giovedì, settembre 24, 2009
mercoledì, settembre 23, 2009
Ancora su Hugo
Una fanciulla che lascia pendere in disordine il suo nastro sullo schienale di una poltrona, disegna, senza volerlo, quasi tutti i sentieri di scogliera e di montagna.
Sembra una definizione della scrittura: il nastro come filo di inchiostro, l'incoscienza dell'atto creativo, il suo essere frutto di una forma del caso, come piú tardi canterá Mallarmé ma anche un cammino, un proceso una vicenda.
O forse l'emozione rara e confusa che ci afferra leggendo queste righe e la stessa che proviamo guardando una roccia vertiginosa e le sue venature profonde o un panneggio di Rubens. La bellezza come segno. Come segno senza significante ne significato.
genseki
martedì, settembre 22, 2009
Antonio Moresco e Plotino
Lo scrittore Antonio Moresco ha recentemente pubblicato sulla rivista “Il Primo Amore” tre articoli su Plotino.
Antonio Moresco ci informa del suo interesse e passione per le Enneadi di Plotino sorti nel corso di una recente lettura estiva.
Da questa sua escursione nel continente delle Enneadi egli pare aver tratto le seguenti convinzioni:
l'opera di Plotino è anticipatrice;
La sua forza anticipatorie è stata occultata dalla “scolastica storicistica” dei manuali di filosofia;
L'occhio e la mente aperti e liberi da preconcetti di Antonio Moresco hanno permesso di rivelare la forza anticipatrice di questo antico testo.
Ora io mi domando che senso possa avere applicare una categoria giornalistica come quella di anticipazione a un'opera come quella di Plotino che si muove in un universo di assoluti, Le Enneadi hanno per oggetto l'investigazine di leggi eterne, anzi la loro contemplazione in un'estasi che non puó essere che atemporale.
In che senso si puó dire che Plotino avrebbe avuto l'intenzione di anticipare qualche cosa?
Plotino non aveva nemmeno idea del fatto che la contemplazione del Bene potesse servire ad anticpare qualche cosa. Dubito che possa aver nutrito alcun interesse per un concetto tanto fuori dalllo spirito e dall'ambiente culturale in cui si svolse la sua riflessione filosofica.
C'è qualche cosa di osceno nel voler piegare Plotino, molti secoli dopo l'elaborazione della sua opera ad anticipare qualche cosa.
Non vale dire che Plotino avrebbe anticipato “malgré soi”, inconsciamente. Bisognerebbe dimostrare che cosa posa significare anticipare qualche cosa che non si è voluto anticipare. La qual cosa è naturalmente impossibile.
Anticipare vuol dire mettersi a pensare il futuro o almeno mettersi a pensare nel tempo. L'orizzonte della filosofia plotiniana è invece l'eterno.
Cosí Moresco dovrebbe dimostrare in qualche modo che Plotino pensa il tempo nei termini in cui lo pensa Moresco.
Il concetto di anticipazione è un tipico concetto da quarta di copertina o da fascicoletto dell'Euroclub.
E poi, che cosa avrebbe anticpato Plotino? Sembrerebbe che, per Moresco avrebbe anticipato qualche cosa che avrebbe a che fare con la genetica e con la teoria fisica delle stringhe.ni
Questa intuizione moreschiana o moresca sembrerebbe basarsi sull'identificazione tra il concetto di forma presente nelle Enneadi e il concetto di forma delle scienze sperimentali.
Il fatto è che questi due concetti non sono sovrapponibili. la materia di Plotino non è quella della fisica che ha un peso e una massa. La materia di Plotino è qualche cosa che si oppone alla forma. È l'assenza di forma, e conteporaneamente ció che accogli la forma nella sua attivitá formante.
Quindi, come ognuno vede, la materia di Plotino non si oppone allo spirito ma alla forma. tanto è vero che per Plotino e per Porfirio esiste una materia spirituale ovvero uno spirito suscettibile di forma.
Moresco poi non spiega in che modo l'emanazionismo Plotiniano che serve per spiegare la dialettica tra uno e molteplice abbia qualche cosa a che fare con la genetica.
Moresco sembra non rendersi conto della struttura dialettica delle Enneadi in cui le singole parti hanno un valore solo nella totalitá e in cui proprio per questo molte frasi sono affermate per essere poi negate ad un altro livello.
Insomma non si capisce che cosa abbia anticipato Plotino né perché debba aver per forza anticipato qualche cosa.
Sorge il sospetto che Moresco pensi che Plotino abbia anticipato proprio Moresco. Ovvero che le Enneadi siano rimaste pura materia fino a quando Moresco le abbia dato attualitá, cioè forma. Cioè che il senso del pensiero di Plotino sia quello di Moresco.
genseki
lunedì, settembre 21, 2009
La torre e le vele
Nel luce dorata del tramonto si stagliano i profili di alcune navi dalle vele ripiegate al lato di una torre massiccia una torre di avvistamento posta a guardia del porto, probabilmente, ma che sembra vagamente fuori posto per la sua forma architettonica piú consona, a mio parere a una pingue pianura di verdi praterie e di pacifiche vacche. Chissá dove puó averla copiata Lorrain!
Le navi nere sembrano stanche di molti viaggi, consumate da molti altri tramonti dall'aver assorbito nel fasciame e nelle carene il sale unto di molti altri porti, non parlano di partenze ma di arrivi.
Quello che unisce navi e torre è l'essere presenti insieme nello spazio dorato del tramonto.
Neppure questa cortina di luce ci parla di orizzonti aperti, è appunto cortina destinata a proteggere lo sguardo e non ad aprire lo spazio.
È un porto questo da cui non si parte, e un porto cui solo si giunge. È una meta. In realtá ogni porto è anche una meta. Questo è un porto rappresentato solo come meta.
La fagilitá della nave sta accanto alla mole massiccia della torre, la cui materialitá in parte sfuma sull'agonica luce dell'occaso. Gli alberi inclinati dai rollii, le bandiere rosse appena scosse dal vento si giustappongono all'immobilitá della torre tanto antica che sulla sua sommitá pare intravedersi come un bosco, o un giardino pensile. Sembra di udire i cigolii delle tavole usurate dei battelli delle corde e delle pulegge e il fremere di ali che sfiorano le pietra possenti della torre.
Dalla sommitá della torre antica si gode certamente di una vista amplia sul mare e sulla costa abitata che si intravede sulla destra; salire vuol dire ampiare il raggio dello sguardo, conoscere, proprio come viaggiare sui fragili gusci dei velieri. Viaggio e ascesa sono due forme di liberazione della mente, due modi di andare oltre il limite che noi stessi diventiamo per noi. Una forma orizzontale e una verticale. Una croce, insomma.
Nello spazio metaforico della luce vespertina la torre e i velieri appaiono ancora una volta come il simbolo della Croce che è il punto di arrivo il porto della pace.
genseki
domenica, settembre 20, 2009
Hugo, Io, Dio
Con una applicazione accurata delle funzioni di copia e incolla si puó creare un nuovo Hugo. Trasformare cioé il fluviale romanziere in un acuto, formidabile aforismatico visionario. Naturalmente quello che si otterrá cosí non è un Hugo verosimile, certamente, invece è un Hugo possibile. Uno dei tanti Hugo che avrebbero essere e che non furono nella oceanica molteplicità hugoliana.
La caratteristica principale dell'Hugo aforismatico e virtuale è la forza immaginativa che rompe la forma della razionalitá e dell'argomentazione.
Gli aforismi di Hugo non convincono, terrorizzano, trascinano al bordo di un abisso e spingono a guardarvi dentro.
Creano le condizioni all'apertra di un senso che va oltre il linguaggio, oltre il significato e la pura suggestone dei significanti.
«L'infinito esiste. È là. Se l'infinito non avesse un io, l'io sarebbe il suo limite; non sarebbe infinito; in altri termini, non esisterebbe. E invece esiste. Dunque ha un io. L'io dell'infinito è Dio”
La forza di queste righe, per esempio, consiste nella sorpresa continua che induce la forma della relazione introdotta successivamente tra i termini Infinio, Io e Dio. L'Io è qui il termine la cui esistenza permette all'infinito di essere tale. Un abisso si apre dentro dell'Io nel momento in cui scopre di essere la condizione di esistenza dell'Infinito, niente di meno! E dentro questo abisso ecco spalancarsene un altro, quando il medesimo Io si accorge di essere codizione dell'Infinito in quanto Dio. L'equazione Dio = Io è introdotta a bruciapelo! E ecccci precipitati nella spirale: Dio e l'infinito sono due cose diverse; Dio è una parte dell'Infinit ma en è una parte essenziale, necessaria per la sua esistenza, ma è tale in proprio in quanto Io.
L'aforismo di Hugo si regge perché trascina in questa vertiginosa prospettiva “en abîme” appunto. Una cosa alla Esher, insomma. E la porta che si spalanca di colpo su questo universo di angustia è proprio la parola Io.
Io sono io, si ha un bel metterci l'apostrofo, il mio io di lettore si sente ugualemte quell'Io che è condizione di esistenza dell'Infinito e che come tale si converte in Dio e per questo si afferra all'aforisma con tutte le forze di un naufrago disperato e da pedate alla logica perché affoghi una buona volta e gli permetta di deificarsi.
Il lettore molto malevolo, invece, puó divertirsi a considerare questo aforisma come la descrizione dell'autodeificazione di Hugo, che non puó fare a meno di considerarsi Dio.
Nelle foto Hugo ha sempre qualcosa che ricorda l'iconografia del Padre Sommo barbuto ma senza triangoli sulla testa.
Quello che resta è lo splendore di questa frase nascosta nell'oceano di parole di un romanzo immenso come una perla perduta.
sabato, settembre 19, 2009
Nicola Cusano
Parte I
Mi sembra che tu sia stato rapito un profonda meditazione per alcuni giorni sicché temetti di esserti molesto se ti avessi domandato qualcosa su quello che ti succedeva. Ora, siccome ti vedo meno concentrato e quasi lieto come se avessi scoperto qualche cosa di importante, mi perdonerai, spero, se ti farò più domande del solito.
Il Cardinale
Ne sarò lieto. Infatti mi sono speso meravigliato del tuo silenzio, soprattutto perché mi hai udito parlare molto, in quattordici anni, sia in pubblico che in privato di quello che ho trovato con lo studio e hai raccolto in opuscoli le molte cose che scrissi.
E così ora che per dono di Dioe per il mio ministero sei giunto allo sato sacerdotale, è giunto il tempo per te di cominciare a parlare e ad interrogare.
Pietro
Mi vergogno della mia goffagine. Tuttavia chiedo alla tua pietà di essere edotto di che cosa di nuovo ti giunse in questa meditazione pasquale. Credevo che tu perfezionassi tutta tua speculazione ce hai illustrato in tanti diversi tuoi manoscritti.
Il Cardinale
Se l’apostolo Paolo nonostante sia stato rapito fino al terzo Cielo non comprese tuttavia l’incomprensibile, nessuno mai, neppure il più grande, sarà saziato di tutta la comprensione anche se sempre insista per meglio compredere.
Pietro
Che cosa cerchi?
Il Cardinale
Dici bene.
Pietro
Ti interrogo e tu mi deridi. Quando ti domando che cosa cerchi, tu dici “dici bene”, e io non dico niente, ma chiedo.
Il Cardinale
Quando hai detto “che cosa cerchi” hai detto bene, perché il che cosa io cerco. Chiunque cerca ciò che cerca. Se infatti non cercasse qualche cosa o ciò sarebbe come se non cercasse. Io dunque, come tutti gli studiosi, cerco ciò, perché ben voglio sapere che cosa sia ciò ovvero la quiddità che tanto è cercata.
Pietro
Pensi che si possa trovarla?
Il Cardinale
Senz’altro. Infatti lo sforzo che compete a tutti gli studiosi non è vano.
Pietro
Se fino ad ora nessuno ha trovato ciò, tu cercherai di superare tutti?
Il Cardinale
Ritengo che molti in qualche modo lo abbiano visto e descrtto in parole. Infatti la quiddità che sempre è cercata, è stata e sarà cercata, se fosse del tutto ignota, in che modo potrebbe essere conosciuta, se anche una volta trovata rimanesse sconosciuta? Infatti diceva un certo sapiente che essa è vista da tutti anche dai più lontani.
Quindi essendomi sembrato per molti anni che sia necessario cercarla oltre ogni potenza cognitiva, oltre ogni varietà e opposizione non considerai che la quiddità è in sé sussistente, sussistenza invariabile di tutte le sostanze; e perciò non moltiplicabile, moltilicabile e non altra e altra quiddità degli altri enti, ma la medesima ipostasi di tutti. Poi vidi che era necessario che dicessi che la stessa possa essere l’ipostasi o la sussistenza di tutte le cose. E poiché può essere senza lo stesso potere non potrebbe essere. Come potrebbe infatti senza potere? Quindi lo stesso potere, senza il quale nulla può essere qualche cosa è ciò di cui non può esservi nulla di più sussistente. Perciò è esso ciò che si cerca. Proprio a questa teoria mi sono dedicato in queste festività con grande diletto.
Pietro
Mi sembra, in verità, che tu dica che senza potere nulla possa essere, e che senza quiddità non vi è alcunché, quindi parmi che la quiddità sia il potere stesso. Ma mi meraviglio, poiché già prima hai detto molte cose del potere e le hai spiegate nel trialogo, che questo non basti.
Vedrai che al di sotto dello stesso potere, di cui nulla può essere più potente né prima né migliore, è di gran lunga meglio nominare quello, senza il quale nulla può essere, né vivere, ne comprendere piuttosto che qualche altro vocabolo. Se infatti può essere nominato in ogni modo il potere stesso, del quale nulla può essere più perfetto, esso stesso lo nominerà nel modo migliore. Infatti non credo che si possa dargli un nome più chiaro, più vero o più facile.
Pietro
Come puoi chiamarlo facile, quando credo che non vi sia nulla di più difficile di quello che sempre è cercato e mai trovato completamente?
Il Cardinale
La verità quanto più è chiara tanto più è facile. Io ritenevo che la si trovasse meglio in un poco di oscurità. Grande è la potenza della verità nella quale brilla intensamente lo stesso potere. Essa infatti grida nelle piazze, come hai letto nel libretto “De Idiota”. Certamente essa è ben facile da trovarsi.
Quale bambino o adolescente ignora lo stesso potere, quando dice che può mangiare, correre o parlare? E non vi è nessuno dotato di una mente che sia a tal punto ignaro da non sapere anche senza maestro che nulla e se non può essere e che senza potere nulla può essere, avere, fare o subire. Quale adolescente, interrogato se possa portare una pietra, avendo risposto che lo può, ulteriormente interrogato se lo potrebbe senza poterlo non risponderebbe giammai? Egli giudicherebbe assurda e superflua tale domanda, come se nessuno sano di mente potesse dubitare di aver fatto o di fare qualche cosa senza poterlo. Ogni potente presuppone il potere come necessario e nulla può essere senza che esso sia presupposto e che cosa diresti se ancora ti domandassi, essendo il potere di tutte queste origini quasi inesplicabile, da dove tale potere tragga la sua virtù? Non risponderesti forse, che le trae da quel potere assoluto e non contratto, quasi onnipotente, di cui nulla havvi che di più potente possa essere percepito o immaginato o compreso, essendo
Se infatti qualche cosa può essere nota nulla è più noto proprio del potere. Se qualche cosa può essere facile, nulla è più facile proprio del potere, se qualche cosa può essere certo nulla è più certo dello stesso potere. Così nulla è più primo, né glorioso, né forte, né solido né sostanziale e così di tutte le cose. Mancando infatti il potere stesso nulla vi può essere di buono né di qualunque altra cosa che possa essere.
Pietro
Nulla vedo di più sicuro e ritengo che nessuno possa ignorare la verità di queste.
Il Cardinale
C’è solo attenzione tra te e me. Infatti, se ti interrogassi su che cosa scorgi in tutti i posteri di Adamo che furono, che sono e che saranno, anche se fossero infiniti, non risponderesti forse subito che non vi scorgi altro che il potere paterno del primo genitore?
Pietro
E’ certamente così
Il Cardinale
E se vi aggiungessi, che cosa scorgi nei leoni, e aquile e ogni specie di animali, non risponderesti forse allo stesso modo?
Pietro
Di sicuro non in modo diverso.
Trad. genseki
giovedì, settembre 17, 2009
Non c'è nulla d trovare
A partire dal'istante in cui Buddha trasmise il metodo spirituale a Mahakasyapa, lo spirito ricevette il sigillo dello spirito senza piú nessuna differenza tra spirito e spirito. Questo sigillo si stampiglia nel vuoto, cioè non ha nulla a che vedere con i testi, perché se fosse stampigliato su qualche cosa di concreto allora non avrebbe piú niente a che fare con il metodo spirituale. Per questo quando lo spirito pone il sigillo allo spirito lo spirito che sigilla e quello che è sigillato non sono piú distinti. Sccome, peró il soggetto che sigilla e l'oggetto che è sigillato si incontrano con difficltá la loro coincidenza è estremamente rara. Tutttavia, dal momento che lo spirito equivale al non-spirito, trovarlo equivale a non trovare nulla.
Il Buddha ha tre corpi: il corpo assoluto insegna la vacuità e la libertá della nostra essenza; il corpo della fruizione insegna il metodo della purezza universale; il corpo di appaizione insegna le sei trascendenze e tutte le altre pratiche infinite.
Non si puó cercare il metodo insegnato dal corpo assoluto in linguaggio, suono, forma o testo: nulla è attestato.
La nostra essenza è aperta come lo spazio. Questo è tutto. In questo senso è stato detto: "Nel fatto che il vero metodo non puó essere insegnato si trova il vero metodo".
Il corpo di fruizione e quello di apparzione si fanno sentire e si manifestano secondo le circostanze.
I metodi che insegnano dipendono dalle circostanze e dalle situazioni. Per attirare e convertire impiegano un metodo che non è quello reale, si puó dire quindi che: "il corpo di fruizione e quello di apparizione non sono il Buddha reale
e non insegnano il metodo corretto".
Tutto ció si puó riassumere in una sola luminosa chiarezza sottile che si articola in sei tipi di relazioni armoniose.
I sei tipi di relazioni corispondono alle sei facoltá sensoriali. Ognuna di queste facoltá si unisce al suo oggetto: l'occhio alla forma, l'orecchio al suono, il naso agli odori, la lingua ai sapori, il tatto ai tangibili, l'intelletto agli intellegibili.
Nel mezo emergono le sei coscienze così che in tutto si hanno diciotto sfere. Comprendendo che queste diciotto sfere non hanno esistenza indipendente le sei relazioni sono concentrate in una sola chiara luminositá sottile che altro non è che lo spirito, I discepoli sanno tutto questo ma si sforzano di spiegare concettualmente l'unica chiara luminositá sottile e le sei relazioni, cosí che si ritovano legati dal metodo senza coincidere piú con il proprio spirito.
Huangpo
Dialoghi
Trad a cura di genseki
mercoledì, settembre 16, 2009
Aforismi
Questo primo assaggio contiene brani dei miserabili. Il primo di essi non corrisponde che molto vagamente alle parole che ho scrito qui sopra, in parte ne è una fragrante negazione esemplare posa umilmente in limine.
genseki
>
I MISERABILI
Si può considerare con indifferenza la pena di morte, si può non pronunciarsi, dire di sì e di no, finché non si è vista con i propri occhi una ghigliottina; ma quando se ne vede una, la scossa è violenta e bisogna decidersi a prender partito pro o contro. Alcuni ammirano, come il De Maistre, altri esecrano come il Beccaria. La ghigliottina è il concretizzarsi della legge; essa si chiama punizione, non è neutra e non vi permette di rimaner neutrali. Chi la scorge freme del più misterioso dei fremiti. Tutte le questioni sociali drizzano attorno alla mannaia i loro punti interrogativi. Il patibolo non è visione. Il patibolo non è un'impalcatura, non è una macchina, non è un meccanismo inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra che sia, in qualche modo, un essere dotato di chissà quali cupe iniziative. Si direbbe che quella impalcatura veda, che quella macchina intenda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria in cui getta l'anima con la sua presenza, il patibolo appare terribile e partecipe di quello che fa. Il patibolo è complice del carnefice: divora, mangia della carne, beve del sangue. Il patibolo è una specie di mostro, fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere d'una vita spaventosa, fatta di tutta la morte che ha procurato.
La morte appartiene solo a Dio. Con quale diritto gli uomini si servono di una cosa sconosciuta?».
«L'infinito esiste. È là. Se l'infinito non avesse un io, l'io sarebbe il suo limite; non sarebbe infinito; in altri termini, non esisterebbe. E invece esiste. Dunque ha un io. L'io dell'infinito è Dio».
Ma ciò che apprezziamo nei confronti di coloro che salgono, ci piace assai meno di fronte a coloro che cadono. Amiamo il combattimento fintanto che c'è pericolo; e, in ogni caso, sono soltanto gli oppositori della prima ora che hanno il diritto di essere gli sterminatori dell'ultima. Chi non è stato nei giorni della prosperità accusatore ostinato, al momento del crollo deve tacere. Solo il denunciatore del successo sarà il legittimo giustiziere della caduta.
Ogni zucchetto può sognare la tiara. Il prete, ai giorni nostri, è il solo uomo che possa di diritto diventare re; e che re! Il re supremo! Per questo il seminario è un semenzaio d'aspirazioni.
I geni, nelle inaudite profondità dell'astrazione e della speculazione pura, posti per così dire al di sopra dei dogmi, propongono a Dio le loro idee. La loro preghiera offre audacemente la discussione. La loro adorazione interroga. Questa è la religione diretta, piena d'ansietà e di responsabilità per chi ne tenta la scalata.
La meditazione umana non ha limiti. Ha i suoi pericoli, i suoi rischi, analizza e scava il proprio abbaglio. Si potrebbe quasi dire che, con una specie di splendida reazione, ella ne abbagli la natura; il mondo misterioso che ci circonda rende ciò che riceve; è probabile che i contemplatori siano a loro volta contemplati. Comunque, ci sono sulla terra uomini - ma sono uomini, poi? - che scorgono in fondo all'orizzonte del sogno le altezze dell'assoluto e che hanno la terribile visione della montagna infinita.
***
martedì, settembre 15, 2009
I Pitocchi
La traduzione è cosí cosí ma è quello che mi è riuscito di fare.
genseki
di Saint-Amant
Con un lenzuolo in tre senza luce né fuoco,
Nel piú profondo inverno, dormir nella legnaia
Ove i gatti borbottano in oscuro ostrogoto
Rischiarando la notte con le pupile d'oro;
Usar come cuscino un pezzo di sgabello,
Digiunare due anni al modo di lumache,
Sognar con mille smorfie come macachi al sole
Che con grandi sbadigli si grattano le ascelle;
Con un vecchio cappello a guisa di berretto,
Con le trine di un manto poteggersi dal freddo
E fasciarsi la pancia con un frusta fodera;
Soffrire mille ingiurie da un vecchio oste irato
Che appena puó fornire una minima spesa
È questo il risultato d'una vita sbandata.
trad. genseki
lunedì, settembre 14, 2009
Filosofia e sapienza
Comunque proprio in una delle ultime stazioni sul cammino del grande santuario fenomenologico incontriamo una formula apparentemente mistica.
La fine della filososfia è anche fine della soggettivitá e della coscienza.
Se le cose stanno cosí peró, il supremo compimento della filosofia non ha piú nulla a che fare con la vita. È puro oltre, oltre ogni orizzonte, cioé, giacché non vi è orizzonte alcuno ove non vi sia soggettivitá.
La filosofia si compie, si attualizza, finisce con la distruzione del soggetto.
Tra il soggetto e la sua distruzione resta peró "lo sfrigolío" della fiamma. Il compimento non è mai compiuto completamente. Tra il compimento e il suo compiersi resta uno iato.
Questo iato è la spazio della sapienza. Tra coscienza e spirito sta la sapienza, seduta in profonda concentrazione, attenzione, samadhi.
Le parole fiammeggianti di Hegel lasciano lo spazio alla fresca brezza di una poesia di Dogen:
La persona autentica non è
Un individuo particolare
Come l'azzurro profondo del cielo illimitato
Essa è ogni persona
Ovunque nel mondo.
Dogen