Non cedettero nemmeno quando fu piú prossimo l'evento,
Il sogno, lo schianto, insomma il tormento del vecchio
Che non ci si raccapezzava più tra tutto quell'alloro sparso
Il parco soffritto la terracotta che sapeva di pomodoro
Del pomodoro della sua gioventú, succulento, denso, mestruale
Ogni mese finiva per scuoterlo un nuovo ricordo, un nuovo frutto
Un'erba che ricordava di aver salutato al margine di una cunetta
Erano tutte sue le escursioni di una volta
Novembre a capofitto cadendo sul mare dalle colline putride di nebbia
Il mosto, l'affitto di quelle quattro stanze che puzzavano d'umido
Di castagne stantie
E ancora piú indietro il cerchio rosso del gotto di vino
Sul tavolo di legno dell'osteria dove tutti cantavano l'internazionale
Cercando di non pensare alle biciclette che avevan lasciato nel cortile
All'odore del lubrificante al profumo del sapone potassico.
I rubinetti avevano sempre macchie di verderame
Le pareti dei cessi mappe magiche di continenti di muffa e crepe
Il quotidiano fragrante adempiva tutte quelle su povere funzioni
No non cedettero no fino allo schianto
Allo schiaffo
E tutte quelle uova rotte sul pavimento tra i trucioli di segatura rossa
Che perna
Per il vecchio
Nessuno avrebbe piú potuto toglierglielo: il ricordo.
martedì, maggio 18, 2010
Gaetano Mezzasomá
Gaetano Mezzasomá
Le ricerche di Gaetano Mezzasomá si svolsero per decenni nella porzione di territorio montuoso compreso tra i borghi di Cavendole, Groggia, Grottasparata e Siriale. Potremmo definire la disciplina da lui fondata e che non ebbe praticamente continuatori di un qualche rilievo come una sorta di archeologia del significante o di psicanalisi della fonetica del territorio. I frutti della sua decennale attivitá di investigazione furono riuniti nell'opera monumentale “Sciré”, Si tratta di forme linguistiche che precedono il corpo che esprimono la pura costatazione dell'esserci del linguaggio. Non si deve dimenticare che una delle grandi passioni di Mezzasomá fu la micologia e che la sua altra debolezza scientifica fu la toponomastica, Il linguaggio dissemina le sue spore sonore molto prima che queste si nutrano di un senso, fatte tessuto e organismo. Il suono è il suono della terra, della vita biologica, delle forme metereologiche e geologiche del mondo. Il significante sibila sull'erba, molto prima che il senso pulsi al suo interno, molto prima che un corpo secerna un senso,
L'ascolto di Gaetano Mezzasomá capta la meraviglia del significante che fermenta nel mondo e ce lo porge con garbo e freschezza, in massime, metafore e canti.
gensek
Le ricerche di Gaetano Mezzasomá si svolsero per decenni nella porzione di territorio montuoso compreso tra i borghi di Cavendole, Groggia, Grottasparata e Siriale. Potremmo definire la disciplina da lui fondata e che non ebbe praticamente continuatori di un qualche rilievo come una sorta di archeologia del significante o di psicanalisi della fonetica del territorio. I frutti della sua decennale attivitá di investigazione furono riuniti nell'opera monumentale “Sciré”, Si tratta di forme linguistiche che precedono il corpo che esprimono la pura costatazione dell'esserci del linguaggio. Non si deve dimenticare che una delle grandi passioni di Mezzasomá fu la micologia e che la sua altra debolezza scientifica fu la toponomastica, Il linguaggio dissemina le sue spore sonore molto prima che queste si nutrano di un senso, fatte tessuto e organismo. Il suono è il suono della terra, della vita biologica, delle forme metereologiche e geologiche del mondo. Il significante sibila sull'erba, molto prima che il senso pulsi al suo interno, molto prima che un corpo secerna un senso,
L'ascolto di Gaetano Mezzasomá capta la meraviglia del significante che fermenta nel mondo e ce lo porge con garbo e freschezza, in massime, metafore e canti.
gensek
Sulla vecchiaia
C'è un detto che suona cosí, quando si spengono le luci, allora si vede se la candela era di sego o di cera, in tal senso, neppure la vecchiaia è colpevole del fatto che sia deforme colui che invecchia, Ci furono societá che, a differenza dell'attuale societá borghese in decadenza non avevano paura di fissare in faccia la fine, possedevano e consideravano la vecchiaia come un frutto ricco di polpa, qualche cosa che vale la pena desiderare, qualche cosa di sano. Questo accadeva per esempio nel consiglio deglia anziani di Sparta, nel Senato della Roma repubblicana e in modo speciale nella nuova esperienza socialista. Ció che qui spesso si ode è qualche cosa di diverso da un destino al tramonto, qualche cosa di piú significativo de: “L'onore e questo volto invecchiato”; il fatto è che una spocietá fiorente a differenza di una societá condannata non vede con timore nel suo proprio riflesso la vecchiaia, al contrario vede negli anziani le proprie vette. Come ogni tappa vitale anteriore, la vecchiaia mostra un guadagno possibile e specifico, un guadagno che compensa il congedo dalle etá lasciate alle spalle. Invecchiare, quindi, non significa soltanto una tappa desiderabile della vita, in cui si è vissuto molto e in cui, alla fine si puó sperimentare ancora tutto il possibile. Invecchiare puó anche significare come situazione una immagine gradevole.: lo sguardo che abbraccia e, nel caso, il raccolto. In questo senso Voltaire diceva che per lo stolto la vecchiaia è come l'inverno, mentre per il saggio è la vendemmia o il tino. Essa non esclude la vecchiaia, piuttosto la comprende nella maturitá; l'anelo del ritorno alla gioventú perde il suo carattere doloroso proprio per aver maturato questo contatto con le generazioni che vengono dopo de è compensato, anzi, colmato con la sicurezza ora raggiunta, con la semplicitá e il significato. Gli ultimi anni di una persona conterranno, allora, tanto piú gioventú, e non nel senso mimetico, quanto piú riflessiva, la sua propria gioventú abbia sviluppato; le fasi della vita, allora, e con esse la gioventú, perdono allora i propri limiti rigidi, Il sano ideale del vecchio è quellp di una maturitá compiuta; una maturitá in cui è piú facile dare che ricevere.
Ernst Bloch
Il principio speranza
Trad. genseki
Ernst Bloch
Il principio speranza
Trad. genseki
lunedì, maggio 17, 2010
Dreiser Cazzaniga e Cristo
Le relazioni di Dreiser Cazzaniga con Cristo sono di difficile definizione, Basandoci sulle sue memorie possiamo con sicurezza affermare che il suo primo incontro con Cristo fu una delle cose piú terribili che egli ricorda delle sua infanzia. L'altra cosa terribile, forse anche piú terribile che emerge dal magma primordiale dei suoi ricordi di Urkind è il grembiulino bianco impregnato del sangue del piccolo Bino, quando nell'asilo umido e sporco delle monache gli rovinò in testa lo scaffale delle pignatte. Dreiser Cazzaniga ricordó per tutta la vita il sangue rosso sul grembiule bianco, e la cosa peggiore, quella che proprio non poteva cancellare era che il grembiule non era propriamente bianco. Avrebbe dovuto essere bianco, in realtá era sporco, un poco giallastro e non era di vera stoffa ma di una specie di tela cerata che coperta di muffa giallastra e di sangue stinto assumeva un aspetto mucoso. Cristo invece lo minacciava dalla cappella oscura che si trovava alla sua destra, dall'altro lato della navata, un pò più indietro del punto ove era solito sedersi con suo padre per assistere alla messa delle sei. Nascosto tra i gigli, nell'oscuritá, il grande corpo grigiastro e sanguinoso pendeva con lo sguardo spento appena dietro la sua spalla, Il piccolo Dreiser Cazzaniga non osava voltarsi per guardarlo, ma non poteva dimenticare che lui, invece lo fissava, con quel suo sguardo freddo, grondante dello stesso sangue di Bino, ma grigio, il suo, adesivo, minaccioso, doloroso, La minaccia obliqua che pendeva alle sue spalle era per il povero Dreiser Cazzaniga la minaccia alla sua stessa consistenza come soggetto, Quell'indicibile obliquo minacciava di disgregarlo per sempre se solo si fosse voltato, Allora non si voltava ma la tentazione era irresistibile, cercava rifugio nelle calde grotte primordiali del suo immaginario ancora biologico, respirava l'odore dell'incenso, della muffa, dell'olio stantio con cui il sacrestano, soleva lucidare il legno delle panche dell'aristocrazia in cui aveva l'abitudine di sedere il padre di Dreiser Cazzaniga da quando, l'aristocrazia del barrio non frequentava piú la messa che si era fatta un rito minacciosamente e imprevedibilmente rivoluzionario, con tutte quelle chitarre, l'incenso californiano, i papaveri al posto delle rose i gins che sottolineavo i culi delicati delle coriste che andavano sbocciando nel mese mariano. Il mese in cui sbocciavano anche i giovani seni. E questo era troppo per l'aristocrazia che apprezzava culi e seni nell'alcova ma pretedeva castigati veli alla soglia del sacro. Qualche aristocratico finiva per presentarsi, infine, alla messa e allora litigava con il padre di Dreiser Cazzaniga che considerava l'occupazione della sua panca come una personale presa della Bastiglia.
Per tutto il cammino verso casa, il Cristo grigio continuava a penzolare minaccioso sulla spalla di Dreiser Cazzaniga e accettava di scomparire soltanto dopo che egli, inginocchiato sul letto aveva recitato la sua preghiera all'angelo custode che era un personaggio molto piú rassicurante anche se assai poco corposo, non abbastanza denso per occupare un posto significativo nel foro immaginario della sua mente infantile. Cristo veniva di notte a mordergli gli alluci sotto forma di un gallo dorato. Credo che lo incontró anche come mal di denti. In ogni caso ogni contatto con Cristo era da lui vissuto come un pericolo, come una minaccia alla propria soliditá, anche il più insignificante pensiero poteva delatarlo e frantumarlo di fronte a questa sanguinosa presenza
Diventava di colpo così fragile, si occultava a sé stesso, si mentiva, si negava e si riaffermava dissimulatamente, Un vero incubo. Piú tardi i suoi contatti con questa penosa figura cominciarono a provvocargli vere e proprie erezioni, che lui non sapeva bene che cosa fossero ma che sperimentava come qualche cosa di profondamente disdicevole, di riprovevole. Un'altra minaccia per la sua trepida integritá.
Poi nell'adolescenza gli fu presentato questo altro Cristo biondo in gins e con i sandali. Dreiser Cazzaniga odiava i sandali, soprattutto quelli che lasciavano libero il ditone, Il Cristo biondo in gins e con i capelli lunghi poi rischiava di provvocare ancora erezioni, giacché per le coincidenze della moda Dreiser Cazzaniga era stato precocemente a reagire ormonalmente di fronte a corpi serrati in gins con scarpe di tela Suprema e calzettine di cotone bianche. Ricominció ad odiare la volgaritá puzzolente e polverosa, impudicamente ostentata in quei sandali osceni e questo compromise per sempre le sue possibilitá di essere seriamente cristiano. Le cose migliorarono un po' quando verso la fine dell'adolescenza, in una cittá siderurgica renana, dai cieli cromati e dalle vie astrattamente commerciali, poté leggere il Vangelo di Giovanni nella traduzione di Lutero, sì con il Verbo era tutta un'altra cosa, se lo sentiva in bocca come la saliva. Cristo lo aveva separato dal suo corpo, si era malignamente insinuato tra lui e il suo corpo e aveva rotto l'intimitá e il tepore, Il Verbo era il prezzo di quella separazione, la ricompensa a tutto il freddo patito là fuori. Il Verbo non aveva ditoni, non portava i sandali, fluiva nel corpo e lo nominava tutto intero. Poi conobbe Paolo di Tarso e la sua cecitá, Quella si che la comprendeva, la cecitá luminosa che annientava il Cristo grigio e minaccioso acquattato tra i gigli, la fede che non aveva bisogno di quel maledetto capellone slavato in gins. La fede senza le maledette chitarre di maggio. Molti anni tardó a incontrare sul suo cammino la Beata Vergine. La incontró poi come il balsamo delle sue articolazioni dolorose, come la dolcezza avvolta nel manto stesso del rosario. La incontrò come rugiada e conforto d'abbandono, e subito la tradí e la rinnegó e poi le chiese perdono e tornó a rinnegarla e la incontrerá forse solo poi alla sogli luminosa della sua estinzione come Prajna Paramita. Che i suoi peccati gli siano perdonati.
Per tutto il cammino verso casa, il Cristo grigio continuava a penzolare minaccioso sulla spalla di Dreiser Cazzaniga e accettava di scomparire soltanto dopo che egli, inginocchiato sul letto aveva recitato la sua preghiera all'angelo custode che era un personaggio molto piú rassicurante anche se assai poco corposo, non abbastanza denso per occupare un posto significativo nel foro immaginario della sua mente infantile. Cristo veniva di notte a mordergli gli alluci sotto forma di un gallo dorato. Credo che lo incontró anche come mal di denti. In ogni caso ogni contatto con Cristo era da lui vissuto come un pericolo, come una minaccia alla propria soliditá, anche il più insignificante pensiero poteva delatarlo e frantumarlo di fronte a questa sanguinosa presenza
Diventava di colpo così fragile, si occultava a sé stesso, si mentiva, si negava e si riaffermava dissimulatamente, Un vero incubo. Piú tardi i suoi contatti con questa penosa figura cominciarono a provvocargli vere e proprie erezioni, che lui non sapeva bene che cosa fossero ma che sperimentava come qualche cosa di profondamente disdicevole, di riprovevole. Un'altra minaccia per la sua trepida integritá.
Poi nell'adolescenza gli fu presentato questo altro Cristo biondo in gins e con i sandali. Dreiser Cazzaniga odiava i sandali, soprattutto quelli che lasciavano libero il ditone, Il Cristo biondo in gins e con i capelli lunghi poi rischiava di provvocare ancora erezioni, giacché per le coincidenze della moda Dreiser Cazzaniga era stato precocemente a reagire ormonalmente di fronte a corpi serrati in gins con scarpe di tela Suprema e calzettine di cotone bianche. Ricominció ad odiare la volgaritá puzzolente e polverosa, impudicamente ostentata in quei sandali osceni e questo compromise per sempre le sue possibilitá di essere seriamente cristiano. Le cose migliorarono un po' quando verso la fine dell'adolescenza, in una cittá siderurgica renana, dai cieli cromati e dalle vie astrattamente commerciali, poté leggere il Vangelo di Giovanni nella traduzione di Lutero, sì con il Verbo era tutta un'altra cosa, se lo sentiva in bocca come la saliva. Cristo lo aveva separato dal suo corpo, si era malignamente insinuato tra lui e il suo corpo e aveva rotto l'intimitá e il tepore, Il Verbo era il prezzo di quella separazione, la ricompensa a tutto il freddo patito là fuori. Il Verbo non aveva ditoni, non portava i sandali, fluiva nel corpo e lo nominava tutto intero. Poi conobbe Paolo di Tarso e la sua cecitá, Quella si che la comprendeva, la cecitá luminosa che annientava il Cristo grigio e minaccioso acquattato tra i gigli, la fede che non aveva bisogno di quel maledetto capellone slavato in gins. La fede senza le maledette chitarre di maggio. Molti anni tardó a incontrare sul suo cammino la Beata Vergine. La incontró poi come il balsamo delle sue articolazioni dolorose, come la dolcezza avvolta nel manto stesso del rosario. La incontrò come rugiada e conforto d'abbandono, e subito la tradí e la rinnegó e poi le chiese perdono e tornó a rinnegarla e la incontrerá forse solo poi alla sogli luminosa della sua estinzione come Prajna Paramita. Che i suoi peccati gli siano perdonati.
A cura di genseki
Onesimo Gianferrari
Disegno di tempi e modi verbali
Il disegno di tempi e di modi verbali inediti e inseribili in una lingua quasi inservibile ebbe un impulso decisivo dall'opera quarantennale di Onesimo Gianferrari, Il testo principale, che contiene le basi teoriche del disegno verbale di Gianferrari è l'ormai introvabile: “Ebberotti, ipotesi per la produzione e l'inserimento nell'uso del futuro nostalgico e di altri futuri modali”.
Come dichiarato fin dal titolo il disegno verbale che interessa l'autore è soprattutto quello delle modalitá del futuro, Per Gianferrari, ridisegnare l'espressione e la percezione del futuro significa, in qualche misura, collaborare al compito rivoluzionario di cambiare i rapporti sociali.
Tra le creazioni verbali piú interessanti di Gianferrari nel campo delle possibili espressioni e percezioni modali del futuro meritano un approfondimento il futuro esaudito e il futuro insperato.
Il futuro esaudito esprime un'azione futura che avviene come conseguenza di un forte desiderio che essa si compia. Una volta definito il campo semantico di un tempo e di un modo verbale Gianferrara fornisce gli elementari strumenti tecnici che permettano di generarlo nelle diverse lingue. Il processo di generazione è normalmente lungo e costoso per quanto riguarda le lingue naturali, piú semplice e piú efficace per quanto riguarda le lingue artificiali o conlang.
Il futuro insperato esprime un'azione futura che si compie nonostante le bassissime probablitá che il parlante è disposto a concedere all'effettivo verificarsi del suo compimento.
Questo futuro appartiene alla piú vasta famiglia dei “Futuri statistici” cui il Gianferrara progettava dedicare un trattato specifico che la morte inaspettata gli impedí di portare a termine.
Beninteso anche il “Futuro inaspettato” fu oggetto della fantasia e della caparbia capacitá tecnica di generazione di elementi coniugabile di cui disponeva il Gianferrari.
In un altro capitolo introdurró uno dei gioielli della creativitá gianferrariana: “il Futuro retroattivo”. Anticipo qui che per il Gianferrari il successo nell'introdurre questa modalitá del futuro nel linguaggio parlato avrebbe finito per riscattare tutto l'orrore e tutti gli orrori del passato, dalla tratta degli schiavi allo sterminio dei palestinesi di Gaza.
Visione grandiosa che testimonia della passione di Gienferrari per la giustizia e del suo animo compassionevole verso le vittime della brutalitá della storia.
A cura di genseki
Il disegno di tempi e di modi verbali inediti e inseribili in una lingua quasi inservibile ebbe un impulso decisivo dall'opera quarantennale di Onesimo Gianferrari, Il testo principale, che contiene le basi teoriche del disegno verbale di Gianferrari è l'ormai introvabile: “Ebberotti, ipotesi per la produzione e l'inserimento nell'uso del futuro nostalgico e di altri futuri modali”.
Come dichiarato fin dal titolo il disegno verbale che interessa l'autore è soprattutto quello delle modalitá del futuro, Per Gianferrari, ridisegnare l'espressione e la percezione del futuro significa, in qualche misura, collaborare al compito rivoluzionario di cambiare i rapporti sociali.
Tra le creazioni verbali piú interessanti di Gianferrari nel campo delle possibili espressioni e percezioni modali del futuro meritano un approfondimento il futuro esaudito e il futuro insperato.
Il futuro esaudito esprime un'azione futura che avviene come conseguenza di un forte desiderio che essa si compia. Una volta definito il campo semantico di un tempo e di un modo verbale Gianferrara fornisce gli elementari strumenti tecnici che permettano di generarlo nelle diverse lingue. Il processo di generazione è normalmente lungo e costoso per quanto riguarda le lingue naturali, piú semplice e piú efficace per quanto riguarda le lingue artificiali o conlang.
Il futuro insperato esprime un'azione futura che si compie nonostante le bassissime probablitá che il parlante è disposto a concedere all'effettivo verificarsi del suo compimento.
Questo futuro appartiene alla piú vasta famiglia dei “Futuri statistici” cui il Gianferrara progettava dedicare un trattato specifico che la morte inaspettata gli impedí di portare a termine.
Beninteso anche il “Futuro inaspettato” fu oggetto della fantasia e della caparbia capacitá tecnica di generazione di elementi coniugabile di cui disponeva il Gianferrari.
In un altro capitolo introdurró uno dei gioielli della creativitá gianferrariana: “il Futuro retroattivo”. Anticipo qui che per il Gianferrari il successo nell'introdurre questa modalitá del futuro nel linguaggio parlato avrebbe finito per riscattare tutto l'orrore e tutti gli orrori del passato, dalla tratta degli schiavi allo sterminio dei palestinesi di Gaza.
Visione grandiosa che testimonia della passione di Gienferrari per la giustizia e del suo animo compassionevole verso le vittime della brutalitá della storia.
A cura di genseki
giovedì, maggio 13, 2010
La biglia
"Come vorrei che fosse tutto cosí!" disse una volta un bambino e si riferiva a una biglia, che se ne era andata via rotolando ma che ora lo stava aspettando.
Ernst Bloch
Da: "Prinzip Hoffnung"
trad. genseki
Ernst Bloch
Da: "Prinzip Hoffnung"
trad. genseki
Il capitano Garbace
Il melanconico capitano Garbace sempre in ritardo
Con il suo pastrano in esilio, con la sciagura delle bretelle
Sacro capitano Garbace come un vecchio ragazzo
Dritto come una pendola dritto con una bottiglia per ombelico
Da quanti mari era potuto sgusciare con le tasche piene di arazzi
Con i galeoni nelle sinapsi e i gamberi per orecchini
Il rum non lo ingannava mai, il capitano Garbace
E poi le serate con il pastore Thorvaldsen
Serate a strapiombo come scogli la lingerie delle prefiche
Come schiuma d'onda dritta sotto la linea di galleggiamento
Tutta la legna della soffitta si accoppiava allora con i suoi chiodi
E le bare appena tagliate sbadigliavano per la fame nel solaio
Dio volava come un pipistrello impazzito in quel solaio, lo giuro
Lo giuro su questo boccale con cui ruppi i denti alla nonna
Che testate contro le travi! Dio fuggiva con un grido radiologico
Che lasciava intravedere le parti dello scheletro delle demoiselles
Che era fatto di denti solo di denti, avevano lpo scheletro di denti
Perlavaccaputtana non di ossa, Che paura cagava dio pipistrello
E Garbace, Garbace sempre dritto che bottiglia il maledetto
Una lacrima tatuata sulla palpebra.
genseki
Con il suo pastrano in esilio, con la sciagura delle bretelle
Sacro capitano Garbace come un vecchio ragazzo
Dritto come una pendola dritto con una bottiglia per ombelico
Da quanti mari era potuto sgusciare con le tasche piene di arazzi
Con i galeoni nelle sinapsi e i gamberi per orecchini
Il rum non lo ingannava mai, il capitano Garbace
E poi le serate con il pastore Thorvaldsen
Serate a strapiombo come scogli la lingerie delle prefiche
Come schiuma d'onda dritta sotto la linea di galleggiamento
Tutta la legna della soffitta si accoppiava allora con i suoi chiodi
E le bare appena tagliate sbadigliavano per la fame nel solaio
Dio volava come un pipistrello impazzito in quel solaio, lo giuro
Lo giuro su questo boccale con cui ruppi i denti alla nonna
Che testate contro le travi! Dio fuggiva con un grido radiologico
Che lasciava intravedere le parti dello scheletro delle demoiselles
Che era fatto di denti solo di denti, avevano lpo scheletro di denti
Perlavaccaputtana non di ossa, Che paura cagava dio pipistrello
E Garbace, Garbace sempre dritto che bottiglia il maledetto
Una lacrima tatuata sulla palpebra.
genseki
Gaetano Mezzasomá
"e lodola aita volava aita frigolete din cial zul zul frisio como laire"
Gaetano Mezzasomá
Da: Sciré
Gaetano Mezzasomá
Da: Sciré
martedì, maggio 11, 2010
Gaetano Mezzasomá
Gaetano Mezzasomà
Tra le straordinarie scoperte di chiavi linguistiche segrete cui Gaetano Mezzasomà dedicó la vita ho scovato questi antichi versi, un richiamo, uno scongiuro forse che sa ancora di bosco, di fornace, di strette di mano tra carbonai nel folto piú profondo del faggeto, con un pizzico di salcitá in sagace aggiunta:
Slarga, slarga la fonda grulla
Sborda carola la tofana bronda
Trascritto da G Mezzasomá
“Sciré” p 233
Tra le straordinarie scoperte di chiavi linguistiche segrete cui Gaetano Mezzasomà dedicó la vita ho scovato questi antichi versi, un richiamo, uno scongiuro forse che sa ancora di bosco, di fornace, di strette di mano tra carbonai nel folto piú profondo del faggeto, con un pizzico di salcitá in sagace aggiunta:
Slarga, slarga la fonda grulla
Sborda carola la tofana bronda
Trascritto da G Mezzasomá
“Sciré” p 233
Venti
Ancora un altro vento, nuovo, soffiando
Refoli di rosmarino traeva dalla forgia delle pietre
Del granito, dai camminamenti ove inghiottito
Soffocava fino al suono, quello strozzato
Al gorgogliare stentato al sibilo che non era liberazione
Ancora un altro vento ci soffiava trasparenti
Precipitoso fino alle froge delle valli
Al caldo del fieno, fermentava in brividi, sbuffi
Sollevava manciate di mosche dalle buse di vacca
Tanfo di mosche leziose, brusio viola di mosche nerissime
Vento del passato riempiva la milza, tra calze sudate
Di lana grezza, stesa al sole su un filo rosso
Da acero a acero, da ontano al fiume argenteo
Ci riempiva altro vento che non potevamo contenere
Che ci irrompeva molto piú in lá del nostro corpo
Di quello immaginato, di quello fatto di polveri
Diamantine ci irrompeva, spandeva, diffondeva
Alito, dissoluzione anima colchico o in prati interi
Accarezzavamo velenosi poi vorticose precipitate corse
Sui ghiacciai che frammentavano il bianco in angoli
Impossibili da percepire in raggi spinosi intorno al capo
Reclinato di un antico sole crocifisso prima prima ancora
Ma no, non era il vento a rivelarsi, a rivelarci da dentro
A mutarci nella topografia nitida di noi stessi
Con l'alfabeto delle isobare e le curve di livello delle identitá possibili
O vento di nostalgia, mulinava foglie di platano
Su quella grigia pozza d'europa dove saltavano da soli
Stivali rossi staffile cunetta, o quanti odori
Prima di sparire nella non percezione, quanti odori, quanti!
O vento di Ezechiele, vento di Ezechiele il flautista
Ballano le nostre osse come foglie la danza del fracasso
Intorno allo scheletro del suono del tuo flauto
Tritate furono, fummo come grani di miglio
Come grani di miglio tra il trifoglio.
Genseki
Refoli di rosmarino traeva dalla forgia delle pietre
Del granito, dai camminamenti ove inghiottito
Soffocava fino al suono, quello strozzato
Al gorgogliare stentato al sibilo che non era liberazione
Ancora un altro vento ci soffiava trasparenti
Precipitoso fino alle froge delle valli
Al caldo del fieno, fermentava in brividi, sbuffi
Sollevava manciate di mosche dalle buse di vacca
Tanfo di mosche leziose, brusio viola di mosche nerissime
Vento del passato riempiva la milza, tra calze sudate
Di lana grezza, stesa al sole su un filo rosso
Da acero a acero, da ontano al fiume argenteo
Ci riempiva altro vento che non potevamo contenere
Che ci irrompeva molto piú in lá del nostro corpo
Di quello immaginato, di quello fatto di polveri
Diamantine ci irrompeva, spandeva, diffondeva
Alito, dissoluzione anima colchico o in prati interi
Accarezzavamo velenosi poi vorticose precipitate corse
Sui ghiacciai che frammentavano il bianco in angoli
Impossibili da percepire in raggi spinosi intorno al capo
Reclinato di un antico sole crocifisso prima prima ancora
Ma no, non era il vento a rivelarsi, a rivelarci da dentro
A mutarci nella topografia nitida di noi stessi
Con l'alfabeto delle isobare e le curve di livello delle identitá possibili
O vento di nostalgia, mulinava foglie di platano
Su quella grigia pozza d'europa dove saltavano da soli
Stivali rossi staffile cunetta, o quanti odori
Prima di sparire nella non percezione, quanti odori, quanti!
O vento di Ezechiele, vento di Ezechiele il flautista
Ballano le nostre osse come foglie la danza del fracasso
Intorno allo scheletro del suono del tuo flauto
Tritate furono, fummo come grani di miglio
Come grani di miglio tra il trifoglio.
Genseki
giovedì, maggio 06, 2010
Steli
Victor Ségalen
Steli
L'abisso
Di fronte alla profonditá,
L'uomo, china la fronte, in raccoglimento.
Che vede in fondo al buco cavernoso? La notte
Sotto la terra, l'Impero dell'ombra.
*
Io, inchinato su di me contemplando il mio proprio
Abisso, - oh io – rabbrividisco,
Ecco, mi sento cadere, mi risveglio e voglio vedere
Soltanto la notte.
*
Nuvole
Sono i pensieri visibili dell'alto, del puro Signore, il Cielo.
Alcune sono compasionevoli, gonfie di pioggia,
Altre trascinano le loro preoccupazioni, il loro corruccio
Le cupe giustificazioni.
*
Che l'uomo che ha goduto della mia generositá
O colui che i miei colpi hanno piegato conosca
Steli
L'abisso
Di fronte alla profonditá,
L'uomo, china la fronte, in raccoglimento.
Che vede in fondo al buco cavernoso? La notte
Sotto la terra, l'Impero dell'ombra.
*
Io, inchinato su di me contemplando il mio proprio
Abisso, - oh io – rabbrividisco,
Ecco, mi sento cadere, mi risveglio e voglio vedere
Soltanto la notte.
*
Nuvole
Sono i pensieri visibili dell'alto, del puro Signore, il Cielo.
Alcune sono compasionevoli, gonfie di pioggia,
Altre trascinano le loro preoccupazioni, il loro corruccio
Le cupe giustificazioni.
*
Che l'uomo che ha goduto della mia generositá
O colui che i miei colpi hanno piegato conosca
Memorie di Dreiser Cazzaniga
Il matrimonio di Lydia Rosino
Dreiser Cazzaniga si sposó diverse volte, alcune in pubblico altre in segreto, alcune tanto in segreto che non lo sapeva nemmeno la moglie, ma nella sua vita ci fu un solo vero matrimonio, cioè qualche cosa che riempiva la vita di forza, di rabbia e di schifo. Una trappola esistenziale apparentemente senza uscita: le sue nozze con Lydia Rosino. Lidya Rosino Dreiser Cazzaniga la conobbe nella cittá di Valva dove entrambi allora lavoravano come precettori interini. Ella in una poszione ancora piú servile della sua. La cittá di Valva adagiata in una conca collinare circondata da fecondi vigneti pareva viva quasi soltanto in autunno. Era una cittá immobile, racchiusa in un conservatorismo meschino e pretenzioso. Una cittá di provincia dal'aspetto medioevale, dalle vetrine incorniciate di legno, con le strade selciate e un perenne odore di funghi macerati e di nocciolato. Era la sede della famosa industria Herreros Und Sohn produttrice dell'agalma vacio, il preferito dai mocciosi di tutto il mondo. Gli abitanto di Valva passeggiavano per la cittá come se fossero sempre i protagonisti di una sfilata di moda esclusiva, i caballeros con le loro perfette canne di avorio, las dueñas y las ladyes avvolte nelle pieghe capricciose dei loro vestiti facevano oscillare gloriosamente i loro grandi cappelli dalle architetture elaborate come piccoli teatri ove si rappresentava ora un presepe, ora una scena di caccia, ora una di corteggiamento. Dreiser Cazzaniga soleva allora vestire una giaccona gialla piena di macchie, pantalonacci di fustagno, scarpe da tennis, portava lunghissimi capelli sempre un po' unti di treno e legati sulle spalle con una lunga treccia. I Valvesi lo disprezzavano con un brivino di orrore come se lo fiutassero senza vederlo. Dreiser Cazzaniga dormiva in una cameretta economica in una posada proprio di fronte agli stabilimenti Herrero und Sohn e bastava che aprisse la finestra per essere soffocato dall'odore del nocciolato agalma vacio e da quello dell'altro prodotto di questa manifattura la crema Cornella. La bella Lidya Rosino era una brunetta dalle forme graziose e dal colorito grigiastro, si vestiva sempre di blu e appunto di grigio con un cattivo gusto bizzarro e sottile. Il suo abbigliamento era concepito per passare inosservato ma nel suo sforzo di adeguarsi al piú assoluto conformismo perbenista vestimentario tutto era leggermente sfasato, appena appena fuori posto, le labbra coloratissime formavano un contrasto singolare con il volto pallidissimo. Soleva portare un impermeabile azzurro, un tailleur grigio, scarpe e calze blu e un fiocco blu su una camicia bianca. Quando incontrava Dreiser Cazzaniga lo salutava con un forzato sorriso stirato e se prendevano un caffé insieme lo intratteneva sulle difficoltá e gli stenti della sua vita di precettrice interina vagabonda, della sporcizia dei treni, delle sordide posade, del freddo e della nebbia, del mangiare ingiustizia e bere sopraffazione. Dreiser Cazzaniga usciva dal caffé profondamente intenerito e commosso da un vita tanto austera affrontata con tanto dolente coraggio. Lydia Rosino era allora fidanzata con un torturatore professionale della scuola di boia di Cairuan dove ella insegnava cultura generale dell'espiazione del reo, posto che aveva ottenuto promettendosi senza mai concedersi al generale che la dirigeva e che si accontentava di tanto in tanto di godere stritolandole i pollici sulla superficie della scrivania. Questo a Dreiser Cazzaniga faceva un po' schifo, egli vedeva, nelle rare occasioni in cui andava a Cairuan i giovani apprendisti torturatori alla fine delle lezioni sciamare per la cittá con le smorfie scimmiesche e azzannare le loro pizza quattro formaggi nei locali dal pesante odore di fritto. Poi si sarebbero ritirati a masturbarsi davanti agli spogliarelli del gruppo “Panto” trasmessi dalle televisioni locali apposta per loro e per i rari precettori interini vaganti maschi. Cosí stavano le cose quando cominció la commedia.
Dreiser Cazzaniga si sposó diverse volte, alcune in pubblico altre in segreto, alcune tanto in segreto che non lo sapeva nemmeno la moglie, ma nella sua vita ci fu un solo vero matrimonio, cioè qualche cosa che riempiva la vita di forza, di rabbia e di schifo. Una trappola esistenziale apparentemente senza uscita: le sue nozze con Lydia Rosino. Lidya Rosino Dreiser Cazzaniga la conobbe nella cittá di Valva dove entrambi allora lavoravano come precettori interini. Ella in una poszione ancora piú servile della sua. La cittá di Valva adagiata in una conca collinare circondata da fecondi vigneti pareva viva quasi soltanto in autunno. Era una cittá immobile, racchiusa in un conservatorismo meschino e pretenzioso. Una cittá di provincia dal'aspetto medioevale, dalle vetrine incorniciate di legno, con le strade selciate e un perenne odore di funghi macerati e di nocciolato. Era la sede della famosa industria Herreros Und Sohn produttrice dell'agalma vacio, il preferito dai mocciosi di tutto il mondo. Gli abitanto di Valva passeggiavano per la cittá come se fossero sempre i protagonisti di una sfilata di moda esclusiva, i caballeros con le loro perfette canne di avorio, las dueñas y las ladyes avvolte nelle pieghe capricciose dei loro vestiti facevano oscillare gloriosamente i loro grandi cappelli dalle architetture elaborate come piccoli teatri ove si rappresentava ora un presepe, ora una scena di caccia, ora una di corteggiamento. Dreiser Cazzaniga soleva allora vestire una giaccona gialla piena di macchie, pantalonacci di fustagno, scarpe da tennis, portava lunghissimi capelli sempre un po' unti di treno e legati sulle spalle con una lunga treccia. I Valvesi lo disprezzavano con un brivino di orrore come se lo fiutassero senza vederlo. Dreiser Cazzaniga dormiva in una cameretta economica in una posada proprio di fronte agli stabilimenti Herrero und Sohn e bastava che aprisse la finestra per essere soffocato dall'odore del nocciolato agalma vacio e da quello dell'altro prodotto di questa manifattura la crema Cornella. La bella Lidya Rosino era una brunetta dalle forme graziose e dal colorito grigiastro, si vestiva sempre di blu e appunto di grigio con un cattivo gusto bizzarro e sottile. Il suo abbigliamento era concepito per passare inosservato ma nel suo sforzo di adeguarsi al piú assoluto conformismo perbenista vestimentario tutto era leggermente sfasato, appena appena fuori posto, le labbra coloratissime formavano un contrasto singolare con il volto pallidissimo. Soleva portare un impermeabile azzurro, un tailleur grigio, scarpe e calze blu e un fiocco blu su una camicia bianca. Quando incontrava Dreiser Cazzaniga lo salutava con un forzato sorriso stirato e se prendevano un caffé insieme lo intratteneva sulle difficoltá e gli stenti della sua vita di precettrice interina vagabonda, della sporcizia dei treni, delle sordide posade, del freddo e della nebbia, del mangiare ingiustizia e bere sopraffazione. Dreiser Cazzaniga usciva dal caffé profondamente intenerito e commosso da un vita tanto austera affrontata con tanto dolente coraggio. Lydia Rosino era allora fidanzata con un torturatore professionale della scuola di boia di Cairuan dove ella insegnava cultura generale dell'espiazione del reo, posto che aveva ottenuto promettendosi senza mai concedersi al generale che la dirigeva e che si accontentava di tanto in tanto di godere stritolandole i pollici sulla superficie della scrivania. Questo a Dreiser Cazzaniga faceva un po' schifo, egli vedeva, nelle rare occasioni in cui andava a Cairuan i giovani apprendisti torturatori alla fine delle lezioni sciamare per la cittá con le smorfie scimmiesche e azzannare le loro pizza quattro formaggi nei locali dal pesante odore di fritto. Poi si sarebbero ritirati a masturbarsi davanti agli spogliarelli del gruppo “Panto” trasmessi dalle televisioni locali apposta per loro e per i rari precettori interini vaganti maschi. Cosí stavano le cose quando cominció la commedia.
a cura di genseki
lunedì, maggio 03, 2010
Filosofia
Scienziato, artista, militante e amante, questi sono i ruoli che la filosofia esige dal suo soggetto. Queste sono quelle che ho chiamato le quattro condizioni della filosofia
Alain Badiou
Alain Badiou
venerdì, aprile 30, 2010
Il desiderio di Dreiser Cazzaniga
"Il desiderio, ció che si chiama desiderio basta per fare si che la vita non abbia senso se produce un codardo".
Lacan
è alla luce di questa frase di Jacques Lacan, pescata letteralmente a caso nel mare dell'incomprensibilitá dei suoi scritti, che Dreiser Cazzaniga si accinse all'impresa di giustificara la propria vita, anche se essa era ancora un processo e non un cristallo. Per farlo si collocó al suo estremo, costruì un tempo preterito, o almeno cercó di costruirlo, totalmente alieno alla lingua impoverita e ipocrita in cui era stato gettato come scrivente. Un tempo preterito che isolasse il passato come, un arcipelago, di cui peró egli potesse variare in una certa misura le geografia. Ma solo un tempo verbale non bastava; dovette forzarne altri, forzare il lessico e deviare dalla morfologia. Dovette cioè rinchiudersi nella solitudine, negare la sua impresa come qualche cosa che fosse comunicabile, costruire una lingua impossibile dalle regole variabile e contradditorie come la geometria di Escher e poi dovette evocare il suo interprete, il suo giudice e curatore, genseki, il diamante dalle mille e mille sfacettature. Quando fu afferrato dal movimento di questa frase, Dreiser Cazzaniga non sapeva nulla di Lacan, a tratti detestava la psicanalisi, si entusiasmava per gli aspetti piú alchemici dell'opera di Jung, persino era giunto all'estremo di scegliere come guida al suo inferno infermo quotidiano un personaggio cosí assolutamente ripugnante come Simone Weil cui non si sarebbe mai abbastanza pentito di aver tributato un vero e proprio culto, celebrato attraverso la compilazione di stupidi quadernini la cui lettura egli soleva infiggere agli amici incolpevoli e soprattutto a Doña Tejada de las Silvas che non mostrava per essi nessun interesse. Eppure quella frase lo conteneva tutto intero nel fuoco della sua irradiazione spiraliforme.
a cura di genseki
Lacan
è alla luce di questa frase di Jacques Lacan, pescata letteralmente a caso nel mare dell'incomprensibilitá dei suoi scritti, che Dreiser Cazzaniga si accinse all'impresa di giustificara la propria vita, anche se essa era ancora un processo e non un cristallo. Per farlo si collocó al suo estremo, costruì un tempo preterito, o almeno cercó di costruirlo, totalmente alieno alla lingua impoverita e ipocrita in cui era stato gettato come scrivente. Un tempo preterito che isolasse il passato come, un arcipelago, di cui peró egli potesse variare in una certa misura le geografia. Ma solo un tempo verbale non bastava; dovette forzarne altri, forzare il lessico e deviare dalla morfologia. Dovette cioè rinchiudersi nella solitudine, negare la sua impresa come qualche cosa che fosse comunicabile, costruire una lingua impossibile dalle regole variabile e contradditorie come la geometria di Escher e poi dovette evocare il suo interprete, il suo giudice e curatore, genseki, il diamante dalle mille e mille sfacettature. Quando fu afferrato dal movimento di questa frase, Dreiser Cazzaniga non sapeva nulla di Lacan, a tratti detestava la psicanalisi, si entusiasmava per gli aspetti piú alchemici dell'opera di Jung, persino era giunto all'estremo di scegliere come guida al suo inferno infermo quotidiano un personaggio cosí assolutamente ripugnante come Simone Weil cui non si sarebbe mai abbastanza pentito di aver tributato un vero e proprio culto, celebrato attraverso la compilazione di stupidi quadernini la cui lettura egli soleva infiggere agli amici incolpevoli e soprattutto a Doña Tejada de las Silvas che non mostrava per essi nessun interesse. Eppure quella frase lo conteneva tutto intero nel fuoco della sua irradiazione spiraliforme.
a cura di genseki
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