giovedì, ottobre 23, 2008

Khidr Elia


Mosè disse al suo servo:
“Non mi fermerò finché non giunga alla confluenza dei due mari, dovessi camminare anche una vita”.
E quando giunsero alla confluenza, dimenticarono il loro pesce, che prese la via del mare misteriosamente. Or quando furono passati altre, Mosè disse al servo:
“Portaci la cena, siamo stanchi del viaggio”.
Gli rispose:
“Non hai visto? Quando riparammo alla roccia dimenticai il pesce; soltanto Satana me lo fece scordare, impedendomi di dirtelo. E il pesce prese la sua strada nel mare, meravigliosamente”.
“Questo” rispose Mosè “è quanto desideravamo”, e tornarono sui propri passi. Trovarono quindi uno dei Nostri servi, cui avevamo accordato misericordia presso di Noi, insegnandoli della Nostra Scienza.
Mosè gli disse:
- “Posso seguirti, perché tu mi insegni, per mia guida, parte della tua scienza?”.
Rispose:
- “Se Dio vuole mi troverai paziente, non ti disobbedirò per nulla”.
“Dunque, se mi segui, non interrogarmi su nessuna cosa, finché io non te la spieghi”.
Andarono, e quando salirono nella barca, colui la bucò. Disse Mosè:
“L’hai bucata per fare annegare i naviganti? Hai commesso un’azione grave!”.
Rispose:
“Non ti avevo detto che con me non saresti riuscito a pazientare?”
“Non rimproverarmi la dimenticanza e non impormi prove troppo dure !”.
Andarono finché incontrarono un giovane e colui lo uccise. Esclamò Mosé:
- “Hai ucciso un’anima innocente senza la scusa di vendicare un altro omicidio, commettendo un’azione perfida!”.
Rispose:
“Non ti avevo detto che con me non saresti riuscito a pazientare?”.
“Se dopo questa volta ti faccio altre domande, lascia la mia compagnia, te ne avrò dato motivo”.
Andarono, e giunti ad un villaggio, domandarono da mangiare alla gente, che rifiutò di ospitarli. C’era nel villaggio un muro che stava per crollare, colui lo raddrizzò. Disse Mosè:
“Se volevi potevi riceverne un premio”.
Colui rispose:
“E’ venuto il momento di separarci: ti darò la spiegazione delle cose che non hai potuto sostenere con pazienza. Quanto alla barca apparteneva a povera gente che lavorava per mare, ed io la volli guastare perché dietro di loro c’era un Re che si impadroniva di tutte le navi con la forza. Quanto al giovane, i suoi genitori erano credenti, ed io temevo che ricadesse su di loro la sua malvagità, la sua miscredenza, mentre desideravo che il Signore desse loro un figlio migliore, puro e devoto ai suoi genitori. Quanto al muro, apparteneva a due ragazzi orfani della città, e sotto c’era un tesoro che spettava, ed il tuo Signore, usando loro misericordia, desidera che raggiungano l’età maggiore prima di scoprire il loro tesoro. Quel che feci non l’ho fatto di mia iniziativa, e questa è la spiegazione della condotta che non hai saputo sopportare con pazienza”.
Corano, XVIII, 60-82

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Khidr è la “guida invisibile” dei Sufi e si ritiene che sia lui l’anonima guida di Mosè nel Corano. Questi, detto “Il verde”, viene spesso citato come “L’Ebreo” ed è stato assimilato nella leggenda con persone come S. Giorgio ed Elia.

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Una volta mentre mi trovavo sulle rive del fiume Oxus vidi un uomo cadere in acqua. Un altro uomo, che vestiva i panni del derviscio, corse in suo aiuto ma finì per farsi trascinare anch’egli in acqua. D’un tratto vidi una terza persona, vestita d’un abito verde luminoso e smagliante che si gettava nel fiume. Ma nell’attimo in cui tocco la superficie dell’acqua la sua forma parve mutare; non era più un uomo ma un tronco. Gli altri due faticosamente riuscirono ad aggrapparvisi e insieme faticosamente lo spinsero verso la riva.
Stentando a credere ai miei occhi, continuai ad osservarli a distanza, nascondendomi fra i cespugli che ivi crescevano. Gli uomini si issarono affannati sulla riva; il tronco si allontanò galleggiando. Lo tenni d’occhio fino a quando, non più visibile ai due uomini, si spostò lateralmente e l’uomo vestito di verde, infangato e fradicio si trascinò a riva. L’acqua cominciò a fluire rapidamente dal suo corpo; prima che lo raggiungessi era quasi asciutto.
Mi gettai a terra ai suoi piedi esclamando: “tu devi essere la presenza Khidr, il Verde, Maestro dei Santi. Benedicimi perché vorrei raggiungere la meta”.
Avevo paura di toccare la sua veste perché sembrava di fiamma verde.
Egli rispose: “Hai visto troppo. Sappi che vengo da un altro mondo e senza che lo sappiano sto proteggendo quelli che hanno un servizio da portare a termine. Puoi anche essere stato discepolo di Sayed Imdadullah ma non sei ancora abbastanza maturo per sapere quanto stiamo facendo per amore di Dio”.
Quando alzai gli occhi era scomparso e udii soltanto un fruscio risuonare nell’aria. Quando fui di ritorno da Khotan rividi quell’uomo. Giaceva su un materasso di paglia in una casa di riposo vicino a Peshawar. Mi dissi: “Se la volta passata fui immaturo, questa volta non lo sarò”. Afferrai la sua veste, una veste molto ordinaria, sebbene sotto di essa mi parve di scorgere un bagliore verde. “Tu sarai anche Khidr”, gli dissi, “ma io devo sapere com’è che un uomo come te può compiere tali meraviglie… e perché. Spiegami la tua arte affinché possa praticarla anch’io”.
Rise. “Sei un impetuoso, amico mio, e sei ancora troppo testardo. Va, di’ a tutti quelli che incontri che hai visto Khidr Elia; ti metteranno nella casa dei pazzi e più protesterai di aver ragione e più pesanti saranno le catene con cui ti avvinceranno”. Indi tirò fuori una pietruzza. Io guardai fissamente… e mi ritrovai paralizzato, tramutato in pietra, fin dopo che egli ebbe raccolto le sue bisacce e non se ne fu andato.
Quando racconto questa storia, la gente ride, oppure credendo che io giri raccontando favole mi fa regali.

Idries Shah
La strada del Sufi

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E’ dottrina esclusivamente musulmana che santi e devoti abbiano un capo soprannaturale e immortale, il quale talvolta si manifesta visibilmente. Il suo nome è Khidr; è credenza generale che a lui alluda il Corano (XVIII, 60-82) narrando di un misterioso e anonimo saggio, ammonitore di Mosè e sua guida alla ricerca dell’Acqua di Vita. Khidr, nelle leggende sufiche, percorre continuamente il mondo per assistere i buoni nelle loro difficoltà e pericoli, visita i santi, “detta ai cuori le formule delle orazioni”; a lui si rivolgono preghiere per l’intera comunità musulmana.
Nel Corano Khidr comparisce più sapiente del profeta Mosè, e questo ha dato origine alla pericolosa opinione di certi ambienti sufici, che i santi siano superiori ai profeti e quindi (estrema conseguenza) emancipati dalla Legge rivelata al profeta Maometto.
Virginia Vacca

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Omar ibn ‘Abd al-Aziz
Morì nel 101\720 dopo due anni e quattordici giorni di Califfato a trentadue anni.
Aveva una stanza sotterranea dove scendeva ogni notte; si metteva una catena al collo, piangeva e si umiliava fino al mattino. Piangeva sangue, aveva colloqui con Khidr.

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al-Imam Ahmed ibn Hanbal
Morì nel 241\855 a 77 anni.
Khidr mandò a Ahmed un poverello con questo messaggio:
O Ahmed, gli abitanti del Paradiso e gli angeli che stanno intorno al trono si allietano di te, che hai sostenuto la causa di Dio.
Bishr ibn al-Harith al-Hafi (lo scalzo), nativo di Merv, morì a Baghdad il 10 del mese di Moharram del 227\841.
Riceveva ogni tanto la visita di Khidr, in questo modo: “Entrai in casa e vi trovai un uomo alto intento alla preghiera; mi spaventai, perché la porta era chiusa e avevo io la chiave. Terminata la preghiera, colui mi disse: “Non aver paura, sono tuo fratello Khidr”.
“Insegnami qualche cosa, che Dio mi renda giovevole”.
“Pronuncia queste parole: - Chiedo perdono a Dio e gli chiedo di riconciliarsi con me per ogni peccato in cui cono ricaduto dopo il pentimento, per tutte le promesse che gli ho fatto e non ho mantenuto, e per tutti i benefici da Lui ricevuti in tutta la vita mia e di cui mi sono valso per ribellarmi a Lui. Che Dio mi protegga e mi difenda da tutte queste cose”.
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Abu Turab Askar ibn al-Husein an-Nakshabi
Del Khurasan, morì nel 245\860, nel deserto e il suo cadavere fu sbranato dalle fiere.
Raccontava di aver incontrato nel deserto un uomo; gli domandò chi era, rispose: “Sono Khidr, il custode dei santi; quando i loro cuori si allontanano da Dio li rimetto a posto. O Abu Turab, l’errore sta nel primo passo e la salvezza nell’ultimo.

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Abd al-Qadir al-Gili
Sono vissuto nei deserti e fra i ruderi dell’Iraq venticinque anni spoglio di tutto, errabondo, senza conoscere esseri viventi, sconosciuto a loro.
(…)
Appena giunsi nell’Iraq, Khidr divenne mio compagno senza che lo avessi riconosciuto. Mi pose la condizione che non lo avrei mai contrariato e mi disse: “Stabilisciti qui”. Io allora rimasi tre anni nel luogo dove mi aveva collocato; Khidr mi visitava una volta l’anno e diceva: “Resta qui fino al mio ritorno”.
*

Ali ibn Wahb as-Singiari
Fu maestro di Sufismo a Singiar e dintorni, educatore di Sheikh illustri; quando morì aveva quaranta discepoli, tutti estatici.
Racconta lo Sheikh as-Singiari: “A sette anni sapevo il Corano a memoria, poi mi dedicai alle scienze religiose, facendo vita devota in una Moschea sull’orlo del deserto. Una notte, mentre dormivo, vidi Abu Bakr che mi disse:
“O Alì, mi è stato comandato di metterti questo berretto”.
Lo tirò fuori dalla manica e me lo posò in testa. Dopo qualche giorno venne da me Khidr e disse:
“O Alì, esci di qui e va verso gli uomini, perché ne abbiano giovamento; sii costante nell’eseguire il mio incarico”.
In seguito rividi Abu Bakr che mi fece lo stesso discorso; mi svegliai e continuai con perseveranza le mie occupazioni.
Ahmed ibn Abi al-Husein ar-Rifa’i
Originario della tribù beduina dei Banu Rifa’ah.
Diceva: “I viaggi spezzano la religiosità dei Sufi e dissipano il loro raccoglimento, eppure non si contano quelli perpetuamente in cammino per tutto il mondo islamico, sulle orme di Khidr, loro patrono”.
*

Abu Sa’id al-Qaluri
Morto nel 557\1162 riceveva frequenti visite da Khidr.
E’ noto il suo detto:
“Il Sufi non deve possedere nulla e non deve essere posseduto da nessuna cosa”.
Abu Madyan Shu’aib ibn al-Husein al Maghrabi
Nato presso Siviglia, passato a Fez, discepolo di al-Gili, ritenuto il Polo della sua epoca.
Un certo Sheikh ‘Abd er-Razzaq raccontava:
“Incontrai Khidr nel 580 e lo interrogai su Abu Madyan, rispose: E’ il capo dei devoti sinceri; Dio gli ha dato la chiave dei segreti custoditi sotto il velo della santità; nessuno ai nostri giorni conosce meglio di lui i segreti degli Inviati di Dio”.
Abu ‘Abdallah al-Qurashi
Si cuoceva spesso zuppe di grano e diceva che era la sua pietanza preferita perché Khidr, nelle su frequenti visite notturne gli chiedeva di preparargliela.
Shekh Yusuf
Era uno dei buoni servi di Dio e raccontava frequenti suoi incontri con Khidr. La sua faccia spirava sincerità, sapeva recitare il Corano secondo le sette scuole.
*

Zakariya al-Ansari
Morì dopo il 930\1524
Una volta raccontò:
-“Un mio confratello, Alì an-Nabatiti, soleva incontrarsi con Khidr, e un giorno, parlandogli in confidenza, domandò: - Che ne pensi del tale Sheikh ? E del tal altro ? E che ne pensi dello Sheikh Zakariya ?
Rispose Khidr: “Dello Sheikh Zakariya non si può dir male, sennonché ha una preziosità”
Quando questo mi fu riferito, mi si strinse il cuore e non capii cosa intendesse; mandai a dire al mio fratello: - Quando rivedi Khidr domandagli, per favore, che cosa ha voluto dire parlando di preziosità -. Non lo rivide per nove mesi, poi si ritrovò con lui, lo interrogò, e Khidr rispose: - Quando manda un discepolo o un messaggero da qualche emiro gli dice: - Digli così e così da parte dello Sheikh Zakariya -, dandosi da sé il titolo di Sheikh -. Questa risposta mi rianimò come se fosse caduta dalle mie spalle una montagna; da allora in poi, quando mandavo un messo a qualche emiro o visir, gli dicevo: - Digli così e così da parte di Zakariya, servo dei poveri -.
Shams ed-Din ad-Diruti
Morto nel 921\1515, autore di opere giuridico-religiose, predicatore in al-Azhar, venerato da re, emiri e ogni classe di persone.
Prima di morire annunciò alla madre che stava per addormentarsi e sarebbe morto nel sonno; lei domandò: - Come lo sai ?-. Rispose: - Me lo ha comunicato Khidr -, e infatti così avvenne.
IL SUFI
Potrà essere come Khidr, il verde, che viaggia per la terra sotto diverse spoglie e con mezzi a voi ignoti. Se quella è la sua “stazione” potrete trovarlo un giorno a pascolare pecore e l’indomani a bere da una coppa d’oro insieme ad un re.
Se è il tuo maestro, farà si che tu tragga beneficio dai suoi lumi, che tu lo sappia o no sul momento.
Quando lo incontri, agirà su te, che tu lo sappia o no.
Quel che dice o fa potrà sembrarti incoerente o anche incomprensibile. Ma ha un suo significato. Egli non vive interamente nel tuo mondo.
La sua intuizione è quella di chi è ben guidato e lavora sempre in armonia con la Giusta Strada.
Potrà frustrarti. Ciò sarà voluto come necessario.
Potrà sembrare che restituisca male per bene, o bene per male.
Ma quel che sta realmente facendo è noto solo ai Pochi.
Può darsi che tu senta dire che alcuni lo combattono. Troverai che solo pochi lo fanno realmente.
E’ modesto e ti consentirà di scoprire quel che devi scoprire, lentamente.
Quando lo incontri la prima volta potrà sembrarti molto diverso da te. Non lo è. Potrà sembrarti molto simile a te. Non lo è.
Salik

***

mercoledì, ottobre 22, 2008

Altre saghe

Correvano le saghe per selve di conifere
Per selve di pini, di abeti, di larici rossi, di pino mugo
Correvano le saghe scapigliate e discinte
Come baccanti in un quadro di Botticelli
Verso le creste taglienti le creste di gelo del nord
In uno sfavillare di aghi di ghiaccio e di fiocchi
Che nella corsa sfrenata sollevavano
Davanti al parabrezza correvano
Che si apriva sull'aurora boreale
Su un cielo pesante come il bronzo
Correvano correvamo mentre mi parlavi
Di un pettirosso annidato tra le buganvillee
In una presa d'aria del parcheggio soterraneo di Carrefour
Mi parlavi con le scarpe rosse e il maglioncino rosa
Mi parlavi di sfiorire e di fiorire dei denti di lupo
Davanti al parabrezza sull'autostrada delle saghe
Correvamo tra pini lontani, larici di rame muschi modulati
Come gioielli di scizia come in una pubblicitá di audi
Correvamo tra le saghe e i parabrezza e mi parlavi
Come un pettirosso
E io pensavo a Giaffredo, a Tripoli, agli amori lontani
Che maggio è un mese simmetrico
E il passo delle saghe quadruplice.

Huerta

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Severino Boezio


Felix qui potuit boni
Fontem visere lucidum,
Felix qui potuit gravis
Terrae solvere vincula


*


Felice chi seppe del bene
Vedere la fonte splendente
E della terra pesante
sciogliere le catene.
Trad. genseki

martedì, ottobre 21, 2008

Severino Boezio

Il seguente testo di Boezio, tratto dal "De Persona" contiene la definizione del concetto di "persona" che sará discussa per tutto il Medioevo cristiano e su cui si basa ancor oggi l'impiego di questa nozione.
Il testo serve anche da delucidazione del Capitolo V della traduzione "L'eone dogmatico" di Lucian Blaga in cui si discute proprio, credo sulla base di queste linee.
genseki

Che cosa è persona?

A proposito della persona è molto difficile sapere quale sia la definizione adatta. Infatti se ad ogni natura corrisponde una persona, è un nodo che non si puó sciogliere facilmente quello di quale sia la differenza tra persona e natura, se peró non si considerano equivalenti natura e persona ma se la persona si considera subordinata alla natura, è difficile dire fino a quali nature pervenga la persona, cioè quali nature convenga che siano dotate di persona, e quali, invece, occorre allontanare dalla parola persona; infatti una cosa è chiara, la persona è subordinata alla natura, e non si puó predicare la persona che della natura. Si deve dunque investigare questo: siccome non vi puó essere persona senza natura e siccome quello che si chiama natura sono le differenti sostanze e accidenti e vediamo che non si puó costituire una persona sulla base degli accidenti giacché a nessuno verrebbe mai in mente di dire che la nerezza o la bianchezza o la grandezza siano persone, si deve ammettere che solo le sostanze possono essere dette persone. Le sostanze, tuttavia, possono essere corporee o incorporee; delle corporee alcune sono viventi, altre no. Delle viventi, alcune sono sensibili altre no, delle sensibili alcune sono razionali, altre irrazionali; delle razionali alcune sono immutabili e impassibili per natura come Dio, altre sono mutabili e passive, se non impassibili per una mutazione dovuta alla grazia, come gli angeli e le anime razionali. Di tutte queste sostanze è chiaro che si puó dire persona solo la sostanza vivente, e a nessuno verrebe in mente di dire che le pietre sono persone; neppure si possono dire persone quei viventi che mancano di senso, infatti gli alberi non sono persone; non si possono nemmeno dire persone quegli esseri viventi cui manca la ragione, infatti, non sono persone cavalli o bovi o tutti quegli animali che conducono una vita solo in base all'istinto e senza la ragione.
Diciamo che sono persone gli uomini, Dio e gli angeli. Alcune sostanze poi sono universali mentre altre sono particolari. Sono universali quelle che sono predicabili dei singoli come uomo, animale, pietra, legno e cosí via. Sono particolari quelle che non si predicano di altro che di se stesse come Cicerone, Platne, questa pietra di cui è fatta la statua di Achille, questo legno di cui è composto questo tavolo. Le sostanze universali non possono mai essere dette persone ma soltanto le singole e le individuali. Non sono persone l'animale oppure l'uomo in generale, ma Cicerene o Platone o gli altri singoli individui.
Differenza di natura e persona
Se la persona è solo sostanza e sostanza razionale, non universale ma individuale ecco data la sua definizione: Persona è sostanza individuale di natura razionale.

Da: Liber De Persona Et Duabus Naturis Contra Eutyche Et Nestorium
Cap. II – III

trad. genseki

Silvio Rodriguez - Te Perdono

Ti perdono quei mucchi di parole
Che mi hai sibilato nelle orecchie
Da quando ti conosco

Ti perdono le foto dei gatti
Pranzare fuori
Le birre e le sigarette
e poi...

Ti perdono che cammini così
Nelle scarpe di nube
I tuoi denti e i capelli
Ti perdono le cento ragioni
I tuoi mille problemi
Ti perdono
Di non amarmi

Ma quello che non ti perdono
È di avermi baciato
Con tanta passione
E en ho i testimoni
Un cane, l'alba,
Il freddo.
No! questo non te lo perdono
Perchè se te lo perdono
Di certo lo dimentico.

Noel Nicola
trad genseki

Altura y pelos

Questa è la traduzione del testo di Vallejo:

Chi non porta un vestito blu?
Chi non fa colazione e prende il tram?
Con una sigaretta contrattata e il dolore da tasca?
Io che soltanto son nato!
Io che soltanto son nato!

Chi non scrive una lettera?
Chi non parla di un affare importantissimo?
Morendo di abitudine e gemendo d'udito?
Io che soltanto son nato!
Io che soltanto son nato!

Chi non si chiama Carlo o qualcosa del genere?
Chi al gatto non dice gatto gatto?
Ahimè che son nato soltanto!
Ahimè che son nato soltanto!

César Vallejo
trad genseki

lunedì, ottobre 20, 2008

Huerta

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Mañanas

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L'eone dogmatico V


La struttura e la giustificazione del dogma

Antinomie trasfigurate

La formula cristiana della Trinitá non è dogmatica solo per uno dei suoi lati o dei suoi elementi. Essa contiene una serie intera di elementi dogmatici, di modo che partendo da essa si possono studiare le articolazioni strutturali del dogma meglio che con qualsiasi altra. L'enunciato – Dio è un”essere” in tre “persone” (una “sostanza” in tre ipostasi) tanto strano per le possibilitá umane di comprensione non lo commentaremo qui dal punto di vista del contenuto. Non ci interessa sondare il mistero in se stesso. Il dogma ci interessa solo come uun tipo di ideazione, come apparenza e vincolo interno, come struttura. L'intelletto guardó sempre con difficoltá a questo dogma per via del disaccordo degli attributi numerici (“uno” e “tre”) attribuiti alla divinitá. I motivi per i quali l'intelletto si rifiuta di accettarlo sono, tuttavia, ancora piú complessi. Il fatto che Dio si presenta in diversi testi biblici e in diverse argomentazioni esegetiche e filosofiche come contemporaneamente “unitario” e “molteplice” si sarebbe potuto spiegare in modo logico. Dio lo si puó concepire come “uno” in quanto all'essere e “molteplice” in quanto ai modi delle sue manifestazioni. Che cosa c'è di illogico in questa affermazione? Niente. Tuttavia il pensiero cristiano si decise per una soluzione dogmatica.
Il dogma della trinitá provvoca perplessitá irrisolvibili. Penetrare al suo interno è come vedersi di colpo tra specchi deformati. Suscita stupore specialmente la tensione volontaria ma irrealizabile per la nostra intelligenza, tra i termini di “essere” e di “persona”. Per la conoscenza logica e per quella intuitiva il concetto di “persona” è subordinato gerarchicamente e astrattamente a quello di “essere”
Il concetto di “essere” è piú amplio di quello di "persona”. La nozione di “persona”, più concreta, contiene anche in sé quella di “essere”: Tra le due nozioni c`è quindi una relazione chiara da piú concreto (“persona”) a piú astratto (“essere”), una relazione logicamente coesa che si estende anche nel campo delle esistenze numeriche. Insomma quando si afferma a proposito di qualche cosa di concreto che è formata da “tre persone”, si afferma anche che è costituita da “tre esseri”. Quando si affrema che una esistenza è un essere, al massimo si puó dire che è anche una “persona” ma non che è “tre persone”. Le nozioni di “persona e di “essere” sono almeno nell'uso numerico, reciprocamente solidali. Il dogna rompe questa solidarietá a livello dell'uso numerico a proposito della divinitá, sebbene come nozioni astratte le conservi inalterate.
Scopriamo così, nel dogma della trinitá un curioso muro di isolamento, che si interpone tra il concetto di “essere” e quello di “persona”, peró solo per quanto riguarda il loro uso in un caso particolare. La formula si puó semplificare nel modo seguente: quando usiamo i termini di “persona” e di “essere” su di un piano trascendente possiamo prescindere dalle relazioni logiche ad essi inerenti. Si postula, poi, come impensabile per dalle nostre menti, in quanto appunto le trascende, un'esistenza che potrebbe essere “una” in quanto all'”essere” e “tre” in quanto alle persone. E questo fa si che il dogma della trinitá appaia come un corpo alieno alla funzione assimilatrice dell'intelletto, e che, in altre parole, diventi incomprensibile anche per la ragione che deforma una relazione logica chiaramente determinata tra concetti dati (“essere” e “persona”). La relazione astratto-concreto tra le due nozioni è esclusa, a certe condizioni, e annullata. Questo annullamento non è concepibile dall'intelletto e nemmeno rappresentabile dall'intuizione (nemmeno sul piano dell'immaginazione), per essere contraria alle sue funzioni. Tuttavia lo spirito pretende la deformazione oltre l'intelletto e l'intuizione come un atto al quale ha pieno diritto. Il dogma, separa, quindi, le nozioni di “essere” e di “persona” senza tener conto delle loro differenze logiche e naturali per mente, ma ne conserva intatti i concetti.
Un altro esempio di separazione di due nozioni solidali è il dogma delle “due nature” unite e non mescolate nella “persona" di Gesú Cristo. Per coloro che costruirono questo dogma, la parola persona significava certamente la manifestazione concreta di una natura (essenza). La nozione di persona si subordina, in una realzione che vada dal concreto all'astratto, alla nozione di “natura”. La tesi cristologica, quindi, dal punto di vista logico avrebbe potuto essere enunciata nel modo seguente:
Se in Gesú Cristo ci sono due nature (umana e divina), allora ci devono essere due persone.
Se in Gesú Cristo c'è una sola persona, allora una delle due nature è solo illusoria (metafora) e una sola di esse resta reale (la divina, oppure la umana).
Il dogma, invece afferma tanto le due nature in Gesú, e contemporaneamente l'unicitá della sua persona. Se ci atteniamo alle nozioni antiche di “natura” e di “persona”, la sintesi richiesta dal dogma in questione appare incomprensibile per il nostro intelletto. È una sintesi che funziona da postulato e che rompe ancora una volta la solidarietá logica tra nozioni date senza alterarne il contenuto. Due concetti in relazione di subordinazione (di cui il piú astratto è incluso nel piú concreto), solidali in un grado che è possibile determinare, si biforcano forzatamente nel processo della loro applicazione sotto l'autoritá del dogma. Siccome la nozione concreta è la più carica e la piú ricca delle due in essa è possiile, eo ipso, una differenziazione logica (proprio nella definizione del concetto piú concreto appare la sua differenza specifica) ...
Il dogma attacca, nel suo meccanismo piú intimo le relazioni logiche inerenti alle nozioni, deforma le loro reciproche relazioi logiche senza, tuttavia, modificare il significato che esse avevano anteriormente. Accade come se le nozioni avessero, oltre la loro funzione logica, anche quella di articolare qualche cosa di trascendente per l'intelletto e che l'intuizione non è in grado di costruire. In questa funzione dogmatica, le nozioni potrebbero stabilire tra di loro altre relazioni che siano del tutto opposte a quelle della logica. In altre parole il dogma indebolisce radicalmente la relazione considerata come assolutamente necessaria tra Nozioni e Logica.
Lucian Blaga
a cura di genseki

giovedì, ottobre 16, 2008

Il dio disfatto

Non era il mare quello che ci sembrava di ascoltare
Perduto nelle nubi di diossina
Tra l'odore del guano e la tempesta
No, piuttosto era l'orecchio che si apriva al martello
alla risacca dei contraccolpi, all'amaro del litio
Il polpastrello sesibile ai chiodi, al freddo degli spilli
alle capocchie spente dei sali e dei cristalli
Non v'era ala per nessuna sega penna per nessun taglio
Bastavano i suoni d'arpa delle goccioline di sudore
E il profumo da pochi soldi di cui impregnava le sue bende di raso
Per suscitare in me tutto il peso del volo
Non era il mare smarrito tra le imposture
Ma un oceano di pecore morte
Una premonizione di futuro colta in un angolo della mente
Al contemplare un soffitto del tiepolo
E il suo scialle – era vecchia e bionda – al tavolo della terrazza
Il suo occhio che correva tra la sponde delle ali e il vertice della schiuma
Pochi istanti prima di formulare per un istante perfetto
il desiderio sincero di morire...
*
Lesto composto
Lo attendeva l'orchestra
Come l'occhio
Attende la sua lacrima
Come il taglio
La sua gola
Pronta a spiccare
Il salto perfetto
nel suono dei suoi gesti
matematici.
*
Ammorbidisce il fico
Il mezzogiorno desolato
Tra le ragnatele dei capperi
Le froge delle palme
Hanno il presentimento della corsa
Viola nel cielo verde
Sanguina come un cuore
La sua voce
Fino all'ultima nota
All'albumina
*
Osceno come un lombardo guardo i miei passi sulla sabbia
Nel fuscio di piume di una mandria di gallinelle
Rabbioso come un veneto schivo le pozze di latte fresco
E stiro le labbra contro i denti ad annusare l'odore della pece
Dell'odio dell'olio di oliva della pelle verde
Della carne bruciata della cenere della mia civiltá
Sono cristiano per una sola bestemmia
Per una sola ustione di disprezzo prego
Il mio dio disfatto
*

mercoledì, ottobre 15, 2008

Gabriel de Tarde

Il testo che segue è la prima parte della traduzione del testo del sociologo francese Gabriel de Tarde "Fragment d'histoire future", credo che sia la prima traduzione italiana di questo testo per tanti versi straordinario e dimenticato.
Su Gabriel de Tarde ritorneró nei giorni prossimi

Frammento di storia futura

Fu verso la fine del secolo XXV dell’era preistorica, un tempo detta cristiana, che avvenne, come si sa, la catastrofe inattesa da cui procedeono i nuovi tempi, il felice disastro che ha costretto il fiume straripato della civiltá a sprofondare nella terra per il bene dell’uomo. Racconteró brevemente questo grande naufragio e il salvataggio insperato operato cosi’ rapidamente in pochi secoli di sforzi eroici e trionfanti. Beninteso, passeró sotto silenzio i fatti particolari che sono conosciuti da tutti e non mi dedicheró che alle grande linee di questa storia. Prima di tutto, peró conviene ricordare in poche parole il grado di progresso relativo al quale l’umanitá era giá giunta, nel suo periodo esteriore e superficiale, alla vigilia di questo grande avvenimento.

La prosperitá

L’apogeo della prosperitá umana, nel senso superficiale e frivolo della parola, sembrava raggiunto. Da cinquant’anni, il consolidamento definitivo della grande confederazione asiatico-americano-europea e il suo incontrastato dominio su quanto restava ancora qua e la, in Oceanía e nell’Africa Centrale, di barbarie non assimilabile, aveva abituato tutti i popoli, convertiti in province, alle delizie di una pace universale e ormai imperturbabile. C’erano voluti non meno di centocinquant’anni di guerre per giungere a questo risultato meraviglioso. Tutti quegli orrori erano stati dimenticati; e tante spaventose battaglie tra armate di tre e quattro milioni di uomini, tra treni dai vagoni corazzati, lanciati a tutto vapore sparando da tutti i lati gli un contro gli altri, tra squadre di sottomarini che si folgoravano elettricamente, tra flotte di palloni blindati, arpionati, scoppiati da torpedini aeree, precipitati dalle nuvole con migliaia di paracaduti bruscamente aperti che si mitragliano ancora cadendo insieme; di tutto questo delirio bellicoso, non restava che un poetico e confuso ricordo. L’oblio è l’inizio della felicitá, come la paura è l’inizio della saggezza.

Per una straordinaria eccezione, i popoli, dopo questa gigantesca emorragia, non godevano il torpore della spossatezza, ma la calma di una forza accresciuta. Ció si spiega. Da circa un secolo, i consigli di revisione, rompendo con la routine cieca del passato, sceglievano con cura i giovani piu’ validi e ben fatti per esonerarli dal servizio militare diventato del tutto automatico, e inviavano sotto le armi, tutti gli infermi, ben sufficienti per il ruolo extremamente semplificato del soldato e persino del sottuficiale. Era una selezione intelligente, e lo storico non puo’ mancare di lodare con gratitudine questa innovazione, grazie alla quale l’incomparabile bellezza del genere umano attuale si è venuta pian piano formando. Effettivamente quando ora guardiamo, dietro le vetrine dei nostri museo di antichita’, le raccolte singolari di caricature che i nostri avi chiamavano i loro album di fotografie, possiamo constatare l’immensita’ del lavoro compiuto, sempre che noi discendiamo davvero da quei mostriciattoli e da quegli omuncoli, come attesta una tradizione rispettabile.

Da questa epoca data la scoperta degli ultimi microbi, non ancora analizzati dalla scuola neo-pasteuriana. Una volta conosciuta la causa, il rimedio non tardó, e a partire da allora un tisico, un artritico, un qualunque malato e’ diventato un fenomeno tanto raro come un tempo lo fu un mostro duplice oppure un mercante di vino onesto; è da allora che si è perduto il ridicolo uso di quelle domande sulla salute che riempivano le conversazioni dei nostri antenati: “Come sta? Come va?” La miopía soltando aveva continuato la sua triste marcia stimolata dalla diffusione straordinaria dei giornali; non una donna o un bambino poteva fare a meno del pince-nez. Questo inconveniente, del resto momentaneo, e’ stato largamente compensato dai progressi che ha fatto fare all’arte degli ottici. Con l’unita’ politica che sopprimeva le ostilita’ dei popoli, si aveva l’unita’ linguistica che cancellava rapidamente le ultime diversita’. Dal XX ecolo, il bisogno di una lingua unica e comune, come il latino del Medio Evo, era divenuto abbastanza intenso tra gli scienziati del mondo intero da deciderli a usare in tutti i loro scritti un idioma internazionale, Dopo una lunga rivalita’ tra l’inglese e lo spagnolo, fu il greco che, dopo la sconfitta dell’Impero Inglese e la ripresa di Costantinopoli da parte dell’Impero Elleno-Russo, si impose definitivamente. Poco a poco, o piuttosto con la celeritá propria di tutti i progressi moderni, il suo uso discese, di strato in strato, fino ai gradi piú umili della società, e dalla metá del XXII secolo, non ci fu piú nessun bambino, tra la Loira e l’Armur che non si esprimesse facilmente nella lingua di Demostene. Qua e la alcuni villaggi sperduti in valli di montagna si ostinavano ancora, malgrado i divieti dei maestri a storpiare il vecchio dialetto chiamato un tempo francese, tedesco, italiano, ma nelle grandi cittá una cosa del genere avrebbe scatenato le risate.

Tutti i documenti del tempo sono d’accordo nell’attestare la velocitá, la profonditá, l’universalitá del cambio che si operó nei costumi, nelle idee, nei bisogni, in tutte le forme della vita sociale livellata da un polo all’altro, come conseguenza di questa unificazione del linguaggio. Pareva che fino ad allora il corso della civiltá fosse stato bloccato, e che per la prima volta, rotte tutte le dighe, si diffondesse senza sforzo per tutto il globo.
Gabriel de Tarde
Fragment d'histoire future
Trad. genseki

lunedì, ottobre 13, 2008

 
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La arance

Le arance si avvolgevano in gomitoli di sillabe calde
Si avvolgevano in luminosi fili liquidi in gomitoli sonori
Ma furono le palme a nitrire per prime scuotendo le criniere
Taglienti come spade mentre la cittá tardava a svegliarsi
Dal sogno delle frane di nebbia.
Il suo occhio verde
Il solo
Gonfio d'acqua e di sali di cromo
Mi catturó poi nella sua orbita
Con tanta voglia di vomitare e un gomitolo di vapore
Nelle schegge di quelle che furono le mie viscere
e che io continuavo a stringere con dita convulse
Fusoliere gomitoli di criniere nella luce fresca
Della nebbia e delle arance
Conficcandomele nei polpastrelli
Sotto le unghie
Perché franava la mia vista
Nel burrone
Definitivamente sprovvista d'altro suono.
...

Paco Yunque - Ultima parte


Yunque lo avrebbe deto alla mamma e se Umbertino lo picchiava lo avrebbe detto al maestro, ma il maestro non gli faceva niente all'Umbertino. Allora lo avrebbe detto a Paco Farina. Disse a Paco Farina:
A te ti picchia l'Umbertino?
A me? Che ci provi soltanto! Gli do un pugno sul muso, io che gli faccio sputare sangre! Ma guard un po'! Che ci provi soltanto! Che ci provi e vedrá! Lo dio alla mamma! E verrá mio papá e gli dará un pugno sul naso a lui a suo padre e a tutti quanti!
Paco Yunque ascoltava spaventato quello che diceva Paco Farina. Davvero avrebbe picchiato Umertino? E suo papá avrebbe picchiato sul serio il signor Grieve? Paco Yunque non poteva crederlo, l'Umbertino non lo picchiava nessuno. Se Farina lo picchiava sarebbe venuto il padrone a picchiare Farina e anche il papá di Farina. Il padrone avrebbe picchiato tutti. Perché faceva paura a tutti. Perché il signor Grieve era molto duro e stava sempre comandando. E tutti quelli che andavano a casa sua avevano paura e obbedivano sempre al padrone e alla padrona. Insomma il signor Grieve era piú forte del maestro e di tutti quanti gli altri. Paco Yunque guardava il mestro che scriveva alla lavagna. Chi era il maestro? Perché era tanto serio e faceva tanta paura? Yunque continuava a guardarlo. Non era come suo padre e il signor Grieve. Sembrava cme quegli altri signori che venivano a casa a parlare con il apdrone. Aveva la nuca arrossata e il suo naso sembrava moccio di tacc
Tunque comnichino. Le sue scarpe facevano risss-risss-risss-risss quando camminava molto.
Yunque cominciava a essere inquieto. Quando era l'ora di andare a casa? L'umnertino lo avrebbe picchiato all'uscita dalla scuola. E la mamma di Paco Yunque gli avrebbe detto all'Umbertino: “No signorino, per favore non picchi Paquito. Non sia tanto cattivo. E nient'altro”. Paco avrebbe avuto le gambe piene di lividi per i calci dell'Umbertino e si sarebbe messo a piangere. Perché all'Umbertino non gli avrebbe fatto niente nessuno. E il padrone e la padrona amavano molto Umbertino e Paco Yunque aveva molta pena perché l'Umbertino o picchiava molto. A tutti, ma propio a tutti, facevano parua, Umbertino e i suoi genitori. Tutti, tutti, tutti. Anche il maestro, la cuoca, sua figlia. Mamma. Venanzio con il so grembiale. La Maria che lava gli orinali. Ruppe un orinale in tre grandi pezzi. Il padrone picchiava anche il padre di Paco Yunque? Che cosa brutta era questa del padrone e dell'Umbertino. Quando avrebbe finito, il maestro, di scrivere alla lavagna?
Bene! - disse il maestro, smettendo di scrivere. - Ecco qua l'esercizio scritto. Adeeso tirate fuori tutti il quaderno e copiate quello che sta sulla lavagna. Bisogna copiarlo esattamente uguale.
Nel quaderno? - domandó timidamente Paco Yunque.
Si, nel quaderno – rispose il maestro. - Lei sa scrivere un po'?
Sissignore papá mi ha insegnato in campagna.
Molto bene. Tutti a copiare, allora.
I bambini tirarorno fuori i loro quaderni e si misero a copiare l'esercizio che il professore aveva scritto sulla lavagna.
Non dovete stancarvo – diceva il maestro. Bisogna scrivere poco a poco, per non sbagliare.
Umberto Grieve domandó:
Si tratta dell'esercizio scritto dei pesciolini?
Si, forza, tutti a copiare.
L'aula si fece silenziosa. Si poteva udire il fruscio delle matite. Anche il maestro si sdette in cattedra e si mise a scrivere su certi suoi quaderni.
Umberto Grieve, invece di copiare il suo esercizio, si mise a scarabocchiare sul suo quaderno. Lo riempí completamente di disegnini di pesci, di pupazzetti, e di quadrettini. Nell'ultima pagina disegnó questa figura:
Dopo un po' il maestro si fermó e chiese:
- Allora, avete finito?
Bene – disse il maestro – scrivete ben chiaro il nome in fodo alla copia.
Proprio in quel momento suonó la campana della ricreazione.
I bambini cominciarono subito a far gazzarra e uscirono correndo in cortile.
Paco Yunque aveva copiato molto bene il suo esercizio e andó in cortile con il suo libro, il quaderno e il lapis.
Nel cortile arrivó subito Umberto Grieve e afferró Paco Yunque per un braccio dicendogli con collera:
Vieni a giocare.
Lo spnse con forza in mezzo al cerchio e fece cadere il libro, il quaderno e il lapis.
Yunque faceva quello che gli ordinava Grieve, ma era tutto rosso e vergognoso perché glin altri bambini vedevano come lo trattava Umberto. Paco Yunque aveva tanta voglia di piangere.
Paco Farina, i due Zuniga e altri bambini circondavano Umberto Grieve e Paco Yunque. Il bambino magrolino e pallido raccolse il libro, il quaderno e il lapis di Yunque, ma Umberto Grieve glieli strappó via con la forza, dicendogli:
Lasciali! Non ti immischiare, Paco Yunque è il mio servo!
Umberto Grieve portó in classe le cose di Paco Yunque e le mise nella sua cartella. Poi ritornó nel cortile per giocare con Paco Yunque. Lo prese alla nuca e lo fece piegare e mettersi a quattro zampe.
Resta così, tranquillo e non muoverti finché io non te lodica.
Umberto Grieve si ritiró a una certa distanza e si mise a correre da lì per saltare su Paco Yunque con una mano appoggiata sulle sue spalle e dandogli un violentissimo calcio nel sedere. Tornó ad allontanarsi e a saltare su paco Yunque dandogli un altro calcio. Stette a giocare cosí a lungo, Furono piú o meno venti salti e venti calcioni.
Poii, di colpo si udí un pianto. Era Yunque che stava piangendo per i calcioni dell'Umbertino. Allora Paco Farina uscí dal cerchio che avevano formato i bambini e si piantó davanti a Paco Yunque dicendogli:
No! No! Non ti lascio saltare sopra Paco Yunque!
Umberto Grieve rispose minaccioso:
Oh! Paco Farina! Ti spacco la faccia!
Farina peró non si muoveva e restava teso davanti a Grieve dicendogli:
Siccome è il tuo servo lo picchi, gli salti sopra e lo fai piangere, salta e vedrai!
I due fratelli Zuniga abraccaiarono Paco Yunque e gli dicevano di non piangere e lo consolavano:
Perché lasci che ti tratti cosí? Picchialo! Saltagli sopra anche tu! Perché lo lasci fare? Non essere vigliacco! Basta! Non piangere! Adesso andiamo a casa!
Paco Yunque contunuava a piangere e le sue lacrime sembravano affogarlo.
Si formó un gruppo attorno a Paco Yunque e un altro attorno a Umberto Grieve e a Paco Farina.
Grieve diede uno spintone brutale a Farina e lo buttá a terra. Giunse un alunno piú grande, del secondo anno e difese Farina, dando un calcio a Grieve e un altro alunno ancora maggiore, uno del terzo difese Grieve dando uno sberlone furioso a quello del secondo. Per un certo tempo piovvero calci e ceffoni tra i bambini, una vera rissa.
Suonó la campana e tutti i bambini ritornarono nelle loro aule.
Paco Yunque lo trascinarono per le braccia i fratelli Zuniga.
Nell'aula di Prima regnava un gran chiasso, quando entró il maestro tutti tacquero di colpo. Il maetro li vide tutti molto seri e disse con voce militare:
Seduti
Rumore di banchi cartelle e tutti gli alunni già stavano seduti.
Allora il maestro si sedette ala sua cattedra e chiamó i bambini in ordine alfabetico perché consegnassero le copie con gli esercizi scritti sui pesci. Mano a mano che il maestro riceveva le copie le andava leggendo e scrivevav i voti in alcuni libri con una matita.
Umberto Grieve si avvicinó al banco di Paco Yunque e gli restituí il linro, il quaderno e la matita. Prima, peró, aveva strappato la pagina sulla quale stava l'esercizio di paco Yunque e vi aveva messo la firma.
Quando il maestro disse: - Umberto Grieve -, questo presentó l'esercizio di Paco Yunque come se fosse il suo.
E quando il maestro disse. - Paco Yunque -, egli si mise a cercare nel suo quaderno la pagina sulla quale aveva scritto il suo esercizio e non la trovó.
La ha persa o non ha fatto proprio l'esercizio? - chiese il maestro.
Paco Yunque non sapeva che cosa era capitato alla pagina del suo quaderno e pieno di vergogna, restó in silenzio e abbassó il capo.
Bene, - disse il maestro e annotó in uno dei suoi libri la mancanza di Paco Yunque.
Poi vennero tuti gli altri a consegnare ciascuno il proprio esercizio. Quando il maestro ebbe visto il lavoro di tutti, ecco, improvvisamente entrare il Direttore della Scuola.
Il maestro e i bambini si misero in piedi con rispetto. Il Direttore guardó come se fosse arrabbiato gli alunni e disse ad alta voce:
Seduti!
Poi chiese al maestro.
Lei sa giá chi è l'alunno migliore di questa classe, hanno giá fatto l'esercizio settimanale di classificazione?
Si, Signore, hanno appena finito di farlo e Umberto Grieve ha avuto il voto più alto.
Dov'é il suo esercizio?
Eccolo qua, signor Direttore.
Il maestro cercó tra i fogli degli alunni e trovó l'esercizio firmato da Umberto Grieve. Lo diede al Direttore che esaminó a lungo la copia.
Molto bene – disse il Direttore, contento-
Salì in cattedra e guardó severamente gli alunni. Poi disse con la sua voce un poco roca ma energica:
Di tutti gli esercizi che avete fatto, il migliore è quello di Umberto Grieve. Cosí il nome di questo bambino sará scritto nel Tabellone d'Onore di questa settimana, come l'alunno migliore del primo anno. Venga fuori Umberto Grieve.
Tutti i bambini guardarono ansiosi Umberto Grieve che uscì pavoneggiandosi e si fermó dritto e orgoglioso davanti alla cattedra del maestro. Il Direttore gli diede la mano e gli disse:
Molto bene, Umberto Grieve, felicitazioni. Tutti i bambini dovrebbero essere così. Molto bien.
Si rivolse, poi, agli altri alunni e disse loro:
Tutti voi dovete fare come Umberto Grieve. Devono essere buoni alunni come lui. Devono studiare e applicarsi come lui. Devono essere seri, educati e rispettosi come lui. E cosí facendo riceverete tutti un premio alla fine dell'anno e anche i vostri nomi saranno scritti nel tabellone d'onore della Scuola come quello di Umberto Grieve. Speriamo che la settimana prossima ci sia un altro alunno che si comporti bene e faccia un buon esercizio come quello che ha fatto Umberto Grieve. Lo spero proprio.
Il direttore restó un po' in silenzio. Tutti gli alunni erano pensierosi e guardavano Umberto Grieve con ammirazione! Che forte l'Umberto! Che buon esercizio ha fatto!
Proprio buono! Il migliore di tutti! Anche se arriva tardi! E se picchia tutti! Peró lo vedevano coi loro occhi! Aveva stretto la mano al direttore! Umberto Grieve, il migliore di tutti quelli di Prima.
Il Direttore si congedó dal maestro, fece un cenno agli alunni che restarono immobili per salutarlo e uscí:
Poi il maestro disse:
Seduti!
Rumore di banchi. Gli alunni stavano seduti.
Il maestro ordinó a Grieve di ritornare al suo posto. Umberto Grieve, molto allegro, tornó al suo posto e passando davanti a Paco farina gli fece una linguaccia.
Paco Farina diss a bassa voce a Paco Yunque:
Guarda, il maestro sta scrivendo il tuo nome nel suo libro, perché non hai presentato l'esercizio. Guardalo! Ti dará una punizione, resterai qui a scuola senza poter ritornare a casa. Perché hai strappato il tuo quaderno? Dove lo hai messo?
Paco Yunque non rispondeva niente e restava con la testa bassa.
Eddai! - Ripeteva Paco Farina – Rispondi! Perché non rispondi? Dove lo hai lasciato l'esercizio?
Paco farina si chinó per sbirciare il volto di Paco Yunque e vide che stava pinagendo.
Piantala! Non pinagere! Non devi star male! Vieni andiamo a giocare con la mia scacchiera! Ci sono le torri nere! Piantala! Non fare lo scemo! Non piangere.
Paco Yunque continuava a piangere accoccolato.

giovedì, ottobre 09, 2008

Cesare

Morire di giovedi, Cesare
Nell'acquazzone, a Parigi
Perchè non si ha piú la forza
Di trascinare tante stanze d'albergo
Nelle tasche del cappotto
E nemmeno di trascinare le tasche
Piene di pezzetti di rabbia e di mondo
Torsoli di dolore
Morire di sera a Parigi, un giovedi
Mentre piove
E la tua cagnetta bianca
Rabbiosa morde quello che resta della tua caviglia
Perché hai impegnato tutte le tue ossa
Per comprare quel tavolo di noce
Al quale apparire seduto per sempre
In camicia perfettamente bianca
Mentre scrivi versi su giovedi
e su quelli che muoiono soli

Sestri

Di Sestri ora ricordo tante corde
Corde di canapa, corde vere, secche o umide
Amiche del palmo della mano
Fino a ferirlo
Di Sestri ricordo corde e corde
Non quelle dei panni stesi
Solide corde intrecciate, invece,
Come devevano essere i capelli delle paesane
Quando l'uomo ancora esisteva e a Sestri c'erano fiumi
Uno si chiamava Chiaravagna
Che scendevano tra le canne e i fichi fino alla riva del mare
Io non mi ricordo i fiumi, mi ricordo di corde e corde
Anche esse serpeggianti come gli orbetti dei torrentelli
E la luce ricordo
Tra corda e corda
Lavare una a una le crose
Appena sveglia liberata dal lenzuolo azzurro del mare

mercoledì, ottobre 08, 2008

andava spegnendosi in me

Genova e la sua leggenda andavano spegnendosi in me
Non si ramificavano in episodi secondari non mettevano
Foglie né gemme resinose.
Soltanto il mare restava, restava laggiú lontano e definito
Come un mattone immenso di cobalto e di rame
Pesante sul destino di tutti coloro che respirano
Rendendo lenti, e viscosi gli aloni di tutte le anime
Genova e la sua leggenda si spegnevano
Si spegnevano in me in una fugace rincorsa di platani
In alberi maestri abbandonati nei campi di giugno
In un mare di grano, in ondeggianti sottovesti bianche
Avanzavano gli ultimi mattini di Genova con passo
Da top model dimentichi di blasoni e di grifoni
Di spille da balia e di cammei
E anche io andavo spegnedomi nei viaiai delle risacche
Mi spegnevo in Genova e in me lasciando che mare
E schiuma scalzassero il grande fico dell'orto
Sotto il quale sedeve Bertin il patriarca fumando con un grillo
Sulla spalla respirando con profonda soddisfazione
L'odore del fruttosio e quello del letame.

Soria della Calligrafia Cinese

Breve documentario della televisione cinese dove si parla anche di Wang Xizhi e della sua calligrafia nel parco delle peonie

Storia della calligrafia cinese Zhi Yong (VI sec. d.C.)


Zhi Yong fu discendente di settima generazione del grande mestro Wang Xizhi. Non seguì la tradizione della sua famiglia i cui componenti erano tutti grandi funzionari dello stato o uomini politici ma preferí entrare in un monastero.
Nella torre del monastero Yong Xin Shi nella cittá di Wu Xing nello Zhe Jiang per trenta anni, senza interruzione si dedicó a studiare il Xingshu Qianziwen dell'avo Wang Xizhi e si dice che giunse a copiarlo fino a ottocento volte.
Distibuiva le copie che realizzava nei monasteri lungo lo Yangzi perchè serviseero da modello per tutti coloro che si dedicavano a questa arte.
Attraverso questo duro esercizio giunse ad assimilare perfettamente la maestria e la purezza ineguagliabili di questo testo il cui titolo significa: “Poema di mille caratteri”. Si tratta di un'opera composta durante il regno dell'Imperatore Wu di Liang da Yin Tie Shi e Chu Xin-tu che trassero mille caratteri dalle opere di Wang Xizhu e li ricopiarono poi uno ad uno su fogli separato. Questi fogli furono poi riuniti in modo da formare un poema dotato di senso di versi cuadrisillabi rimati.
Il piú grande calligrafo dell'epoca che era Xiao Cu-yun, realizzó una copia del poema sulla carta e questa copia fu poi incisa su una stele per ordine dell'Imperatore.
Tutto questo lavoro ricevette come ricompensa il sigillo imperiale con il carattere Chi.
Il carattere fu apposto sulla prima edizione cartacea.
Il sigillo contenente il carattere Chi significa che la calligrafia realizzata contiene innovazioni sia nella composizione sia nel tratto.
Nessuno dei mille caratteri del poema si ripete nel testo.
Zhi Yong è considerato come un anello di passaggio tra la calligrafia tradizionale creata dal suo antenato Wang Xizhi e quella della dinastia Tang..
Dei suoi caratteri è stato detto che sembrano caduti dal cielo senza lasciare tracce del movimento del pennello.
Ci sono giunte solo due copie delle sue opere che si trovano oggi in una collezione privata di Kyoto.

A cura di genseki