domenica, febbraio 14, 2010
Ancora su Catholic Worker
Dorothy Day, Peter Maurin e tutti gli altri perseguirono il sogno di istituire un vero ordine mendicante nella societá industriale, anzi nella societá capitalista e industriale per eccellenza, quella degli USA. Probabilmente fu, fino ad oggi, l'ultimo tentativo o uno degli ultimi tentativi di questo tipo. Io non sono a conoscenza di altri. Gl ordini mendicanti sono scomparsi progressivamente col progressivo scomparire del mondo contadino e dell'ordine sociale tradizionale. Le forme moderne di organizzazione ecclesiale sono piuttosto i “Movimenti” come “Sant'Egidio” o “i Kiko” in Spagna che mantengono molte volte un piccolo nucleo monastico, ma certamente non mendicante. Qualche cosa che sembra piuttosto uno spauracchio che un modello. Se sia possibile un ordine mendicante nel mondo dell'economia assoluta e del consumo è una questione forse oziosa. È concretamente possibile quello che nella storia si manifesta concretamente. Certo il tentativo del Catholic Worker fu un nobile fallimento. restó confinato nell'ambito dell'anticonformismo e nell'emarginazione culturale. Eppure è un fallimento da cui si irradia una luce che ancora ci illumina. Certo Dorothy day e i suoi un successo nemmeno tanto piccolo lo ebbero e fu quello di non essere iconizzai, di non diventare simboli buoni per qualsiasi uso come Madre Teresa o Che Guevara. Questo giá indica che il cammino da loro indicato era piú prossimo alla veritá, piú fecondo di quanto il fallimento lasci pensare e che per questo non cessa ancora di essere un modello.
Il fallimento è il dono che è dato a chi serve la veritá e che li permette di spogliarsi, di farsi trasparente, di accettare l'autunno della propria coscienza e di permanere in esso fino al glorioso inverno dello splendore.
Certo Dorothy Day volle testimoniare il cattolicesimo nel cuore della metropoli meno sacra della storia, volle radicarlo nella sua forma di Civitas Cristiana, nel centro della City inumana del morto valore di scambio e per farlo dovette farsi eretica.
Per rendere possibile l'ortodossia dovette rivestirsi dell'eresia, Farsi patara o bogomila per essere davvero radicalmente ortodossa.
genseki
venerdì, febbraio 12, 2010
Catholic Worker
genseki
Peter Maurin
Che un santo era morto nel quartiere dei mendicanti.
Peter Maurin il Santo agitatore
Predicava nei parchi:
“Licenziate i padroni” o
“Dare e non togliere
Rende l'uomo umano”
Con un solo vestito stropicciato e non della sua taglia. Senza un giaciglio
Nella casa che lui stesso fondó, neppure un angolo per i suoi libri.
Camminava senza far caso ai semafori.
...
E lei consagrata da allora a
“Opere di misericordia e di rivolta”. Una vita
Di quotidiana comunione e partecipazione
In ogni sciopero, manifestazione, marcia, protesta o boicottaggio,
Qui vengono a lavorare senza stipendio studenti, seminaristi
Professori, marinai, mendicanti, e a volte restano
Tutta la vita. Molti sono stati in prigione o ci stanno.
Hennacy digiunava davanti agli edifici del governo
Con un manifesto, distribuendo volantini e vendendo il giornale
E non pagava le tasse perché l'85% è per la guerra
Lavorava come bracciante nei campi per non pagarle.
Hugh magro, con i pantaloni corti sandali e poncho
Jack English, un brillante giornalista de Cleveland
Fu cuoco del Catholic Worker e poi si fece monaco.
Roger La Porte era bello e biondo aveva 22 anni: si sacrificó
Dandosi fuoco impregnato di benzina davanti alle nazioni Unite.
Un vecchio ex-marine, Smoky Joe, che lottó contro Sandino
In Nicaragua, morí qui convertito alla non violenza
Qui lavoró Merton prima della Trappa.
Il giornale si vende a 1 centesimo
Come lo vendette Dorothy Day per la prima volta
A Union Square il Primo Maggio del 1933
Il terzo anno della depressione
12 milioni di disoccupati
E Peter con il giornale cercava di fare una rivoluzione piuttosto che pubblicare opinioni
Le pentole fumano
Comnciano ad arrivare i poveri, i senza fissa dimora, quelli del Bowery
Fanno la coda. “Ecco gli altri USA” dice Dorothy
Gli uomini sradicati dalla macchina
E abbandonati dalla Santa Madre Stato.
Grida. Uno entra dando calci e spintoni
Due del catholic Worker lo portano fuori con calma.
“ Non chiamiamo mai la polizia perché crediamo nella non Violenza”
E mi dice: Quando fui a Cuba
Vidi che Sandino era un eroe
Ne godetti. Perché da giovane avevo raccolto denaro per lui.
Ernesto Cardenal
Trad genseki
giovedì, febbraio 11, 2010
Il Postino Cheval
Il Postino Cheval è il Lautréamont dell'architettura. Breton lo ha sacrificato per noi e ce lo ha servito nei modi dovuti per sempre nuovi festini.
Il palazzo ideale visto nella realtá è l'opera di un ortolano ossesionato dalla fertiltá. Un ortolano che coltiva la sua immaginazione come le melanzane.
genseki
Postino Cheval
E che ogni notte formiamo un solo ramo fiorito dalle tue spalle fino alle stanghe della tua carretta animata
Ci strappiamo con vivacitá di scintille dal tuo polso
Siamo noi i sospiri della statua di vetro che si solleva sul gomito quando l'uomo esce
E brillanti fenditure si aprono nel suo letto
Fenditure da cui si scorgono i cervi dalle corna coralline in una radura
E donne nude sul fondo di una miniera
Te ne ricordi ti alzavi allora e scendevi
Dal treno
Senza degnare di uno sguardo la locomotiva in preda alle immense radici barometriche
Che si lamenta nella foresta vergini delle caldaie ferite
Con i camini dal fumo di giacinto mossa dai serpenti azzurri
Ti precediamo allora noi le piante soggette a metamorfosi
Che ogni notte facciamo segni che l'uomo puó comprendere
Mentra la sua casa rovina e si meraviglia degli incastri singolari
Che il suo letto va provando con il corridoio e con la scalinata
La scalinata che si ramifica indefinitamente
E conduce alla porta di un frantoio che sbocca di colpo in una pubblica piazza
A schiena di cigno che apre un'ala come un rampa
Gira su se stesso come se dovesse mordersi ma no si accontenta d'aprire i suoi scalina ai nostri passi
Come cassetti
Come cassetti di carne dalla maniglia di capelli
Ora che migliaia di germani si pettinano le piume
Senza voltarti afferravi la cazzuola per modellare i seni
Ti sorridevamo cingevi la nostra vita
E assumevamo i modi i modi del tuo piacere
Immobile sotto le nostre pupille per sempre come la donna ama vedere l'uomo
Dopo l'amore,
André Breton
Clair de Terre
trad. genseki
mercoledì, febbraio 10, 2010
Il volo rosso
Il volo rosso dei colombi crepitava
Come un incendio di zolfanelli
Tra la nascente geometria degli olivi
Tutto continuava a colare: latte
Sangue e miele
Nella nebbia di zafferano.
Lo zoccolo appena oltre la vista
Spezzava l'asse dell'ora
Quando?
Palizzata di canne e palma
Scacchiera di ere adesso ritagliavano
L'immagine di un altro trapasso.
genseki
La Dama Bunducchia e Dreiser Cazzaniga
Come accadde che la dama Bunducchia finisse tra le braccia di Dreiser Cazzaniga resta un mistero.
Allora Dreiser Cazzaniga soleva vestire di nero, sbandierava una lunghissima barba incolta che, come avrebbe capito solo molti anni dopo contribuva a mantenerlo in uno stato perenne di leggera tensione e nervosismo, Fu Cesare che gliela presentò, un gigantesco campiere rivoluzionario sempre vestito di fresco lino e panama ecuadoriano.
Cesare lo convinse che Bunducchia non era poi cosí brutta che il guerrigliero caribico non era poi così imprescindibile, che lui sì che avrebbe voluto goderne con una stretta feroce (di Bunducchia non del guerrigliero), che aveva programmato un fine settimana in Versilia, che aveva prenotato un albergo.
Dreiser Cazzaniga si ritrovó nel letto della dama Bunducchia che lo stringeva e si sfregava sulla sua pelle come una pietra pomice. Dreiser Cazzaniga non poté aprire gli occhi per tutto il tempo della relazione che allacció con la dama Bunducchia. Aveva vergogna del mondo, aveva paura della bocca sdentata della vecchia Bunducchia, aveva paura del suo proprio linguaggio che andava disfacendosi con il proggredire di quella scorticante relazione. La dama Bunducchia era insaziabile. Dreiser Cazzaniga poteva solo chiudere gli occhi prigioniero di quel suo incantesimo inacidito. Come si puó arrivare a questo? Si domandava Dreiser Cazzaniga in quell'estate di rovente agonia salina che trascorse nell'arida Gallura. Tutte le sue menzogne salivano alla superficie della coscienza si manifestavano nella loro abbietta natura, bruciavano e sparivano una ad una nel lungo processo di purificazione dalla vergogna che costituivano i prolungati e violenti abbracci della Dama Bunducchia. Correva per i monti aridi, la mattina si scorticava nella macchia si lasciava bruciare dai raggi spinosi del sole. Ritornava affranto la sera ai banchetti sontuosi che Bunducchia gli faceva preparare. Calava la sera. Chiudeva gli occhi. Non dormiva.
a cura di genseki
martedì, febbraio 09, 2010
La camera nuziale
La camera nuziale era un cesto di fiamme
Si aprivano ferite tra le ore ed il vento
Nell'aria si pettinavano i lamenti piú antichi
Precipitavano
Da Venerdí a silenzio per tutte le ruote
Del firmamento
La camera nuziale rinviava le immagini
Di fiamme e rotazioni
Di ruote vertiginosamente rotanti
Intorno all'asse del tempo
Fiamme tracimavano dall'una all'altra coppa
La camera nuziale era il nido del tempo
Il tempo una carola di fiammelle
Cercava una mano il suo velo
Ogni mano il suo scialle ricamato
Chi restava per lo sposo?
Olio, mandorle birra.
genseki
lunedì, febbraio 08, 2010
I sufi d'Andalusia
Avevamo cercato per lui una moglie e avevamo cercato di fare le cose per bene. Accadde che io mi ammalai, e durante la malattia egli venne a farmi visita in modo che gli esposi il nostro progetto."Fratello mio", mi disse, "mi sono giá sposato e giovedi entrerò nella mia camera nuziale". Se ne andó. Qualche tempo dopo venne a trovarmi Umm az-Zahrá, una donna che era nella Via di Allâh e le spiegai l'assunto. Avendomi lasciato andó da lui e apprese che subito dopo aver lasciato la mia casa si era ammalato. Lei gli chiese del matrmonio e lui rispose: "O Fatima, mi sono giá sposato e tra cinque giorni entreró nella mia camera nuziale come ho detto a mio fratello Ibn 'Arabi. Lei gli chiese: "Con chi ti sposi? Perché hai tenuto segreto il tuo matrimonio?" Lui rispose: "Sorella mia saprai giovedí". Giovedí morí. Nella notte di venerdí entró nel paradiso. Secondo il volere di Dio come un novello sposo.
Ibn 'Arabi
I sufi d'Andalusia
trad. genseki
Nichita Stanescu
Per prima cosa stringi le spalle
Poi ti sollevi sulla punta dei piedi
Chiudi gli occhi
Ti tappi le orecchie.
Dici a te stesso:
Ora prenderó il volo.
Poi dici:
Eccomi in volo, tutto qua?
Stringi le spalle
Come i fiumi che si radunano in uno solo
Chiudi gli occhi
Come fanno le nuvole intorno al campo.
Ti sollevi sulle punte dei piedi
Come la piramide emerge dalla sabbia.
Rinunci all'udito
L'udito di un secolo intero
Poi dici a te stesso:
Adesso prenderó il volo
Dalla nascita alla morte.
Poi dici ancora:
Volo -
Era proprio il momento giusto.
Raduni i tuoi fiumi
Come le tue spalle
Ti innalzi tra belati di capre
E dici: Nevermore
E subito dopo: froufrou, flûte!
Sbatti le ali di un altro,
E poi
Diventi questo qualcun altro
Che, lui, resterá per sempre
Quel qualcun altro.
Trad. genseki
sabato, febbraio 06, 2010
Ion Barbu
L'Ultimo Centauro
L'ultimo giorno si affrettó da loco a loco
Attonito... Al tramonto ratto si dispiegó
Sul crepuscolo verde, screpolando il travertino
Con il calice reale dei pensieri nella bestia cresciuti...
Fusero gli altopiani il raro blocco
Sera, al freddo bianco con la carne cosparsa
Uscí come chiocciola di vapore, mentre sradicato
Schiariva nella notte un cuore di fuoco.
Permanenente carnefice, l'ombra – lama, elsa -
Ricadde sulle braci con i suoi fili gravi
E la sfera lucente si dissolse in frammenti.
Già s'addorme la terra. Nessun centauro errante:
Solo il trotto mai spento della limpida mandria
È sogno di miniere di sorgenti dorate.
Trad. genseki
venerdì, febbraio 05, 2010
Bilinguismo
Glles Deleuze - Claire Parnet
Conversazioni
Sulla cresta
L'avanzata del sale in grandi getti
In cristalli in frequenti crolli,
Proprio sulla soglia tra il mare e le ali
nel punto esatto in cui si apriva
Il taglio la fenditura erosa scorticata
Come la lingua che negava ogni parola
Deglutiva, peró, sillabe come sciroccoo
Iodio celeste silenzio tra scoppio e scoppio.
genseki
giovedì, febbraio 04, 2010
Ereditá
Li vedrai gli occhi del pesce
Spalancati tra tutte quelle radici
Piangere fiotti di lacrime nere
Li vedrai gli occhi del pesce
Sperduti come le mani nell'autunno
Uno qua uno là tra le radici
Tra quegli autunni d'ororame
Stesi a marcire sugli steli morti
I ciottoli erano un fiume, in autunno
Ricordi? I pesci si perdevano tra i capelli
I tuoi - ciocche di riccioli, glebe
Ove ora la pala insiste, affonda
Cerca la luna, giú ancora piú a fondo
Come se pozzo fosse ove giace il cielo
Nel ricordo perduto dell'antico fiume
galleggiano come vesciche gli occhi dei pesci
E le tue mani e le tue piaghe e le ciocche
d'ororame dei capelli. Era autunno.
Cava, adesso! Pú a fondo. Fino agli occhi.
La tue mani saranno per gli eredi.
genseki
mercoledì, febbraio 03, 2010
Asura
La testa di Husayn
O Husayn, amato da Dio tra molti,
Il tuo corpo è sepolo nelle sabbie del'Iraq
La tua testa sulle sponde ondulate del Nilo.
Due mondi ti rendono omaggio nei due mausolei
Due riflessi in un piano d'anima maestosa.
La tua testa fu tagliata in quel giorno di lutto,
La asura in cui il cosmo pianse il tuo decesso.
La tua testa divenne spazio di vita
Nella terra dei faraoni e dell'Islam.
Una cittá intera è cresciuta in
Intorno alla tua nobile testa tagliata
Che ancora orbita intorno all'asse della tua tomba
Che diffonde una baraka palpabile ai sensi.
I fedeli pregano nella tua moschea,
I sufi intonano i nomi di Dio
Le nascite e le morti
Ritmano le visite ai tuoi luoghi santi
O Hussayn,
Tu che fosti luce degli occhi
Di chi Dio amó sopra tutte le creature,
Mentre il tuo corpo è testimone dei lamenti dei pellegrini
E dell'agonia degli afflitti sul cammino della terra
La tua testa detta il ritmo della vita in questa vasta cittá
La tua testa cuore della medina della Vittoria
La tua qahira in cui vivono e hanno vissuto santi e poeti
Celebrando con le loro vite e le loro azioni quella Veritá
Per cui hai sparso il tuo sangue benedetto
Per la quale hai dato la vita.
La tua moschea al Cairo è chiara testimonianza
Del trionfo di ció che è vissuto nella Veritá,
Percé anche se l'errore passa per la realtá,
Finisce per evaporare con la nebbiolina dell'alba
Davanti al sole della Veritá Suprema che sorge
Per la quale sei morto,
Martire esemplare,
Quella Veritá verso la quale ci conducono
Le tue reliquie terrene attraverso la baraka che spargono,
Evocando il messaggio della tua vita
Che è il trionfo finale della Veritá,
Essa sola avrá l'ultima parola.
16 Aprile 1967
trad. genseki
Culla
I pollici impastavano fili di polline
Lo strofinaccio bisunto ricordava
Il tepore del latte della madre
Smunto il formaggio si faceva nido
Nel cavo della clavicola, la scapola
Sbocciava a volo d'ape,
O mia cera sensata, modellata
Appena sul ritornello del fiato
Tra le lenzuola attente di novembre
Azzurra come la luna sulla culla
Dove il sogno di tante altre carezze
Ti afferrava i piedini come fiori
genseki
martedì, febbraio 02, 2010
È cercandolo che ve ne separate
La rete degli insegnamenti dispensati dai tre veicoli veicoli contiene molte cure e rimedi opportuni. È nella pratica viva e concreta che si applicano e non ve ne sono due uguali. Se lo comprendete non vi potrete piú sbagliare. Per prima cosa dovete perdere ogni attaccamento ai testi sulla base dei quali venite costruendo le vostre teorie, perché questi testi contengono degl insegnamenti che si riferiscono a determinate circostanze concrete, e non esiste un metodo propriamente detto che possa essere insegnato dal Tathagatha. La nostra scuola non ha tesiCu relativamente a questo. Noi ci accontentiamo sapere che il riposo è la calma dello spirito e che allora non vi è piú bisogno di produrre pensieri che si concatenano.
Dialogo II
Si sente dire sempre che lo spirito è il Buddhha ma io ancora non ho compreso di quale spirito si tratti?
Quanti spiriti ci sono in voi?
Insomma è lo spirito ordinario o quello straodinario che è Buddha?
Ma dov'è che avete uno spirito ordinario e uno straordinario?
I tre veicoli hanno sempre insegnato che vi è uno spirito ordinario e uno straordinario, allora perché lei, dice che non vi é nulla di simile, maestro?
I tre veicoli dicono e lo dicono chiaramente che è falso distinguere tra spirito ordinario e spirito straordinario. Siccome non lo capite vi mettete subito a cercare l'esistenza di uno spirito o di un altro, cioè a fare proprio il contrario e prendete il vuoto per una cosa concreta. È un grave errore e questo errore vi allontana dallo spirito.
Solo quando avrete cacciato i “vostri sentimenti ordinari sullo straordinario”, allora non vi sará Buddha se non nel vostro spirito. Il primo Patriarca è venuto da Occidente per mostrare direttamente all'uomo la buddhitá di tutto il suo essere. Ma voi non ve ne rendete conto, vi attaccate ai concetti di ordinario e di straordinario, galoppate in tutte le direzioni fuori di voi, e, naturalmente, finite per distogliervi sempre di piú dallo spirito. È per questo che si dice che lo spirito è Buddha. Se solo per un istante sorge un'altra emozione cadete in preda a un altro destino. Oggi, come da tempo senza inizio, non esiste nessun altro metodo spirituale.
Per quale ragione, Reverendo, lei dice che lo spirito è il Buddha?
Che ragioni andate mai cercando? Non appena en avete trovata una ecco che vi separate dallo spirito.
Lei dice che le cose stanno cosí da un tempo senza inizio, per quale ragione?
È cercandolo che ve ne separate. Se non cercate dove sta la distinzone?
Se non vi è distinzione perchè ricorrere al verbo essere?
Se non discriminate tra ordinario e straordinario dove sta il predicato? Se “essere” vale come “non-essere” lo spirito non è nemmeno spirito. Una volta dimenticato tutto ció che riguarda lo spirito dove cercarlo ancora?
Huang-po
Dialoghi
trad. a cura di genseki
Alcol
a cura di genseki
lunedì, febbraio 01, 2010
Battesimo
Celebrammo il nostro battesimo
Fummo battezzati nel latte
Come scorie appassite di mughetto
La lingua dell'erba era piú bianca
Del tuo fiato e della mia costanza
Nelle tuniche viola ci stringemmo
Tu mi dicevi tutte le tue dita
Io ti cantavo il mio fiato e le orme
Che sfilacciano i rami degli ontani
I voli silenziosi mi dicevi
Da nocche e da pupille e poi gli specchi:
Fammi d'ogni tua sillaba riflesso
Laggiù nel fondo delle tue pupille
Dove scorre rovente la visione
Che alle nostre labbra come nebbia
Ci lasciava ubriachi tra le mandorle
Ma la terra riempiva ora le bocche
L'odore della terra nelle palpebre
Il peso delle terra sui menischi
Terra respiravamo come un bacio
E fummo infine piú bianchi del latte.
genseki
Il silenzio
Luigi Nono
Il silenzio.
È molto difficile ascoltarlo.
È molto difficile ascoltare , in silenzo, gl altri. Altri pensieri, altri rumori, altre sonoritá, altre idee. Attraverso l'ascolto, cerchiamo abtualmente di ritrovarci negli altri. Vogliamo ritrovare i nostri propri meccanismi, il nostro proprio sistema, la nostra razionalitá, nell'altro.
In questo vi è una violenza totalmente conservatrice.
Invece di ascoltare il silenzio, di ascoltare gli altri, speriamo di ascoltare ancora una volta di piú noi stessi. Questa ripetizione è accademica, conservatrice, reazionaria. È un muro elevato contro il pensiero, contro quello che ancora non si puó spiegare. È il prodotto di una mentalitá sistematica basata sugli a priori interni de esterni, sociali o estetici. Amiamo il confort, la ripetizione, i miti: amiamo ascoltare sempre la stessa cosa, cone le sue pccole differenze che ci permettono di dimostrare la nostra intelligenza.
Ascoltare musica.
È qualche cosa di molto difficile.
Credo che oggi sia un fenomeno raro.
Ascoltiamo abitualmente in modo letteraro, ascoltiamo quello che si è scritto, ci ascoltiamo ...
L'errore rompe le regole. È una trasgressione. È opposizione alle istituzoni stabilite. È ciò che ci permette di intravedere altri spazi, altri cieli, altri sentimenti all'interno e all'esterno, senza dicotomie tra i due, contrariamente alla mentalitá banale e manichea sostenuta oggi.
Risvegliare l'udto, gli occhi, il pensero, il massimo d interiorizzazone esteriorizzata: questo oggi è essenziale.
Luigi Nono
Intrevista a “Contrechamps”
Trad. e selezione genseki
sabato, gennaio 30, 2010
Gypsy holocaust Auschwitz song Latcho Drom
La prima volta che apprendemmo che i nostri amici venivano macellati ci fu un grido d’orrore. Poi ne vennero massacrati cento.
Ma quando ne rimasero uccisi mille e il macello non finiva, si estese una coperta di silenzio. Quando il male arriva come la pioggia, nessuno urla: alt!
Quando i crimini si ammucchiano diventano invisibili.
Quando le sofferenze diventano insopportabili, le grida non si sentono più.
Anche le grida cadono, come pioggia d’estate.
Bertolt Brecht
Dreiser Cazzaniga e la meraviglia
Eppure la meraviglia si trova intessuta a tutta la sua vicenda vitale. La meraviglia per la neve che sempre ritorna e che sembra cambiare il mondo per sempre. Poi se en va si scioglie e sembra che non ci sia mai stata. La meraviglia per la camminata di una ragazza sul marciapiedi davanti al bar in cui sta comprando il biglietto del treno e tante altre meraviglie di tipo minimalista come quelle di Amélie o del primo sorso di birra, insomma.
In realtá anche piú meravigliosa è la meraviglia oscura, la meraviglia per la testardaggine dei malvagi, per esempio, per la loro astuzia paziente, per la noncuranza dei violenti, per la viltá dei vinti, per la propria viltá.
La meraviglia oscura ebbe su Dreiser Cazzaniga un potere forse maggiore dell'altra. Questa è una affermazione dubbia perché effettivamente Dreiser fu sempre semplicemente schiacciato, annientato dalla meraviglia della natura. La meraviglia che sempre lo attendeva all'entrata di un sentiero nel bosco, alla scoperta di una radura, all'apparizione di una nuova sfumatuta dell'autunno.
Meraviglia e vergogna furono i due poli dell'anima rinsecchita di Dreiser Cazzaniga, almeno fino a quando non scoprí il sarcasmo e la frenesia dell'umorismo.
Un giorno la mamma comunicó solennemente al piccolo Dreiser Cazzaniga che il tempo era venuto per lui di scendere a giocare al patio con gli altri mocciosi e matotti di Briggio. Dreiser non sapeva che cosa fosse il patio, dalla finesta della cucina vedeva gli abeti sui fanchi dei monti che separavano Briggio dalla cittá che un grand'uomo batezzó Pastrufazio sventolare come manti d'avventura e rabbrividí di verde.
Il patio invece era un terreno tra i condomini recentemente innalzati, pieno di detriti metallici, mucchi di sabbia, pozze e scheletri di furgoni militari ianchi della lontana guerra dei padri rossi.
Accoccolato nella sabbia in un circolo col branco dei matotti Dreiser si sentí sereno, sicuro, concentrato a muovere un piccolo camion su strade immaginarie quando un moccioso scuro scuro chiamato Roberto gli gridó:
-ragno, ragno, sembra un ragno con quelle bianche gambette secche secche!
Dreiser non rispose la meraviglia gli colava in gola. Sorsi amari furono quelli. Perché, perché? Pensava e gli doleva il futuro troppo lungo e piano davanti alla sue mani incapaci di depredare.
a cura di genseki
venerdì, gennaio 29, 2010
Alamogordo
Le tue lacrime profumavano di miele
Come alcuni gelsomini sono latte
Le scostavi con una mano nuda
Come fossero cortina di pupilla
Entrava allora l'umido del lupo
Il roco alito del dirupo ventoso
E tante tante rose di caffé, sventate
Come fanciulle col primo completino di flanella
L'orbita sua era caverna al nostro tremare
Allo stringerci nei panni freschi dei tremuli
Pioppi
L'orizzonte era una sequenza di errori
Ritmati dai filari dei cactus.
genseki
giovedì, gennaio 28, 2010
Un amore di Dreiser Cazzaniga
Dreiser Cazzaniga passeggiava abbracciato a Stefi, la strizzava ma non la baciava, Stefi gli raccontava le pratiche sadomaso alle quali il fidanzato parmense era solito sottometterla nel fine settimana. Dreiser Cazzaniga non la vide mai nuda. Un volta lo invitó a dormire con lei nella sua casa di San Babila. Dreiser dormí sul divano lei gli versava il te in un bicchiere verde di quelli infrangibili avvolta in una camicia ibizenca dalle mille pieghe.
La mattina dopo Stefi gli raccontó che lo aveva sognato mentre entrava nella sua camera e le infliggeva larghe e profonde ferite slabbrate con un coltello da frutta arrugginito.
Dreiser Cazzaniga non la rivide mai piú.
genseki
Dialettica della memoria
Il “Giorno della memoria” è l'istituzionalizzazione della celebrazione rituale dell'unicitá e dell'eccezionalitá di quello che oggi viene comunemente chiamato “Olocausto”.
Il nazionalsocialismo tedesco segregó gli ebrei europei, li separó dalla comunitá umana li mise a parte come unici come eccezionali e giustificó in questo modo la necessitá del loro sterminio.
Proclamare oggi l'unicitá e l'eccezionalitá dello sterminio degli ebrei europei è assumere il punto di vista dei loro carnefici e consolidarlo.
Significa perpetuarlo attraverso la sua apparente negazione.
I nazisti commisero il genocidio perché considerarono gli ebrei a parte dell'umanitá, perché negarono il loro appartenere alla specie umana.
Proclamare l'unicitá dello sterminio degli ebrei relativamente a tutti gli altri stermini e genocidi che ritmano la millenaria preistoria umana è accettare questa loro separazione questa loro segregazione, significa fare proprio il punto di vista dei carnefici.
Lo sguardo con cui la vittima si guarda si confonde con quello con cui la guarda il suo carnefice.
Quello che si esecra è lo sterminio, ma si accetta la separatezza che en è la condizione teorica.
La negazione del nazismo sarebbe la negazione della separatezza, della segregazione sarebbe l'affermazione della comune dolente dignitá di tutte le vittime in quanto vittime e in quanto umane.
Affermare la natura unica e straordinaria dello sterminio significa accettare la logica che lo ha prodotto, perpetuarlo e quindi creare le condizioni per l'avvento e la giustificazioni di altri stermini, di altro orrore.
In questo senso la memoria è almento di odio sempre nuovo, condizione di possibilitá di altro orrore.
La perpetuazione della memoria non è la negazione dell'olocausto ne è la cattiva sintesi dialettica.
genseki
mercoledì, gennaio 27, 2010
Eduard Bagrickij (1895-1934)
*
Egli era considerato come la figura principale del "Romanticismo Rivoluzionario Sovietico" e si lodava soprattutto il suo indistruttibile ottimismo sovietico nonostante la salute molto compromessa e il suo impiego dei temi clasici della poesia popolare ucraina e di quella russa. In effettii nella sua poesia sono forti gli influssi di Robert Burns e del poeta nazionale ucraino Taras Shevchenko ma anche quelli dei Poeti Maledetti, dei parnassiani e dei romantici tedeschi.
Viktor Shklovskii scrisse:
Il poeta contemla l mondo attraverso lo stroboscopio del suo cuore...
Bagrickij morí a trentasette anni. I suoi capelli erano tutti grigi. Centocinquanta scalini separavano la sua stanza dal mondo. Adorava il sole, il sud, l'anguria, gli uccelli, il mare, la prmavera e tra lui e il mondo c'erano centocinquanta scalini.
Nella sua stanza c'era un pesce; il pesce nuotava in acqua azzurra. Il pese nell'acqua azzurra fu l0ultimo frammento di vita che poté vedere dal suo giaciglio.
Eduard Bagrickij (1895-1934)
L'ultima notte
Il fagiano esplose come un fuoco d'artificio
I pallini strapparono gli aghi dalle foglie.
L'uccello piomb'cometa di penne,
In uno scompiglio di albe primaverili.
L'Arciduca tornó a casa.
Si spoglió. Bevve del vino.
Il setter morbido gli si stese
Ai piedi, come una sfinge.
La pistola con cui fu ucciso
(Non ne ricordo il tipo)
Giaceva ancora dall'armaiolo
Fra una canna da pesca e un coltello.
Il futuro assasino sonnecchiava,
La testa reclinata
Sul duro pugno giovinetto
Coperto di bruno pelo.
A Odessa i castagni si vestivano di fumo
E quando scendeva la sera, il mare,
Ansando, si volgeva sul suo asse,
Simile a una ruota.
La mia finestra dava nel giardino
E nel crepuscolo, tra il fogliame,
Becchi di gas s'alzavano turchini
Sopra le insegne delle birrerie.
E su questa luce effevervescente
Rumoreggiando con un milione d'ali
Volavano gli stornelli a sfracellarsi
Contro i vtri e contro i cavi.
Primavera gl spingeva dalle rocce nere
Con la sferza ei venti di mare.
Uscii...
Dietro la porta mi si chiuse...
E la notte circondandomi
D'un moto d'ali, fiori e stelle,
Sorse in tutti gli angoli.
Oltrepasai le piccole case ebree.
Udivo il terribile ronfiare
Dei carrettieri stesi nei carri,
E nelle finestre si vedeva
Il sabato in parrrucca porporina
Che andava reggendo una candela.
Oltrepassai le piccole case ebree
Uscii al brillio delle rotaie
Al deposito tranviario si struggeva
Il lampione, circondato dalla grande primavera.
Avevo solo diciassette anni
E per questo certo la notte
Turbinava e respirava in me
E mi camminnava accanto.
Ero il suo specchio, il suo sosia,
Ero un secondo universo
I pianeti mi penetravano
Da parte a parte, come un bichier d'acqua,
E mi pareva che una luce leggera
Stillasse dai pori simile a sudore.
Oltrepassai il deposito tranviaruo
Dietro, imponderabile come il fumo
La via asfaltata, turbinando, volava
Ad occidente verso le onde del mare.
E d'un tratto udii un suono prolungato:
Sul mondo volava una tromba,
Languendo di passione. E io dissi
"Ecco le prime gru!"
Sulla polvere, sulla mia giovinezza
Passava echeggiando quella tromba,
E le stelle si gettavano da parte,
Con un palpito all'urto delle larghe ali.
...
trad. V. Strada
martedì, gennaio 26, 2010
Assente
Quando ti abbraccio stringo la tua assenza
Come tra i denti si asciuga lunga fame
Quando gli abeti si sfasciano a sciami
Mentre mi sfuggi respiro il tuo tepore
Viva presenza del tuo corpo in viaggio
Nelle contrade di granito e ghiaccio
Dove l'alloro è un sogno di metallo
E si stinge tra gli urti delle piume
La catastrofe oscura delle ciglia
Ti stringo assente come fossi pane
Per saziare la fame dei torrenti
Dorso d'anguilla lucida ti sciolgo
Perche mi sfugga all'orlo della bocca
Tutta la fresca estraneitá di un corpo
Che guizza e slitta dal mio deisderio.
genseki
lunedì, gennaio 25, 2010
Oltre
In cui l'animale alla soglia di se stesso
Sgorgava infine nel suo atto, nella negazione
Come sgorga il guanto dalle tua mano
E assume la casualitá della sua forma
Custodia del balenare tagliente
Delle tue unghie vere:
Il gatto dal nespolo transitava nel balzo
Per ricadere poi oltre se stesso
Con un cuore sanguinante e brandelli
Tra le fauci di un altro,
Mentre le tue unghie fredde
Azzurre ghigliottine delle pupille
Sorgevano incontro alla luna di settembre.
genseki
domenica, gennaio 24, 2010
La Bandiera Rossa
Nelle gallerie piú profonde del mio cuore ritroveró sempre l'andirivieni di quele innumerevoli lngue di fuoco alcune delle quali s attardavano a lambire uno stupendo fiore carbonizzato. Le nuove generazioni stentano a raffigurarsi uno spettacolo come quello di allora. In seno al proletariato non si erano ancora manifestati i dissidi di ogni tipo che hanno finito per lacerarlo.
Certo attorno alle bandiere nere le devastazioni fisiche erano piú sensibili, ma la passione aveva veramente traforato certi occhi lasciandovi dei punti indimenticabili di incandescenza, ra come se la fiamma fosse passata su tutti quegli uomini bruciandoli un po' di piú o un po' di meno...
André Breton
Da. "Arcano 17"
Antonio Porta
Lettera a Nina Lorenzini
21.12.1977
sabato, gennaio 23, 2010
Era un aprirsi
Di grandi foglie al fendere la ghiglia
L'impassibile palude della stanchezza
Soltanto un movimento di ventaglio
Negava il tempo e ne faceva perle
Una o due perle per ciascuna coppa
Da adesso a poi quindi da poi a prima
Era qualcosa come un dispiegarsi
Frullare forse schioccare da calice a calice
Dove il rumore si fondeva in luce
Liquida nelle bolle momentanee
Sfilare il tempo dalla guaina del desiderio
Era soltanto schiudersi di petali
Neri come campane di Bretagna
Quando il temporale gettava gli anni e i mesi
A manciate come stracci consunti
Sulle scogliere dove finiva il mondo
In un ansito asmatico di sputi.
genseki
Un circolo di circoli
Enciclopedia delle scienze filosofiche
Introduzione
Paragrafo 15
trad. B. Croce
venerdì, gennaio 22, 2010
Giocavamo alla luna
Giocavamo alla luna sulla lama delle colline
La luna che non c'era già piú la luna era nera
Scorreva la luna sulla tua schiena come scorre la luce
La luna al palmo della mia mano non osavi succhiarla
Eppure fu proprio la luna che ti accese lo sguardo
Quando ardeva la malaria come altre costellazioni
E ti consumava il mio fuoco come una perla
Sbucata da un vecchio guanto nell'armadio di nonna
Fino a rotolare tra i riccioli di formaggio
Le capriole delle scintille nel vecchio camino di Ippolito
Il paiolo della polenta che un poeta dialettale
Avrebbe invocato come la luna che si disfa nel feltro
Che tarme e falene sfarinano luna di febbraio
Luna spenta come paraffina con l'impronta
Dei nostri pollici unti.
genseki
giovedì, gennaio 21, 2010
Neve
Dalle orme dai voli spezzati nervature semi
Prima che tutte le ali fossero pietre
Lassú dove infine capovolto
Il cielo lasciava cadere i suoi corvi
Nel pozzo di strati infiniti del grigio
Corvi come stracci sbattuti qua e lá dal loro grido
Dal gracchiare che invano si sforzava
Di aprirsi in un segno rosso inesploso
O almeno di spezzarsi dolorosamente
In un cielo dai riflessi di cobalto
Il cobalto dell'avvento no! Il rosso
Non sgocciolava dalle colonne scistose
Che sorreggevano le volte vertiginosamente immobili
Dei grigi sovrapposti e la pioggia ancora non cadeva
A unire con i suoi fili i colori al loro significato
No! Non c'erano colori. C'era neve
Non c'erano significati negli schiocchi nelle orme
Dei passeri nelle righe delle ghiande come note
Sul pentagramma della radura
Un rintocco di rame sarebbe stato gelo
A rendere allora tutto piú giallo
Come occhio nell'uovo come uovo sognando
L'occhio pupilla di tuorlo
Le campane invece cigolarono grige
Come il bronzo nere come le aste dei campanili
Mentre il bianco pallido del sole
Soffiava sulla neve il suo alito di forfora
Sollevando in turbine spettrale
Frammenti di ali di farfalle screpolate dal gelo
Piume di albatros scacciate dalle antiche poesie
Caratteri dell'Olivetti lettera 32
Polvere di pneumatici fiori secchi d'ontano
Che furono dita delicatamente rose dal primo gelo
Di novembre
La neve fu il lenzuolo della scrittura
Il sudario del significato
La criniera gloriosa della terra
Ogni orma ogni traccia fu prova d'amore
genseki
mercoledì, gennaio 20, 2010
Jacmel
Viveva in una città
Che era una leggenda
Sulle coste del Mar dei Caraibi.
Chi lo voleva poteva
Trasformarsi in qualsiasi cosa
Un albero, per esempio,
Che cammina e beve del Rum,
Oppure un bue che suona l’organo
In chiesa alla domenica,
Un leone che fa becchi
Tutti i notai della città.
Lui, una sera della sua adolescenza,
Divenne un cavallo da corsa
Lo videro attraversare al galoppo Jacmel
Nitriva e invitava la gente
A venire a correre con lui nella strada.
Le porte e le finestre, però, restavano ben chiuse.
Poi, all’improvviso una ragazza è corsa fuori
Da una casa di Piazza d’Armi:
Era una delle più belle della città.
In camicia da notte
e sorrideva all’equadolescente
Quando egli venne accanto a lei
La ragazza si tolse la camicia
E balzò sullla sua schiena: lui prese a galoppare
Andò al galoppo senza fine nella notte
Facendo molte volte il giro di Jacmel.
Sentiva Adriana tutta nuda sulla sua schiena
Come il cielo notturno profuma di stoffa
Come la terra profuma dell’erba del mattino
Fiutava il suo sapore di ragazza.
Al galoppo, al galoppo nella notte
Sulla schiena l’astro di Jacmel
Sulla schiena tutta la gioia
Tutto il dolore di quella città.
E la paura e l’odio
sulla schiena
Al galoppo al galoppo nella notte
Coi baci
E tutti i sogni di Jacmel sulla schiena.
Al mattino andarono al mare
Dove si rinfrescarono a lungo,
Poi fu la volta del fiume
Per lavarsi il corpo dal sale.
Più tardi la fece scendere davanti a casa
Sotto gli alberi sbalorditi della piazza.
Quando riprese la sua forma di ragazzo
Aveva i fianchi coperti di sangue,
Delle fitte atroci alla spalle,
E tanto male al cuoio capelluto,
Restò a letto per due settimane
A guardare la sua adolescenza fuggire
Con la più bella ragazza della sua vita.
René Depestre
trad. genseki
Ateliers di Poesia
di Ernesto Cardenal
*
*
*
Io stesso scrissi alcune regole per coloro che partecipavano agli ateliers:
1. Non cercare d scrivere con ritmi regolari o con rime;
2. Preferisci le parole piú concrete alle piú astratte;
3. Inserire nomi propri di persone e di luoghi
4. Preferire le immagini che penetrano attraverso i sensi;
5. Usare il linguaggio parlato e non quello lettario;
6. Abbreviare al massimo.
Ernesto Cardenal
La parola
1942
Il Novecento apparirá in avvenire come una specie di incubo verbale, di cacofonia delirante. Epoca in cui le parole si logoravano piú rapidamente che in qualsiasi altro secolo della storia, epoca della grande protituzione della parola, di quella parola che avrebbe dovuto essere la misura del vero.
domenica, gennaio 10, 2010
Coltelli
Ciascuno parlava soltanto con il suo coltello
Ciascuno parlava con un solo coltello
Barba Germano ne aveva uno frabosano
Zita la maremmana si masturbava
Con un coltello di pattada
Entrambi cavalcavano i loro coltelli
Come fossero cavalli con un coltello
Tra i denti
Non c'erano fratelli, solo coltelli
Michelaccio manteneva sei coltelli
Mangiavano con i coltelli
Dormivano sul filo del coltello
Si rasavano a punto a coltello
L'amore lo facevano a coltellate
Le loro biciclette erano coltelli
A coltellate fendevano le curve
I raggi delle ruote erano coltelli
Che accoltelavano la luce delle strade
Pedalavano con piedi a coltello
Spingendo sui coltelli dei pedali
Ci lanciavano occhiatacce da coltello
Ma Io e Rosaria continuavamo
A spezzare il nostro pane con le dita
E a mangiarlo inzuppato nel latte
Poi ci rendemmo conto che non avremmo
Più potuto continuare a vivere nella Valle
Che il fiume divideva come un coltello
Il clima si faceva troppo teso, tagliente, da coltello
Lasciammo il Borgo allora
Con le nostre quattro cose nello zaino
Al crepuscolo partimmo
Poco prima che cominciasse a grandinare a coltelli
genseki
Morsi
Pietre solari tatuate di lichene
Antiche come i tuoi occhi tatuati dalla ritrosia
Tra la barba dei pini piú vecchi
Si scorgevano giá i primi segni dei morsi
Le tracce dolorose dei denti:
Erano passati di qua: e mordevano
Mordevano il bosco come fosse anguria
Nel vento soffocante dell'estate
Si, mordevano il bosco con denti taglienti
E bacche mordevano e sassi sentieri palmizi
Vi entravano con lo zainetto e il mangiadischi
Li occhiali dell'azione cattolica, il fazzoletto al collo
Il maglione annodato alle anche
E cominciavano a mordere la corteccia
Le impronte dei denti si imprimevano nitide
Nella polpa pastosa delle betulle
Mordevano le sorgenti, i rigagnoli
I piú sottili fili d'acqua
Lasciando tracce, fili di bava sanguinosa
Che leccavano i ciottoli e le radici
Come tante linguette lascive
Nelle morsicature lasciate sulle pietre
Gia crescevano i figli del sole
I luminosi licheni
E mordevano, mordevano i raggi di luce
Che a fatica penetravano le grandi chiome
Fino a conciarli simili a fusilli
Noi, continuavamo a salire
E ora udivamo distintamente il suono dei morsi
Forse erano li proprio sulla vetta morsicando
Morsi secchi o glutinosi di saliva
Schiocchi, scoppi, trilli di morsi
Cigolii di morsi, fremiti frulli di morsi
Proprio alle radici delle orecchie
Poi un corvo si levó in volo
Con un grido prontamente morso
E li intravedemmo
Mordevano
Mordevano
Mordevano
Da morsi erano nati a morsi cresciuti
Educati a mordere crudelmente petto
E capezzoli morsi furono da morditori
piú rabbiosi mordevano con tanta
Assoluta dedizione
Che anche in me si sveglió brama di mordere
Il tuo sguardo che mi accarezzava
Forse anche tu volevi mordere la mia voce?
Volevamo morderci l'un l'altra i nostri baci?
No!
Noi non sapevamo mordere. Oddio!
Si, forse rosicchiare, di certo leccare e baciare
Ma loro continuavano a mordere
Incitandosi l'uno con l'altro si accingevano
A mordere il vento del temporale
E l'ultimo lembo d'azzurro.
genseki
sabato, gennaio 09, 2010
Hegel e l'Islam
Hegel
Filosofia dello Spirito
Trad genseki
venerdì, gennaio 08, 2010
Michelemmà
Mi pare che l'attribuzione a Salvator Rosa sia da scartarsi a prima vista proprio per la natura frammentaria del testo che contrasta con il resto della sua opera barrocca e estremamente articolata.
Ad una prima lettura sembra di essere di fronte ad una specie di testo surrealista: qualche cosa come poesia automatica o un Cadavere Squisito. Prodotti di un inconscio collettivo di piú generazioni. Sembrerebbe come se una generazione successiva abbia aggiunto alcune linee al testo della precedente ignorando o cancellando una parte di esso. Molti testi della tradizione popolare potrebbero forse essere interpretati con maggior successo se fossero considerati dei Cadaveri Squisiti certo questo è particolarmente adeguato.
Una delle prime fallacie delle interpretazioni internazionali del testo mi pare l'insistenza nel considerare “Michelemmà” come il soggetto di “nata miez'o mare”.
Sempre che il lemma “Michelemmà” sia un sostantivo o un nome proprio e non la storpiatura di una onomatopea ritmica certamente è un maschile e non vi è concordanza con il verbo.
La convinzione che “Michelemmà” sia un soggetto è servita per dare al testo una coesione sul piano della logica che propbabilmente non possiede e probabilmente non la possiede per la ragione che si tratta appunto di una specie di Cadavere Squisito.
Tra i frammenti di figure e le figure vere e proprie che costituuiscono la canzone mi pare che uno sia quello delle Dea Vergine che sorge dal mare, precisamente dal mare di un'arcipelago, presso un'Isola Cipro o Ischia come si puó intuire nel locativo “scarola” che per alcuni va letto “Ischiarola”.
La presenza dei Turchi è il ricordo di fatti certamente piú storici e piú recenti. Il Turco è ovunque nel mediterraneo cristiano presente nel folkolore.
La vergine sorta dal mare è guerriera. Non vi è chi la vince. Ed è figlia di un Dio Supremo, un legislatore del cosmo: il “Notare”.
Poi di nuovo ricorre il tema ciprigno con i due versi: “
"E mpieto porta na...
Stella Diana"
La particolare arcaicitá dell'immagine di questa Vergine Guerriera dea dell'amore è che essa è contemporanemente una dea della morte:
“Pe fa morí ll'amante
A duje a duje”
Gli amanti, evidentemente, non sono gli amanti della Dea, certo non quelli di Michelemmà come pretendono le esegesi piú afrettate. Evidentemene il fatto che muoiano a due due ci fa capire che sono appunto coppie di amanti. Il morire puó essere inteso come una metafora sessuale o iniziatica. Non ci sono elementi che possano far decidere in unsenso o nell'altro.
Michelemmà è come un affresco frammentato della mitologia unitaria mediterannea giunto fino a noi quasi al limite dell'intellegibilitá ma ancora ricco di suggestioni.
genseki
Michelemmà
E' nata miez'o mare
Michelemmà
e Michelemmà
e' nata miez'o mare
Michelemmà e Michelemmà
oje na scarola
oje na scarola
Li turche se nce vanno
Michelemmà
Michelemmà
a reposare
Chi pe la cimma e chi
Michelemmà
Michelemmà
pe lo streppone
Visto a chi là vence
Michelemmà
co sta figliola
Sta figliola ch'e figlia
Michelemmà
Michelemmà
oje de Notare
E mpietto porta na ...
Michelemmà
Michelemmà
Stella Diana
Pe fa mori' ll'amante
Michelemmà
Michelemmà
A duje a duje
Pe fa mori' li amanti
a duje a duje
Dita e lumi
Come acqua si dirama in tanti rivoli
Frondosa s'apre allora la visione
Come fresca corolla nelle tenebre
Il vento che la sfiora scoppia in voli
In scintille di voli in frulli cardiaci
E tutto s'accartoccia in una sistole
E sale brucia fino ad ossa e cenere
Il tuo sguardo si apre come dita
S'aprono azzurre da mani serrate
Scaturiscono dal palmo e poi si irradiano
In fiocchi in piume fumo ed altre nuvole
Le mani aperte mai non si dissanguano
Coi suoi cristalli le accarezza il vento.
genseki
giovedì, gennaio 07, 2010
Dai miei occhi ai tuoi occhi
Questo lume riflesso come da una fonte
Scaturisce raggio dopo raggio
L'oscuritá che va da luce a luce
E scorre illuminando il tempo
Gocce di tempo si condensano ai limiti
Lacrimano sui tuoi zigomi stremati
Delineano scivolando in curve linee
Il profilo dei frutti e del fiorire
Come fosse carezza sul nitore
Della madida pelle della notte
Poi tutto è perla stretta in un istante
Nel tuo palmo serrato, nella conca
Delle pupille dove rumoreggia
Fluente luce a raggomitolarsi
Dal mio sguardo al tuo sguardo si condensa
L'oscuritá che pur luce non nega
Anzi l'afferma come fosse un occhio.
mercoledì, gennaio 06, 2010
Dialettica e poesia
L'essere e il nulla son lo stesso, - questa proposizione è imperfetta.
L'accento, infatti, viene posto di preerenza su “lo stesso”, come accade in genere nek giudizio, in quanto che solo il predicato è quello che vi enuncia che cosa il soggetto è. Il senso sembra quindi essere che la differenza venga negata; mentre invece si presenta anch'essa inmediatamente nella proposizione. La proposizione, infatti, esprime tutte e due le determinazioni, l'essere e il nulla e le contiene come diverse. - Non si puó insieme intendere che si debba astrarre dalle due determinazioni e tener ferma soltanto l'unitá. Questo senso si darebbe a vedere come unilaterale, poiché quello da cui si dovrebbe astrarre, si trova poi nondimeno nella proposizione, cioé vi è esplicitamente nominato. - In quanto ora la proposizione: essere e nulla è lo stesso, eprime l'identitá di queste determinazioni, ma nel fatto le contiene tutte e due come diverse, questa proposizione si contraddice in se stessa e si risolve. Se ora teniamo fermo questo vediamo che è posta qui una proposizione la quale considerata piú in particolare, ha il movimento di sparire di per se stessa. Accade quindi in codesta proposizione stessa quello che ha da divenire il suo contenito proprio, vale a dire il divenire.
La proposizione contiene dunque il risultato, è in se stessa il risultato. Ma la circostanza sui cui occorre qui attirare l'attenzione è il difetto che qui il risultato non é espresso esso stesso, nella proposizione, è una riflessione esterna, quella che ve lo riconosce.
A questo proposito si debe far qui subito da principio l'osservazione che la proposizione in forma di giudizio non é atta ad esprimere le veritá speculative.
Hegel
Logica
Questo brano della Logica hegeliana è un vero e proprio “mode d'emploi” del linguaggio hegeliano, una guida breve alla comprensione in un dettato che sembra sempre sfiorare l'incomprensibilità assoluta.
In questo senso appare in piena luce la mala fede di quanti insistono sulla oscuritá del testo hegeliano per negare la sua legittimitá speculativa.
Hegel ci da le chiavi per entrare nel suo castello e per percorrerne le sale. si tratta soltanto di usarle correttamente. Usarle correttamente è, poi, in fondo, una questione di pazienza. Una pazienza quasi infinita, questo si. Leggere Hegel è qualche cosa di molto prossimo a leggere un testo in cinese di cui si debbano apprendere uno dopo l'altro tutti i caretteri che lo compongono.
Sembra che la dimensione lineare del linguaggio, cioè la sua bidimensionalitá necessaria sia quello che lo rende inadeguato alla speculazione.
La dialettica pare aver bisogno di un linguaggio tridimensionale o pluridimensionale.
Che forma potrebbe prendere un linguaggio simile? È possibile pensare di costruirne uno? Che cosa significa avvicinarsi a un linguaggio pluridimensionale?
Si tratta di qualche cosa come un linguaggio a piú livelli in cui ogni livello sia contemporaneamente presente ad ogni altro e sua colto dalla mente con un movimento unico.
Si potrebbe pensare, ad esempio ad un linguaggio grafico con una serie gerarchica di tratti sovrasegmentali.
Un approccio di questo tipo peró non permette di immaginare un linguaggio le cui proposizioni abbiano graficamente, sintatticamente, morfologicamente “il movimento di sparire di per se stessa”.
Certamente stimolante è considerare questo testo di Hegel come una proposta di poetica.
Leggerlo come una serie di regole per la poesia. Una poesia che renda sensibile, evidente il movimento dialettico della realtá. Una poesia che sia sempre un passo al di la di se stessa e in cui qualsiasi cosa venga detta sia detta sempre solo come silenzio a venire.
genseki
martedì, gennaio 05, 2010
Dreiser Cazzaniga e l'umorismo
- Italiano sette con dodici” “Matematica sei con dieci”, “Fisica sei con nove”, “Topografia sette con venti” ….”Un nuovo ordine monastico!” esordì Dreiser Cazzaniga anziché dettare il voto di francese seguito dalle assenze”. La professoressa di matematica scoppiò in una risata inarrestabile mentre il Prof. Pezzetto dopo aver ringhiato rumorosamente incassò ulteriormente il cranio all’interno delle spalle ingobbite.
Dreiser assegnava ai suoi alunni il voto ottenuto attraverso la media istintiva, in valore assoluto mai minore di sei, mentre per le assenze effettuava un calcolo più complicato: la parte intera della media armonica delle assenze di tutte le materie che precedevano la sua. Ovviamente effettuava questi calcoli mentalmente e da quando calcolava le assenze in questo modo, anziché contare quelle segnate sul registro, il direttore Nespolino non faceva più pieghe sulla sua faccia castagnosa…
Di fronte il collega Dreiser il Collegio degli esercenti (pescivendole, macellai, droghieri ed altri commercianti dell’Istituto Tecnico Commerciale Stantuffi) era sempre nettamente diviso in due. Sessantratre l’avrebbero fatto uccidere o anche ucciso con le loro mani. Tre eroine dei fumetti invece lo amavano senza riserve e s’illuminavano d’immenso al solo vederlo. -
Shirakumo
Non ci sono molte tracce, negli scartafacci disordinati che abbiamo ereditato dal compianto Dreiser, che ci aiutino a identificare le tre dame. Pensiamo di che una potesse essere Doña Clarita Falta, anche se al tempo cui si riferisce la testimonianza di Shirakumo era abbastanza piú vecchia di Dreiser Cazzaniga, viveva con un vecchio pastore sardo che aveva salvato dal canile e era occupata in incomprensibili operazioni di autodistruzione. Era cinerea non legnosa, piuttosto cinerea si esprime al suo riguardo il nostro Dreiser Cazzaniga.
Forse l'altra era l'anima latina di Doña G. de León y Barbados pallida gaviota del Caribe e di Solentiname come la invoca Dreiser in un frammento di una poesia perduta a questa bella dama dedicata.
D'altre non abbiamo contezza e saremmo grati a shirakumo se volesse avanzare anch'ella una sua certamente acuta interpretazione.
L'ironia e l'umorismo tagliente sovente espresso attraverso sciarade e calembours a bruciapelo non era in Dreiser Cazzaniga indizio certo di letizia e spensieratezza ma di dolore e di amarezza.
Quanto pú soffriva tanto piú si faceva acuta la sua vena comica e rapidi i suoi malabarismi verbali fino a che una rabbia aspra e bruciante lo urticava impietosamente.
Lo stesso avveniva nei momenti di amarezza che erano frequenti in quel periodo.
L'umorismo era per Dreiser la suprema protesta contro l'insensatezza della vita e del cosmo.
Non era, peró, mai distruttivo il dolente umorismo di Dreiser Cazzaniga voleva piuttosto rompere il cosmo, infrangere lo specchio del linguaggio per poi rimontarli in un altro modo per essere sicuro che comunque non sarebbe mai stato piú assurdo di quello che si conveniva di chiamare reale e nella speranza che potesse essere perfino piú lieto, chissá!
Cosí finiva per fasi odiare da quasi tutti i molti che alla povera realtá si aggrappavano con fiducia per non essere travolti dalla loro notte interiore.
Era uno dei grandi peccati, non il solo, ma di certo uno dei piú grandi peccati contro la compassione di cui Dreiser Cazzaniga si dilettó per lunghi animi a macchiare quello strofinaccio liso della sua anima e di cui amaramente si pentí nella vecchiezza.
genseki
lunedì, gennaio 04, 2010
Torri
L'abbandono lascivo delle torri
Fasciate nelle piume della nebbia
Nel cobalto d'oblio delle nubi
Nel mutevole volto dei venti
Dominanti riflesse, modellate, chiamava
A sé lontane nevi
Come lo Sciamano chiama la lucertola
Con i suoi movimenti scivolosi
Con i passi di sussurro e seta, la coda
Vibrante alle onde piú sottili
Della malinconia. Torri, torrette
Saracene, barbacane sole nel tempo
Nel trascorrere di vigne e orzo
Nespole, castagne, frullo di fagiani
Nel disperdersi dell'odore del mosto
E del catrame
Torri lascivi spalti nel lenzuolo del tempo
Come carne concessa della storia
Carne diletta abbandonata oppressa
Torri togate di nebbia ottobrine
Nell'abbaglio della neve
Torri lascive a me avare di abbracci
Nel fuoco della memoria braci
Dell'incendio dei rovi
*
I borghi? Dormienti nelle pianure
Presi nel sonno inespiabile del mare
Onda dopo onda eppur chiusi tra fronde
Tra le chiome degli olmi degli ippocastani
I borghi? Ottusi, bianchi tra il fieno
Sferzati dall'odore acre delle colline
Dalla bianchezza del sole sulla piazza
Ruminando storia e passi zoccoli fustagno
Pneumatici cattedrale tacchi a spillo
Tacchi sottili come il conformismo
I borghi bianchi pascolano nella pianura
Assolati assordati assediati dal vento rosso
Delle colline dall'odore delle trecce
Delle lentiggini contadine
Dalle sirene delle fabbriche di mattoni
Che inchiodano la notte senza stelle.
genseki
sabato, dicembre 26, 2009
L'uomo approssimativo
Frammento “L'Uomo approssimativo” 1931
Domenica grave coperchio al ribollire del sangue
Ebdomadario peso accoccolato sui suoi muscoli
Caduto al'interno di se stesso ritrovato
Le campane suonano senza ragione e noi pure
Suonate suonate campane senza ragione e pure noi
Noi ci rallegreremo al rumore delle catene
Che faremo suonare in noi con le campane
Che linguaggio è questo che ci scudiscia sussultiamo nella luce
I nostri nervi sono fruste tra le mani del tempo
E viene il dubbio con una sola ala incolore
Che si avvita si comprime si schiaccia in noi
Come la carta stropicciata del pacco aperto
Regalo d'un'altra epoca dagli scivolamenti dei pesci di amarezza
Suonano le campane senza ragione e noi pure
Gli occhi dei frutti ci guardano con attenzione
E tutte le nostre azioni sono controllate nulla è celato
L'acqua del fiume ha tanto a lungo lavato il suo letto
Porta con sé i dolci fili degli sguardi che hanno bighellonato
Ai piedi dei muri nei caffé leccato vite
Allettato i deboli connettato sensazioni disseccato estasi
Approfondito fino in fondo antiche varianti
Aperto il varco alle fonti delle lacrime prigioniere
Le sorgenti atte ai quotidiani soffocamenti
Gli sguardi che prendono con mani secche
Il chiaro prodotto del giorno o l'apparizione in ombra
Che concede l'attenta ricchezza del sorriso
Avvitato come un fiore all'occhiello del mattino
Coloro che pretendono riposo o voluttá
Tocchi di vibrazioni elettriche soprassalti
Avventure fuoco di certezza o schiavitú
Sguardi che hanno strisciato lungo discreti tormenti
Consumato i selciatii delle cittá e espiato molte meschinitá con elemosine
Si susseguono strette attorno ai nastri d'acqua
E scorrono ai mari trascinando al loro passaggio
Sporcizia umana con i suoi miraggi
L'acqua del fiume ha lavato cosí a lungo il suo letto
Che persino la luce striscia sull'onda liscia
E cade al fondo con grave bagliore di pietre
Senza ragione suonano le campane e noi pure
Le preoccupazioni che portiamo con noi
Che sono i nostri abiti interiori
Che indossiamo ogni mattina
Che la notte scioglie con mani di sogno
Ornati d'inutile rebus metallici
Purificati nel bagno dei paesaggi circolari
Nelle cittá preparate per la carneficina il sacrificio
Presso i mari che spazzano le prospettive
Sulle montagne severamente inquiete
Nei paesini dai dolorosi abbandoni
La mano pesante sulla testa
Suonano le campane senza ragione e pure noi
Partiamo in partenza e arriviamo in arrivo
Partiamo con chi arriva e arriviamo con chi parte
Senza ragione un po' duri un po' secchi severi
Pane cibo manca il pane che accompagna
La canzone saporita alla gamma della lingua
I colori depositano il loro peso e pensano
E pensano o gridano e restano e si nutrono
Di frutti leggeri come il fumo planano
Ce pensa al calore che tesse la parola
Attorno al suo nucleo sogno che ci chiama
Suonano le campane senza ragione e pure noi
Marciamo per sfuggire dalle strade formicolanti
Con un flacone di paesaggi una sola una sola malattia
Che coltiviamo fino alla morte
So che io porto in me la melodia e non ho paura
Porto la morte e se muoio è la morte
Che mi porterá nelle sue braccia impercettibili
Fini e leggere come odore d'erbe magre
Fini e leggere come partenze senza scopo
Senza amarezza debiti rimpianto senza
Suonano senza scopo le campane e pure noi
Perché cercare il capo della catena che ci lega alla catena
Campane suonate senza scopo e pure noi
In noi suoneremo vetri rotti
Monete d'argento e false monete
Schegge di feste scoppiate a ridere in tempesta
Alle cui porte si aprirebbero abissi
Tombe di vento mulini che frantimano le osa dell'artico
Feste che ce elevano le teste al cielo
E sputano sui nostri muscoli la notte di piombo fuso
Io parlo di chi parlo e sono solo
Non sono che un piccolo rumore con piccoli rumori in me
Un rumore gelato stropicciato all'incrocio gettato sul marciapiede umido
Ai piedi di quelli che vanno di fretta corrono con i morti attorno alla morte che stende le
braccia
Sul quadrante della sola ora vivente sotto il sole
Spesso si fa il soffio oscuro della notte
E nelle vene cantano flauti marini
Trasposti sulle ottave degl strati di diverse esistenze
Le vite si ripetono all'infinito fino ala magrezza atomica
E in alto cosí in alto che non possiamo vedere con queste vite accanto che non vediamo
L'ultravioletto di tante vie parallele
Che avremmo potuto imboccare
Sule quali avremmo potuto non entrare nel mondo
O averlo abbandonato da così tanto tempo
Che sarebbe dimenticata l'epoca della terra che ci succhió la carneficina
Sali e metalli liquidi limpidi al fondo dei pozzi
Penso al calore che tinge la parola
Attorno al nucleo del sogno che ci chiama.
Trad genseki
giovedì, dicembre 24, 2009
Era anche nella mente dei delfini
Era anche nella mente dei delfini
In quella delle balene, forse
D'altri cetacei, l'agonia della bambina
Caduta nel pozzo
Profondo come un'occhio
Tra il grano dorato, lei correndo
Nell'azzurro, tra due ispirazioni
Il delfino è consapevole della luce
Della schiuma, della purezza dello iodio
Del buio che ferisce laggiú
Ci sono scale fungose, muco fosforescente
La bambina non è sicura di essere
Davvero mai esistita nella mia mente
L'oro del grano, l'odore rosso delle ginocchia
Le balene soffiano rabbiose
Tremano gli alberi di amarene
La pianura rovente i delfini
Scarabocchiano con la schiuma
Raggi azzurri dalla loro alla mia mente
E lei cade tra altri funghi
Questi anche piú deformi maligni
In altre menti, in altri cetacei
Inconsapevole di quell'odore di cuoio
Di quell'occhio appena lacrimoso
Dell'oscuro che si apre un varco
Tra l'oro i delfini e i suoi capelli rossi
Nella mente della balena
Nella mia mente scivolando
Dall'una all'altra mentre
Lui la apre e qualcosa sanguina
Tra il grano e l'azzuro richiamo
del mare.
genseki
Natale 2009
Oggi la Vergine da alla luce
Colui che per l'Essenza è l'Eccelso
La Terra offre accesso a una grotta
A colui che è inaccessibile.
Angeli e pastori intonano canti di lode
I Magi nel loro cammino
Seguono la stella.
Ecco per noi è nato un bambino:
Egli è il Dio senza tempo.
Kontakion di Natale
Romano il Melode
trad. genseki