mercoledì, ottobre 21, 2009
John Berger
Fino a poco tempo fa l'economia contadina era contenuta dentro un'atra economia. Questo rese possibile la sua sopravvivenza nel vortice delle trasformazioni globali che accaddero nel cuore dela macroeconmia in cui era inserita: feudale, capitalista, e persino socialista. Cn queste trasformazioni il metodo di lotta per la sopravvivenza fu modificato, ma i cambiamenti definitivi si forgiarono attraverso i metodi impiegati al fine di estrarre da esso plusvalore: lavori obbligatori. decime, mezzadria, imposte, mutui, interessi sui mutui, norme di produzione, etc.
A differenza di qualunque altra classe laavoratrice e sfruttata, la classe contadina si è sempre manenuta da sé, e questo la convertí in una classe a parte. In quanto produceva plusvalore si integrava nel sistema economico-culturale storico. In quanto si manteneva da sé ne stava ai margini e questo, mi pare è vallido anche per quelle epoche e per qui luoghi in cui i contadini rappresentavano la maggior parte della popolazione.
Se pensiamo che la stuttura gerarchica delle societá feudali o asiatiche era piú o meno piramidale, i contadini ne formavano la base. Questo sgnificava, come nel caso di tutti i popoli di frontiera che godevano di una protezione minima. Per questo dovevano arrangiarsi da soli; nel seno della comunitá o della famiglia allargata. Mantenevao e sviluppavano le proprie leggi e codici di comportamento taciti, i propri riti, le proprie credenze, le proprie conoscenze e una saggezza propria trasmesa oralmente, la propria medicina, le proprie tecniche e in certi casi lingue proprie. Sarebbe un erore pensare che tutto questo costituisse una vita indipendente non toccata dalle trasformazioni tecniche, sociali, economiche della cultura dominante. Nel corso dei secoli la vita contadina ha sofferto cambiamenti, ma le prioritá e i valori contadini (la loro srategia per sopravvivere) costituirono una tradizione che sopravvisse a qualunque altra nel seno della societá. La relazione di questa tradizione contadina con la cultura delle classi dominanti è sempre stata, in generale, sovverisiva e eretica. "Non fuggire nulla" - dice un proverbio russo "ma non fare nulla". La fama di furbi che si attribuisce universalmente al contadino è un riconoscimento di questa riservatezza sovversiva.
trad. genseki
martedì, ottobre 20, 2009
La sfera e le galassie
Questo passo in avanti ci ha messo con le spalle al muro, quello stesso muro contro cui si sbatte da quando si cerca di elaborare una riflessione etica; il fatto è che dobbiamo assumere proprio quello che la riflessione etica non ha mai saputo sbrogliare, cioè che vi è bene (good, gut) che a partire da qui. Dobbiamo proprio, insomma cercare qual è il principio del Wohl tat, il principio ell'agire bene. Per inferenza è permesso dire che non si tratta della B.A., la buona azione, anche portata alla potenza kantiana della massima universale. Se dobbiamo prendere sul serio la denuncia freudiana della fallacia delle soddisfazioni dette morali, dal momento che vi si nasconde una agressivitá che compie l'impresa di strappare a quello che la esercita il suo godimento, mentre il suo errore si ripercuote infinitamente sui suoi partners sociali (quello che indicano queste lunghe condizionali circostanziali è l'equivalente esatto del Disagio della civiltá nell'opera di Freud) allora dobbiamo domandarci come dobiamo fare per operare onestamente con il desiderio; cioè come preservare il desiderio in relazione a una azione nella quale egli piuttosto che realizzarsi colassa e che al massimo gli si presenta come un'impresa, come un eroismo, come preserva il desiderio cme preservare una relazione sana tra il desiderio e questa azione.
Lacan
Transfert
Trad. genseki
lunedì, ottobre 19, 2009
È finita per sempre
Comunque la frase è, è appunto quella del titolo: "È finita per sempre". Si, perchè è proprio qui, è proprio così che il finito incontra l'infinito, nell'evidenza dell'essere infinito del finito; dell'essere per sempre del finito.
Certo è il fatto che il finito sia finito infinitamente è quello che produce l'angoscia nella coscienza, La coscienza forse puó essere considerata proprio come la coscienza dell'infinitá del finito. del suo essere per sempre finito. La coscienza si staglia sullo sfondo dell'infinito della sua finitezza, della sua imposssibilitá di essere infinita se non proprio in quanto finita. Essere finito per sempre è la forma con la quale il finito si fonde nell'infinito e in questo fondersi rende possibile che l'infinito stesso sia infinito, Senza il finito l'infinito non sarebbe pensabile come tale per mancanza del termine di paragone. Il finito e l'infinito sono i modi, le modalitá l'uno dell'altro.
la coscienza è coscienza di una sola di queste modalitá, quella per cui il finito è infinitamente tale, per questo si percepisce come infinitamente finita, come finita per sempre, Se la coscienza potesse percepirsi come finitamente infinita scomparirebbe come tale, si dissolverebbe nella grande rosa luminosa. Quale ne sarebbe la formula?: "'È infinita adesso!", forse. "È infinita qui, proprio ora, per sempre mai piú".
genseki
domenica, ottobre 18, 2009
Gilles de Rais
Singhiozza mentre cammina, disperde, smarrito, i fantasmi che si avvicinano, guarda e di colpo si rende conto del'oscenitá degli alberi piú antichi.
Sembra che la natura diventi perversa davanti ai suoi occhi e che la sua sola presenza basti a depravarla; per la prima volta comprende, l'immutabile lussuria dei boschi, scopre priapo tra i cdui.
Ovunque le forme oscene sorgono dalla terra, sgorgano verso il firmamento che si satanizza, le nuvole si gonfiano in capezzoli, si fondono in natiche, si arroondano in ventri fecondati, si disperdono in zampilli lattei; si accordano con la cavità cupa della macchia dove non vi sono piú che immagini di cosce gigantesche o nane, triangoli femminili, grandi V, bocche di Sodoma, cicatrici che si slabbrano, umide perdite! - L'abominevole paesaggio muta, ecco che Gille vede sui tronchi inquietanti polipi, sanguisughe orribili. Constata tumori e ulcere, piage taglate nette, tubercoli cancerosi, carie atroci; è per gli alberi una clinica venerea per gli alberi in cui sorge alla svolta di un viale un frassino rosso.
Davanti a queste foglie porporini che cadono, si crede bagnato da una pioggia di sangue; diventa rabbioso, sogna che sotto la scorza abita una ninfa forestiea, e vorrebbe impastare la carne della dea, trucidare la Driade, violentarla in un organo sconosciuto alle follie degli uomini.
Invidia il boscaiolo che potrá ferire, massacrare questo albero, si spaventa, si agita, ascolta, selvaggio, la foresta che risponde alle grida dei suoi desideri con i sibili stridenti dei venti; si abbatte, pinage, riprende il suo cammino fino a che giunge al castello e crolla sul suo letto come un tronco caduto. Ora che dorme, i fantasmi si definiscono con piú precisione. I lubrichi abbraci dei rami, il coito delle essenze differenti dei bosci, i crepacci che si dilatano, le forre che si dischiudono spariscono; le lacrime delle foglie frustate dalla tramontana, si seccano; gli ascessi bianchi delle nuvole si riassorbono nel grigio del cielo; e - in un grande silenzio - sono gli incubi e i succubi che passano.
I corpi che egli ha massacrato e di di cui ha fatto gettare le ceneri nei fossati risuscitano allo stato di larve e lo attaccano nelle parti basse. Si dibatte, si schizza di sangue, si sveglia di colpo e acoccolato si trascina a quattro zampe, come un lupo, fino al crocifisso di cui morde i piedi, ruggendo.
Poi uno sconvolgimento immediato lo travolge, trema davanti a questo Cristo il cui volto convulso lo contempla. Lo scongiura che abbia pietá, lo supplica di risparmiarlo, singhiozza, piamge e quando non ne può più geme sottovoce, ascolta, terrificato piangere nella sua stessa voce le lacrime dei bambini che chiamavano le loro madri e chiedere pietá!
genseki
sabato, ottobre 17, 2009
I fiori stellari dell'edera
Già augurano la venuta della notte
Sarà notte di vento, immobili,
Ci studieremo di essere scintille
genseki
mercoledì, ottobre 14, 2009
Altre poesie di genseki
Che apparvero tutti quei problemi
E le farfalle direttamente dai grumi di terra
Accoccolati seguivano vegliando
Coperti di fango ocraceo con gli occhi
Fluidi come i fiumi e la pelle increspata
Come l'erba di altri soggiorni
Dammi la mano diceva, proprio allora
Notammo che cominciava a disfarsi
Dapprima solo in voli di insetti
Poi in molti riflessi neri a volte come mosche
Il cui volo non seguiva le leggi di una geometria
A tre dimensioni.
No, non fu allora
Ma io ero già per due terzi scomparso
Con lui e con altri meno avvinti
E quello che ero stato, che era stato
Giaceva in qualche luogo più solo
Di una promessa spuntata
Alla fiera degli ultimi crepuscoli.
Lo sai che hai fallito, quanto sforzo
Per conseguire la vette dell'insuccesso
Il limone in bocca, sputalo!
Le sanguisughe sotto il gomito
Le lenzuola sporche di povertá
Le croste di formaggio che di nascosto
Ti passava la nonna del droghiere di Via Istria,
Quella con il pappagallo dall'ala bruciata
Le unghie degli alluci conservate per anni
In barattoli giallastri e i biglietti ordinari
Dei treni come reliquie.
Sputa! Sputalo via!
Il suo odore il suo sesso, il mercuriocromo
I microsolchi di Petrolini
Lo strazio di jeanvaljean
Le mutande di lana con i ponpon.
martedì, ottobre 13, 2009
Garcilaso de la Vega
Molte lingue furono poeticamente di nuovo fuse nel crogiolo del petrarchismo: il francese, il castigliano, il catalano, l'inglese, il portoghese.
Gacilaso d la Vega fu uno dei primi e più grandi petrarchisti spagnoli e quello che segue uno dei suoi testi piú noti.
Tradurre un poeta petrarchista all'italiano pone di fronte a un'alternativa: si puó cercare di riprodurre i suoi stilemi nel lessico proprio dl petrarchismo italiano coevo, ricostruendo il testo dell'imitatore con il lessico e la sintassi che egli volle imitare. L'interesse di questa operazione sta nel gioco di riflessi e di rimando che ci permetta di istituire. Si tratta di una specie di traduzione "en abîme". Oppure si può tentare di confrontare questa voce poetica con un lessico e una forma più attuale e di ascoltare come la sua eco risuona in un nuovo scrigno.
A Dafne giá crescevano le braccia
Ed in rami nodosi si torcevano
Vidi la chioma più tersa dell'oro
Volgersi in verdi foglioline tenere
Scorza rugosa le membra ricopriva
Molli che ancora appena palpitavano
Teneri piedi la terra penetravano
In ritorte radici trasformati.
E chi di tanta pena fu la causa
Con la forza del pianto alimentava
Quell'albero che di lacrime bagnava
Che triste condizione! Estremo male!
Che grazie al pianto suo cresceva tanto
La causa e la ragione del suo pianto.
trad genseki
Altri aforismi di Victor Hugo
*
La morte è sfrontata quando si mostra all'opera. Essa oltraggia ogni serenità dell'ombra lavorando fuori dal suo laboratorio, la tomba.
*
Ci sono delle realtà quaggiù che sembrano sbocchi sull'ignoto, da dove può uscire la ragione e precipitarsi l'ipotesi. La congettura ha il suo "compelle intrare". Quando passiamo in certi luoghi e davanti a certi oggetti, non possiamo fare altro che fermarci in preda ai sogni, lasciando che lo spirito vi si avventuri.
*
La materia davanti a cui si trema è una rovina d'anima. Se la materia inerte ci turba, vuol dire che dentro vi ha vissuto lo spirito.
*
Quando l'immanenza che incombe su noi, cielo, abisso, vita, tomba, eternità, ci appare evidente, proprio allora noi sentiamo che tutto è inaccessibile, tutto proibito, tutto murato. Niente chiude in modo più formidabile dell'infinito quando si apre.
*
*
Nella mano del sonno c'è il dito della morte.
La fine sempre imminente, nessun trapasso dall'essere al non essere più, il ritorno nel crogiolo, la scivolata sempre possibile, questo precipizio è la creazione.
Victor Hugo
Trad. genseki
venerdì, ottobre 09, 2009
La Promessa
La Promessa che non siamo davvero carne perduta, groppi di desiderio e paura, che non siamo solo questo.
La Promessa, forse, ha preceduto la nostra nascita, forse la abbiamo ricevuta e accolta nella prima infanzia ma è solo per essa che possiamo accettare e vivere il dolore, il tramonto, il dissolversi, la polvere, e l'amore.
Nella Promessa è suggellata la nostra dignità per questo in qualche angolo del nostro cuore sappiamo che tutto quello che va perduto in realtá è per sempre e infinitamente guadagnato.
In virtù ella Promessa possiamo spalancare le mani e accettare, lasciare il nostro appiglio e cadere, con le mani aperte dare e dare ancora fibra a fibra.
Ci scorticheremo la pelle strisciando sulla rugosa superficie della realtá impossibile.
In virtù della Promessa siamo davvero niente, diveniamo niente, insomma, non siamo proprio, eppure nella pochezza di questo non essere la accogliamo, grati la andiamo scoprendo e accettando poco a poco.
genseki
giovedì, ottobre 08, 2009
Passione, terrazza
Del corpicino dai capezzoli a chicco
D'uva, distesa nuda come gatta
All'abbraccio delle ombre mattutine
La tua brezza allora sarei stato
A sollevarti tra i ricami della toppia
Abbagliato dal pallore delle unghie
Dei tuoi piedi piegati come in croce
Quante piaghe si aprirono sulle nubi
E piovve sangue di venerdí santo
Stretti l'uno all'altra nei nostri caldi fiati
Ci riscaldava uno strato di fango
Basilico alla finestra
Le dita delle mani di aglio e lampone
Alla parete di fronte s'aggrappava
Un'edera alcolica e polverosa,
Fino alle ossa venerate un tempo
Ora dimenticate in quella nicchia
Persino un po' sudicia tra i piccioni
Poi lo sguardo sdrucciolava nel cortile
Dove c'erano sempre canottiere
E un vecchio furgone nero dismesso
Che nauseava di caucciú sotto il sole
Le sue ascelle si aprivano al basilico
La menta nel cavo delle sue ginocchia
Nella stretta si dibatteva alla finestra
Le canottiere avrebbero voluto volare
Il santo sbriciolato nella teca godeva
Al palpitare dell'ostia nelle tempie.
Odore di basilico, erano biscotti
E il vestito a peonie fruste fruste
Quante carezze mi rubò quell'uomo
Quello che morí con il naso nel muschio
Le bottiglie di birra erano gialle,
E i tappi appicicosi lasciavano il gusto
Di limone muffito sotto le unghie
Tra il basilico e il limone accoccolata
Spiavi alla finestra i canti della voliera.
genseki
Se avessi lasciato
Ancora qualche luna
Mi sarei ritrovato ad affrontarlo
Mutato
In diverso timore
Questo tumore verdognolo
Questa ghianda che serra
Sicuramente un'antica pianta
Nalle membrane vegetali di tutte le sue potenzialità
Ma le lune che scorrrevano
Richiamando l'acqua dai pozzi
L'acqua bianca come lo sperma
Delle generazioni inghiottite
Dalle parole,
Consumavano il mio istinto
La mia determinazione, quello che restava del mio desiderio
Di non separarmi da me.
Alla finestra, dalle terrazze, sui balconi
Quel popolo festoso continuava
A guardare la televisione
E io mi lasciai finalmente marcire
Come un fagiolo appena seminato.
genseki