martedì, ottobre 20, 2009

La sfera e le galassie

Ciò che io chiamo Schwarmerei di Platone, è l'aver proiettato su ciò che io chiamo il vuoto impenetrabile, l'idea del sommo bene. Diciamo che si tratta solo di indicare il cammino giá percorso, quello che con alti e bassi, e con una intenzione dichiarata ho cercato di sviluppare; IO HO CERCATO DI SVILUPPARE IL RISULTATO DEL RIFIUTO DELLA NOZIONE PLATOICA DEL SOMMO BENE CHE OCCUPA IL CENTRO DEL NOSTRO ESSERE. Può essere che per ritorvare la nostra esperienza, ma questa volta in forma critica, ho preso le mosse in parte da quella che si puó chiamare la svolta aristotelica in rapporto a Platone che per noi, sul piano etico è qualche cosa di ormai sorpassato per noi; ma a questo punto, dovendo spiegare la sorte storica delle nozioni etiche a partire da Platone (certo il riferimento aristotelico) l'Etica Nicomachea è essenziale. Ho dimostrato che è difficile seguire quanto questa opera costituisca un passo in avanti decisiva nell'edificazione di una riflessione etica, e nello stesso tempo non vedere che comunque essa ha mantenuto la nozione di sommo bene pur cambiandone profondamente il senso. Con un movimento di riflessione inversa esssa fa consistere il sommo bene nella contemplazione degli astri, la sfera più esterna del mondo esistente, assoluta, increta, incorruttibile. È proprio perché per noi la sfera si è proprio volatilizzata nella polvere cosmica delle galassie che costituisce l'ultimo orizzonte della nostra ricerca cosmologica, che si puó prendere il punto di riferimento aristotelico come il momento critico di quello che nella tradiione antica è la nozione del sommo bene alla quale siamo infine giunti.
Questo passo in avanti ci ha messo con le spalle al muro, quello stesso muro contro cui si sbatte da quando si cerca di elaborare una riflessione etica; il fatto è che dobbiamo assumere proprio quello che la riflessione etica non ha mai saputo sbrogliare, cioè che vi è bene (good, gut) che a partire da qui. Dobbiamo proprio, insomma cercare qual è il principio del Wohl tat, il principio ell'agire bene. Per inferenza è permesso dire che non si tratta della B.A., la buona azione, anche portata alla potenza kantiana della massima universale. Se dobbiamo prendere sul serio la denuncia freudiana della fallacia delle soddisfazioni dette morali, dal momento che vi si nasconde una agressivitá che compie l'impresa di strappare a quello che la esercita il suo godimento, mentre il suo errore si ripercuote infinitamente sui suoi partners sociali (quello che indicano queste lunghe condizionali circostanziali è l'equivalente esatto del Disagio della civiltá nell'opera di Freud) allora dobbiamo domandarci come dobiamo fare per operare onestamente con il desiderio; cioè come preservare il desiderio in relazione a una azione nella quale egli piuttosto che realizzarsi colassa e che al massimo gli si presenta come un'impresa, come un eroismo, come preserva il desiderio cme preservare una relazione sana tra il desiderio e questa azione.

Lacan
Transfert
Trad. genseki

lunedì, ottobre 19, 2009

È finita per sempre

Le grandi filosofie romantiche hanno cercato di dare ragione, di articolare la relazione tra finito e infinito. In realtà l'espressione piú esatta di questa relazione è una frase tipica per esempio dei fotoromanzi Lancio che leggevano le giovani "pettinatrici" dell mia prima adolescenza, quelle che facevano le "messe in piega" con quegli incredibili caschi sorreti da un palo. Chi non ha sognato una fidanzata parrucchiera che leggesse un fotoromanzo Lancio per vivere con lei un amara storia Lancio?
Comunque la frase è, è appunto quella del titolo: "È finita per sempre". Si, perchè è proprio qui, è proprio così che il finito incontra l'infinito, nell'evidenza dell'essere infinito del finito; dell'essere per sempre del finito.
Certo è il fatto che il finito sia finito infinitamente è quello che produce l'angoscia nella coscienza, La coscienza forse puó essere considerata proprio come la coscienza dell'infinitá del finito. del suo essere per sempre finito. La coscienza si staglia sullo sfondo dell'infinito della sua finitezza, della sua imposssibilitá di essere infinita se non proprio in quanto finita. Essere finito per sempre è la forma con la quale il finito si fonde nell'infinito e in questo fondersi rende possibile che l'infinito stesso sia infinito, Senza il finito l'infinito non sarebbe pensabile come tale per mancanza del termine di paragone. Il finito e l'infinito sono i modi, le modalitá l'uno dell'altro.
la coscienza è coscienza di una sola di queste modalitá, quella per cui il finito è infinitamente tale, per questo si percepisce come infinitamente finita, come finita per sempre, Se la coscienza potesse percepirsi come finitamente infinita scomparirebbe come tale, si dissolverebbe nella grande rosa luminosa. Quale ne sarebbe la formula?: "'È infinita adesso!", forse. "È infinita qui, proprio ora, per sempre mai piú".

genseki

domenica, ottobre 18, 2009

Gilles de Rais

Gilles erra nelle foreste che circondano Tiffauges, foreste oscure e fitte, come se ne trovano ancora in Bretagna, per esempio a Carnoët.
Singhiozza mentre cammina, disperde, smarrito, i fantasmi che si avvicinano, guarda e di colpo si rende conto del'oscenitá degli alberi piú antichi.
Sembra che la natura diventi perversa davanti ai suoi occhi e che la sua sola presenza basti a depravarla; per la prima volta comprende, l'immutabile lussuria dei boschi, scopre priapo tra i cdui.
Qui, l'albero gli appare come un essere vivente, in piedi, la tesa in giú, nascosta tra la capigliatura delle radici, con le gambe all'aria, spalacate, che poi si dividono in altre cosce ancora ce si aprono a loro volta e diventano sempre piú piccole mano a mano che si allontanano dal tronco; proprio li, tra quelle gambe, si tprva piantato un altro ramo ancora in un coito immobile che si ripete sempre piú miniscolo i ramoscello in ramocello, fino alla cima; e lassù, ecco che il fusto sembra un fallo che cresce e scompare sotto una sottana di foglie o se ne esce all'inverso da un ciuffetto verde e di muschio per penetrare il ventre di velluto della terra. Vi sono immagini che lo terrorizzano. Rivede la pelle degli adoloscenti. la pelle lucida delle pergamene, nelle scorze lisce e pallide degli alti frassini; ritrova l'epidermide elefantiaca dei mendicanti nell'involtorio nero e rugoso delle querce piú antiche; poi, dopo la biforcazione dei rami, dei buchi spalancati, degli orifizi ove la scorza si rigonfia in fenditure ovali, iati pieghettati che simulamo immomde cloache o spalancati sessi bestiali. ai gomiti dei rami altre visioni, fosse brachiali, ascelle pelute di licheni grigi; ecco, persino i tronchi degli alberi hanno ferite che si allungano in grandi labbra, sotto ciuffi di velluto rosso e mazzetti di muschi!
Ovunque le forme oscene sorgono dalla terra, sgorgano verso il firmamento che si satanizza, le nuvole si gonfiano in capezzoli, si fondono in natiche, si arroondano in ventri fecondati, si disperdono in zampilli lattei; si accordano con la cavità cupa della macchia dove non vi sono piú che immagini di cosce gigantesche o nane, triangoli femminili, grandi V, bocche di Sodoma, cicatrici che si slabbrano, umide perdite! - L'abominevole paesaggio muta, ecco che Gille vede sui tronchi inquietanti polipi, sanguisughe orribili. Constata tumori e ulcere, piage taglate nette, tubercoli cancerosi, carie atroci; è per gli alberi una clinica venerea per gli alberi in cui sorge alla svolta di un viale un frassino rosso.
Davanti a queste foglie porporini che cadono, si crede bagnato da una pioggia di sangue; diventa rabbioso, sogna che sotto la scorza abita una ninfa forestiea, e vorrebbe impastare la carne della dea, trucidare la Driade, violentarla in un organo sconosciuto alle follie degli uomini.
Invidia il boscaiolo che potrá ferire, massacrare questo albero, si spaventa, si agita, ascolta, selvaggio, la foresta che risponde alle grida dei suoi desideri con i sibili stridenti dei venti; si abbatte, pinage, riprende il suo cammino fino a che giunge al castello e crolla sul suo letto come un tronco caduto. Ora che dorme, i fantasmi si definiscono con piú precisione. I lubrichi abbraci dei rami, il coito delle essenze differenti dei bosci, i crepacci che si dilatano, le forre che si dischiudono spariscono; le lacrime delle foglie frustate dalla tramontana, si seccano; gli ascessi bianchi delle nuvole si riassorbono nel grigio del cielo; e - in un grande silenzio - sono gli incubi e i succubi che passano.
I corpi che egli ha massacrato e di di cui ha fatto gettare le ceneri nei fossati risuscitano allo stato di larve e lo attaccano nelle parti basse. Si dibatte, si schizza di sangue, si sveglia di colpo e acoccolato si trascina a quattro zampe, come un lupo, fino al crocifisso di cui morde i piedi, ruggendo.
Poi uno sconvolgimento immediato lo travolge, trema davanti a questo Cristo il cui volto convulso lo contempla. Lo scongiura che abbia pietá, lo supplica di risparmiarlo, singhiozza, piamge e quando non ne può più geme sottovoce, ascolta, terrificato piangere nella sua stessa voce le lacrime dei bambini che chiamavano le loro madri e chiedere pietá!

genseki

mercoledì, ottobre 14, 2009

Altre poesie di genseki

No, non era quando cominció a disfarsi
Che apparvero tutti quei problemi
E le farfalle direttamente dai grumi di terra
Accoccolati seguivano vegliando
Coperti di fango ocraceo con gli occhi
Fluidi come i fiumi e la pelle increspata
Come l'erba di altri soggiorni
Dammi la mano diceva, proprio allora
Notammo che cominciava a disfarsi
Dapprima solo in voli di insetti
Poi in molti riflessi neri a volte come mosche
Il cui volo non seguiva le leggi di una geometria
A tre dimensioni.
No, non fu allora
Ma io ero già per due terzi scomparso
Con lui e con altri meno avvinti
E quello che ero stato, che era stato
Giaceva in qualche luogo più solo
Di una promessa spuntata
Alla fiera degli ultimi crepuscoli.
*
Sputa! sputalo adesso!
Lo sai che hai fallito, quanto sforzo
Per conseguire la vette dell'insuccesso
Il limone in bocca, sputalo!
Le sanguisughe sotto il gomito
Le lenzuola sporche di povertá
Le croste di formaggio che di nascosto
Ti passava la nonna del droghiere di Via Istria,
Quella con il pappagallo dall'ala bruciata
Le unghie degli alluci conservate per anni
In barattoli giallastri e i biglietti ordinari
Dei treni come reliquie.
Sputa! Sputalo via!
Il suo odore il suo sesso, il mercuriocromo
I microsolchi di Petrolini
Lo strazio di jeanvaljean
Le mutande di lana con i ponpon.
Sputa! Sputalo via!
Tutto!
È della tua vita che si tratta.

genseki

martedì, ottobre 13, 2009

Garcilaso de la Vega

La poesia petrarchista offrì per piú di un secolo un modello di forma poetica a tutta l'Europa. Pochi temi stilizzati poch parole ammesse, quasi tutte tratte dall'ambito dell'anatomia e della botanica, un numero limitato di colori e una serie di regole che stabilivano le relazioni tra questi elementi costiuirono un gioco sublime, cangiante, segreto e raffinato.
Molte lingue furono poeticamente di nuovo fuse nel crogiolo del petrarchismo: il francese, il castigliano, il catalano, l'inglese, il portoghese.
Gacilaso d la Vega fu uno dei primi e più grandi petrarchisti spagnoli e quello che segue uno dei suoi testi piú noti.
Tradurre un poeta petrarchista all'italiano pone di fronte a un'alternativa: si puó cercare di riprodurre i suoi stilemi nel lessico proprio dl petrarchismo italiano coevo, ricostruendo il testo dell'imitatore con il lessico e la sintassi che egli volle imitare. L'interesse di questa operazione sta nel gioco di riflessi e di rimando che ci permetta di istituire. Si tratta di una specie di traduzione "en abîme". Oppure si può tentare di confrontare questa voce poetica con un lessico e una forma più attuale e di ascoltare come la sua eco risuona in un nuovo scrigno.

A Dafne giá crescevano le braccia
Ed in rami nodosi si torcevano
Vidi la chioma più tersa dell'oro
Volgersi in verdi foglioline tenere

Scorza rugosa le membra ricopriva
Molli che ancora appena palpitavano
Teneri piedi la terra penetravano
In ritorte radici trasformati.

E chi di tanta pena fu la causa
Con la forza del pianto alimentava
Quell'albero che di lacrime bagnava

Che triste condizione! Estremo male!
Che grazie al pianto suo cresceva tanto
La causa e la ragione del suo pianto.

trad genseki

Altri aforismi di Victor Hugo

La morte ha bisogno di un velo, la tomba richiede pudore.

*

La morte è sfrontata quando si mostra all'opera. Essa oltraggia ogni serenità dell'ombra lavorando fuori dal suo laboratorio, la tomba.

*

Ci sono delle realtà quaggiù che sembrano sbocchi sull'ignoto, da dove può uscire la ragione e precipitarsi l'ipotesi. La congettura ha il suo "compelle intrare". Quando passiamo in certi luoghi e davanti a certi oggetti, non possiamo fare altro che fermarci in preda ai sogni, lasciando che lo spirito vi si avventuri.

*

La materia davanti a cui si trema è una rovina d'anima. Se la materia inerte ci turba, vuol dire che dentro vi ha vissuto lo spirito.

*

Quando l'immanenza che incombe su noi, cielo, abisso, vita, tomba, eternità, ci appare evidente, proprio allora noi sentiamo che tutto è inaccessibile, tutto proibito, tutto murato. Niente chiude in modo più formidabile dell'infinito quando si apre.

*

Il morto guarda con tutta quanta la testa, ed è spaventoso.

*

Nella mano del sonno c'è il dito della morte.

*

La fine sempre imminente, nessun trapasso dall'essere al non essere più, il ritorno nel crogiolo, la scivolata sempre possibile, questo precipizio è la creazione.

Victor Hugo
Trad. genseki



venerdì, ottobre 09, 2009

Hilary Hahn - Schoenberg Violin Concerto (mov2)

Hilary Hahn - Schoenberg Violin Concerto (mov1) - part1

La Promessa

In qualche modo sono sempre stato convinto che nel cuore della nostra vita c'è stata una promessa. O meglio, c'è stata la Promessa.
La Promessa che non siamo davvero carne perduta, groppi di desiderio e paura, che non siamo solo questo.
La Promessa, forse, ha preceduto la nostra nascita, forse la abbiamo ricevuta e accolta nella prima infanzia ma è solo per essa che possiamo accettare e vivere il dolore, il tramonto, il dissolversi, la polvere, e l'amore.
Nella Promessa è suggellata la nostra dignità per questo in qualche angolo del nostro cuore sappiamo che tutto quello che va perduto in realtá è per sempre e infinitamente guadagnato.
In virtù ella Promessa possiamo spalancare le mani e accettare, lasciare il nostro appiglio e cadere, con le mani aperte dare e dare ancora fibra a fibra.
Ci scorticheremo la pelle strisciando sulla rugosa superficie della realtá impossibile.
In virtù della Promessa siamo davvero niente, diveniamo niente, insomma, non siamo proprio, eppure nella pochezza di questo non essere la accogliamo, grati la andiamo scoprendo e accettando poco a poco.

genseki

giovedì, ottobre 08, 2009

Passione, terrazza

Che tenerezza la carena d'uccelleto
Del corpicino dai capezzoli a chicco
D'uva, distesa nuda come gatta
All'abbraccio delle ombre mattutine
La tua brezza allora sarei stato
A sollevarti tra i ricami della toppia
Abbagliato dal pallore delle unghie
Dei tuoi piedi piegati come in croce
Quante piaghe si aprirono sulle nubi
E piovve sangue di venerdí santo
Stretti l'uno all'altra nei nostri caldi fiati
Ci riscaldava uno strato di fango

Basilico alla finestra

Allora le finestre profumavano di basilico
Le dita delle mani di aglio e lampone
Alla parete di fronte s'aggrappava
Un'edera alcolica e polverosa,
Fino alle ossa venerate un tempo
Ora dimenticate in quella nicchia
Persino un po' sudicia tra i piccioni
Poi lo sguardo sdrucciolava nel cortile
Dove c'erano sempre canottiere
E un vecchio furgone nero dismesso
Che nauseava di caucciú sotto il sole
Le sue ascelle si aprivano al basilico
La menta nel cavo delle sue ginocchia
Nella stretta si dibatteva alla finestra
Le canottiere avrebbero voluto volare
Il santo sbriciolato nella teca godeva
Al palpitare dell'ostia nelle tempie.
Odore di basilico, erano biscotti
E il vestito a peonie fruste fruste
Quante carezze mi rubò quell'uomo
Quello che morí con il naso nel muschio
Le bottiglie di birra erano gialle,
E i tappi appicicosi lasciavano il gusto
Di limone muffito sotto le unghie
Tra il basilico e il limone accoccolata
Spiavi alla finestra i canti della voliera.

genseki

Se avessi lasciato

Se avessi lasciato trascorrere
Ancora qualche luna
Mi sarei ritrovato ad affrontarlo
Mutato
In diverso timore
Questo tumore verdognolo
Questa ghianda che serra
Sicuramente un'antica pianta
Nalle membrane vegetali di tutte le sue potenzialità
Ma le lune che scorrrevano
Richiamando l'acqua dai pozzi
L'acqua bianca come lo sperma
Delle generazioni inghiottite
Dalle parole,
Consumavano il mio istinto
La mia determinazione, quello che restava del mio desiderio
Di non separarmi da me.
Alla finestra, dalle terrazze, sui balconi
Quel popolo festoso continuava
A guardare la televisione
E io mi lasciai finalmente marcire
Come un fagiolo appena seminato.

genseki

mercoledì, ottobre 07, 2009

L'Islam, l'Iran e la filosofia antica

Parte I


Damascio


Damascio nacque tra il 480 e il 490 ad Alessandria in Egitto e fu discepolo di Ammonio che a sua volta era stato discepolo del sommo Proclo. Compiuta la sua formazione e consolidata la sua fama si trasferì ad ad Atene. Aveva intorno ai cinquanta anni quando fu scelto come sucessore di Zenodonte, come Scolarca della Scuola di Atene, occupando cosí la cattedra di Platone.

Credo che si possa considerare il neoplatonismo come una filosofia mistica che aveva assunto nelle forme esteriori e nelle pratiche molti, moltisimi elementi rituali e si presentava quasi come una religione.

Per rendere l'idea di che cosa fosse nell'estrema antichitá il neoplatonismo si potrebbe forse utilizzare l'espressione “Buddhismo di Occidente”. La sua attivitá come Scolarca duró quasi dieci anni, nel rapido, turbinoso disfacimento del pensiero antico e del mondo culturale pagano. Nel 529, infatti, Giustiniano chiuse la Scuola di Atene e confiscó i beni dei Platonici.

Questa confisca dei beni ci fa pensare che i platonici fossero una specie di comunitá, qualche cosa di molto simile a un ordine religioso.

Comunque questi provvedimenti non significarono la fine della scuola, come avevano sprao, probabilmente i Vescovi cristiani che gli ispirararono. L'imperatore filosofo dei Sassanidi offrí loro rifugio e protezione, mi pare nella cittá di Bactria, l'attuale balkh nell'Afghanistano attuale dove sorgeva anche una rinomata universitá buddhista. Secondo altre fonti, quello che restava della Accademia fu ospitato in Ctesifonte.

I nomi di questi filosofi erano Damascio, Simplicio, Prisciano di Lidia, Eulamio di Frigia, Hermias di Fenicia, Diogene di Fenicia e Isidoro di gaza. Nel 532, Cosroes vittorioso nella guerra impose ai bizantini la fine del loro esilio e quasi tutti loro ritornarono in Occidente. Damascio rientró in Egitto.

Di lui conserviamo pochi frammenti dalla “Vita di Isidoro” grazie a Fozio. Si suppone che abbia composto un “Commento al Filebo” che fu atribuito a Olimpiodoro e un “Commento al Fedone” anche esso attribuito a Olimpiodoro.

Tuttavia la sua opera filosofica principale è: “Aporie e soluzioni sui primi principi” che puó essere consierato una specie di commento del “Parmenide”.

Per Damascio, a differenza che per Proclo e Plotino pensa che al di sopra dell'Uno si trova l'ineffabile che non puó essere in nessun modo oggetto della nostra conoscenza. Questo ineffabile è analogo all'Assoluto di Ibn Arabi che anch'esso è antecedente all'Uno. L'uno proprio come uno è la singolaritá di ogno molteplicitá ma non è l'Assoluto, che si può considere come nulla. Il fatto è che noi pensiamo solo relazioni e l'Assoluto ineffabile è al di lá di qualsiasi relazione. Per Damascio tutto esiste in ogni cosa singola. L'assoluto è presente in noi come una forza o uno stimolo che spinge il pensiero a ngarsi come pensiero, situandosi nel punto in cui il pensiero sorge o dove si estingue.

Quest'ultimo punto di vista è molto prossimo alle concezioni del buddhismo mahayana sulla meditazione, concezioni che molti secoli dopo furono sviluppate da Dogen nel concetto di Hishiryo (oltre il pensiero e il non pensiero).

A proposito dell'Assoluto anche per Ibn Arabi esso è: “astrazione da tutte le possibili relazioni (cioè i nomi e gli Attributi”

“Se dall'essere divino si astraessero tute le relazioni non si avrebbe allora nessun Dio. Ma siamo noi che rendiamo reali queste possibili relazioni e finiamo per convertire l'Assoluto in Dio”.

Le radici neoplatoniche del sufismo, i possibili scambi teorici tra buddhismo e neoplatonismo il ruolo del pensiero sciita in questo quadro sono i temi che tratteró nelle prossime pagine.


genseki

lunedì, ottobre 05, 2009

Il ramo secco

La melancolia lottava contro il suo cuore
La sua allegria, allora, incontró il ramo secco
Come anche oggi fa la tortorella.
Fa proprio nello stesso modo.
Qundo l'amato viene a mancare
Per fedeltá si sceglie un ramo secco.

W. Von Eschembach
Parzifal
trad. genseki

Nuove traduzioni da Trilce

XXXV Lancinanti lattughe colte or ora.

L'incontro con l'amata
Qualche volta soltanto è un semplice dettaglio
Quasi un programma ippico violaceo
Cosí lungo che non si riesce a piegarlo bene.
Far colazione con lei che
Ci porta il piatto che ci piacque ieri
Ed eccolo di nuovo
Ma con un po' più di senape,
La forchetta assorta, il suo corteggiamento radiante
Di pistillo in maggio, e la sua verecondia
Centesimale per togliermi infine quella paglia
E poi la birra lirica e nervosa
Quella che nasconodono i capezzoli senza luppolo,
Attento! Non berne troppa!
E gli altri incanti di quella tavola
Al confine di una nubile campagna
Con le sue proprie batterie germinali
Che hanno operato per tutta la mattina
A quanto mi consta, a me,
Il notaio amoroso della sua intimitá
Con le dieci bacchette magiche
Delle sue dita pancreatiche.
Donna che senza pensar ad altro
Apre il rubinetto e si mette a conversarci
Di parole tenere
Come lattughe lancinanti colte or ora.
Un altro bicchiere e adesso andiamo,
Per davvero! A lavorare.
Lei nel frattempo si inoltra
ra le tende! Ago dei miei giorni
Squarciati! Si siede sulla riva
Di una cucitura e mi cuce il costato al suo costato
E mi attacca bottone di camicia
Già caduto. S'è mai visto?

César Vallejo

Trad. genseki