mercoledì, febbraio 03, 2010

Asura

Seyyed Hossein Nasr

La testa di Husayn

O Husayn, amato da Dio tra molti,
Il tuo corpo è sepolo nelle sabbie del'Iraq
La tua testa sulle sponde ondulate del Nilo.
Due mondi ti rendono omaggio nei due mausolei
Due riflessi in un piano d'anima maestosa.
La tua testa fu tagliata in quel giorno di lutto,
La asura in cui il cosmo pianse il tuo decesso.
La tua testa divenne spazio di vita
Nella terra dei faraoni e dell'Islam.
Una cittá intera è cresciuta in
Intorno alla tua nobile testa tagliata
Che ancora orbita intorno all'asse della tua tomba
Che diffonde una baraka palpabile ai sensi.
I fedeli pregano nella tua moschea,
I sufi intonano i nomi di Dio
Le nascite e le morti
Ritmano le visite ai tuoi luoghi santi
O Hussayn,
Tu che fosti luce degli occhi
Di chi Dio amó sopra tutte le creature,
Mentre il tuo corpo è testimone dei lamenti dei pellegrini
E dell'agonia degli afflitti sul cammino della terra
La tua testa detta il ritmo della vita in questa vasta cittá
La tua testa cuore della medina della Vittoria
La tua qahira in cui vivono e hanno vissuto santi e poeti
Celebrando con le loro vite e le loro azioni quella Veritá
Per cui hai sparso il tuo sangue benedetto
Per la quale hai dato la vita.
La tua moschea al Cairo è chiara testimonianza
Del trionfo di ció che è vissuto nella Veritá,
Percé anche se l'errore passa per la realtá,
Finisce per evaporare con la nebbiolina dell'alba
Davanti al sole della Veritá Suprema che sorge
Per la quale sei morto,
Martire esemplare,
Quella Veritá verso la quale ci conducono
Le tue reliquie terrene attraverso la baraka che spargono,
Evocando il messaggio della tua vita
Che è il trionfo finale della Veritá,
Essa sola avrá l'ultima parola.

16 Aprile 1967
trad. genseki

Hussain Hai - Marsiya - Nusrat Fateh Ali Khan

Culla

Sui tuoi petali cadeva la cannella
I pollici impastavano fili di polline
Lo strofinaccio bisunto ricordava
Il tepore del latte della madre
Smunto il formaggio si faceva nido
Nel cavo della clavicola, la scapola
Sbocciava a volo d'ape,
O mia cera sensata, modellata
Appena sul ritornello del fiato
Tra le lenzuola attente di novembre
Azzurra come la luna sulla culla
Dove il sogno di tante altre carezze
Ti afferrava i piedini come fiori

genseki

martedì, febbraio 02, 2010

È cercandolo che ve ne separate

La rete degli insegnamenti dispensati dai tre veicoli veicoli contiene molte cure e rimedi opportuni. È nella pratica viva e concreta che si applicano e non ve ne sono due uguali. Se lo comprendete non vi potrete piú sbagliare. Per prima cosa dovete perdere ogni attaccamento ai testi sulla base dei quali venite costruendo le vostre teorie, perché questi testi contengono degl insegnamenti che si riferiscono a determinate circostanze concrete, e non esiste un metodo propriamente detto che possa essere insegnato dal Tathagatha. La nostra scuola non ha tesiCu relativamente a questo. Noi ci accontentiamo sapere che il riposo è la calma dello spirito e che allora non vi è piú bisogno di produrre pensieri che si concatenano.


Dialogo II


  • Si sente dire sempre che lo spirito è il Buddhha ma io ancora non ho compreso di quale spirito si tratti?

  • Quanti spiriti ci sono in voi?

  • Insomma è lo spirito ordinario o quello straodinario che è Buddha?

  • Ma dov'è che avete uno spirito ordinario e uno straordinario?

  • I tre veicoli hanno sempre insegnato che vi è uno spirito ordinario e uno straordinario, allora perché lei, dice che non vi é nulla di simile, maestro?

  • I tre veicoli dicono e lo dicono chiaramente che è falso distinguere tra spirito ordinario e spirito straordinario. Siccome non lo capite vi mettete subito a cercare l'esistenza di uno spirito o di un altro, cioè a fare proprio il contrario e prendete il vuoto per una cosa concreta. È un grave errore e questo errore vi allontana dallo spirito.

    Solo quando avrete cacciato i “vostri sentimenti ordinari sullo straordinario”, allora non vi sará Buddha se non nel vostro spirito. Il primo Patriarca è venuto da Occidente per mostrare direttamente all'uomo la buddhitá di tutto il suo essere. Ma voi non ve ne rendete conto, vi attaccate ai concetti di ordinario e di straordinario, galoppate in tutte le direzioni fuori di voi, e, naturalmente, finite per distogliervi sempre di piú dallo spirito. È per questo che si dice che lo spirito è Buddha. Se solo per un istante sorge un'altra emozione cadete in preda a un altro destino. Oggi, come da tempo senza inizio, non esiste nessun altro metodo spirituale.

  • Per quale ragione, Reverendo, lei dice che lo spirito è il Buddha?

  • Che ragioni andate mai cercando? Non appena en avete trovata una ecco che vi separate dallo spirito.

  • Lei dice che le cose stanno cosí da un tempo senza inizio, per quale ragione?

  • È cercandolo che ve ne separate. Se non cercate dove sta la distinzone?

  • Se non vi è distinzione perchè ricorrere al verbo essere?

  • Se non discriminate tra ordinario e straordinario dove sta il predicato? Se “essere” vale come “non-essere” lo spirito non è nemmeno spirito. Una volta dimenticato tutto ció che riguarda lo spirito dove cercarlo ancora?

Huang-po

Dialoghi

trad. a cura di genseki

Alcol

Dreiser Cazzaniga e l'alcol

L'adolescenza di Dreiser Cazzaniga fu una traversata nella piscina dell'alcolismo. Una traversata verde e arancione che pareva non dovesse mai approdare all'altra riva. Vedeva il mondo come attraverso una pellicola d'acqua saldamente compressa sugli occhi, deformato, ora verdastro ora arancione, e gli arti senza gravitá dai movimenti immemori lo facevano sentire ora foglia ora pietra. Erano notti di vomito sulfureo e di pruriti insopportabile di catarro e di freddo. La mattina era il risveglio del Martini, poi vi era la colletta alla stazione per ragranellare quattrini per altri Martini. Molti Martini ebbero su Dreiser Cazzaniga l'effetto di facilitare un apprendimento inspiegabilmente rapido e sicuro del latino poetico. Da ubriaco Dreiser Cazzaniga soleva leggere la Farsaglia di Lucano seduto di fronte al mare, incurante degli spruzzi salini, in una vecchia edizione a cura dell'accademico d'Italia Ettore Romagnoli, dalla copertina nera che prendeva in prestito nell'aristocratica e polverosa biblioteca del prestigioso seminario Humboldt in cui studiava come paria. Di Lucano lo affascinava l'oscuro terrore e la vergogna deforme che impregnavano i suoi versi e la sua complicitá subdola nell'omicidio della propria madre. Lo sognava come un giovane brufoloso dal collo lungo lungo e dallo sguardo sfuggente, le labbra piegate in un sorriso di scusa.
Poi, dopo le lezioni era la volta delle sei o sette birre karlshafen e poi un paio di litri di rosso denso dolcetto a pranzo e altri ancora a cena e poi ricominciare il giorno dopo a sognare il martini mentre il tram franava tra scintille di metallica frizione da Briggio il Decimo al mare su cui splendeva la stella del pastore in un cielo di miniatura borgognona. Dreiser Cazzaniga voleva davvero essere un poeta maledetto, immaginava bandiere rosse sulla bianca torre arabeggiante di Avellano in un vorticoso volo di gabbiani. Le ragazzine, compagne di quotidiana discesa dalla neve briggesca al mare gli facevano paure rivestiva i loro corpi che la sua immaginazione tendeva a denudare con un pudico velo di distorsione alcolica.

a cura di genseki

lunedì, febbraio 01, 2010

Battesimo

Nella radura dei mandorli
Celebrammo il nostro battesimo
Fummo battezzati nel latte
Come scorie appassite di mughetto
La lingua dell'erba era piú bianca
Del tuo fiato e della mia costanza
Nelle tuniche viola ci stringemmo
Tu mi dicevi tutte le tue dita
Io ti cantavo il mio fiato e le orme
Che sfilacciano i rami degli ontani
I voli silenziosi mi dicevi
Da nocche e da pupille e poi gli specchi:
Fammi d'ogni tua sillaba riflesso
Laggiù nel fondo delle tue pupille
Dove scorre rovente la visione
Che alle nostre labbra come nebbia
Ci lasciava ubriachi tra le mandorle
Ma la terra riempiva ora le bocche
L'odore della terra nelle palpebre
Il peso delle terra sui menischi
Terra respiravamo come un bacio
E fummo infine piú bianchi del latte.

genseki

Luigi Nono : Como una ola de fuerza y luz (1971/72) ... 4/4

Il silenzio

Luigi Nono

Il silenzio.

È molto difficile ascoltarlo.
È molto difficile ascoltare , in silenzo, gl altri. Altri pensieri, altri rumori, altre sonoritá, altre idee. Attraverso l'ascolto, cerchiamo abtualmente di ritrovarci negli altri. Vogliamo ritrovare i nostri propri meccanismi, il nostro proprio sistema, la nostra razionalitá, nell'altro.

In questo vi è una violenza totalmente conservatrice.

Invece di ascoltare il silenzio, di ascoltare gli altri, speriamo di ascoltare ancora una volta di piú noi stessi. Questa ripetizione è accademica, conservatrice, reazionaria. È un muro elevato contro il pensiero, contro quello che ancora non si puó spiegare. È il prodotto di una mentalitá sistematica basata sugli a priori interni de esterni, sociali o estetici. Amiamo il confort, la ripetizione, i miti: amiamo ascoltare sempre la stessa cosa, cone le sue pccole differenze che ci permettono di dimostrare la nostra intelligenza.

Ascoltare musica.
È qualche cosa di molto difficile.
Credo che oggi sia un fenomeno raro.

Ascoltiamo abitualmente in modo letteraro, ascoltiamo quello che si è scritto, ci ascoltiamo ...

L'errore rompe le regole. È una trasgressione. È opposizione alle istituzoni stabilite. È ciò che ci permette di intravedere altri spazi, altri cieli, altri sentimenti all'interno e all'esterno, senza dicotomie tra i due, contrariamente alla mentalitá banale e manichea sostenuta oggi.

Risvegliare l'udto, gli occhi, il pensero, il massimo d interiorizzazone esteriorizzata: questo oggi è essenziale.

Luigi Nono
Intrevista a “Contrechamps”

Trad. e selezione genseki


sabato, gennaio 30, 2010

Gypsy holocaust Auschwitz song Latcho Drom

La prima volta che apprendemmo che i nostri amici venivano macellati ci fu un grido d’orrore. Poi ne vennero massacrati cento.
Ma quando ne rimasero uccisi mille e il macello non finiva, si estese una coperta di silenzio. Quando il male arriva come la pioggia, nessuno urla: alt!
Quando i crimini si ammucchiano diventano invisibili.
Quando le sofferenze diventano insopportabili, le grida non si sentono più.
Anche le grida cadono, come pioggia d’estate.


Bertolt Brecht

Dreiser Cazzaniga e la meraviglia

Dreiser Cazzaniga incontró innumerevoli volte nel corso della sua vita la meraviglia. No, non era certo un cacciatore di meraviglia, uno di quei tipi speciali dall'aria innocente che finiscono per arruolarsi in polizia per inseguire la propria personale meraviglia sulle autostrade e per gli svincoli del porto. Anzi, molte volte, avendo incrociato la meraviglia, essendosi imbattuto in essa, non la riconobbe, o avendola riconosciuta non seppe lasciare che lo invadesse davvero fino al midollo.
Eppure la meraviglia si trova intessuta a tutta la sua vicenda vitale. La meraviglia per la neve che sempre ritorna e che sembra cambiare il mondo per sempre. Poi se en va si scioglie e sembra che non ci sia mai stata. La meraviglia per la camminata di una ragazza sul marciapiedi davanti al bar in cui sta comprando il biglietto del treno e tante altre meraviglie di tipo minimalista come quelle di Amélie o del primo sorso di birra, insomma.
In realtá anche piú meravigliosa è la meraviglia oscura, la meraviglia per la testardaggine dei malvagi, per esempio, per la loro astuzia paziente, per la noncuranza dei violenti, per la viltá dei vinti, per la propria viltá.
La meraviglia oscura ebbe su Dreiser Cazzaniga un potere forse maggiore dell'altra. Questa è una affermazione dubbia perché effettivamente Dreiser fu sempre semplicemente schiacciato, annientato dalla meraviglia della natura. La meraviglia che sempre lo attendeva all'entrata di un sentiero nel bosco, alla scoperta di una radura, all'apparizione di una nuova sfumatuta dell'autunno.
Meraviglia e vergogna furono i due poli dell'anima rinsecchita di Dreiser Cazzaniga, almeno fino a quando non scoprí il sarcasmo e la frenesia dell'umorismo.
Un giorno la mamma comunicó solennemente al piccolo Dreiser Cazzaniga che il tempo era venuto per lui di scendere a giocare al patio con gli altri mocciosi e matotti di Briggio. Dreiser non sapeva che cosa fosse il patio, dalla finesta della cucina vedeva gli abeti sui fanchi dei monti che separavano Briggio dalla cittá che un grand'uomo batezzó Pastrufazio sventolare come manti d'avventura e rabbrividí di verde.
Il patio invece era un terreno tra i condomini recentemente innalzati, pieno di detriti metallici, mucchi di sabbia, pozze e scheletri di furgoni militari ianchi della lontana guerra dei padri rossi.
Accoccolato nella sabbia in un circolo col branco dei matotti Dreiser si sentí sereno, sicuro, concentrato a muovere un piccolo camion su strade immaginarie quando un moccioso scuro scuro chiamato Roberto gli gridó:
-ragno, ragno, sembra un ragno con quelle bianche gambette secche secche!
Dreiser non rispose la meraviglia gli colava in gola. Sorsi amari furono quelli. Perché, perché? Pensava e gli doleva il futuro troppo lungo e piano davanti alla sue mani incapaci di depredare.

a cura di genseki

venerdì, gennaio 29, 2010

Alamogordo

Le tue lacrime profumavano di miele
Come alcuni gelsomini sono latte
Le scostavi con una mano nuda
Come fossero cortina di pupilla
Entrava allora l'umido del lupo
Il roco alito del dirupo ventoso
E tante tante rose di caffé, sventate
Come fanciulle col primo completino di flanella
L'orbita sua era caverna al nostro tremare
Allo stringerci nei panni freschi dei tremuli
Pioppi
L'orizzonte era una sequenza di errori
Ritmati dai filari dei cactus.

genseki

M.Rostropovich - Bloch Schelomo (1)

giovedì, gennaio 28, 2010

Un amore di Dreiser Cazzaniga

Tra tutte le cocenti vergogne della gioventú di Dreiser Cazzaniga, particolarmente doloroso fu l'amore per la giovine Stefi Paglia parmense. Una piccola scintilla di carnalitá brufolosa nelle nebbie di Milano. Allora Dreiser Cazzaniga dormiva nella nebbia, mangiava nebbia, si dissetava con la nebbia e passava interminabili pomeriggi nelle librerie più prestigiose della cittá per dimenticare che non poteva saziare la fame, che le scarpe di plastica gli facevano puzzare i piedi e che la dermatite atopica di cui giá soffriva e che gli sarebbe stata diagnosticata solo molti anni dopo lo costringeva a grattarsi saguinosamente le gambe. Era però soddistatto viveva nella cittá,passava per corso di Porta Romana che gli pareva un canyon, godeva dei tram arancioni con le loro panche lignee, leggeva Quenau e Aragon: si sentiva un Paysan de Milan. Seguiva il ricordo delle sue precoci letture dadaiste nelle piccole gallerie commerciali e si svegliava presto la mattina per passeggiare tra i fuochi fatui delle discariche dismesse di Porto di mare fino a che la barba non si coprisse di brina. Un vero nebbioso e affumicato maudit che non beveva piú e fumava poco. Come conobbe la signorina Stefi? DreiseR Cazzaniga non ce lo racconta. Certo lo teneva ben impresso nella memoria; ma non lo racconta. O, almeno, io non ho trovato nel disordine delle sue carte la pagina a questo ricordo dedicata. Stefi Paglia era bassa, scura, morbida, flessibile e unta. avvolta in un costosissimo cappotto di montone, con un taglio di capelli da cosmopolitan e accettava di passare tantissime serate con lui e i suoi pruriti al cinema, al teatro al ristorante. Pagava lei! Gli regaló anche un paio di guanti di pelle che costavano una fortuna e che Dreiser Cazzaniga perse durante una partita di caccia al cinghiale mentre correva verso una rovere per mettersi al sicuro dalla furia di madre ferita di una rabbiosa cinghialessa. Fino ad allora gli pareva che Stefi Paglia gli accarezzase le mani dolenti.
Dreiser Cazzaniga passeggiava abbracciato a Stefi, la strizzava ma non la baciava, Stefi gli raccontava le pratiche sadomaso alle quali il fidanzato parmense era solito sottometterla nel fine settimana. Dreiser Cazzaniga non la vide mai nuda. Un volta lo invitó a dormire con lei nella sua casa di San Babila. Dreiser dormí sul divano lei gli versava il te in un bicchiere verde di quelli infrangibili avvolta in una camicia ibizenca dalle mille pieghe.
La mattina dopo Stefi gli raccontó che lo aveva sognato mentre entrava nella sua camera e le infliggeva larghe e profonde ferite slabbrate con un coltello da frutta arrugginito.
Dreiser Cazzaniga non la rivide mai piú.
genseki

Dialettica della memoria

Il “Giorno della memoria” è l'istituzionalizzazione della celebrazione rituale dell'unicitá e dell'eccezionalitá di quello che oggi viene comunemente chiamato “Olocausto”.

Il nazionalsocialismo tedesco segregó gli ebrei europei, li separó dalla comunitá umana li mise a parte come unici come eccezionali e giustificó in questo modo la necessitá del loro sterminio.

Proclamare oggi l'unicitá e l'eccezionalitá dello sterminio degli ebrei europei è assumere il punto di vista dei loro carnefici e consolidarlo.

Significa perpetuarlo attraverso la sua apparente negazione.

I nazisti commisero il genocidio perché considerarono gli ebrei a parte dell'umanitá, perché negarono il loro appartenere alla specie umana.

Proclamare l'unicitá dello sterminio degli ebrei relativamente a tutti gli altri stermini e genocidi che ritmano la millenaria preistoria umana è accettare questa loro separazione questa loro segregazione, significa fare proprio il punto di vista dei carnefici.

Lo sguardo con cui la vittima si guarda si confonde con quello con cui la guarda il suo carnefice.

Quello che si esecra è lo sterminio, ma si accetta la separatezza che en è la condizione teorica.

La negazione del nazismo sarebbe la negazione della separatezza, della segregazione sarebbe l'affermazione della comune dolente dignitá di tutte le vittime in quanto vittime e in quanto umane.

Affermare la natura unica e straordinaria dello sterminio significa accettare la logica che lo ha prodotto, perpetuarlo e quindi creare le condizioni per l'avvento e la giustificazioni di altri stermini, di altro orrore.

In questo senso la memoria è almento di odio sempre nuovo, condizione di possibilitá di altro orrore.

La perpetuazione della memoria non è la negazione dell'olocausto ne è la cattiva sintesi dialettica.

genseki

mercoledì, gennaio 27, 2010

Eduard Bagrickij (1895-1934)

In tutta a sua struttura psicologica, nella sua percezione Bagrickij era un poeta nel senso piú alto della parola -con una splendida comprensione della forza poetica, con un amore appassionato per il verso sonoro.
Lidiia Ginzburg

*

Benché giá famoso sulla scena degli albori della letteratura sovetica per la forza e la maestria de suoi versi vibranti e metaforici. in seguito alla morte prematura la vita e la poesia di Bagrickij furono converiti in una leggenda letteraria sovietica.
Tale leggenda venne poi consacrata dal primo congresso degli scrittori sovietici quello che codificó il realismo socialista come la ortodossia letteraria e artistica.

Le sue poesie furono materia per gli inni ufficiali e la legenda sovietica di Bagrickji finí per ridurre la sua poesia a un numero scelto e ridotto di poesie ideologiche.

Si dimenticó la sua critica all'oppressione burocratica e all'abbandono degli ideali egualitari.

Bagrickij fu insomma considerato soprattuto come l'autore di due opere: " la Giovane Pioniera" (1932) e "Il lamento di Opanas" (1926).

Diversamente da molti altri membri della prima generazione di poeti sovietici Bagrickij morí al culmine della sua carriera letteraria.

Egli era considerato come la figura principale del "Romanticismo Rivoluzionario Sovietico" e si lodava soprattutto il suo indistruttibile ottimismo sovietico nonostante la salute molto compromessa e il suo impiego dei temi clasici della poesia popolare ucraina e di quella russa. In effettii nella sua poesia sono forti gli influssi di Robert Burns e del poeta nazionale ucraino Taras Shevchenko ma anche quelli dei Poeti Maledetti, dei parnassiani e dei romantici tedeschi.

Valerii Kirpotin, capo del Dipartimento Letterario del Comitato Centrale e uno dei padri della dottrina del realismo socialista scrisse di Bagrickij che "egli era un romantico che, attraverso il canto e la parola si sforzó di esprimere la passione e il sogno della rivoluzione. La sua artiglieria poetica bombardava il vecchio mondo".


Viktor Shklovskii scrisse:

Uno strobscopio e un dosco rotante che al margine è perforato..

Il poeta contemla l mondo attraverso lo stroboscopio del suo cuore...
Bagrickij morí a trentasette anni. I suoi capelli erano tutti grigi. Centocinquanta scalini separavano la sua stanza dal mondo. Adorava il sole, il sud, l'anguria, gli uccelli, il mare, la prmavera e tra lui e il mondo c'erano centocinquanta scalini.
Nella sua stanza c'era un pesce; il pesce nuotava in acqua azzurra. Il pese nell'acqua azzurra fu l0ultimo frammento di vita che poté vedere dal suo giaciglio.

Eduard Bagrickij (1895-1934)

Eduard Bagrickij (1895-1934)

La sola resenza nella cultura italiana della figura e della poesia di Euard Bagrickij è un esile librettino della Collezione di Poesia Einaudi del 1965. La traduzione era di Strada e anche la brutta introduzione.
Dopo di allora nient'altro, Il libro me lo ha prestato Maresa quasi dieci anni fa. Devo ancora restituirglielo. Mi segue nascosto tra il passaporto e il permesso di soggiorno in tutti i miei ultimi viaggi.

L'ultima notte

Il fagiano esplose come un fuoco d'artificio
I pallini strapparono gli aghi dalle foglie.
L'uccello piomb'cometa di penne,
In uno scompiglio di albe primaverili.

L'Arciduca tornó a casa.
Si spoglió. Bevve del vino.
Il setter morbido gli si stese
Ai piedi, come una sfinge.

La pistola con cui fu ucciso
(Non ne ricordo il tipo)
Giaceva ancora dall'armaiolo
Fra una canna da pesca e un coltello.

Il futuro assasino sonnecchiava,
La testa reclinata
Sul duro pugno giovinetto
Coperto di bruno pelo.


A Odessa i castagni si vestivano di fumo
E quando scendeva la sera, il mare,
Ansando, si volgeva sul suo asse,
Simile a una ruota.

La mia finestra dava nel giardino
E nel crepuscolo, tra il fogliame,
Becchi di gas s'alzavano turchini
Sopra le insegne delle birrerie.

E su questa luce effevervescente
Rumoreggiando con un milione d'ali
Volavano gli stornelli a sfracellarsi
Contro i vtri e contro i cavi.

Primavera gl spingeva dalle rocce nere
Con la sferza ei venti di mare.

Uscii...
Dietro la porta mi si chiuse...
E la notte circondandomi
D'un moto d'ali, fiori e stelle,
Sorse in tutti gli angoli.

Oltrepasai le piccole case ebree.
Udivo il terribile ronfiare
Dei carrettieri stesi nei carri,
E nelle finestre si vedeva

Il sabato in parrrucca porporina
Che andava reggendo una candela.

Oltrepassai le piccole case ebree
Uscii al brillio delle rotaie
Al deposito tranviario si struggeva
Il lampione, circondato dalla grande primavera.

Avevo solo diciassette anni
E per questo certo la notte
Turbinava e respirava in me
E mi camminnava accanto.

Ero il suo specchio, il suo sosia,
Ero un secondo universo
I pianeti mi penetravano
Da parte a parte, come un bichier d'acqua,
E mi pareva che una luce leggera
Stillasse dai pori simile a sudore.

Oltrepassai il deposito tranviaruo
Dietro, imponderabile come il fumo
La via asfaltata, turbinando, volava
Ad occidente verso le onde del mare.

E d'un tratto udii un suono prolungato:
Sul mondo volava una tromba,
Languendo di passione. E io dissi
"Ecco le prime gru!"

Sulla polvere, sulla mia giovinezza
Passava echeggiando quella tromba,
E le stelle si gettavano da parte,
Con un palpito all'urto delle larghe ali.

...

trad. V. Strada

martedì, gennaio 26, 2010

Assente

Quando ti abbraccio stringo la tua assenza
Come tra i denti si asciuga lunga fame
Quando gli abeti si sfasciano a sciami
Mentre mi sfuggi respiro il tuo tepore
Viva presenza del tuo corpo in viaggio
Nelle contrade di granito e ghiaccio
Dove l'alloro è un sogno di metallo
E si stinge tra gli urti delle piume
La catastrofe oscura delle ciglia
Ti stringo assente come fossi pane
Per saziare la fame dei torrenti
Dorso d'anguilla lucida ti sciolgo
Perche mi sfugga all'orlo della bocca
Tutta la fresca estraneitá di un corpo
Che guizza e slitta dal mio deisderio.


genseki


lunedì, gennaio 25, 2010

Oltre

Cercavi di fissare il punto, l'istante
In cui l'animale alla soglia di se stesso
Sgorgava infine nel suo atto, nella negazione
Come sgorga il guanto dalle tua mano
E assume la casualitá della sua forma
Custodia del balenare tagliente
Delle tue unghie vere:
Il gatto dal nespolo transitava nel balzo
Per ricadere poi oltre se stesso
Con un cuore sanguinante e brandelli
Tra le fauci di un altro,
Mentre le tue unghie fredde
Azzurre ghigliottine delle pupille
Sorgevano incontro alla luna di settembre.

genseki

André Breton

domenica, gennaio 24, 2010

La Bandiera Rossa

Per la bandiera rossa, pura di qualsiasi contrassegno o distintivo, io ritroveró sempre lo sguardo che ebbi per essa, a 17 anni, quando nel corso di una manifestazione popolare, mentre si avvicinava l'altra guerra, l'ho vista dispiegarsi innumerevole nel cielo basso del Pré Saint-Gervais. E tuttavia - sento che la mia ragione non puó farci nulla, io continueró a fremer ancor di piú ricordando il momento in cui su quel mare fiammeggiante in alcuni punti non numerosi e ben circoscritti, apparve lo sventolío delle bandiere nere. Allora non avevo una grande coscienza politica e devo proprio dire che resto perplesso quand mi viene in mente di giudicare ció che me ne è venuto. Ma oggi piú che mai mi sembra che le correnti della simpatia e della antipatia siano dotate di una forza tale che permette loro di sottomettere le ideee, e io so che il mio cuore ha palpitato all'unisono con il movimento di quella giornata.
Nelle gallerie piú profonde del mio cuore ritroveró sempre l'andirivieni di quele innumerevoli lngue di fuoco alcune delle quali s attardavano a lambire uno stupendo fiore carbonizzato. Le nuove generazioni stentano a raffigurarsi uno spettacolo come quello di allora. In seno al proletariato non si erano ancora manifestati i dissidi di ogni tipo che hanno finito per lacerarlo.
La fiaccola della Comune di Parigi ancora non era stata spenta, vi erano tra quelle mani molte che l'avevano portata, ed essa unificava ogni cosa con la sua grande luce, che sarebbe stata meno bella e meno densa senza qualche voluta di fumo denso. Su quei volti si leggeva tanta fede individualmente disinteressata, tanta risoluzione e ardore, e tanta nobiltá anche sui volti dei vecchi.
Certo attorno alle bandiere nere le devastazioni fisiche erano piú sensibili, ma la passione aveva veramente traforato certi occhi lasciandovi dei punti indimenticabili di incandescenza, ra come se la fiamma fosse passata su tutti quegli uomini bruciandoli un po' di piú o un po' di meno...

André Breton
Da. "Arcano 17"

Antonio Porta

Dentro la poesia c'è quello che solo dentro di essa puó esserci. Futile è la vita del poeta. Disperata è la sua vita. Felice è la sua vita. Dipende dai giorni. Ma dove si gioca la sua pelle è nel linguaggio delle sue poesie, dove si chiude o si apre, anche alla vita.

Lettera a Nina Lorenzini
21.12.1977

sabato, gennaio 23, 2010

Era un aprirsi

Era un aprirsi e chiudersi improvviso
Di grandi foglie al fendere la ghiglia
L'impassibile palude della stanchezza
Soltanto un movimento di ventaglio
Negava il tempo e ne faceva perle
Una o due perle per ciascuna coppa
Da adesso a poi quindi da poi a prima
Era qualcosa come un dispiegarsi
Frullare forse schioccare da calice a calice
Dove il rumore si fondeva in luce
Liquida nelle bolle momentanee
Sfilare il tempo dalla guaina del desiderio
Era soltanto schiudersi di petali
Neri come campane di Bretagna
Quando il temporale gettava gli anni e i mesi
A manciate come stracci consunti
Sulle scogliere dove finiva il mondo
In un ansito asmatico di sputi.

genseki

Un circolo di circoli

Ciascuna delle parti della filosofia è un tutto filosofico, un circolo che si chiude su se stesso, ma l'idea filosofica vi è dentro in una particolare determinazione o elemento. Ogni singolo circolo essendo in sé totalitá rompe anche i limiti del suo elemento e fonda una piú ampia sfera: il tutto si pone perció come un circolo di circoli, di cui ciascuno è un momento necessario, cosiccé il sistema dei suoi peculiari elementi adempie l'intera idea che appare in ciascuno di essi

Enciclopedia delle scienze filosofiche
Introduzione
Paragrafo 15
trad. B. Croce

venerdì, gennaio 22, 2010

Giocavamo alla luna

Giocavamo alla luna sulla lama delle colline
La luna che non c'era già piú la luna era nera
Scorreva la luna sulla tua schiena come scorre la luce
La luna al palmo della mia mano non osavi succhiarla
Eppure fu proprio la luna che ti accese lo sguardo
Quando ardeva la malaria come altre costellazioni
E ti consumava il mio fuoco come una perla
Sbucata da un vecchio guanto nell'armadio di nonna
Fino a rotolare tra i riccioli di formaggio
Le capriole delle scintille nel vecchio camino di Ippolito
Il paiolo della polenta che un poeta dialettale
Avrebbe invocato come la luna che si disfa nel feltro
Che tarme e falene sfarinano luna di febbraio
Luna spenta come paraffina con l'impronta

Dei nostri pollici unti.

genseki



giovedì, gennaio 21, 2010

Neve

Fu per la neve che nacqui alla scrittura
Dalle orme dai voli spezzati nervature semi
Prima che tutte le ali fossero pietre
Lassú dove infine capovolto
Il cielo lasciava cadere i suoi corvi
Nel pozzo di strati infiniti del grigio
Corvi come stracci sbattuti qua e lá dal loro grido
Dal gracchiare che invano si sforzava
Di aprirsi in un segno rosso inesploso
O almeno di spezzarsi dolorosamente
In un cielo dai riflessi di cobalto
Il cobalto dell'avvento no! Il rosso
Non sgocciolava dalle colonne scistose
Che sorreggevano le volte vertiginosamente immobili
Dei grigi sovrapposti e la pioggia ancora non cadeva
A unire con i suoi fili i colori al loro significato
No! Non c'erano colori. C'era neve
Non c'erano significati negli schiocchi nelle orme
Dei passeri nelle righe delle ghiande come note
Sul pentagramma della radura
Un rintocco di rame sarebbe stato gelo
A rendere allora tutto piú giallo
Come occhio nell'uovo come uovo sognando
L'occhio pupilla di tuorlo
Le campane invece cigolarono grige
Come il bronzo nere come le aste dei campanili
Mentre il bianco pallido del sole
Soffiava sulla neve il suo alito di forfora
Sollevando in turbine spettrale
Frammenti di ali di farfalle screpolate dal gelo
Piume di albatros scacciate dalle antiche poesie
Caratteri dell'Olivetti lettera 32
Polvere di pneumatici fiori secchi d'ontano
Che furono dita delicatamente rose dal primo gelo
Di novembre
La neve fu il lenzuolo della scrittura
Il sudario del significato
La criniera gloriosa della terra
Ogni orma ogni traccia fu prova d'amore

genseki

Arabeskebi Pirosmanis Temaze 2/2 (A Short film by Sergei Parajanov, 1985)

Arabeskebi Pirosmanis Temaze 1/2 (A Short film by Sergei Parajanov, 1985)

mercoledì, gennaio 20, 2010

Haiti dans tous mes reves


Toussaint Louverture

Jacmel

Quando era adolescente
Viveva in una città
Che era una leggenda
Sulle coste del Mar dei Caraibi.
Chi lo voleva poteva
Trasformarsi in qualsiasi cosa
Un albero, per esempio,
Che cammina e beve del Rum,
Oppure un bue che suona l’organo
In chiesa alla domenica,
Un leone che fa becchi
Tutti i notai della città.
Lui, una sera della sua adolescenza,
Divenne un cavallo da corsa
Lo videro attraversare al galoppo Jacmel
Nitriva e invitava la gente
A venire a correre con lui nella strada.
Le porte e le finestre, però, restavano ben chiuse.
Poi, all’improvviso una ragazza è corsa fuori
Da una casa di Piazza d’Armi:
Era una delle più belle della città.
In camicia da notte
e sorrideva all’equadolescente
Quando egli venne accanto a lei
La ragazza si tolse la camicia
E balzò sullla sua schiena: lui prese a galoppare
Andò al galoppo senza fine nella notte
Facendo molte volte il giro di Jacmel.
Sentiva Adriana tutta nuda sulla sua schiena
Come il cielo notturno profuma di stoffa
Come la terra profuma dell’erba del mattino
Fiutava il suo sapore di ragazza.
Al galoppo, al galoppo nella notte
Sulla schiena l’astro di Jacmel
Sulla schiena tutta la gioia
Tutto il dolore di quella città.
E la paura e l’odio
sulla schiena
Al galoppo al galoppo nella notte
Coi baci
E tutti i sogni di Jacmel sulla schiena.
Al mattino andarono al mare
Dove si rinfrescarono a lungo,
Poi fu la volta del fiume
Per lavarsi il corpo dal sale.
Più tardi la fece scendere davanti a casa
Sotto gli alberi sbalorditi della piazza.
Quando riprese la sua forma di ragazzo
Aveva i fianchi coperti di sangue,
Delle fitte atroci alla spalle,
E tanto male al cuoio capelluto,
Restò a letto per due settimane
A guardare la sua adolescenza fuggire
Con la più bella ragazza della sua vita.

René Depestre
trad. genseki

Ateliers di Poesia

Da: Il Trionfo della Rivoluzione
di Ernesto Cardenal

"Il Trionfo della rivoluzione è il trionfo della poesia" il critico nordamericano David Craven racconta di aver visto questa scritta su di un muro della cittá di León. Ció che questa scritta voleva dire era che il trionfo della rivoluzione era il trionfo della cultura in generale considerando la poesia come la forma piú caratteristica della cultura.

*

Per quanto riguarda la poesia, mi sembra, che l'esperienza piú importante che si verificó fu quella degli ateliers di poesia.

*

Negli Stati Uniti esistevano ateliers di poesia; - poetry work-shops, tuttavia si svolgevano nelle universitá che sono molto care e alle quali possono accedere poche persone. In Nicaragua erano organizzati per tutto il popolo, come tutte le altre attivitá della rivoluzione.

*

Io stesso scrissi alcune regole per coloro che partecipavano agli ateliers:

1. Non cercare d scrivere con ritmi regolari o con rime;
2. Preferisci le parole piú concrete alle piú astratte;
3. Inserire nomi propri di persone e di luoghi
4. Preferire le immagini che penetrano attraverso i sensi;
5. Usare il linguaggio parlato e non quello lettario;
6. Abbreviare al massimo.

Ernesto Cardenal

Muro

La parola

André Breton
1942

Il Novecento apparirá in avvenire come una specie di incubo verbale, di cacofonia delirante. Epoca in cui le parole si logoravano piú rapidamente che in qualsiasi altro secolo della storia, epoca della grande protituzione della parola, di quella parola che avrebbe dovuto essere la misura del vero.

domenica, gennaio 10, 2010

Coltelli

Ciascuno di loro aveva un coltello
Ciascuno parlava soltanto con il suo coltello
Ciascuno parlava con un solo coltello
Barba Germano ne aveva uno frabosano
Zita la maremmana si masturbava
Con un coltello di pattada
Entrambi cavalcavano i loro coltelli
Come fossero cavalli con un coltello
Tra i denti
Non c'erano fratelli, solo coltelli
Michelaccio manteneva sei coltelli
Mangiavano con i coltelli
Dormivano sul filo del coltello
Si rasavano a punto a coltello
L'amore lo facevano a coltellate
Le loro biciclette erano coltelli
A coltellate fendevano le curve
I raggi delle ruote erano coltelli
Che accoltelavano la luce delle strade
Pedalavano con piedi a coltello
Spingendo sui coltelli dei pedali
Ci lanciavano occhiatacce da coltello
Ma Io e Rosaria continuavamo
A spezzare il nostro pane con le dita
E a mangiarlo inzuppato nel latte
Poi ci rendemmo conto che non avremmo
Più potuto continuare a vivere nella Valle
Che il fiume divideva come un coltello
Il clima si faceva troppo teso, tagliente, da coltello
Lasciammo il Borgo allora
Con le nostre quattro cose nello zaino
Al crepuscolo partimmo
Poco prima che cominciasse a grandinare a coltelli

genseki

Morsi

Ci arrampicavamo tra quelle grandi pietre
Pietre solari tatuate di lichene
Antiche come i tuoi occhi tatuati dalla ritrosia
Tra la barba dei pini piú vecchi
Si scorgevano giá i primi segni dei morsi
Le tracce dolorose dei denti:
Erano passati di qua: e mordevano
Mordevano il bosco come fosse anguria
Nel vento soffocante dell'estate
Si, mordevano il bosco con denti taglienti
E bacche mordevano e sassi sentieri palmizi
Vi entravano con lo zainetto e il mangiadischi
Li occhiali dell'azione cattolica, il fazzoletto al collo
Il maglione annodato alle anche
E cominciavano a mordere la corteccia
Le impronte dei denti si imprimevano nitide
Nella polpa pastosa delle betulle
Mordevano le sorgenti, i rigagnoli
I piú sottili fili d'acqua
Lasciando tracce, fili di bava sanguinosa
Che leccavano i ciottoli e le radici
Come tante linguette lascive
Nelle morsicature lasciate sulle pietre
Gia crescevano i figli del sole
I luminosi licheni
E mordevano, mordevano i raggi di luce
Che a fatica penetravano le grandi chiome
Fino a conciarli simili a fusilli
Noi, continuavamo a salire
E ora udivamo distintamente il suono dei morsi
Forse erano li proprio sulla vetta morsicando
Morsi secchi o glutinosi di saliva
Schiocchi, scoppi, trilli di morsi
Cigolii di morsi, fremiti frulli di morsi
Proprio alle radici delle orecchie
Poi un corvo si levó in volo
Con un grido prontamente morso
E li intravedemmo
Mordevano
Mordevano
Mordevano
Da morsi erano nati a morsi cresciuti
Educati a mordere crudelmente petto
E capezzoli morsi furono da morditori
piú rabbiosi mordevano con tanta
Assoluta dedizione
Che anche in me si sveglió brama di mordere
Il tuo sguardo che mi accarezzava
Forse anche tu volevi mordere la mia voce?
Volevamo morderci l'un l'altra i nostri baci?
No!
Noi non sapevamo mordere. Oddio!
Si, forse rosicchiare, di certo leccare e baciare
Ma loro continuavano a mordere
Incitandosi l'uno con l'altro si accingevano
A mordere il vento del temporale
E l'ultimo lembo d'azzurro.

genseki

sabato, gennaio 09, 2010

Hegel e l'Islam

Nel Maomettanismo questo principio limitato del giudaismo è esteso fino all'universalitá. Qui, Dio non è piú, come il Diio asiatico contemplato come ciò che esiste in modo immediatamente sensibile ma è concepito come il Potere infinito e sublime oltre la molteplicitá del mondo. Il Maomettanismo è, quindi nel senso piú esatto della parola, la religione del sublime.

Hegel
Filosofia dello Spirito

Trad genseki

venerdì, gennaio 08, 2010

Michelemmà

Michelemmà è considerata dagli studiosi come uno dei principali modelli su cui si è costruita la tradizione della canzone napoletana e su di essa si è scritto molto. Io ho letto poco, tuttavia le poche immagini, direi figure apparentetemente sconnesse e sfilacciate del testo esercitano un potente richiamo ermeneutico.

Mi pare che l'attribuzione a Salvator Rosa sia da scartarsi a prima vista proprio per la natura frammentaria del testo che contrasta con il resto della sua opera barrocca e estremamente articolata.

Ad una prima lettura sembra di essere di fronte ad una specie di testo surrealista: qualche cosa come poesia automatica o un Cadavere Squisito. Prodotti di un inconscio collettivo di piú generazioni. Sembrerebbe come se una generazione successiva abbia aggiunto alcune linee al testo della precedente ignorando o cancellando una parte di esso. Molti testi della tradizione popolare potrebbero forse essere interpretati con maggior successo se fossero considerati dei Cadaveri Squisiti certo questo è particolarmente adeguato.

Una delle prime fallacie delle interpretazioni internazionali del testo mi pare l'insistenza nel considerare “Michelemmà” come il soggetto di “nata miez'o mare”.

Sempre che il lemma “Michelemmà” sia un sostantivo o un nome proprio e non la storpiatura di una onomatopea ritmica certamente è un maschile e non vi è concordanza con il verbo.

La convinzione che “Michelemmà” sia un soggetto è servita per dare al testo una coesione sul piano della logica che propbabilmente non possiede e probabilmente non la possiede per la ragione che si tratta appunto di una specie di Cadavere Squisito.

Tra i frammenti di figure e le figure vere e proprie che costituuiscono la canzone mi pare che uno sia quello delle Dea Vergine che sorge dal mare, precisamente dal mare di un'arcipelago, presso un'Isola Cipro o Ischia come si puó intuire nel locativo “scarola” che per alcuni va letto “Ischiarola”.

La presenza dei Turchi è il ricordo di fatti certamente piú storici e piú recenti. Il Turco è ovunque nel mediterraneo cristiano presente nel folkolore.


La vergine sorta dal mare è guerriera. Non vi è chi la vince. Ed è figlia di un Dio Supremo, un legislatore del cosmo: il “Notare”.

Poi di nuovo ricorre il tema ciprigno con i due versi: “

"E mpieto porta na...
Stella Diana"


La particolare arcaicitá dell'immagine di questa Vergine Guerriera dea dell'amore è che essa è contemporanemente una dea della morte:

Pe fa morí ll'amante
A duje a duje”


Gli amanti, evidentemente, non sono gli amanti della Dea, certo non quelli di Michelemmà come pretendono le esegesi piú afrettate. Evidentemene il fatto che muoiano a due due ci fa capire che sono appunto coppie di amanti. Il morire puó essere inteso come una metafora sessuale o iniziatica. Non ci sono elementi che possano far decidere in unsenso o nell'altro.

Michelemmà è come un affresco frammentato della mitologia unitaria mediterannea giunto fino a noi quasi al limite dell'intellegibilitá ma ancora ricco di suggestioni.

genseki


Michelemmà

E' nata miez'o mare
Michelemmà
e Michelemmà
e' nata miez'o mare
Michelemmà e Michelemmà
oje na scarola
oje na scarola

Li turche se nce vanno
Michelemmà
Michelemmà
a reposare

Chi pe la cimma e chi
Michelemmà
Michelemmà
pe lo streppone

Visto a chi là vence
Michelemmà
co sta figliola

Sta figliola ch'e figlia
Michelemmà
Michelemmà
oje de Notare

E mpietto porta na ...
Michelemmà
Michelemmà
Stella Diana

Pe fa mori' ll'amante
Michelemmà
Michelemmà
A duje a duje
Pe fa mori' li amanti
a duje a duje

Dita e lumi

Il tuo sguardo porta luce alle radici
Come acqua si dirama in tanti rivoli
Frondosa s'apre allora la visione
Come fresca corolla nelle tenebre
Il vento che la sfiora scoppia in voli
In scintille di voli in frulli cardiaci
E tutto s'accartoccia in una sistole
E sale brucia fino ad ossa e cenere
Il tuo sguardo si apre come dita
S'aprono azzurre da mani serrate
Scaturiscono dal palmo e poi si irradiano
In fiocchi in piume fumo ed altre nuvole
Le mani aperte mai non si dissanguano
Coi suoi cristalli le accarezza il vento.

genseki

giovedì, gennaio 07, 2010

Dai miei occhi ai tuoi occhi

Dai miei occhi ai tuoi occhi trascorevva
Questo lume riflesso come da una fonte
Scaturisce raggio dopo raggio
L'oscuritá che va da luce a luce
E scorre illuminando il tempo
Gocce di tempo si condensano ai limiti
Lacrimano sui tuoi zigomi stremati
Delineano scivolando in curve linee
Il profilo dei frutti e del fiorire
Come fosse carezza sul nitore
Della madida pelle della notte
Poi tutto è perla stretta in un istante
Nel tuo palmo serrato, nella conca
Delle pupille dove rumoreggia
Fluente luce a raggomitolarsi
Dal mio sguardo al tuo sguardo si condensa
L'oscuritá che pur luce non nega
Anzi l'afferma come fosse un occhio.

mercoledì, gennaio 06, 2010

Dialettica e poesia

L'essere e il nulla son lo stesso, - questa proposizione è imperfetta.

L'accento, infatti, viene posto di preerenza su “lo stesso”, come accade in genere nek giudizio, in quanto che solo il predicato è quello che vi enuncia che cosa il soggetto è. Il senso sembra quindi essere che la differenza venga negata; mentre invece si presenta anch'essa inmediatamente nella proposizione. La proposizione, infatti, esprime tutte e due le determinazioni, l'essere e il nulla e le contiene come diverse. - Non si puó insieme intendere che si debba astrarre dalle due determinazioni e tener ferma soltanto l'unitá. Questo senso si darebbe a vedere come unilaterale, poiché quello da cui si dovrebbe astrarre, si trova poi nondimeno nella proposizione, cioé vi è esplicitamente nominato. - In quanto ora la proposizione: essere e nulla è lo stesso, eprime l'identitá di queste determinazioni, ma nel fatto le contiene tutte e due come diverse, questa proposizione si contraddice in se stessa e si risolve. Se ora teniamo fermo questo vediamo che è posta qui una proposizione la quale considerata piú in particolare, ha il movimento di sparire di per se stessa. Accade quindi in codesta proposizione stessa quello che ha da divenire il suo contenito proprio, vale a dire il divenire.

La proposizione contiene dunque il risultato, è in se stessa il risultato. Ma la circostanza sui cui occorre qui attirare l'attenzione è il difetto che qui il risultato non é espresso esso stesso, nella proposizione, è una riflessione esterna, quella che ve lo riconosce.

A questo proposito si debe far qui subito da principio l'osservazione che la proposizione in forma di giudizio non é atta ad esprimere le veritá speculative.


Hegel

Logica


Questo brano della Logica hegeliana è un vero e proprio “mode d'emploi” del linguaggio hegeliano, una guida breve alla comprensione in un dettato che sembra sempre sfiorare l'incomprensibilità assoluta.

In questo senso appare in piena luce la mala fede di quanti insistono sulla oscuritá del testo hegeliano per negare la sua legittimitá speculativa.

Hegel ci da le chiavi per entrare nel suo castello e per percorrerne le sale. si tratta soltanto di usarle correttamente. Usarle correttamente è, poi, in fondo, una questione di pazienza. Una pazienza quasi infinita, questo si. Leggere Hegel è qualche cosa di molto prossimo a leggere un testo in cinese di cui si debbano apprendere uno dopo l'altro tutti i caretteri che lo compongono.


Sembra che la dimensione lineare del linguaggio, cioè la sua bidimensionalitá necessaria sia quello che lo rende inadeguato alla speculazione.

La dialettica pare aver bisogno di un linguaggio tridimensionale o pluridimensionale.

Che forma potrebbe prendere un linguaggio simile? È possibile pensare di costruirne uno? Che cosa significa avvicinarsi a un linguaggio pluridimensionale?

Si tratta di qualche cosa come un linguaggio a piú livelli in cui ogni livello sia contemporaneamente presente ad ogni altro e sua colto dalla mente con un movimento unico.

Si potrebbe pensare, ad esempio ad un linguaggio grafico con una serie gerarchica di tratti sovrasegmentali.

Un approccio di questo tipo peró non permette di immaginare un linguaggio le cui proposizioni abbiano graficamente, sintatticamente, morfologicamente “il movimento di sparire di per se stessa”.


Certamente stimolante è considerare questo testo di Hegel come una proposta di poetica.

Leggerlo come una serie di regole per la poesia. Una poesia che renda sensibile, evidente il movimento dialettico della realtá. Una poesia che sia sempre un passo al di la di se stessa e in cui qualsiasi cosa venga detta sia detta sempre solo come silenzio a venire.


genseki

martedì, gennaio 05, 2010

Dreiser Cazzaniga e l'umorismo

Un'attenta lettrice, una delle pochissime non attente ma appunto almeno lettrici di questo blog scosceso ci invia una testimonianza preziosa su un episodio particolare della vita del nostro Dreiser Cazzaniga che si trova pubblicato ora nei commenti al post: “Dreiser Cazzaniga e il Mobbing” ma che riproduco qui per la sua importanza e per la comoditá dell'argomentazione:

- Italiano sette con dodici” “Matematica sei con dieci”, “Fisica sei con nove”, “Topografia sette con venti” ….”Un nuovo ordine monastico!” esordì Dreiser Cazzaniga anziché dettare il voto di francese seguito dalle assenze”. La professoressa di matematica scoppiò in una risata inarrestabile mentre il Prof. Pezzetto dopo aver ringhiato rumorosamente incassò ulteriormente il cranio all’interno delle spalle ingobbite.
Dreiser assegnava ai suoi alunni il voto ottenuto attraverso la media istintiva, in valore assoluto mai minore di sei, mentre per le assenze effettuava un calcolo più complicato: la parte intera della media armonica delle assenze di tutte le materie che precedevano la sua. Ovviamente effettuava questi calcoli mentalmente e da quando calcolava le assenze in questo modo, anziché contare quelle segnate sul registro, il direttore Nespolino non faceva più pieghe sulla sua faccia castagnosa…
Di fronte il collega Dreiser il Collegio degli esercenti (pescivendole, macellai, droghieri ed altri commercianti dell’Istituto Tecnico Commerciale Stantuffi) era sempre nettamente diviso in due. Sessantratre l’avrebbero fatto uccidere o anche ucciso con le loro mani. Tre eroine dei fumetti invece lo amavano senza riserve e s’illuminavano d’immenso al solo vederlo. -
Shirakumo

Non ci sono molte tracce, negli scartafacci disordinati che abbiamo ereditato dal compianto Dreiser, che ci aiutino a identificare le tre dame. Pensiamo di che una potesse essere Doña Clarita Falta, anche se al tempo cui si riferisce la testimonianza di Shirakumo era abbastanza piú vecchia di Dreiser Cazzaniga, viveva con un vecchio pastore sardo che aveva salvato dal canile e era occupata in incomprensibili operazioni di autodistruzione. Era cinerea non legnosa, piuttosto cinerea si esprime al suo riguardo il nostro Dreiser Cazzaniga.
Forse l'altra era l'anima latina di Doña G. de León y Barbados pallida gaviota del Caribe e di Solentiname come la invoca Dreiser in un frammento di una poesia perduta a questa bella dama dedicata.
D'altre non abbiamo contezza e saremmo grati a shirakumo se volesse avanzare anch'ella una sua certamente acuta interpretazione.
L'ironia e l'umorismo tagliente sovente espresso attraverso sciarade e calembours a bruciapelo non era in Dreiser Cazzaniga indizio certo di letizia e spensieratezza ma di dolore e di amarezza.
Quanto pú soffriva tanto piú si faceva acuta la sua vena comica e rapidi i suoi malabarismi verbali fino a che una rabbia aspra e bruciante lo urticava impietosamente.
Lo stesso avveniva nei momenti di amarezza che erano frequenti in quel periodo.
L'umorismo era per Dreiser la suprema protesta contro l'insensatezza della vita e del cosmo.
Non era, peró, mai distruttivo il dolente umorismo di Dreiser Cazzaniga voleva piuttosto rompere il cosmo, infrangere lo specchio del linguaggio per poi rimontarli in un altro modo per essere sicuro che comunque non sarebbe mai stato piú assurdo di quello che si conveniva di chiamare reale e nella speranza che potesse essere perfino piú lieto, chissá!
Cosí finiva per fasi odiare da quasi tutti i molti che alla povera realtá si aggrappavano con fiducia per non essere travolti dalla loro notte interiore.
Era uno dei grandi peccati, non il solo, ma di certo uno dei piú grandi peccati contro la compassione di cui Dreiser Cazzaniga si dilettó per lunghi animi a macchiare quello strofinaccio liso della sua anima e di cui amaramente si pentí nella vecchiezza.

genseki

lunedì, gennaio 04, 2010

Torri

L'abbandono lascivo delle torri
Fasciate nelle piume della nebbia
Nel cobalto d'oblio delle nubi
Nel mutevole volto dei venti
Dominanti riflesse, modellate, chiamava
A sé lontane nevi
Come lo Sciamano chiama la lucertola
Con i suoi movimenti scivolosi
Con i passi di sussurro e seta, la coda
Vibrante alle onde piú sottili
Della malinconia. Torri, torrette
Saracene, barbacane sole nel tempo
Nel trascorrere di vigne e orzo
Nespole, castagne, frullo di fagiani
Nel disperdersi dell'odore del mosto
E del catrame
Torri lascivi spalti nel lenzuolo del tempo
Come carne concessa della storia
Carne diletta abbandonata oppressa
Torri togate di nebbia ottobrine
Nell'abbaglio della neve
Torri lascive a me avare di abbracci
Nel fuoco della memoria braci
Dell'incendio dei rovi

*

I borghi? Dormienti nelle pianure
Presi nel sonno inespiabile del mare
Onda dopo onda eppur chiusi tra fronde
Tra le chiome degli olmi degli ippocastani
I borghi? Ottusi, bianchi tra il fieno
Sferzati dall'odore acre delle colline
Dalla bianchezza del sole sulla piazza
Ruminando storia e passi zoccoli fustagno
Pneumatici cattedrale tacchi a spillo
Tacchi sottili come il conformismo
I borghi bianchi pascolano nella pianura
Assolati assordati assediati dal vento rosso
Delle colline dall'odore delle trecce
Delle lentiggini contadine
Dalle sirene delle fabbriche di mattoni
Che inchiodano la notte senza stelle.

genseki

sabato, dicembre 26, 2009

TZARA

Buon Natale 2009

Busoni
Sonatina n. 4
"In Diem Nativitatis Christi 1917"
Pianista
Michael von Zadora

L'uomo approssimativo

Tristan Tzara

Frammento “L'Uomo approssimativo” 1931

Domenica grave coperchio al ribollire del sangue
Ebdomadario peso accoccolato sui suoi muscoli
Caduto al'interno di se stesso ritrovato
Le campane suonano senza ragione e noi pure
Suonate suonate campane senza ragione e pure noi
Noi ci rallegreremo al rumore delle catene
Che faremo suonare in noi con le campane

Che linguaggio è questo che ci scudiscia sussultiamo nella luce
I nostri nervi sono fruste tra le mani del tempo
E viene il dubbio con una sola ala incolore
Che si avvita si comprime si schiaccia in noi
Come la carta stropicciata del pacco aperto
Regalo d'un'altra epoca dagli scivolamenti dei pesci di amarezza

Suonano le campane senza ragione e noi pure
Gli occhi dei frutti ci guardano con attenzione
E tutte le nostre azioni sono controllate nulla è celato
L'acqua del fiume ha tanto a lungo lavato il suo letto
Porta con sé i dolci fili degli sguardi che hanno bighellonato
Ai piedi dei muri nei caffé leccato vite
Allettato i deboli connettato sensazioni disseccato estasi
Approfondito fino in fondo antiche varianti
Aperto il varco alle fonti delle lacrime prigioniere
Le sorgenti atte ai quotidiani soffocamenti
Gli sguardi che prendono con mani secche
Il chiaro prodotto del giorno o l'apparizione in ombra
Che concede l'attenta ricchezza del sorriso
Avvitato come un fiore all'occhiello del mattino
Coloro che pretendono riposo o voluttá
Tocchi di vibrazioni elettriche soprassalti
Avventure fuoco di certezza o schiavitú
Sguardi che hanno strisciato lungo discreti tormenti
Consumato i selciatii delle cittá e espiato molte meschinitá con elemosine
Si susseguono strette attorno ai nastri d'acqua
E scorrono ai mari trascinando al loro passaggio
Sporcizia umana con i suoi miraggi

L'acqua del fiume ha lavato cosí a lungo il suo letto
Che persino la luce striscia sull'onda liscia
E cade al fondo con grave bagliore di pietre

Senza ragione suonano le campane e noi pure
Le preoccupazioni che portiamo con noi
Che sono i nostri abiti interiori
Che indossiamo ogni mattina
Che la notte scioglie con mani di sogno
Ornati d'inutile rebus metallici
Purificati nel bagno dei paesaggi circolari
Nelle cittá preparate per la carneficina il sacrificio
Presso i mari che spazzano le prospettive
Sulle montagne severamente inquiete
Nei paesini dai dolorosi abbandoni
La mano pesante sulla testa
Suonano le campane senza ragione e pure noi
Partiamo in partenza e arriviamo in arrivo
Partiamo con chi arriva e arriviamo con chi parte
Senza ragione un po' duri un po' secchi severi
Pane cibo manca il pane che accompagna
La canzone saporita alla gamma della lingua
I colori depositano il loro peso e pensano
E pensano o gridano e restano e si nutrono
Di frutti leggeri come il fumo planano
Ce pensa al calore che tesse la parola
Attorno al suo nucleo sogno che ci chiama

Suonano le campane senza ragione e pure noi
Marciamo per sfuggire dalle strade formicolanti
Con un flacone di paesaggi una sola una sola malattia
Che coltiviamo fino alla morte
So che io porto in me la melodia e non ho paura
Porto la morte e se muoio è la morte
Che mi porterá nelle sue braccia impercettibili
Fini e leggere come odore d'erbe magre
Fini e leggere come partenze senza scopo
Senza amarezza debiti rimpianto senza
Suonano senza scopo le campane e pure noi
Perché cercare il capo della catena che ci lega alla catena
Campane suonate senza scopo e pure noi
In noi suoneremo vetri rotti
Monete d'argento e false monete
Schegge di feste scoppiate a ridere in tempesta
Alle cui porte si aprirebbero abissi
Tombe di vento mulini che frantimano le osa dell'artico
Feste che ce elevano le teste al cielo
E sputano sui nostri muscoli la notte di piombo fuso

Io parlo di chi parlo e sono solo
Non sono che un piccolo rumore con piccoli rumori in me
Un rumore gelato stropicciato all'incrocio gettato sul marciapiede umido
Ai piedi di quelli che vanno di fretta corrono con i morti attorno alla morte che stende le
braccia
Sul quadrante della sola ora vivente sotto il sole

Spesso si fa il soffio oscuro della notte
E nelle vene cantano flauti marini
Trasposti sulle ottave degl strati di diverse esistenze
Le vite si ripetono all'infinito fino ala magrezza atomica
E in alto cosí in alto che non possiamo vedere con queste vite accanto che non vediamo
L'ultravioletto di tante vie parallele
Che avremmo potuto imboccare
Sule quali avremmo potuto non entrare nel mondo
O averlo abbandonato da così tanto tempo
Che sarebbe dimenticata l'epoca della terra che ci succhió la carneficina
Sali e metalli liquidi limpidi al fondo dei pozzi

Penso al calore che tinge la parola
Attorno al nucleo del sogno che ci chiama.

Trad genseki

giovedì, dicembre 24, 2009

Era anche nella mente dei delfini

Era anche nella mente dei delfini
In quella delle balene, forse
D'altri cetacei, l'agonia della bambina
Caduta nel pozzo
Profondo come un'occhio
Tra il grano dorato, lei correndo
Nell'azzurro, tra due ispirazioni
Il delfino è consapevole della luce
Della schiuma, della purezza dello iodio
Del buio che ferisce laggiú
Ci sono scale fungose, muco fosforescente
La bambina non è sicura di essere
Davvero mai esistita nella mia mente
L'oro del grano, l'odore rosso delle ginocchia
Le balene soffiano rabbiose
Tremano gli alberi di amarene
La pianura rovente i delfini
Scarabocchiano con la schiuma
Raggi azzurri dalla loro alla mia mente
E lei cade tra altri funghi
Questi anche piú deformi maligni
In altre menti, in altri cetacei
Inconsapevole di quell'odore di cuoio
Di quell'occhio appena lacrimoso
Dell'oscuro che si apre un varco
Tra l'oro i delfini e i suoi capelli rossi
Nella mente della balena
Nella mia mente scivolando
Dall'una all'altra mentre
Lui la apre e qualcosa sanguina
Tra il grano e l'azzuro richiamo
del mare.

genseki

Natale 2009

Oggi la Vergine da alla luce
Colui che per l'Essenza è l'Eccelso
La Terra offre accesso a una grotta
A colui che è inaccessibile.
Angeli e pastori intonano canti di lode
I Magi nel loro cammino
Seguono la stella.
Ecco per noi è nato un bambino:
Egli è il Dio senza tempo.

Kontakion di Natale
Romano il Melode
trad. genseki

martedì, dicembre 22, 2009

Sul dorso della colline

Sul dorso delle colline
Dormivamo interminabili
Fino a rendere trasparente il sonno
Fino al profumo di spine e ginepro
Il vento, infatti, era davvero vetro
E noi oscillavamo come fiamme di candela
Come candele ci accendevamo
L'un l'altra nel profumo del timo
Le tue radici le cercavo a tentoni
Andavo cercandole sotto le pietre
I miei occhi li accarezzavi tra lo sparto
Dove si erano infitti nell'urto
Con le tue lunghe dita di scoiattolo;
Io ero lepre pronta alle tue fughe:
O fuggimi, fuggimi ancora
Come se fossi l'ultima parola
Il corpo in canna, la foglia sospesa
Il lapsus, la stella che non vuol cadere
La falce di luna piena del sorriso
Fuggimi, dormimi sul filo tagliente
Sul coltello della collina come conchiglia
Fossile accoccolato nella marna
Levigato dalla marea del tuo cuore
Con tutti quei coralli e le galassie

*

Il merlo lo avrebbe detto a tutti
A chi non aveva mani per guardare
Corolle per captare le radiazioni della rugiada
Il merlo alla fine ci avrebbe traditi lo stesso
Avrebbe portato nel becco il filo rosso
Per connetterlo alla maledetta bobina
Per connetterlo a tutta quella sofferenza
Per questo non riuscivamo piú a sciogliere
L'intreccio delle nostre dita
Unite tra di loro come la noce al suo martello
La nuditá al cappotto
Come l'invito alla perdizione
L'ubriaco alla paura
La luna alle nuvole notturne
Il giglio alla libellula cobalto
Il telefono ed il tuo salotto vuoto
Le persiane alla serratura dei gerani
I passi di tuo padre e la sua bara
Le sue scarpe di vernice e i tuoi collant
La mia cravatta e il tuo smalto da unghie
Strette come un nodo stretto al suo tumore
Si gonfiavano le nostre dita, e poi
Si facevano bianche bianche
Come un grappolo di scheletri di feti.

*

La libertá lasciva ci versava
Il mosto delle sue lacrime
Tra le pieghe della tua tunica
Pullulavano bruchi in preghiera.

*

genseki

lunedì, dicembre 21, 2009

Tristan Tzara


Due testi di Tristan Tzara

Fu allora che un fuocherello si fece largo tra gli uomini
O Spagna madre di tutti coloro che la terra non ha cessato di mordere da quando hanno avuto la crudeltà di vivere
Forza del sole alle putrelle di vecchi pani
Nessun sorriso che non si sia disfatto in sangue
Con gli occhi sbarrati hanno taciuto le campane
Bambole di terrore mettono i bimbi a letto
L'uomo si è spogliato del mistero delle parole
Le campagne mostrano gli artigli le case spente
Quelle ancora in piedi nei sudari si asciugano al sole
Sparite immagini pietose ai nudi denti
Risuonano gli stivali della mercede dei traditori

Avrei avuto per me la chiarezza
Sulle strade di Joigny dal sole collegato
Che sono io protetto da un'apparenza in marcia
Undici anni di morte sono passati su di me
E la brughiera non ha atteso il prezzo della sua foga
Non ha atteso la ricompensa della sua calma
Per manifestare alla vita un pomposo rinascimento
Mentre scorza ruvida di monte a raffichi
Correndo ho superato l'immrtalitá dell'illusione...

*

L'acqua scavava lunghe fanciulle

L'acqua scavava lunghe fanciulle all'ombra della sabbia. Ci incrostammo nella notte. Nessuna angoscia ha resistito alla virulenza occulta. Lontano dalle pietre, nel loro centro. Le spine non hanno conosciuto ragioni migliori per annientarsi. Un frutto, il rimorso, come una capsula di luce. E al centro la corono con la corona di spine. Luce immensa che getta sulla spiaggia frutti non sopiti, in brandelli, succosi precursori della morte. Ecco tutta la povertá della campagna. I fatti inassopiti.

L'assenza di sogno, né grave né triste. Per sempre rocciosa e venata di epoche lontane, di ricordi vinosi e di corse verso la morte. Immutabile melancolia di coperte d'acqua che un dormiente di carbone stira per coprirsi fino al collo. A braccetto se en andarono le onde dai luoghi del penseiro e non lasciarono al gusto salino che il feddoloso ricordo del sole.

Brutta, la faccia cambió luci con il faro. E gli animali mostruosi ritorvarono la loro placida postura nel cavo dell'oblio. Tutta la desolazione immensamente fosforescente di una mano tesa a un tornante di mare.

Mezzanote per giganti in “L'Antitesta” 1933

domenica, dicembre 20, 2009

Blacatz e il Capitano

Il tema del testamento del guerriero che ordina che il proprio corpo sia diviso in tante parti e inviato o donato agli eredi da lui nominati è curiosamente comune a due testi abissalmente distanti tra di loro come il Sirventese di Sordello da Goito e il canto alpino "Il capitan de la compagnia".
Questa comunanza tematica non si può certo ricondurre a una traidzione testuale, per quanto frammentaria che unisca questi due testi con un filo attraverso i secoli e le classi sociali. L'identitá tematica è dovuta a ragioni piú profonde. Ragioni dell'anima e non del testo. Certo il lascito di parti del proprio corpo, per esempio e soprattutto il cuore, come gesto di valore simbolico e sacramentale, nel Medioevo, era relativamente frequente: Il re Alfonso X il Saggio lasció per volonta testamentaria il suo cuore alla cittá di Murcia ove ancora è custodito in uno splendido scrigno nella cattedrale, all'epoca della Prima e della Seconda Guerra Mondiale ha invece solo un valore metaforico. Comunque l'dentitá tematica resta lo stesso molto forte anche perché, appunto a rafforzarla viene un'altra evidenza. Entrambi i testi hanno per protagosisti guerrieri e soldati (per quanto i soldati possano ancora essere considerati guerrieri), Nel primo testo il legato corporale è di un solo organo: il cuore ed è dichiaratamente cannibalico o eucaristico, nel secondo il cannibalismo è presente come il non detto che permette al testo di sostenersi emotivamente sul terreno solido della rimozione. Questo anche perché, probabilmente la fede nell'Eucarestia nel primo novecento era abbastanza indebolita nel mondo popolare da non poter piú funionare da sostegno simbolico del cannibalismo rituale proveniente da strati archetipici e da bisogni simbolici molto piú arcaici.
Nel testo di Sordello anche i destinatari-eredi sono guerrieri, nella canzone i destinatari eredi appartengono al lato femminile dell'esistenza. Morire per il Capitano degli Alpini è rientrare nel mondo della Madre, per Sordello è restare in quello della guerra attraverso la sopravvivenza del proprio spirito guerriero ad altri membri della stessa casta. Quest'ultima differenza dipende dal fatto che sopra è appena accennato in partenza che la figura del soldato non è sovrapponibile a quella del guerriero, il soldato è una forma molto molto degradata di guerriero.
La relazione tra i due testi è forte a livello simbolico e permette una analisi dettagliata di come un archetipo vada trasformandosi e forse depotenziandosi nel tempo.
genseki

sabato, dicembre 19, 2009

Gianni Schicchi: "Spogliati, bambolino" (Levine)

Coro Piccole Dolomiti - Il testamento del capitano

Sordel
Planher vuelh en Blacatz en aquest leugier so,

Planher vuelh en Blacatz en aquest leugier so,
Ab cor trist e marrit! et ai en be razo,
Qu'en luy ai mescabat senhor et amic bo,
E quar tug l'ayp valent en sa mort perdut so!
Tant es mortals lo dans qu'ieu non ai sospeisso
Que jamais si revenha, s'en aital guiza no!
Qu'om li traga lo cor e que·n manio·l baro
Que vivon descorat, pueys auran de cor pro.

Premiers manje del cor, per so que grans ops l'es
L'emperaire de Roma, s'elh vol los Milanes
Per forsa conquistar, quar luy tenon conques
E viu deseretatz, malgrat de sos Ties!
E deseguentre lui manje·n lo reys frances:
Pueys cobrara Castella que pert per nescies!
Mas, si pez'a sa maire, elh no·n manjara ges,
Quar ben par, a son pretz, qu'elh non fai ren que·l pes.

Del rei engles me platz, quar es pauc coratjos,
Que manje pro del cor! pueys er valens e bos,
E cobrara le terra, per que viu de pretz blos,
Que·l tol lo reys de Fransa, quar lo sap nualhos!
E lo reys castelas tanh qu'en manje per dos,
Quar dos regismes ten, e per l'un non es pros!
Mas, s'elh en vol manjar, tanh qu'en manj'a rescos,
Que, si·l mair'o sabia, batria·l ab bastos!

Del rey d'Arago vuelh del cor deia manjar,
Que aisso lo fara de l'anta descarguar
Que pren sai de Marcella e d'Amilau! qu'onrar
No·s pot estiers per ren que puesca dir ni far!
Et apres vuelh del cor don hom al rei navar,
Que valia mais coms que reys, so aug comtar!
Tortz es, quan Dieus fai home en gran ricor poiar,
Pus sofracha de cor lo fai de pretz bayssar.

Al comte de Toloza a ops qu'en manje be,
Si·l membra so que sol tener ni so que te!
Quar, si ab autre cor sa perda non reve,
No·m par que la revenha ab aquel qu'a en se!
E·l coms proensals tanh qu'en manje, si·l sove
C'oms que deseretatz viu guaire non val re!
E, si tot ab esfors si defen ni·s chapte,
Ops l'es mange del cor pel greu fais qu'el soste.

Li baro·m volran mal de so que ieu dic be,
Mas ben sapchan qu'ie·ls pretz aitan pauc quon ilh me.

Belh Restaur, sol qu'ab vos puesca trovar merce,
A mon dan met quascun que per amic no·m te.

Il Testamento

Il testamento di Dreiser Cazzaniga
a cura di genseki

Il Testamento


Come fece un tempo Blacasso
Anch'io dispongo qui il mio testamento
Mentre sul prato ulula il lupo
Accanto al fuoco con buon mantello
Con molta legna nella legnaia
Cipolle e biada, patate e grano
Forti candele per lunghe veglie
Sano di mente e senza inganno
Questo ritengo vada disposto
Quando verrá la Dolce Dama
Quella che porta la lunga falce
Sottile e lucida come la luna

Voglio che il cuore che fu tanto ansioso
In quattro spicchi venga tagliato
E dato ai gatti del vicinato
Che sempre intesero il mio dolore
E lo calmarono con tante fusa
Quanti i suoi palpiti d'amor perduto.

Voglio che gli occhi che il sole accolsero
Lo custodirono sotto le palpebre
Fecero cuocere con i suoi raggi
Tanti pensieri ed orazioni
Siano interrati nell'orto di Enza

Germoglieranno a primavera
Come datura che inebria e stronca
Perché lo mescoli con l'amanita,
In libazione al Dio d'amore.

Tutte le dita le lascio agli alberi;
Non furon foglie e le invidiarono,
Forse potranno cadere in autunno
Sfiorate appena dalle libellule.

Il mio pisello: quel piccolino
Lo lascio a Edmo dal gran bordone
Perché ne apprezzi la tenerezza,
La delicata anatomia
Che sparse vita in bianche gocciole
Quando dovunque infuriava lo stupro.

I piedi poi li voglio donare
A tutti quelli che non sanno lasciare
La loro vita tanto tranquilla:
Con il lavoro, con la famiglia
Perché anche loro sappian godere
D'una gran fuga per i sentieri
Che van sparendo sotto le chiome
Dei grandi boschi o che il vento cancella
Soffiando ardente sopra le dune.

Le orecchie, infine, che hanno udito
Tante calunnie e maldicenze,
Che sono piene delle sciocchezze
Che in tanti anni hanno ascoltato
Le lascio entrambe a tutti coloro
Che non ascoltano le implorazioni
Di quanti soffrono e chiedono aiuto
Come castigo ben meritato.

Nell'annodomini duemilanove
Mentre sui campi infuria tormenta

Guardando i lupi dalla finestra
Con un gran ceppo nel focolare
Io sottoscrivo questo legato
E lo consegno allo Sfregiato
Perché ne curi l'adempimento.




venerdì, dicembre 18, 2009

Vox I

Russian Basso Profondo: The Lowest Voices

Questa è la prima parte di un viaggio nel mondo delle voci. La voce del basso liturgico, forse è un ricordo vivo dello sciamanesimo staroslavo, scita. Dio abita nella voce come nel pane, si corpo con la voce e nella voce come nell'eucarestia, nel figlio.

genseki

giovedì, dicembre 17, 2009

Dreiser Cazzaniga e l'amicizia

Dreiser Cazzaniga cominció a interrogarsi sull'amicizia in etá giá relativamente avanzata. certo fino ad allora gli erano mancati i necessari punti di appoggio culturali e teorici che, servendo da specchi piú o meno deformanti, gli permettessero di mettere a fuoco il tema. Poi scoperse i capitoli ad essa dedicati nell'Etica Nicomachea e il saggio di Montaigne sull'amicizia con Etienne de La Boëtie.

Questi sono l'oggetto di altre pagine della sua vasta e inutile biografia intellettuale di cui mi sforzo di fornire un vago resoconto. Per quanto riguarda invece l'amicizia come contenuto, ebbene, Dreiser non ebbe molta fortuna, questo è certo. La cosa piú simile a un'amicizia che ebbe negli anni dell'adolescenza fu la sua relazione con Beaumont. Di cui solo vent'anni dopo avrebbe scoperto la natura miserabile, dppia, codarda e malvagia, ma che anche quando persisteva a vivere in comunione con lui sulla base di un'umiliante equivoco, gli amareggiava sensibilmente la vita. Infiniti furono i casi di aperta ostilitá, sempre meschina e codarda del Beaumont e davvero incomprensibilmente ignobile la bassezza con cui, prono, Dreiser gli ignorava e, anzi si ostinava a considerarli momenti dialettici di crescita della relazione.

Altri amici per lungo tempo non ebbe. Una quasi amicizia la strinse con il medievista Enrico Sesti, negli anni dell'Universitá. E con Charlse Obana nel cuore del Cameroun.

Poi poco a poco la natura dell'amicizia gli si venne rivelando come vuota e fantasmatica. Comprese cioè che tutti in qualsiasi luogo e in qualunque momento: cioè proprio in questo momento e proprio in questo posto, tutti e ciascuno sono il nostro amico e la nostra amica; e che quando fissiamo qualcuno negli schemi dell'amicia, lo inchiodiamo con i chiodi del nostro affetto, non facciamo altro che costruire un fantasma con i frammenti del nostro Io che sentono questa necessitá di sdoppiarsi e di riflettersi. In questi fantasmi che siamo soliti chiamare amici finiamo per avvilirci o per eccitarci e per esercitare un frustrante senso di potere. I nostri amici per essere tali devono, soprattutto essere un vuoto, un nulla. L'amicizia è, invece, la dolcissima coscienza, di condividere con tutte le persone, e non solo le persone, la sensazione di vivere.

Un vuoto assoluto fu per Dreiser Cazzaniga la sua fantasmatica amicizia con la Señora Tejada de las Silvas. Non poteva, per quanto si sforzasse evitare di evocare questo tarlato ectoplasma con una frequenza pendolare.

Qualcuno di coloro che furono in intimitá con Dreiser Cazzaniga potrebbero, a questo punto chiedermi perché non menzione qui il suo sodalizio con Spadaro di Quittengo.

Risponderó, lo prometto in un altro capitolo della mia esposizione del manoscritto delle memorie di Dreiser Cazzaniga.


genseki

martedì, dicembre 15, 2009

Paradjanov - Sayat Nova (Il Volto della Sophia)

Promessa

All'inizio c'è una promessa. È la promessa che permette al cucciolo di drizzare la codina tremante come un'antenna per captare il mondo. È la promessa che permette l'innocenza e l'avventura. All'inizio c'è anche la fede che permette di credere alla promessa. Di credere che c'è una promessa e che questa sará compiuta e che il suo compimento è quello che garantisce anche il momento presente. La fede nella promessa attraversa molte fasi. Nella prima è assolutamente naturale, è come respirare o ricevere la luce attraverso gli occhi. L'ultima fase è quella della disperazione. Le fede nella promessa è, allora, certezza nell'impossibilitá che essa si compia. Anche nell'impossibilitá,tuttavia, la promessa resta al centro del cuore. Muta forma, si occulta, è negata ma non è rimosssa. Mai. La promessa non appartiene né al regno dello spirito né a quello dell'intelletto e neppure al dominio della ragione. La promessa sta nel corpo, nella carne, nel sangue e nel seme attraverso il quale si trasmette di generazione in generazione. La promessa è qualche cosa che sembra inerente all'organismo. Forse è quella che permette all'organismo di essere una struttura che si differenzia da tutte le altre. La promessa, in ultima istanza, è l'altra faccia della vita. La faccia che quarda alla morte costantemente come se la morte non fosse negazione, non fosse la negazione. La promessa si pianta nel cuore della morte, trafigge il corpo, lo inchioda alla croce dello spirito.

genseki

Il limone e il rosmarino

Solo un frammento di tempo
Ci bastò per esserne abbagliati
Invano ci saremmo chiesti poi
Se perdurare fosse nella promessa

Quello che importava era bruciare
E bruciammo, questo è certo,
Sapevamo bruciare, ceste intere
Di ricordi, di paesaggi, di lacrime

Bruciammo le speranze e l'eco
Bruciammo il calcolo e l'abitudine
Le carezze e i passi spesi invano
O quanti, quanti furono questi ultimi,

Bruciammo l'amicizia ancora in erba
Anche i baci bruciammo quando erano germogli
Bruciammo le radici e i torrenti
Le vele e il vento che le gonfiava

Bruciammo pensieri e disperazione
Come fossere carbone e diamante
Mentre ci asciugavamo gli occhi con le rose
E ballavamo su gli aisberg con Gertrude

Perché lo spirito è pura fiamma azzurra
Ma la promessa è solo in seme e in carne
Ci ritrovammo su di un mucchio di cenere
Con ossa terse e occhi cristallini

Ma proprio accanto stava germogliando
Sotto un limone il fresco rosmarino.

genseki