mercoledì, maggio 02, 2012

Jeve II


 Questa che segue è la seconda parte del vasto poema "Jeve ovvero la radura" di Dreiser Cazzaniga che narra la vita e le gesta di Bools Corracha e dei suoi compagni. ( La prima parte si trova due entrate fa in questo stesso blog. Il primo di maggio)
genseki


D'estate il folto fogliame trasformava la strada serpeggiante
In un tunnel umido e scivoloso in modo che
Passata la terza curva, districato lo sguardo dal grande acero
Che un tempo ombreggiava l'edicola presso la quale
Le massaie si recavano a lavare i panni
L'aprirsi subitaneo dello spazio ala vista
Produceva una sensazione d'abbaglio e di speranza.
La vastissima radura pianeggiante dava la sicurezza
Che danno i luoghi di esatti confini, di limiti tracciati
Da leggi oggettive: fiumi e scoscendimenti e spumeggiava
Di luce nella bella stagione e di nebbia pungente nell'Autunno
Sovente in inverno il biancore nevoso la rendeva
Simile a una pagina su cui semi e tracce delineavano
Una scrittura tremula e profonda.
Bools Corracha giunse alla radura dall'Africa
Un'Africa prenatale fu la sua in cui fu feto
E nacque a stento e con gran pena alla vista,
Allo sguardo, al situarsi, a distendere il suo corpo
Al godere del bolo e dell'eiaculazione,
Della seta di pelli tiepide al tremolio costante
Delle tende nel dormiveglia come un cielo
Nuvoloso, gli scrosci di pioggia e i fanghi rossi
Come il dolore, l'inquieta assoluta intemperata solitudine
Non bastavano a farne un uomo
Tra le colonne smarrite e dementi degli eucalipti
Mimava la gioventù di un altro: il Poeta delle volpi
Dei lupi con l'indigestione di piume e di tutti quegli altri ortaggi.
La sua fino a quel momento non aveva saputo raggiungerla
Fu un relitto che qualche mare superfluo
Gettò sulle rive della radura dove avrebbe poi regnato
Jules Lapache l'uomo della tana dei libri sudici
Il vagabondo dei sentieri dei funghi, il pataro smemorato.
Nessuno aveva libri più sudici di quelli di Jules Lapache
Nessuno ne avrebbe mai più avuto altri altrettanto sudici
E poi sudici non erano i suoi libri ma anche le riviste,
I ritagli unti di vecchi quotidiani macchiati di caffè muffoso
E su tutto si stendeva la frusciante sporcizia aracnoidea
Che strisciava pruriginosa dalla pareti scrostate.
All'aria aperta, invece, Jules Lapache era un vero Lautaro
Quale Ercilla cantò nella selva araucana,
Schietta razza di caciatore guerriero uso alla fame
E stremato dal tanto camminare.

Dreiser Cazzaniga

martedì, maggio 01, 2012

Sestina di Peire de Lautel




*



Saggio

Maggio
Raggio
Coraggio
Faggio
Aura


Senhal: La Dama Silvestre




Questo verso fu fatto sotto un faggio1
Tra le cui fronde mai non filtrò un raggio
Da un uom ch’un tempo fu creduto saggio
E mentovato pel su’ gentil coraggio2
Ed ora non distingue April da Maggio
E con pala e badile ammassa l’aura.3


Più non mi giova dell’Aprile l’aura
Che pone gemme ai rami del faggio
Che non distinguo più Giugno da Maggio
E l’ombra fosca dal gioioso raggio
Dacché col guardo saettastemi ‘l coraggio
Per far della possanza vostra un saggio.


Ahi che in amor tanto credea esser saggio4
Qual buon nocchier drizzar la vela all’aura
E affrontar la procella con coraggio
Saldo nel temporale come un faggio
Ora non mi rallegra sol di Maggio
Quando ravviva il bosco col suo raggio.


Ah se d’una candela al picciol raggio5
V’avessi nuda tra le braccia, un saggio
Ben vi darei d’amor che al sol di maggio
Mai non godeste così dolce l’aura6
Ch’allor sarei quale un bordon di faggio
Per la vertù che sale dal coraggio.


Donna, ché in pugno avete ‘l mio coraggio
Che si discioglie come neve al raggio
Del sol ardente, e pur fiorì qual faggio
Che con l’ampie sue fronde allieta il saggio
E l’usignolo alberga e freme a l’aura,
Fate ch’io colga la Rosa di maggio!


Fate ch’io colga la rosa di maggio!
Che io porto marchiata nel coraggio
La rosa che di sé profuma l’aura
Si ch’io gioisca ancor del sole al raggio
E come un tempo ancor ritorni saggio
Ed ampio e forte come un vecchio faggio


Canzone nata d’affranto coraggio7
Alla Dama Silvestre8 porta ‘l saggio
Del pianto che mi tragge col suo raggio.


Peire de Lautel
Trad. genseki


1 L’incipit di questa canzone ricorda quello celeberrimo di Guilhem IX “farai un vers”.
2 Coraggio è un provenzalismo per core: “coratge”.
3 Si tratta di un evidente richiamo ai tre versi per i quali Arnaut Daniel è universalmente noto:
“Ieu sui Araut qu’ama l’aura.
E chatz le lebre ab lo bou
E nadi contra suberna”.
Secondo la versione del codice parigino della Biblioteca Nazionale 856.
4 Il testo riecheggia qui il verso di Bernart de Ventadorn “Ai las tan cuidava saber d’amor”
5 Reminiscenza del verso di Arnaut Daniel “E quel remir contral lum de la lampa”.
6 Il codice Mallarensis 161 riporta la variante: “Mai non godeste così, dolce Laura”.
7 Coraggio è un provenzalismo per cuore “coratge”.
8 Si ignora quale Dama si celi sotto il “Senhal”. La qualità di silvestre si riferisce alla crudeltà ferina con cui essa si nega al poeta che per lei langue.

Jeve I


La valle si stringeva improvvisamente
Tra aceri e ontani. Sul corso del fiume
Ormai morto da tanto tempo
Lo scheletro di un idrometro
Ormai quasi un'astrazione di povero cemento
E barre di ferro disfatte in polvere rossa
Di ruggine fangosa. Da quanto ormai
Il fiume aveva perso la sua funzione?
Inutile giaceva ora come dimenticato dalla sua lingua,
In nessun dialetto più da nessuno nominato
Morto insomma morto come un fiume sa morire
Conservando le apparenze di una povera vita
Solo in poche pozze nascoste tra le fronde
Lassù dove vi era stata forse una miniera di torba
Poi un bordello e un mercante di cavalli
E ormai solo un bosco confuso nella povera
Demenza del silenzio
Si permetteva ancora di ripetere ad anime più
Ingenue il sermone dell'unione e quello dell'impermanenza.
Con tre curve strette scure e viscide la strada si sforzava
Di oltrepassare la gola e si apriva allora
Una vasta radura, proprio nel punto
In cui il povero fiume riceveva l'apporto
Delle acque di un breve fresco affluente
Che scrosciava dal selvoso versante meridionale
Nel quale aveva scavato la sua propria valle
In tante migliaia di anni popolata poi da pastori
E da assassini della cui esistenza testimoniavano
Ormai solo le umide edicole della Vergine e di Santa Rita
Da nessuno ormai più venerate con la misteriosa miseria
Dell'orazione che accomunava le vecchine
E i guardacaccia, carbonari ed i pastori
I cacciatori di selvaggina di passo e gli sterratori -
Tutte le leggende si erano perse con la lingua che le aveva espresse -
Il mondo dei fiumi fantasma era muto e il gelo
Non era più la lieta chiamata di Dio nella carne viva
Alla pace della fede.
I fiumi conversarono un tempo con gli schioppi
E con le squille degli alti borghi, dei santuari inerpicati
Sui colli protetti dai faggeti.

Dreiser Cazzaniga

mercoledì, marzo 21, 2012

La Parola nel deserto

 Quando sentiamo oppressi in modo intollerabile dal mistero dell'esistenza umana e da quella che sembra l'impotenza totale di Dio per fare qualsiasi cosa, fosse anche solo preoccuparsi della sofferenza umana, ci troviamo nello stadio della "parola nel deserto" di Eliot e ascoltiamo tutta quanta la retorica degli ideologi che vanno spurgando, razionalizzando, proclamando il tempo del rinnovamento. Solo dopo di questo ci sarà forse dato di ascoltare la voce spaventosa e tanto attesa che annichila tutto quello che credevamo di sapere e restaura tutto quello che non avevamo mai perduto.

Frye.

Leo Ferré - T'amavo tanto sai...

sabato, febbraio 18, 2012

Il cerchio protetto

Costruiva l'albero per noi
L'estensione di uno spazio interiore
Il cerchio protetto
Il pane, la luce gialla di una candela
Il rifugio dello spossato
E l'ascolto della luna lassù
Della luna elettrica e dei suoi trilli blu
E questo era perdurare nel cerchio
Abitare sotto tetti vegetali,
Percepire il profumo variabile della pioggia
La scorreria delle perle sulle foglie
Cartografiche del banano
E la sagoma d'argento dei merli
Sullo sfondo freschissimo
Della notte
Dell'ultima primavera
Questo era perdurare
Da questa parte del mare, tra i funghi,
Tra il salnitro, purificando il sale in voli
Di scintille nel focolare.
Tante volte fu maledetta la mano che versò il latte
Sotto il melo
Altrettante maledizioni furono fragranti perle di gelo
Era un manto d'amore
Non il gelo della notte
Quello che ci faceva rabbrividire di gratitudine.

genseki

venerdì, febbraio 17, 2012

Il disgelo


Parliamo poco ormai
Con occhi conserti
E gigli convolvoli alle tempie
Parliamo poco sai
Come colombe
Ala soglia del tempio
All'alloro abbandonando
Tutti i segreti del piacere
Della mattina e questo fremito
Di vivere, di essere qui svegli
Questo brivido di rinuncia
Per una morte più fresca
Per il disgelo:
Finalmente

genseki
a cura di Dreiser Cazzaniga

Beuys


Il Postero

Lo confesso
Speranza non ne ho più
I ciechi mormorano di una via di uscita
Io ci vedo.

Quando svaniscono gli errori
Un ultimo ospite ci siede in fronte:
Il nulla.

Betold Brecht
Trad genseki

A mia madre

Wieviel Schmerz brauchte es, bis sie so leicht ward.

B. Brecht

(Quanto dolore ci volle per farla così leggera).
Trad genseki

giovedì, febbraio 16, 2012

La luna nella casa

Questa è la sola poesia mai scritta dalla mamma, credo nel Natale del 2009

La luna nella casa

La luna entrò in casa
E non lo seppe nessuno
Penetrò per la finestra,
Ma era accesa la lampada:
Restò in un angolo ignorata ...

Quando tutti andarono
A coricarsi, i fiori di un vaso
Videro la loro anima disegnata,
Con lieve chiarore di luna,
Sulla pace bianca della parete.

Antonietta

a cura di Dreiser Cazzaniga

Coplas que hizo don Jorge Manrique a la muerte del maestre de Santiago su padre