giovedì, marzo 31, 2011
Variazioni dell'albero
Proprio dove si approssima il sangue non accorda
L'ardore degli occhi resta ormai nel paesaggio,
E non appena interpreta il suo corpo colpito,
Dell'albero nemico, la voce muove i rami.
Eccolo qua! Ritorna, il corpo ha venduto la scia
Il cane, non piú guardia, mansueto se ne fugge.
Quello che ci separa, amicizia, artifizio
Erra come una stella sul tavolo del magi
Albero galleggiamte, presago, marino
Rotola fino all'essere mio strano, ripetuto,
Come passi sfrattati duramente risuonano.
Albero disdegnato, la mia mano lo spinge;
E funereo s'infrange sulla roccia,
Mentre piange la mano di durezza intoccabile.
*
II
(Distruzione notturna dell'immagine arborea)
La caduta dell'albero lo distingue
Lento se ascende attrazione non cresce
Albero solo. dimorando inizia
A distrugger spazio; e bruciandosi, torna.
Negli occhi, ormai, l'icona ben tessuta,
Nel cui incendio ondeggiano le fronde
Ed occhi e pietre, aprono le foglie
Al tempo nuovo che in sangue mi crocchia.
Un albero restava, l'immagine, la notte
Immobil fiera, battuta e volontaria,
Fruga coll'unghie e col fiato distrugge.
La notte che all'albero si allaccia
Duramente lo spazio incorpora al fluire
Del fiume che scorrendo la distrugge.
*
III
(L'albero e il passaggio distrutto dalla notte)
Un immenso galoppo nel fondo della stiva
Sa giuungere e facendo la muraglia svanisce
Il rumore sinistro ed il sinistro volo
Dell'Icaro di seta grave petto caduto.
Come una barca l'albero conosce
Cadono foglie, penzolano mani
L'albero spoglio mormora
Pesano le domande sulle mani sfinite.
La notte galoppando trae oppio dalle alghe,
Circonda le cittá, le statue avvolge
All'uomo inumidito solleva le spalle
Dopo la notte bollono e la foglia e l'uccello
La cittá devastata muove avanti le torri
Ma non dimora l'albero presso il fiume ed il sogno.
*
IV
(L'artifizio allunga la notte)
Immagine ha creato, sull'albero ricade
Si concentra e distrugge il suo speccio vorace.
Impossibie il salto
Sulla neve della razza migrante
Processione, nastri nero di tamburi,
Che dal fondo dell'acqua fabbrica inalterabile,
E quando va avvolgendo il suo raggio distrutto
Come un figlio il tamburo, ecco che cinge il padre.
Nelle ceneri sue frusta si sdoppia
Il sogno si fa greve e serra le sue smorfie
Chi un albero riceve si armonizza durevole,
Per cadere in un petto giammai prima raccolto
Il fiume rintoccava come un cane impiccato
Ora conduce e macina, adesso contro il fuoco.
José Lezama Lima
trad. genseki
mercoledì, marzo 30, 2011
Il Servo di Darío
Allevato dai Darío
Si presentó al poeta - ed entró al suo servizio
Quando ritornó dal suo ultimo viaggio.
Oggi coperto da un lenzuolo
In mezzo alla strada
Sua nipote lo piange.
La sera leggeva Rubén Darío.
Sapeva persino a memoria "Le ragioni del lupo".
Poi non gli rimase che il ricordo.
Una catarrata
Lo introdusse lentamente
Nella nebbiosa contrada della cecitá.
- Don Rubén era un principe,diceva
Non appena la febbre gli concedeva una pausa si vestiva Limpido e impeccabile. E si sedeva
Nella sua poltrona di vimini con un libro in mano.
Lo ricordo vestito di lino di cotone e col panciotto.
Le scarpe brillavano
La cravatta azzura
I capelli che cominciavano a scarseggiare A farsi bianchi.
- Goyo: porta via la spazzatura! - mi diceva >Non sopportava la sporcizia.
Sembrava distratto
Ma non sfuggiva niente
Ai suoi occhi svegli e esigenti.
E Goyo ogni sera tornava
Ai suoi ricordi come a una Accademia
Puntuale, e i suoi gesti
Si facevano piú distinti.
Tutte le sere saliva
La scalinata di un palazzo.
Serviva Il principe.
Don Gregorio
Il paggio.
Ora sua nipote
Prega quelli che passano
Che la aiutino a comprare una bara.
- Aveva una voce dolce, ma
Quando entrava in collera
Tuonava. Don Rubén era allora
Chi lo avrebbe mai creduto! Volgare.
Donna Rosario diceva:
Un poeta
Cosí non puó parlare.
E don Gregorio il paggio
Assumeva un aria protettrice
Di fronte alla debolezza del Principe. -
Una volta litigó con Donna Chayo
Storie vecchie. Gelosie stagionate
A don Rubén brillavano gli occhi.
E lei
Gli ricordava
Che lui impegnó i suoi gioielli a Panamá.
Quel giorno
Don Rubén ebbe una ricaduta e molta febbre.
"Un numero infinito di cose
- Dice Borges -
Muore in ogni agonia".
Con questo veccio servitore forse si spengono
Le ultime orecchie
Che conservarono la voce di Darío.
Seppellendo Goyo nella fossa comune
Seppelliamo il popolo
E con il popolo La voce del suo poeta.
Pablo Antonio Cuadra
Trad genseki
martedì, marzo 29, 2011
Clara Janes
Trad genseki
Equatoriale
Allora cominciai a cantare da lontananze sfrenate
Le bandiere sporgendo dai nidi
Tuonavano nel vento
UOMINI NELL'ERBA
IN CERCA DI FRONTIERE
Su un campo qualsiasi muore il mondo
Da teste premature
Germogliano ali ardenti
Nella trincea dell'Equatore
Dentro il tritume
All'ombra di aeroplani vivi
Cantavano nel chiarore vespertino i soldati.
Ad una ad una si spengono
Le cittá dell'Europa
Camminando verso l'esilio
L'ultimo re portava al collo
Una catena di lacrime opache
Le stelle cadenti
Erano lucciole nel muschio
I manifesti impiccati
Pendevano dai muri
Un'ombra scivoló giú dalla falda dei monti
Dove il vecchio organista dirige il coro della foresta
Il vento mescola gli orizzonti
Appesi a vele e gomene
Un uccello cantava
Sull'arcobaleno
Spalancate la montagna
Dovunque sul suolo
Ho visto ali di rondine
Il Cristo al decollo
Dimenticó la corona di spine
Guardiamo il nostro tempo
Seduti sul parallelo.
Vicente Huidobro
Ecuatorial
Trad. genseki
Un carillon
Ti braccavo
Ti braccavo
La fame che avevo dei tuoi movimenti
Era quella che lasciava tante tracce sulla neve
Ti braccavo e tu mi alimentavi
Con la sequenza armoniosa dei tuoi gesti
Con l'acqua di cui conoscevi le fontane
Ti braccavo e erano solo carezze
Dietro le spesse cortine rosse dove i pesci
Apparivano e sparivano come scintille
Da un fiume anteriore carsico nel tempo
Ti braccavo e tu scorrevi fluida
Con i tuoi piedi freschi tra le mie caviglie
Come anemoni che interrogano resti di neve
Ti braccavo e non la smetteva mai di piovere
Come una canzone scrosciava allora il mio desiderio
Di te e mi rendeva grigio nuvoloso
Ti braccavo e tu eri fumo di legna
Bruciata sulla neve odore di cenere spenta
Stanchezza nei miei occhi arrossati
Speranza nel rifugio di altre mani.
**
genseki
Hegel
L'animale e la morte
L'inadeguatezza dell'animale all'universalità è la sua malattia originale ed è il germe innato della sua morte.
lunedì, marzo 28, 2011
César Vallejo
Trilce LXIII
Piovendo allegria. Pettinata
Quando la mattina chioma fina
Ben ormeggiata malinconia,
Nel mal asfaltato ossidente d'India arredato
Vira, appena s'adagia il destino
Cieli di puna senza senza entusiasmo
Per il grande l'amore, cieli di platino, torvi
D'impossibile
Rumina il gregge e vi si afferma
Il nitrito andino
Di me stesso mi sovvengo. Ma bastano
Le aste del vento, i timoni quieti fino
A farsi uno
E il gallo della noia e il gibboso gomito infrangibile.
Basta mattina di libere trecce
Di pece preziosa, montana
Quando esco e cerco le unidici
E son solo le dodicci a controra.
**
Trilce LXIX
Che mai vuoi da noi, mare coi tuoi volumi
Docenti! Che inconsolabile, atroce
Resti in pieno sole febbrile,
Salti con le tue zappe,
Salti con le tue falci,
Potando, potando ritornano le onde, dopo
Aver scorticato i quattro venti
E tutti quanti i ricordi in piattelli labiati
Di tungsteno, contatti di canini,
E statiche elle chelonie
Filosofia di ali nere che vibrano
Al tremito spaventoso delle spalle del giorno
Il mare, un'opera in piedi
Nel suo unico foglio il recto
Sta di fronte al verso.
Tugsteno
Tungsteno
**
César Vallejo
Il Tungsteno
I
Quando, finalmente, l'impresa nordamericana “Mining Society” fu padrona delle miniere di Tungsteno di Quivilca, nel Cuzco, la direzione di Nuova York decise di far cominciare immediatamente l'estrazione del minerale.
Una valanga di braccianti e impiegati uscì da Colca e dai luoghi di transito, dirigendosi verso le miniere. A questa valanga ne seguì un'altra e poi un'altra ancora, tutte contrattate per la colonizzazione e per i lavori in miniera. Il fatto che non si trovasse nei paraggi e nelle province vicine ai giacimenti, e neppure a quindici leghe di distanza, la mano d'opera necessaria, obbligava l'impresa a far venire da villaggi remoti e assettamenti rurali, gruppi numerosi di indios destinati al lavoro in miniera.
Il denaro cominciò a correre rapidamente e in abbondanza come mai si era visto a Colca, capitale della provincia in cui si trovavano le miniere. Le transazioni commerciali raggiungevano proporzioni inaudite. Da tutte le parti, nelle osterie e nei mercati, per strada e sulle piazze si osservavano persone che discutevano di acquisti e di affari. Molte proprietà urbano e rurali passavano di mano, e vi era un'animazione costante presso i notai e nei tribunali. I dollari della “Mining Society” avevano comunicato alla vita della provincia, prima tanto quieta, un movimento inabituale.
Tutti sembravano essere in viaggio. Persino il modo di camminare, prima lento e incurante si fece rapido e impaziente. Passavano gli uomini vestiti di cachi … pantaloni per cavalcare, con una voce che aveva anch'essa cambiato timbro, parlavano di dollari, documenti, assegni, marche da bollo, minute, cancellazioni, tonnellate, utensili. Le ragazze dei sobborghi uscivano per vederli passare, e un dolce brivido le scuoteva quando pensavano ai minerali lontani, il cui esotico fascino le attraeva irresistibilmente.
Sorridevano e arrossivano mentre chiedevano:
- Signore, va a Quivilca?
- Si. Domattina molto presto
- Che fortuna! Andate tutti ad arricchirvi in miniera!
Così cominciavano quegli amori che poi dovevano annidare sotto le volte oscure delle vetas favolose.
Con i primi gruppi di braccianti e minatori giunsero a Quivilca gli amministratori, i direttori e gli alti impiegati dell'impresa: Tra di loro vi erano in primo luogo i Signori Taik e Weiss direttore e vicedirettore della “Mining Society”; il cassiere della società, Javier Machuca; l'ingegnere Peruviano José Marino, che aveva ottenuto la concessione in esclusiva del bazar e del caporalato per la “Mining Society”, il comissario degli impianti Baldazari e l'agronomo leonida Benites, aiutante di Rubio, questi portava con sé la moglie e due bambini piccoli. Marino portava un nipotino che picchiava ogni tanto, tutti gli altri erano soli.
Il luogo dove si stabilirono era una falda desolata del versante orientale delle Ande, rivolto alla regione dei boschi. Quivi incontrarono come solo segno di vita umana una capannuccia di indigeni, i Soras. Questa circostanza che permetteva loro di servirsi degli indios come guide nella regione solitaria e sconociuta, unita al fatto che nella topografia del luogo fosse quello il punto centrale dell'azione della compagnia mineraria, fece si che le basi del villaggio minerario furono gettate proprio intorno alla capanna dei Soras.
Per poter stabilire un ritmo di vita e di lavoro normale in quelle pune si dovettero dispiegare grandi e rischiosi sforzi.
L'assenza di vie di comunicazione con i villaggi civilizzati con i quali quel sito era unito solo da un sentieri scoscesi costituì, all'inizio, una difficoltà quasi insuperabile.
Varie volte si dovette sospendere il lavoro per mancanza di utensili e non poche per fame e malattia della gente sottoposta ad un clima glaciale e implacabile.
I sora, presso i quali i minatori trovarono sempre conforto e una ingenua e allegra mansuetudine svolsero un ruolo la cui importanza crebbe tanto che in più di una occasione l'impresa sarebbe fallita senza il loro opportuno intervento. Quando finivano i viveri e non ne arrivavano altri da Colca, i sora cedevano il proprio grano, il bestiame, utensili e servizi personali, seza tariffa, senza stare a pensarci e sopratutto senza fatsi pagare. Si accontentavano di vivere in amicizia e disinteressata armonia con in minatori che i sora osservavano con una sorta di curiosità infentile mentre si davano un gran da fare giorno e notti in un viavai continuo di macchine misteriose e fantastiche. Da parte sua la “Mining Society” non ebbe bisogno del lavoro dei sora nelle miniere per via della mano d'opera che aveva fatto venire da Colca e lasciava tranquilli i sora, da questo punto di vista, fino, almeno, a quando le miniere avessero reclamato più lavoro e più uomini. Sarebbe mai giunto quel giorno? Al momento i sora continuavano a vivere senza essere coinvolti nel lavoro in miniera.
- Perché fai sempre così? - Chiese un sora ad un operaio che aveva il compito di ungere le gru.
- É per sollevare …
- E perché lo sollevi?
- Per lucidare la vena e liberare il metallo
- Che ci fai con il metallo?
- A te non piace avere dei soldi brutto selvaggio?
Il sora vide che l'operaio sorrideva e anche lui si mise a sorridere automaticamente. Lo seguì osservandolo tutto il santo giorno e moli altri giorni per vedere come finiva quella storia di ungere le gru. Un altro giorno, il sora tornó a chiedere all'operaio, sulle cui tempie scorreva il sudore:
- Ce l'hai già il denaro
- Che cos'è il denaro?
L'operaio rispose con fare paterno facendo risuonare le tasche della sua blusa:
- Questo è denaro. Vedi? È denaro. Lo senti?...
Disse l'operaio e tiró fuori alcuni nichelini. Il sora li vide come qualcuno che proprio non riesce a capire:
- Che ci fai con 'sto denaro?
- Ci compro quello che voglio. Va! Che sei una bella bestia!E giù a ridere, l'operaio. Il sora se ne andò fischiettando e saltellando.
In un'altra circostanza, un altro sora, che contemplava apertamente e come stregato un operaio che martellava sull'incudine della Forgia, si mise a ridere con una allegria sana e burlona. Il fabbro disse:
- Di che ridi, cholito? Vuoi lavorare con me?
- Si. Voglio farlo anch'io.
- No. Non lo sai fare, dai! È difficile.
Ma il Sora si intestardì che voleva lavorare alla forgia. Alla fine lo accettarono e il Sora lavorò con i fabbri quattro giorni filati, e giunse ad aiutare davvero i meccanici. Il quinto giorno, a mezzogiorno, il Sora, di colpo, mise d parte le sue barre e se ne andò
- Ehi! - Gli dissero – Perché te ne vai? Continua a lavorare.
- No – disse il Sora – Non mi piace più
- Ma ti pagheranno. Ti pagheranno per il tuo lavoro. Dai continua a lavorare.
- No, non ne ho più voglia.
Trad. genseki
giovedì, marzo 17, 2011
Trilce
Trilce
LXII
Tappeto
Quando entrerai nella stanza che tu sai
Entraci pure ma sta bene attento a chiudere il paravento
Che spesso si socchiude
Tira bene la catena ché nn possano voltarsi altre schiene
Corteccia
Quando esci di che torni presto
A chiamare il canale che ci separa
Solidamente legato a un lato della tua fortuna
Ti so irreparabile
E mi trascini accanto alla tua anima.
Tappeto
Solo dopo la nostra morte. Chissà!
Solo allora saremo separati
Ma se al cambiar passo, toccasse a me
La bandiera sconosciuta, ti aspetterò di là
Alla confluenza dell'alito e dell'osso
Come un tempo
Come un tempo al cantone degli sposi
Occidenti della terra.
Da li ti seguirò lungo
Altrimondi, e potranno persino
Servirti i miei no di muschio contratto,
Per posarci sopra le ginocchia
Nelle sette cadute di questa salita senza fine
Perché ti fcciano meno male.
César Vallejo
Trad genseki
La vergine
Le campane come mughetti
mescolava i rintocchi al latte
In un polline di fresca bianchezza
Le mosche ronzavano come rami
Nella festa dei fiori d'azoto
A sciami.
Giacinti e gabbiani
Alte come la nostra conoscenza
Dei limiti, come gli spruzzi
Di non essere giacinti gabbiani
Sempre alle prese con la lama
Livida, con l'oscurità della soglia
Della memoria, con tutte le avventure
Della luna mentre tra la salvia
Correvano i roditori come palline di fumo
Coscienti dell'eternità di ogni trascorrere
Di quanto sia vischioso il divenire
E infinite le cause che ci ricamano
Su uno sfondo di pascoli e abeti
Seppia nella cartolina la tua scrittura
Inclinata e sottile mi diceva
Che la pietà non la conoscevi
Nemmeno per te ne avei ma avuta
Come eri alta allora sulla diagonale degli sfondi.
**
genseki
La tua voce
Non sapevo fino a quando la tua voce
Avrebbe costituito la mia pena
Chiudendomi nella sua coppa
Nel rintocco sferico del suo cristallo
Che la purpurea lingua del vino
Lampo luminoso spezza prossima all'udito
La tua voce condanna di silenzio
La tua voce vero corpo di cenere
Le ossa della tua voce triturate nella memoria
Stridono come flauti senza rame
Invano raccolgo gli accenti tra le viole
Sono gli occhi di Proserpina
Che rotolano sotto i funghi
Il tuo amaranto lo voglio seminare nel mio canto
Quando anche il mio inno sarà vento disfatto.
**
La fedeltà del prezzemolo
Impallidiva il prato
Quando la nebbia si stracciava in tante grida
Erano gli occhi crepe tra due cappe di vento
Così lunghe sembravano allora le tue dita
Che il loro pallore non poteva ricoprirle
Come cespi di luna sparsi tra la maggiorana
Benedetti brandelli i tuoi capelli.
genseki
Fede III
Virtualmente trovo nella religione cristiana tutte le tendenze verso quanto vi èe di sublime e di più nobile; quanto alle differenti forme che essa assume nella vita quotidiana esse mi paiono repellenti e di cattivo gusto solo perché non sono altro che rappresentazioni inadeguate del sublime che vi è in essa.
Trad genseki