,
A un capello.
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Lezama Lima
Trad. genseki
venerdì, aprile 15, 2011
martedì, aprile 12, 2011
Lo scrittore lumpen
Considerazioni si Bolaño
I romanzi e i racconti di Bolaño in una certa misura rappresentano l'irruzione del punto di vista del sottoproletario, del "lumpen" nel mondo della letteratura. Anzi del sottoproletario e del "lumpen" di quello che fino a pochi anni fa era il terzo mondo.
Questa irruzione è possibile perché il territorio della letteratura comincia a non essere più presidiato dai rappresentanti, degeneri, delle classi dominanti che fino ad ora se eneerano incaricati.
In effetti non ci sono quasi più rappresentanti degeneri delle classi dominanti, tutti sono ormai solidali e omogenei al visione del mondo del frammento sociale in cui la sorte gli ha fatti nascere.
Lo scrittore, come Bolaño stesso fa dire a uno dei personaggi de “Los detectives salvajes” era uno che si ribellava contro la sua classe di provenienza. Il fatto di essere scrittore, il fatto puro e semplice era la colpa e l'esilio la pena per questa inespiabile colpa.
Lo scrittore sottoproletario scrive per integrarsi nella classe dominante, quello del terzo mondo di allora, inoltre, anche per potere entrare in Europa con i documenti in regola. La letteratura è una marca di confine che le convulsioni del capitalismo nella fase della sua suprema degenerazione affermazione ha lasciato libera dalle guarnigioni. Lo scrittore "lumpen" vi penetra con il suo sguardo avidamente "lumpen", con la sua laboriosità affannosa, con i suoi modi che possono a volte apparire piagnucolosi e teneri. Lo scrittore "lumpen" si muove spesso come un cucciolo. Lo scrittore l"umpen" è cosmopolita, non appartiene a una tradizione, combina i frammenti disordinati dei libri che propone il mercato editoriale, letti avidamente, ma che sono comunque libri-merce, non libri-opera. Qui appare evidente la differenza con Rimbaud. Rimbaud era di razza contadina. Rimbaud è il prodotto di un testardo radicamento di una stirpe su di un territorio, la sua rottura, la sua ribellione può essere così violentemente tellurica, può scuotere la poesia dalle sue fondamenta, proprio perché irrompe dalle viscere del tempo e della tradizione e en rende incandescenti i frammenti come un vulcano con lapilli e lava. Bolaño è il prodotto di un collasso, è nato dentro un esodo, le sue radici sono immaginarie, la sua ribellione ha la consistenza di una bolla di sapone, la sola intimità possibile è, per lui il sesso vissuto con indifesa tenerezza.
genseki
Don Ciopo
Tra i condiscepoli di Dreiser Cazzaniga negli anni spensierati del'infanzia studiosa del Barrio di Briggio uno merita distinta menzione vuoi per una speciale ossessione che negli sparsi frammenti memorialistici di Dreiser Cazzaniga egli pare aver nutrito nei suoi confronti, vuoi per la spettacolare carriera e il successo che sempre premiollo facendo di lui come l'opposto dialettico di Dreiser Cazzaniga.
San Gennaro, San Crispiniano, San Gamal e San Ghinaccio (protettore dei macellai del barrio di Briggio noto anche come San Guinaccio) in cambio di Sentimenti IV o Cuccureddu.
Quando gli altri monelli si dedicavano a percorrere i campi che tracciavano i margini del barrio armati di fionde rimediate, in bellicose bande dalle ginocchia spellate e dalle camicie sudice per rubare ciliege o bietole o per scontrari in battaglie la cui posta solo era l'onore con bande di altri Barrios egli li seguiva inalberando una gran croce di rami e biascicando pater e rosari. Il soprannome di Ciopo gli veniva da un avolo suo: il Cioppo che era l'unico confratello della un tempo venerabile confraternita dei battuti verdi. Dreiser Cazzaniga ricordave la grassissima sua figura trascinarsi dietro la processione del santo patrono dei bigliai di Briggio o del Corpus Domini inalberando fieramente un immenso stendardo verde in cui si vedeva distintamente il cane che fissava la piaga che si apriva rosa appena sopra il ginocchio del santo che a sua volta inalberava uno stendardo su cui era dipinto un agnello che era sormontato da un altro stendardo ancora, bianco questa volta e diviso in quattro parti ineguale da un croce rossa. Come avvenne poi che Don Alàmo ereditasse dal Cioppo il nomigliolo privato di una consonante Dreiser Cazzaniga non lo sapeva o se lo sapeva non lo volle scrivere da nessuna parte, quello che è certo che Don Alàmo era comunemente conosciuto nel barrio con il nomigliolo del nonno ma scempio.
L'adolescenza di Don Alàmo detto il Cioppo si rivelo' come il frutto ancora acerbo del fiore della clericatura che fu la sua infanzia, il Cioppo cresceva in sordida doppiezza e maldicenza, vischiosa irrequietezza e una tendenza a portare lo sguardo e l'interesse suo su tutto quanto eravi di torbido e morboso ascoso nel barrio di Briggio.
Soleva conquistare la fiducia di ingenui giovanotti briggiani, figli di forti bigliari adusi al vino rosso, al gelo sulle guance e alle sane scazzottate il sabato al ballo per insinuare nelle loro elementari coscienze il germe della corruzione che egli aveva poi cura di educare e una volta che la putrefazione morale era conclamata tradiva l'amico suo svergognandolo in pubblico con accesa veemente indignazione. Leggeva e copiava i diari segreti delle compagne di corso, frugava nella biancheria sporca dei compagni di campeggio, apriva lettere d'amore confidate alla sua discrezione, si ritorceva le mani, il suo sorriso era sempre stanco e dolce, lo sguardo obliquo, camminava a passettini, si esprimeva con sudiata melliflua lentezza, tra tutti coloro che lo circondavano più intimamente diffondeva con pazienza germi di discordia e sospetto.
Con queste capacità prosperò rapidamente nel Santo Collegium in cui si formavano i presbiteri di Briggio, non tanto grazie alla sua conocenza delle scritture o all'eleganza del suo latino ma alla pratica costante della delazione, di cui presto divenne un autentico cesallatore. Una volta ordinato con splendida pompa e gloriosa procesione per le vie del barrio decorate di fronde fragranti di castagno e casti mazzolini di fresche rose di campo Don Ciopo subito diresse i suoi passi verso il Soglio. Non ebbe nemmeno la molestia di passare qualche mese in una lontana parrocchia montana, o di coadiuvare un vecchio presbitero maniaco nei suoi doveri quotidiani allo scopo di provare la solidità della sua fede nell'ordine. No subito oltrepasso la porta e si installò nello splendore. La rapidità della sua ascesa fu causa di orgoglio immenso per i briggesi, anche per i più ghibellini fra di loro, e a tal segno crebbe l'entusiasmo che in Briggio si finì per credere come cosa certa che Monsignor Ciopo presto sarebbe salito al Soglio Supremo. Egli, intanto, percorreva con passo celere e sicuro la strada maestra della gloria: Monsignore, Obispo, Principe, Nunzio, Archimandrita, Nunzio nelle lontane contrade della noce moscata e della cannella da cui tornava al barrio per brevi visite alla madre. La madre non sembrava gradire particolarmente queste visite. Don Ciopo appariva nel barrio con immense limusine bianche e gialle, che profumavano di incenso e di limone. Solerti giovani previtarielli avvolti nei panneggi semplici di ampie tuniche bianchissime aprivano lo sportello, estraevano dal baule interminabili quantità di bagagli dalla fogge sovente peregrine, si inginocchiavano e segnavano benedicenti come in un balletto imparato a memoria. I loro occhi sottili erano impenentrabili, un sorriso impercettibile curvava le loro labbra strette strette, grige sulla pelle color rame del volto. Poi tutti scomparivano sotto la spessa vegetazione della Villa del defunto Monsignor Pistolotti, Vescovo libertino e pistolero, che nel secolo passato fu baluardo contra i ghibellini e gli averroisti con il suo schioppo e la sua verga e nella quale Don Ciopo soleva alloggiare in queste sue brevi visite al Barrio. I pii briggesi sussurravano di orge sacre sotto i grandi cipressi, di cerimonie blasfeme e ancor più profondamente andavano convincendosi della predestinazione che segnava la vita di Don Ciopo: egli sarebbe stato Pontifex!
Dreiser Cazzaniga lo disprezzava con furia rabbiosa, con cupa disperazione, avrebbe voluto sputargli sulla faccia, e quando lo incrociava per caso, Don Ciopo lo salutava torcendosi le mani; con uno sguardo dolce e umile andava interessandosi della sua salute, della sua famiglia e della sua carriera e Dreiser Cazzaniga rispondeva alla di lui paterna sollecitudine con lo sguardo basso, la voce flebile, come un seminarista sopreso dal prevosto con le mani sotto la tonaca e il suo cuore ribolliva come un bracere di mercurio. Monsignor Ciopo era una bestia perversa, un drago di iniquità, ma quello che Dreiser Cazzaniga non giunse mai a comprendere fu che la Iglesia lo innalzava per far capire come la sua santità non dipenda dalle persone che la compongono ma dai meriti del Sangue che il Suo Divino fondatore versò per tutti noi poveri peccatori.
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genseki
giovedì, marzo 31, 2011
Variazioni dell'albero
Proprio dove si approssima il sangue non accorda
L'ardore degli occhi resta ormai nel paesaggio,
E non appena interpreta il suo corpo colpito,
Dell'albero nemico, la voce muove i rami.
Eccolo qua! Ritorna, il corpo ha venduto la scia
Il cane, non piú guardia, mansueto se ne fugge.
Quello che ci separa, amicizia, artifizio
Erra come una stella sul tavolo del magi
Albero galleggiamte, presago, marino
Rotola fino all'essere mio strano, ripetuto,
Come passi sfrattati duramente risuonano.
Albero disdegnato, la mia mano lo spinge;
E funereo s'infrange sulla roccia,
Mentre piange la mano di durezza intoccabile.
*
II
(Distruzione notturna dell'immagine arborea)
La caduta dell'albero lo distingue
Lento se ascende attrazione non cresce
Albero solo. dimorando inizia
A distrugger spazio; e bruciandosi, torna.
Negli occhi, ormai, l'icona ben tessuta,
Nel cui incendio ondeggiano le fronde
Ed occhi e pietre, aprono le foglie
Al tempo nuovo che in sangue mi crocchia.
Un albero restava, l'immagine, la notte
Immobil fiera, battuta e volontaria,
Fruga coll'unghie e col fiato distrugge.
La notte che all'albero si allaccia
Duramente lo spazio incorpora al fluire
Del fiume che scorrendo la distrugge.
*
III
(L'albero e il passaggio distrutto dalla notte)
Un immenso galoppo nel fondo della stiva
Sa giuungere e facendo la muraglia svanisce
Il rumore sinistro ed il sinistro volo
Dell'Icaro di seta grave petto caduto.
Come una barca l'albero conosce
Cadono foglie, penzolano mani
L'albero spoglio mormora
Pesano le domande sulle mani sfinite.
La notte galoppando trae oppio dalle alghe,
Circonda le cittá, le statue avvolge
All'uomo inumidito solleva le spalle
Dopo la notte bollono e la foglia e l'uccello
La cittá devastata muove avanti le torri
Ma non dimora l'albero presso il fiume ed il sogno.
*
IV
(L'artifizio allunga la notte)
Immagine ha creato, sull'albero ricade
Si concentra e distrugge il suo speccio vorace.
Impossibie il salto
Sulla neve della razza migrante
Processione, nastri nero di tamburi,
Che dal fondo dell'acqua fabbrica inalterabile,
E quando va avvolgendo il suo raggio distrutto
Come un figlio il tamburo, ecco che cinge il padre.
Nelle ceneri sue frusta si sdoppia
Il sogno si fa greve e serra le sue smorfie
Chi un albero riceve si armonizza durevole,
Per cadere in un petto giammai prima raccolto
Il fiume rintoccava come un cane impiccato
Ora conduce e macina, adesso contro il fuoco.
José Lezama Lima
trad. genseki
mercoledì, marzo 30, 2011
Il Servo di Darío
Allevato dai Darío
Si presentó al poeta - ed entró al suo servizio
Quando ritornó dal suo ultimo viaggio.
Oggi coperto da un lenzuolo
In mezzo alla strada
Sua nipote lo piange.
La sera leggeva Rubén Darío.
Sapeva persino a memoria "Le ragioni del lupo".
Poi non gli rimase che il ricordo.
Una catarrata
Lo introdusse lentamente
Nella nebbiosa contrada della cecitá.
- Don Rubén era un principe,diceva
Non appena la febbre gli concedeva una pausa si vestiva Limpido e impeccabile. E si sedeva
Nella sua poltrona di vimini con un libro in mano.
Lo ricordo vestito di lino di cotone e col panciotto.
Le scarpe brillavano
La cravatta azzura
I capelli che cominciavano a scarseggiare A farsi bianchi.
- Goyo: porta via la spazzatura! - mi diceva >Non sopportava la sporcizia.
Sembrava distratto
Ma non sfuggiva niente
Ai suoi occhi svegli e esigenti.
E Goyo ogni sera tornava
Ai suoi ricordi come a una Accademia
Puntuale, e i suoi gesti
Si facevano piú distinti.
Tutte le sere saliva
La scalinata di un palazzo.
Serviva Il principe.
Don Gregorio
Il paggio.
Ora sua nipote
Prega quelli che passano
Che la aiutino a comprare una bara.
- Aveva una voce dolce, ma
Quando entrava in collera
Tuonava. Don Rubén era allora
Chi lo avrebbe mai creduto! Volgare.
Donna Rosario diceva:
Un poeta
Cosí non puó parlare.
E don Gregorio il paggio
Assumeva un aria protettrice
Di fronte alla debolezza del Principe. -
Una volta litigó con Donna Chayo
Storie vecchie. Gelosie stagionate
A don Rubén brillavano gli occhi.
E lei
Gli ricordava
Che lui impegnó i suoi gioielli a Panamá.
Quel giorno
Don Rubén ebbe una ricaduta e molta febbre.
"Un numero infinito di cose
- Dice Borges -
Muore in ogni agonia".
Con questo veccio servitore forse si spengono
Le ultime orecchie
Che conservarono la voce di Darío.
Seppellendo Goyo nella fossa comune
Seppelliamo il popolo
E con il popolo La voce del suo poeta.
Pablo Antonio Cuadra
Trad genseki
martedì, marzo 29, 2011
Clara Janes
Trad genseki
Equatoriale
Allora cominciai a cantare da lontananze sfrenate
Le bandiere sporgendo dai nidi
Tuonavano nel vento
UOMINI NELL'ERBA
IN CERCA DI FRONTIERE
Su un campo qualsiasi muore il mondo
Da teste premature
Germogliano ali ardenti
Nella trincea dell'Equatore
Dentro il tritume
All'ombra di aeroplani vivi
Cantavano nel chiarore vespertino i soldati.
Ad una ad una si spengono
Le cittá dell'Europa
Camminando verso l'esilio
L'ultimo re portava al collo
Una catena di lacrime opache
Le stelle cadenti
Erano lucciole nel muschio
I manifesti impiccati
Pendevano dai muri
Un'ombra scivoló giú dalla falda dei monti
Dove il vecchio organista dirige il coro della foresta
Il vento mescola gli orizzonti
Appesi a vele e gomene
Un uccello cantava
Sull'arcobaleno
Spalancate la montagna
Dovunque sul suolo
Ho visto ali di rondine
Il Cristo al decollo
Dimenticó la corona di spine
Guardiamo il nostro tempo
Seduti sul parallelo.
Vicente Huidobro
Ecuatorial
Trad. genseki
Un carillon
Ti braccavo
Ti braccavo
La fame che avevo dei tuoi movimenti
Era quella che lasciava tante tracce sulla neve
Ti braccavo e tu mi alimentavi
Con la sequenza armoniosa dei tuoi gesti
Con l'acqua di cui conoscevi le fontane
Ti braccavo e erano solo carezze
Dietro le spesse cortine rosse dove i pesci
Apparivano e sparivano come scintille
Da un fiume anteriore carsico nel tempo
Ti braccavo e tu scorrevi fluida
Con i tuoi piedi freschi tra le mie caviglie
Come anemoni che interrogano resti di neve
Ti braccavo e non la smetteva mai di piovere
Come una canzone scrosciava allora il mio desiderio
Di te e mi rendeva grigio nuvoloso
Ti braccavo e tu eri fumo di legna
Bruciata sulla neve odore di cenere spenta
Stanchezza nei miei occhi arrossati
Speranza nel rifugio di altre mani.
**
genseki
Hegel
L'animale e la morte
L'inadeguatezza dell'animale all'universalità è la sua malattia originale ed è il germe innato della sua morte.
lunedì, marzo 28, 2011
César Vallejo
Trilce LXIII
Piovendo allegria. Pettinata
Quando la mattina chioma fina
Ben ormeggiata malinconia,
Nel mal asfaltato ossidente d'India arredato
Vira, appena s'adagia il destino
Cieli di puna senza senza entusiasmo
Per il grande l'amore, cieli di platino, torvi
D'impossibile
Rumina il gregge e vi si afferma
Il nitrito andino
Di me stesso mi sovvengo. Ma bastano
Le aste del vento, i timoni quieti fino
A farsi uno
E il gallo della noia e il gibboso gomito infrangibile.
Basta mattina di libere trecce
Di pece preziosa, montana
Quando esco e cerco le unidici
E son solo le dodicci a controra.
**
Trilce LXIX
Che mai vuoi da noi, mare coi tuoi volumi
Docenti! Che inconsolabile, atroce
Resti in pieno sole febbrile,
Salti con le tue zappe,
Salti con le tue falci,
Potando, potando ritornano le onde, dopo
Aver scorticato i quattro venti
E tutti quanti i ricordi in piattelli labiati
Di tungsteno, contatti di canini,
E statiche elle chelonie
Filosofia di ali nere che vibrano
Al tremito spaventoso delle spalle del giorno
Il mare, un'opera in piedi
Nel suo unico foglio il recto
Sta di fronte al verso.
Tugsteno
Tungsteno
**
César Vallejo
Il Tungsteno
I
Quando, finalmente, l'impresa nordamericana “Mining Society” fu padrona delle miniere di Tungsteno di Quivilca, nel Cuzco, la direzione di Nuova York decise di far cominciare immediatamente l'estrazione del minerale.
Una valanga di braccianti e impiegati uscì da Colca e dai luoghi di transito, dirigendosi verso le miniere. A questa valanga ne seguì un'altra e poi un'altra ancora, tutte contrattate per la colonizzazione e per i lavori in miniera. Il fatto che non si trovasse nei paraggi e nelle province vicine ai giacimenti, e neppure a quindici leghe di distanza, la mano d'opera necessaria, obbligava l'impresa a far venire da villaggi remoti e assettamenti rurali, gruppi numerosi di indios destinati al lavoro in miniera.
Il denaro cominciò a correre rapidamente e in abbondanza come mai si era visto a Colca, capitale della provincia in cui si trovavano le miniere. Le transazioni commerciali raggiungevano proporzioni inaudite. Da tutte le parti, nelle osterie e nei mercati, per strada e sulle piazze si osservavano persone che discutevano di acquisti e di affari. Molte proprietà urbano e rurali passavano di mano, e vi era un'animazione costante presso i notai e nei tribunali. I dollari della “Mining Society” avevano comunicato alla vita della provincia, prima tanto quieta, un movimento inabituale.
Tutti sembravano essere in viaggio. Persino il modo di camminare, prima lento e incurante si fece rapido e impaziente. Passavano gli uomini vestiti di cachi … pantaloni per cavalcare, con una voce che aveva anch'essa cambiato timbro, parlavano di dollari, documenti, assegni, marche da bollo, minute, cancellazioni, tonnellate, utensili. Le ragazze dei sobborghi uscivano per vederli passare, e un dolce brivido le scuoteva quando pensavano ai minerali lontani, il cui esotico fascino le attraeva irresistibilmente.
Sorridevano e arrossivano mentre chiedevano:
- Signore, va a Quivilca?
- Si. Domattina molto presto
- Che fortuna! Andate tutti ad arricchirvi in miniera!
Così cominciavano quegli amori che poi dovevano annidare sotto le volte oscure delle vetas favolose.
Con i primi gruppi di braccianti e minatori giunsero a Quivilca gli amministratori, i direttori e gli alti impiegati dell'impresa: Tra di loro vi erano in primo luogo i Signori Taik e Weiss direttore e vicedirettore della “Mining Society”; il cassiere della società, Javier Machuca; l'ingegnere Peruviano José Marino, che aveva ottenuto la concessione in esclusiva del bazar e del caporalato per la “Mining Society”, il comissario degli impianti Baldazari e l'agronomo leonida Benites, aiutante di Rubio, questi portava con sé la moglie e due bambini piccoli. Marino portava un nipotino che picchiava ogni tanto, tutti gli altri erano soli.
Il luogo dove si stabilirono era una falda desolata del versante orientale delle Ande, rivolto alla regione dei boschi. Quivi incontrarono come solo segno di vita umana una capannuccia di indigeni, i Soras. Questa circostanza che permetteva loro di servirsi degli indios come guide nella regione solitaria e sconociuta, unita al fatto che nella topografia del luogo fosse quello il punto centrale dell'azione della compagnia mineraria, fece si che le basi del villaggio minerario furono gettate proprio intorno alla capanna dei Soras.
Per poter stabilire un ritmo di vita e di lavoro normale in quelle pune si dovettero dispiegare grandi e rischiosi sforzi.
L'assenza di vie di comunicazione con i villaggi civilizzati con i quali quel sito era unito solo da un sentieri scoscesi costituì, all'inizio, una difficoltà quasi insuperabile.
Varie volte si dovette sospendere il lavoro per mancanza di utensili e non poche per fame e malattia della gente sottoposta ad un clima glaciale e implacabile.
I sora, presso i quali i minatori trovarono sempre conforto e una ingenua e allegra mansuetudine svolsero un ruolo la cui importanza crebbe tanto che in più di una occasione l'impresa sarebbe fallita senza il loro opportuno intervento. Quando finivano i viveri e non ne arrivavano altri da Colca, i sora cedevano il proprio grano, il bestiame, utensili e servizi personali, seza tariffa, senza stare a pensarci e sopratutto senza fatsi pagare. Si accontentavano di vivere in amicizia e disinteressata armonia con in minatori che i sora osservavano con una sorta di curiosità infentile mentre si davano un gran da fare giorno e notti in un viavai continuo di macchine misteriose e fantastiche. Da parte sua la “Mining Society” non ebbe bisogno del lavoro dei sora nelle miniere per via della mano d'opera che aveva fatto venire da Colca e lasciava tranquilli i sora, da questo punto di vista, fino, almeno, a quando le miniere avessero reclamato più lavoro e più uomini. Sarebbe mai giunto quel giorno? Al momento i sora continuavano a vivere senza essere coinvolti nel lavoro in miniera.
- Perché fai sempre così? - Chiese un sora ad un operaio che aveva il compito di ungere le gru.
- É per sollevare …
- E perché lo sollevi?
- Per lucidare la vena e liberare il metallo
- Che ci fai con il metallo?
- A te non piace avere dei soldi brutto selvaggio?
Il sora vide che l'operaio sorrideva e anche lui si mise a sorridere automaticamente. Lo seguì osservandolo tutto il santo giorno e moli altri giorni per vedere come finiva quella storia di ungere le gru. Un altro giorno, il sora tornó a chiedere all'operaio, sulle cui tempie scorreva il sudore:
- Ce l'hai già il denaro
- Che cos'è il denaro?
L'operaio rispose con fare paterno facendo risuonare le tasche della sua blusa:
- Questo è denaro. Vedi? È denaro. Lo senti?...
Disse l'operaio e tiró fuori alcuni nichelini. Il sora li vide come qualcuno che proprio non riesce a capire:
- Che ci fai con 'sto denaro?
- Ci compro quello che voglio. Va! Che sei una bella bestia!E giù a ridere, l'operaio. Il sora se ne andò fischiettando e saltellando.
In un'altra circostanza, un altro sora, che contemplava apertamente e come stregato un operaio che martellava sull'incudine della Forgia, si mise a ridere con una allegria sana e burlona. Il fabbro disse:
- Di che ridi, cholito? Vuoi lavorare con me?
- Si. Voglio farlo anch'io.
- No. Non lo sai fare, dai! È difficile.
Ma il Sora si intestardì che voleva lavorare alla forgia. Alla fine lo accettarono e il Sora lavorò con i fabbri quattro giorni filati, e giunse ad aiutare davvero i meccanici. Il quinto giorno, a mezzogiorno, il Sora, di colpo, mise d parte le sue barre e se ne andò
- Ehi! - Gli dissero – Perché te ne vai? Continua a lavorare.
- No – disse il Sora – Non mi piace più
- Ma ti pagheranno. Ti pagheranno per il tuo lavoro. Dai continua a lavorare.
- No, non ne ho più voglia.
Trad. genseki