martedì, ottobre 13, 2009
Altri aforismi di Victor Hugo
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La morte è sfrontata quando si mostra all'opera. Essa oltraggia ogni serenità dell'ombra lavorando fuori dal suo laboratorio, la tomba.
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Ci sono delle realtà quaggiù che sembrano sbocchi sull'ignoto, da dove può uscire la ragione e precipitarsi l'ipotesi. La congettura ha il suo "compelle intrare". Quando passiamo in certi luoghi e davanti a certi oggetti, non possiamo fare altro che fermarci in preda ai sogni, lasciando che lo spirito vi si avventuri.
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La materia davanti a cui si trema è una rovina d'anima. Se la materia inerte ci turba, vuol dire che dentro vi ha vissuto lo spirito.
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Quando l'immanenza che incombe su noi, cielo, abisso, vita, tomba, eternità, ci appare evidente, proprio allora noi sentiamo che tutto è inaccessibile, tutto proibito, tutto murato. Niente chiude in modo più formidabile dell'infinito quando si apre.
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Nella mano del sonno c'è il dito della morte.
La fine sempre imminente, nessun trapasso dall'essere al non essere più, il ritorno nel crogiolo, la scivolata sempre possibile, questo precipizio è la creazione.
Victor Hugo
Trad. genseki
venerdì, ottobre 09, 2009
La Promessa
La Promessa che non siamo davvero carne perduta, groppi di desiderio e paura, che non siamo solo questo.
La Promessa, forse, ha preceduto la nostra nascita, forse la abbiamo ricevuta e accolta nella prima infanzia ma è solo per essa che possiamo accettare e vivere il dolore, il tramonto, il dissolversi, la polvere, e l'amore.
Nella Promessa è suggellata la nostra dignità per questo in qualche angolo del nostro cuore sappiamo che tutto quello che va perduto in realtá è per sempre e infinitamente guadagnato.
In virtù ella Promessa possiamo spalancare le mani e accettare, lasciare il nostro appiglio e cadere, con le mani aperte dare e dare ancora fibra a fibra.
Ci scorticheremo la pelle strisciando sulla rugosa superficie della realtá impossibile.
In virtù della Promessa siamo davvero niente, diveniamo niente, insomma, non siamo proprio, eppure nella pochezza di questo non essere la accogliamo, grati la andiamo scoprendo e accettando poco a poco.
genseki
giovedì, ottobre 08, 2009
Passione, terrazza
Del corpicino dai capezzoli a chicco
D'uva, distesa nuda come gatta
All'abbraccio delle ombre mattutine
La tua brezza allora sarei stato
A sollevarti tra i ricami della toppia
Abbagliato dal pallore delle unghie
Dei tuoi piedi piegati come in croce
Quante piaghe si aprirono sulle nubi
E piovve sangue di venerdí santo
Stretti l'uno all'altra nei nostri caldi fiati
Ci riscaldava uno strato di fango
Basilico alla finestra
Le dita delle mani di aglio e lampone
Alla parete di fronte s'aggrappava
Un'edera alcolica e polverosa,
Fino alle ossa venerate un tempo
Ora dimenticate in quella nicchia
Persino un po' sudicia tra i piccioni
Poi lo sguardo sdrucciolava nel cortile
Dove c'erano sempre canottiere
E un vecchio furgone nero dismesso
Che nauseava di caucciú sotto il sole
Le sue ascelle si aprivano al basilico
La menta nel cavo delle sue ginocchia
Nella stretta si dibatteva alla finestra
Le canottiere avrebbero voluto volare
Il santo sbriciolato nella teca godeva
Al palpitare dell'ostia nelle tempie.
Odore di basilico, erano biscotti
E il vestito a peonie fruste fruste
Quante carezze mi rubò quell'uomo
Quello che morí con il naso nel muschio
Le bottiglie di birra erano gialle,
E i tappi appicicosi lasciavano il gusto
Di limone muffito sotto le unghie
Tra il basilico e il limone accoccolata
Spiavi alla finestra i canti della voliera.
genseki
Se avessi lasciato
Ancora qualche luna
Mi sarei ritrovato ad affrontarlo
Mutato
In diverso timore
Questo tumore verdognolo
Questa ghianda che serra
Sicuramente un'antica pianta
Nalle membrane vegetali di tutte le sue potenzialità
Ma le lune che scorrrevano
Richiamando l'acqua dai pozzi
L'acqua bianca come lo sperma
Delle generazioni inghiottite
Dalle parole,
Consumavano il mio istinto
La mia determinazione, quello che restava del mio desiderio
Di non separarmi da me.
Alla finestra, dalle terrazze, sui balconi
Quel popolo festoso continuava
A guardare la televisione
E io mi lasciai finalmente marcire
Come un fagiolo appena seminato.
genseki
mercoledì, ottobre 07, 2009
L'Islam, l'Iran e la filosofia antica
Damascio
Damascio nacque tra il 480 e il 490 ad Alessandria in Egitto e fu discepolo di Ammonio che a sua volta era stato discepolo del sommo Proclo. Compiuta la sua formazione e consolidata la sua fama si trasferì ad ad Atene. Aveva intorno ai cinquanta anni quando fu scelto come sucessore di Zenodonte, come Scolarca della Scuola di Atene, occupando cosí la cattedra di Platone.
Credo che si possa considerare il neoplatonismo come una filosofia mistica che aveva assunto nelle forme esteriori e nelle pratiche molti, moltisimi elementi rituali e si presentava quasi come una religione.
Per rendere l'idea di che cosa fosse nell'estrema antichitá il neoplatonismo si potrebbe forse utilizzare l'espressione “Buddhismo di Occidente”. La sua attivitá come Scolarca duró quasi dieci anni, nel rapido, turbinoso disfacimento del pensiero antico e del mondo culturale pagano. Nel 529, infatti, Giustiniano chiuse la Scuola di Atene e confiscó i beni dei Platonici.
Questa confisca dei beni ci fa pensare che i platonici fossero una specie di comunitá, qualche cosa di molto simile a un ordine religioso.
Comunque questi provvedimenti non significarono la fine della scuola, come avevano sprao, probabilmente i Vescovi cristiani che gli ispirararono. L'imperatore filosofo dei Sassanidi offrí loro rifugio e protezione, mi pare nella cittá di Bactria, l'attuale balkh nell'Afghanistano attuale dove sorgeva anche una rinomata universitá buddhista. Secondo altre fonti, quello che restava della Accademia fu ospitato in Ctesifonte.
I nomi di questi filosofi erano Damascio, Simplicio, Prisciano di Lidia, Eulamio di Frigia, Hermias di Fenicia, Diogene di Fenicia e Isidoro di gaza. Nel 532, Cosroes vittorioso nella guerra impose ai bizantini la fine del loro esilio e quasi tutti loro ritornarono in Occidente. Damascio rientró in Egitto.
Di lui conserviamo pochi frammenti dalla “Vita di Isidoro” grazie a Fozio. Si suppone che abbia composto un “Commento al Filebo” che fu atribuito a Olimpiodoro e un “Commento al Fedone” anche esso attribuito a Olimpiodoro.
Tuttavia la sua opera filosofica principale è: “Aporie e soluzioni sui primi principi” che puó essere consierato una specie di commento del “Parmenide”.
Per Damascio, a differenza che per Proclo e Plotino pensa che al di sopra dell'Uno si trova l'ineffabile che non puó essere in nessun modo oggetto della nostra conoscenza. Questo ineffabile è analogo all'Assoluto di Ibn Arabi che anch'esso è antecedente all'Uno. L'uno proprio come uno è la singolaritá di ogno molteplicitá ma non è l'Assoluto, che si può considere come nulla. Il fatto è che noi pensiamo solo relazioni e l'Assoluto ineffabile è al di lá di qualsiasi relazione. Per Damascio tutto esiste in ogni cosa singola. L'assoluto è presente in noi come una forza o uno stimolo che spinge il pensiero a ngarsi come pensiero, situandosi nel punto in cui il pensiero sorge o dove si estingue.
Quest'ultimo punto di vista è molto prossimo alle concezioni del buddhismo mahayana sulla meditazione, concezioni che molti secoli dopo furono sviluppate da Dogen nel concetto di Hishiryo (oltre il pensiero e il non pensiero).
A proposito dell'Assoluto anche per Ibn Arabi esso è: “astrazione da tutte le possibili relazioni (cioè i nomi e gli Attributi”
“Se dall'essere divino si astraessero tute le relazioni non si avrebbe allora nessun Dio. Ma siamo noi che rendiamo reali queste possibili relazioni e finiamo per convertire l'Assoluto in Dio”.
Le radici neoplatoniche del sufismo, i possibili scambi teorici tra buddhismo e neoplatonismo il ruolo del pensiero sciita in questo quadro sono i temi che tratteró nelle prossime pagine.
genseki
lunedì, ottobre 05, 2009
Il ramo secco
Nuove traduzioni da Trilce
L'incontro con l'amata
Qualche volta soltanto è un semplice dettaglio
Quasi un programma ippico violaceo
Cosí lungo che non si riesce a piegarlo bene.
Far colazione con lei che
Ci porta il piatto che ci piacque ieri
Ed eccolo di nuovo
Ma con un po' più di senape,
La forchetta assorta, il suo corteggiamento radiante
Di pistillo in maggio, e la sua verecondia
Centesimale per togliermi infine quella paglia
E poi la birra lirica e nervosa
Quella che nasconodono i capezzoli senza luppolo,
Attento! Non berne troppa!
E gli altri incanti di quella tavola
Al confine di una nubile campagna
Con le sue proprie batterie germinali
Che hanno operato per tutta la mattina
A quanto mi consta, a me,
Il notaio amoroso della sua intimitá
Con le dieci bacchette magiche
Delle sue dita pancreatiche.
Donna che senza pensar ad altro
Apre il rubinetto e si mette a conversarci
Di parole tenere
Come lattughe lancinanti colte or ora.
Un altro bicchiere e adesso andiamo,
Per davvero! A lavorare.
Lei nel frattempo si inoltra
ra le tende! Ago dei miei giorni
Squarciati! Si siede sulla riva
Di una cucitura e mi cuce il costato al suo costato
E mi attacca bottone di camicia
Già caduto. S'è mai visto?
César Vallejo
Trad. genseki
domenica, ottobre 04, 2009
Gilles de Rais
Chi è allora Gilles de Rais? Ebbene Gilles de Rais è Florissans des Esseints trasportato nel gotico "flamboyant", nell'età della "danse macabre".
Questo testo è dunque un frammento d critica narratologica. Una metanarratologia.
Sembra che Huysmans non possa liberarsi di questa figura e giochi a metterla in scenna sugli sfondi e nelle circostanze piú differenti, ma Des eeints, e Gilles de Rais sono puri attanti di un catalogo di oggetti e di sensazioni reiteratamente e successivamente consumabili.
Sono, per dirlo brevemente, il consumatore. E quello che consumano è merce, è pura equivalenza sull'orizzonte del valore. Il mondo di des Esseints è un catalogo immenso di beni e di sesazioni che si possono acquisire e consumare e cosí pure quello di Gilles de Rais e questi personaggi, la sola cosa che fanno, è apparentemente quella di consumare questi beni.
Vivono nello spettacolo e allo stesso tempo ne sono parte. Come avrebbe detto Debord.
(cliccando sull'etichetta Huysmans si puó facilmente accedere alle altre part di questa traduzione).
genseki
Gillede Rais
a cura di genseki da Là-bas di Huysmans
Gilles è un essere diviso in tre differenti persone.
Per prima cosa il soldato valoroso e pio.
Poi l'artista raffinato e criminale.
Infine il peccatore che si pente, il mistico. È tutta un voltafaccia di eccessi questa persona, si scopre per ognuno dei suoi vizi una virtú che vi si oppone: ma nessun percorso visibile li unisce.
La sua ferocia superò i limiti di quello che è possibile all'uomo, eppure fu caritatevole, adorò i suoi amici e li curó, come un fratello quando il demonio li ferì.
Impetuoso nei desideri, eppu pazient; valoroso in battaglia, vile davanti all'aldilà, fu dispotico e violento, debole, tuttavia, quando le lusinghe dei suoi parassiti crebbero. Ora sule cime, ora nel baratro, mai in pianura, nelle pampas dell'anima. Nemmno le sue confessioni servono per chiarire questi antipodi. Egl risponde, quando gli ingiungono di spiegarae chi gli suggerì l'idea di tali crimini: “Nessuno, la mia sola immaginazione mi spinse: il pensiero mi è venuto da solo, frutto delle mie fantasticherie, dei miei piaceri giornalieri, dei miei gusti per il vizio.
Si accusa di pigrizia, assicura costantemente che i pasti delicati, le forti bevute hanno sciolto la belva che era in lui. Lontano dalle passioni mediocri, egli si esalta, di volta in volta, nel bene come nel male e si getta, la testa bassa, nei gorghi opposti dell'anima. Muore all'etá di trentasei anni ma gia si era esaurito il flusso dei godimenti disordinati, il riflusso dei dolori che nulla puó calmare. Aveva adorato la morte, amato come un vampiro, copulat con inimitabili espressioni di soffernza e di terrore, e, tuttavia era stato oppresso da rimori infrangibili e paure insaziabili. Quaggiú,per lui non restava piú niente da imparare, niente che valesse la pena.
sabato, ottobre 03, 2009
Huangpo
Lo studio teorico preserva le passioni e finisce sempre per produrre smarrimento.
La Via non è nulla, non c'è proprio nessuna Via che vada da nessuna parte e per questo prende il nome di "Spirito del Grande Veicolo". "Questo spirito non è dentro, non è fuori e nemmeno tra il dentro e il fuori". Davvero non esiste e non va da nessuna parte.
Questa Via è cosí naturale che non ha nome. Sopratutto non bisogna affrontarla teoricamente cioè come se fosse l'oggetto di una passione. Solo quando non ci sono piú passioni non c'è nemmeno piú lo spirito e non va da nessuna parte.
La gente nel mondo non la conosce per niente, si perde nelle passioni e i Buddha appaiono proprio per porre rimedio a quesa situazione con il loro insegnamento. Siccome pensano che la gente non possa comprendere usano in modo provvisorio il termine "Via" ma in modo tale che non si possano fabbricare teorie su di esso.
Vale per questo il detto: "Buttare la rete una volta che si è preso il pesce".
Chi, nello stato naturale del suo corpo e del suo spirito percorre la Via cosciente del proprio spirito raggiunge la fonte originaria e si può chiamare monaco.
trad a cura di genseki
venerdì, ottobre 02, 2009
Su alcuni versi di Virgilio - parte II
Anche qui, come nella Comedia di Dante, quindi Virgilio è la guida, la guida di una Nekuia, di una discesa agli inferi di un tema, quello genitale che è infimo "par excellence". E, sempre come nella Comedia, la funzione di guida di Virgilio è quella di rappresentare la ragione, la moderazione. Questo saggio può quindi essere letto come un dialogo tra Montaigne e Virgilio.
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Ma ritorniamo alla nostra domanda:perché sembra che Montaigne sia convinto che il piacere sesuale debba essere rigorosamente escluso dall sfera della riproduzione?
Effettivamente, dichiarando, che il godimento del piacere nel matrimonio è una forma di incesto Montaigne amplia la sfera del concetto di incesto.
La amplia nel senso che include in esso l'atto, il soggetto e l'oggetto della riproduzione e ne esclude, appunto il piacere.
In questo modo egli sembra considerare la sfera della riproduzione come una sfera sacra ove deve essere mantenuta una rigida purezza rituale.
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Non bisogna dimenticare che i saggi di Montaigne sono stati scritti durante le guerre di religione francesi, ovvero durante uno dei periodi di maggiore ferocia e follia sanguinaria della storia d'Europa. Non bisogna nemmeno dimenticare che Montaigne è di origine aragonese e quasi certamente israelitica.
Tenendo conto di questi elementi si puó supporre che la sacralizzazione della sfera della riproduzione rappresenti per Montaigne l'affermazione di uno spazio religioso al di fuori della sfera della morte, del lutto e della vendetta, in cui si erano venute a trasformare le forme religiose stabilite, e di uno spazio intimo sempre sacro al sicuro dallo sguardo temibile degli inquisitori di "moriscos" e giudaizzanti.
Si tratta solo di un'ipotesi che meriterebbe maggiore approfondimento.
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In senso piú classico si puó argomentare che la sfera della riproduzione è troppo legata alla "polis" e alla ontinuitá della razza e della specie per permettere che un fattore soggettivo come il piacere possa diventarene la guida e la ragione.
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Il saggio continua con la disanima della relazione che intercorre tra l'amore e il matrimonio.
Per Montaigne tra di loro vi è uuna relazione di "cousinage" ma molte differenze.
In ogni caso un matrimonio sano è considerato una necessitá per l'uomo e per la donna a condizione che l'uomo, soprattutto sappia "prudemment mesnager sa liberté", ovvero condurre una vita sessuale e sentimentale variata e soddisfacente al di fuori di esso.
Sembra che questa "liberté" sia essenziale perché il matrimonio possa mantenersi:
"Si on ne fait toujours son debvoir, au moins le faut il toujours aymer et recognoistre: c'est trahison, se marier san s'épouser".
genseki
giovedì, ottobre 01, 2009
Su alcuni versi di Virgilio
In effetti la prima parte del saggio è una interrogazione sull'economia del piacere nell'etá avanzata, amara e dolente interrogazione cui risponde una consapevolezza di disperata luciditá:
"Je m'en vays au trai de tressailir, comme d'une nouvelle faveur, quand aucune chose ne me deult"
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Il piacere sessuale non pare adeguato alla vecchiaia. la sola forma di voluttá degna di questa etá e l'ostinazione a conservare il ricordo dei piaceri passati, ariviverli nella memoria e attraverso la poesia.
Nella poesia la voluttá si presenta come ancora piú vivace e piú animata di quanto non sia la sua propria essenza essa si presenta al vecchio con un aspetto ancor piú amoroso dell'amore medesimo. Venere tutta nuda con il respiro mozzo non è cosí bella nella realtá come lo è nei versi di Virgilio (quelli che danno il titolo al saggio)
Vulcano stringe Venere in un appassionato amplesso coniugale.
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Montaigne trova peró che la descrizione di Virgilio non si addice troppo a una relazione sesuale matrimoniale.
“En ce sage marché les appetits ne se trouvent pas si follastres: ils sont sombres et plus mousses. L’amour hait qu0on se tient par ailleurs que par luy, et se mesle laschement aux accointance qui sont dressées et entretenues soubs autre titre, comme est le mariage. L’alliance, les moyens, y poisent par raison, quatnt ou plus que les graces et la beauté. On ne se marue pas pour soy, quoy qu’on en dise, on se marie autant pou plus pour sa posterité et pour sa famille: l’usage et l’interest du mariage touche nostre race, bien loing par dela nous. Pour tant me plaist cette faÇon qu’on le conduise plutost par main tierce que par les poropre et par lesens d’atruy que par le sien: Tout cecy, combien à l’opposite des conventions amoureuses? Aussi est-ce une espece d’inceste d’aller amployer a ce parentage venerable et sacré l’effort et les extravagances de la licence amoureuse.
L'amore nel matrimonio è considerato come adulterio.
Il martrimonio non ha e non deve avere perció, niente a che vedere con l'amore, con la passione e con il piacere sessuale.
La sua legittimitá e utilitá si situa in un altro ambito. Tuttavia l'assimilazione della ricerca del piacere sessuale all'incesto richiama l'attenzione per una sua rara forma di violenza argomenativa e merita di esssere trattata con maggior attenzione.
L'incesto sembrerebbe essere per Montaigne l'irruzione del piacere nella sfera della riproduzione.
Ma perché il piacere deve essere escluso da questa sfera?
Le argomentazioni di Montaigne si muovono in un ambito di assoluta laicitá. Vedrò di esaminarle domani in un "post" successivo.
genseki
mercoledì, settembre 30, 2009
Enneade V
L'Uno è tutte le cose e non una sola. Ció significa che è il pincipio di tutte le realtá e non una di esse.
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Come possono tutte le cose sorgere dall'uno se questo è semplice e non rivela in sé molteplicità, nè duplicità di nessun tipo?
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Proprio perché nulla era in Lui tutto puó derivare da Lui affinché l'essere possa esistere. Lui stesso non è solo essere, semmai è il padre dell'essere, in quanto è, per coì diree, la prima emanazione. L'uno, infatti è perfetto perché non è in cerca di nulla, Non ha nulla e non ha nemmeno bisogno di qualche cosa. È la sua straripante abbondanza a produrre qualche cosa d'altro.
Plotino