giovedì, dicembre 10, 2009
Odor di Dio
Questa risulta una costante dei suoi versi:
“Yo soy un ser ávido y lóbrego, un profundo
Centro de gravedad de todos los misterios
dice nella poesia “Hermanos”;
“Es que yo he de ser siempre un punto alucinante
Resuene el múltiple eco del universo?”
Si interroga nel “Poema quotidiano”:
“Yo soy la roca en que será labrado
Un ideal dos veces primitivo,”
si autodefinisce in “Ararat”.
Essere avido, oscuro, centro profondo, punto allucinato e roccia non sono espressioni prese dalla letteratura, ma dall'esperienza: dall'angosciane intensitá di un uomo, di un io che si ubica, si riconosce e si compenetra nell'immensitá dell'esistente, del creato. Tuttavia, metre cerca la propria identitá, scopre altre realtá per mezzo di studi allucinanto della propria coscienza, o piuttosto, di autodefinizioni che rispondono a una piena rascendenza di se stesso.
La festa dei sensi
Trascendendo se stesso, Cortés si inventa. Lo stesso capita al suo coetaneo, al poeta messicano Ramón López Velarde, con cui puó essere comparato per il fatto che i due hanno molti elementi in comune e una equivalente altezza poetica. Entrambi, per esempio, sono eredi di Charles Baudelaire nello stabilire sottili relazioni tra le cose e impiegare l'olfatto come pochi hanno saputo farlo dopo il francese.
Nel caso del nostro poeta, questo senso risulta speciale perché egli è capace di trovare:
“Un perfume de cosas que no son de la vida” (“Me ha dicho el alma”)
e capta quello che resta proibito alla maggioranza degli uomini:
“¿Sientes? En este sitio en que estamos los dos
Huele a gas, huele a infancia y a Dios” (“La chimenea”)
Nemmeno la divina presenza puó sfuggire alla sua capacitá olfattiva. Percé essenzialmente Cortés è sensoriale. (...). nel suo contatto profondo con le cose, o meglio, con l'anima delle cose, non si tratta tanto del tatto e del gusto, quanto dell'olfatto – come si è detto – e della vista. Ma soprattutto dell'olfatto.
(...)
Il significato dell'udito, tuttavia, affonda nella capacitá di andare “oltre i sensi” che è una delle direttrici fondamentali della sua poesia. (...) così giunge a udire l'invisibile: “La morte è un silenzio (“Aniversario”) che suppone impossibilitá di esistere senza parlare e udire dal momento che la vita è suono.
Jorge Eduardo Arellano
Mexico 2009
trad. genseki
mercoledì, dicembre 09, 2009
Lucian Blaga
All'origine, alla sorgente
Solo in forma di nubi
Tornano l'acque.
All'origine, alla sorgente
Con nostalgia vanno i sentieri
Acque, sentieri, nubi, nostalgia
Quando domani torneró alla fonte
Acqua saró, o nube
O nostalgia?
Trad genseki
sabato, dicembre 05, 2009
Alma Ata
Isolati restavano i due picchi
Nella solitudine delle dune
Anche la luna si situava al centro
Di tanta pallida desolazione
Non smettere di salire mi dicevo
Sanguinando di ciottolo in zolla
Tanti granelli di sangue seminando
Palme future dai datteri perlacei
Con gli occhi non volevo separarle
Quelle due cime, la luna, gli anelli di fumo
Anche i fiori erano taglienti
Come frammenti di specchi infranti
Petali dolenti scricchiolanti
Inchioda i miei occhi Dio Lupo
Uno per ciascuna delle cime
Saranno testimoni del dolore
Che non si espia di essere se stessi
Infranti nel confronto con le cose
lascia che piangano rivoli di vista
Fiumi di visioni scorreranno
dalle cime isolate picchi antichi
Per le pianure di anice e mughetto
Fiumi di percezione visuale
Laddove una fanciulla delicata
Possa raccogliere nel palmo della mano
La storia che fu vista e maledetta
Quando l'uomo era io nudo rabbioso
Annodato a se stesso condannato.
genseki
giovedì, dicembre 03, 2009
Ricardo Jaimes Freyre
Pellegrina colomba immaginaria
Pellegrina colomba immaginaria
Evocatrice degli estremi amori
Anima luminosa di musica e di fiori
Pellegrina colomba immaginaria
Vola sopra la roccia solitaria
Che bagna il freddo mare del dolore
Al tuo passaggio riverberi splendore
La secca e spoglia roccia solitaria
Vola sopra la roccia solitaria
Pellegrina colomba, ala di neve
Come ostia divina, ala sì lieve...
Come fiocco di neve; ala divina
Ostia di neve giglio nebbiolina
pellegrina colomba immaginaria.
Da "Castalia Bàrbara"
trad. genseki
Dreiser Cazzaniga e il "mobbing"
Durante, però, quando il “mobbing” era in atto, non se ne era mai reso conto. Il “mobbing” scivolava su di lui senza graffiarlo, oppure era lui che si muoveva nelle nebbie del “mobbing” come in un mattino cristallino di un gennaio solare e montano.
Si chiese il perché di questa strana sua scoperta senza giungere mai a una conclusione che gli paresse soddisfacente.
Può darsi che il “mobbing” fosse così continuo, fin dal principio e che non avesse mai avuto la possibilità di confrontare la sua vita lavorativa minacciata con una vita lavorativa normalmente serena.
Questa ipotesi, tuttavia non spiegava affatto come fosse possibile che ora, invece, ritirato tra i fichi d'India della Sierra de los Puros , in compagnia di tre galline sterili e di qualche avvoltoio moreno se ne rendesse conto. Ora che non aveva più nessuna possibilità di confronto!
Forse, il lavoro era per lui così privo di importanza esistenziale che egli lo attraversava come in stato ipnotico.
In effetti aveva lavorato poco, e quel poco con tanta ingenua leggerezza che la cosa che ricordava di più delle sue occupazioni, era il viaggio che gli toccava intraprendere tutte le mattine per raggiungere il posto di lavoro.
Aveva sempre lavorato come pendolare estremo e polimodale. Ebbe lavori in luoghi freddissimi e nebbiosi, irraggiungibili con i mezzi pubblici, che seppe sempre raggiungere, tuttavia con una fantasiosa e devastatrice combinazione di sistemi di trasporto, treno, rimorchio, bicicletta, passaggio del collega. Intervallati di attese interminabili.
Così, però, si godeva l'autunno, seguiva la variazione di colore delle foglie di un certo albero con precisione assoluta, calcolava la fioritura dei ciliegi, sapeva dell'apparizione delle primule sui cigli di molti prati.
E non si ricordava di avere un lavoro.
Giunto sul posto di lavoro, era troppo stanco per lavorare. Lavorare era allora per lui sognare di poter dormire.
E in questo sogno di giungere a sognare si rendeva conto, per esempio del lampeggiare pieno di odio degli occhi della grassa pescivendola Donatella Sbardello che tramava per farlo licenziare con ignominia da una ispezione all'uopo convocata.
Probabilmente gliene sarebbe stato grato.
Avrebbe anticipato il suo ritiro, con una vacca però e tre galline, in una valle alpina davvero vaginale.
Come Bosco Cappuccio di Ungaretti, dove dormire finalmente e vivere di latte e uova nell'odore acre della legna bruciata del camino.
Sicuramente anche il direttore Nespolino doveva aver tentato di farlo fuori, l ricordava mentre aggrottava la faccia castagnosa.
Egli però non cessò mai di vivere al lato del “mobbing” di viaggiare, sognare di dormire e leggere, leggere leggere.
A cura di genseki
mercoledì, dicembre 02, 2009
Le Contemplazioni
Ho colto questo fiore per te sulla collina
Su di un'aspra parete che sul flutto s'inclina
Che l'aquila soltanto conosce e frequenta
Tranquillo in una crepa della roccia cresceva
L'ombra bagnava il fianco del cupo promontorio
La cupa notte vidi, ove il sole tramonta
Erigere, qual arco di trionfo vermiglio
fatto solo di nubi un colonnato immenso
Vidi vele fuggire fuggire sul lontano orizzonte
E casette nascoste in fondo ad un imbuto
Con luci tremolanti per timor d'esser viste
Ho colto questo fiore per te mia dolce amata
Pallido non possiede corolla profumata
la sua radice fragile sulla cresta del monte
Sol l'amaro ha succhiato delle alghe celesti;
Così ho pensato: - O fiore dall'alto della cima
Alfin dovrai cadere nell'abisso profondo
Dove l'alghe, le nubi e le vele scompaiono,
Muori allor su di un cuore abisso senza fondo
Appassisci sul seno ove palpita un mondo
Il ciel che t'ha creato per sfogliarti sull'onda,
Ti fece per l'Oceano, all'amore ti dono
Solo un vago chiarore rimaneva del giorno
Morente mentre il vento scompigliava le onde
O quanto ero triste nel fondo del pensiero
Mentre fantasticavo ed un vortice nero
Nell'anima m'entrava con brivido notturno.
Isola di Serk Agosto 1855
Victor Hugo
Les Contemplations
trad. genseki
martedì, dicembre 01, 2009
Pensiero
Hegel
Lezioni sulla filosofia della religione
Parte II cap.1 Sez. prima
lunedì, novembre 30, 2009
La follia di Alfonso Cortés
“Una notte, a metá del mese di Febbraio del 1927, dopo diversi giorni di bevute si alzó a mezza notte e disse a mio padre: “papá non so che cosa mi succede, ma mi sento come se non fossi io, mi sembra di essere il Papa o l'Anti-Papa. Mi vengono idee orribili, non posso dormire”. Mio padre rispose: “Figlio mio, hai mangiato qualche cosa di indigesto con tutto quello che hai bevuto in questi giorni, ti daró un purgante”. A partire da quel momento ci alzammo da letto e nessuno riuscí piú a dormire in tutta la casa. Lui iceva. “Venite qui con me che da quella parte c'è l'inferno, ci sono i dannati. Ecco il confine. Allontanatevi sorelline, venite con me qui è la Gloria”. Cosí passammo tutto il resto di quella tragica notte vivendo con lui dentro la Divina Comedia fino al mattino. Il giorno dopo furono chiamati i medici: il dottor Abraham Marín suo padrino di battesimo e il dottor Fernando Cortés Rocha, suo cugino che dichiararono che era impazzito.
p. 74
*
Nella “Prefazione” al suo libro: “Il Poema quotidiano (e altre poesie) scrive Alfonso Cortés:
“Come risultato, in quei giorni della perdita dell'essere piú amato che della nostra vita, delle lotte mentali combattute e dello squilibrio economico della casa paterna, mi accadde di aver dovuto soffrire uno stato confusionale, che si avvicinava alla follia e che non era nient'altro che la teratologia che suole colpire frequentemente gli intellettuali che lavorano intensamente e profondamente. Siccome capitó a me in modo tale che provvocó non poco disordine mentale e nervoso, ebbene, dovetti sopportare in quei momenti lo spettacolo extra-naturale di una visione terrorizzante como quella che riferisce il profeta Giobbe nel suo libro, e mio padre decidette di trasferirmi alla clinica dell'Ospedale per Malati di Mente della capitale dove, dopo lunghe cure potei ritrovare la salute. (Il poema quotidiano, p. 11).
*
Ernesto cardenal sostiene che la follia di Alfonso la provvocó la sua intimitá con Dio. Scrive Cardenal: “Deve essere una intimitá terribile, quella di Dio per rendere folle: - Non voglio piú sentire il solletico di Dio nel mio cervello - grida Alfonso in una delle sue poesie. ... è un tipo di follia non ancora conosciuta dalla scienza e che si chiama “solletico di Dio nel cervello”.
*
Alfonso Cortés perse la ragione ma non la poesia.
Carlos Tunnermann
*
Negli ultimi anni della sua vita la sua follia diventó tranquilla in modo che fu possibile che le sorelle che ebbero sempre cura di lui lo trasferissero alla sua casa di León. nei primi anni, invece, la sua follia aveva momenti di furore per cui i suoi genitori dovettero incatenarlo a un asse del tetto, tanta era la sua furia che giunse a piegare le sbarre che proteggevano la finestra. Scrive ancora Ernesto Cardenal: “ricordo i suoi occhi pallidi, celesti e la sua barba rossastra, quando con i compagni di scuola passavavamo per casa sua prendendolo il giro... allora non sapevamo e non lo sapevano nemmeno i grandi che quell'uomo era uno dei piú grandi poeti della lingua castigliana”.
A cura di genseki
giovedì, novembre 26, 2009
Alfonso Cortés
In questa foto Cortés ha ventisette anni. Poco dopo la follia improvvisa lo condannerà a vivere ventidue anni legato a una trave della sua casa.Altre traduzioni di Cortés si possono leggere qui
genseki
Alfonso Cortés
genseki
Le pietre
Le pietre, ahimé, le pietre hanno un segreto
Dolor che appare come in carni vive
Quando con egoismo sofferente e discreto
Sembra che la vita abbiano a sdegno
E s'oppongano al tempo tenacemente schive
Come se volessero interromperne il regno.
Son mute e rassegnate con il vento
E con l'acqua, non nutrono altro intendimento
Che ribellarsi contro la lor sorte
E sopportar con disdegno il fato,
Ben oltre l'acqua, il vento il fuoco irato
Senz'ansia, forza, vita, senza morte.
È un prometeico supplizio senza nome,
D'essere bestia o albero peggiore
Enti di un'era all'uomo anteriore
Condannate da una vendicativa norma
In sé prigioni – forse perché un giorno
Tolsero al caos il dono della forma.
Vantando invano un simbolo vero
All'apparir del volto della luna
Indagano le cose del mistero,
Aprono al vento che audace le flagella
Le bocche atroci prive di favella
Alzano teste senza alcun pensiero.
E forse in una forma di esistenza
Piú ampia della personalitá,
Vive la natura nella loro coscienza
E ignorano, tanto a lungo han consevato
In sé gli Annali dell'Eternità,
Ch'oblio non v'è ove memoria è spenta.
La pietra viva
La pietra si sveglió (pietra pur era
Come le altre che stanno nel monte
Muschio la pelle e edera le vene)
Gli occhi dischiuse (In quell'ora rara
Che s'illumina il sole come un rogo
Per scaldar la capanna del pastore).
Ecco due passi, intanto, (Era sonora
E barbara la pendice montagnosa
Il vento pettinava la sua cupa chioma).
In tremito interiore si inquietava
La pietra fin che l'ansia
Aperta fe la bocca ai suoi pensieri:
Dove sei mai? Dove sei mai, distanza?
Irrelata de il tempo smisurato,
E quello che Dio è, sola fragranza?
Svestitemi vi prego questa tunica
Con essa l'esser mio non è che cosa,
E la forma il carcer della vita.
Trad. genski
martedì, novembre 24, 2009
Aforismi di Hugo
La promessa
La bellezza del Tuo sorriso
Mentre pronunciavi la promessa
Che a compiere verrai il giorno tremendo
In cui tutte le promesse
Saranno sangue, cenere e sgomento
Con lo stesso sorriso.
genseki


