giovedì, settembre 10, 2009

Antonio Labriola

Quello che segue è un breve malinconico frammento di una lettera di Labriola a Spaventa, che riletto oggi, sembra permeato di un ottimsmo radicale e disincarnato.
Queste poche parole, confrontate con l'esperienza dell'oggi ci danno la misura della rapiditá e della profonditá della degradazione di una classe dirigente e di una intellettuale.
Che distanza tra questa concezione della politica e quello che oggi si conviene chiamare politica.

"Io mi domando sempre se in Italia c'è o non c'è una decina di persone che senta la responsabilitá dello Stato per farla finita con le vuote forme della libertá e per ristabilire la seietá della vita. Lo stato deve essere il domini dell'ottimo, e l'ottimo non nasce dal caso con buon pace del Darwin e de furfanti che si chiamano liberali".

A Labriola
Lettera a Spaventa.

mercoledì, settembre 09, 2009

De Luce

Sulla luce
Ovvero
L’origine delle forme
Di
Roberto Grossatesta
Vescovo di Lincoln

Penso che la luce sia la prima forma corporea che alcuni chiamano anche corporeità. La luce, infatti, si espande da sola in ogni direzione in modo tale che a partire da un punto di luce subito si genera una sfera luminosa di grandezza variabile. La corporeità deriva necessariamente dall’estensione della materia in tre dimensioni, tuttavia entrambe, la corporeità come la materia sono sostanze in sé semplici che mancano di ogni dimensione. E’ impossibile invero che la forma in sé semplice e mancando di ogni dimensione possa produrre le dimensioni in ogni parte di una materia anch’essa similmente semplice e priva di dimensioni, se non moltiplicando se stessa e diffondendosi in ogni parte immediatamente ed estendendo la materia nell’atto stesso di questo suo diffondersi, dal momento che la forma non può lasciare la materia da cui è inseparabile e la materia non può fare a meno della forma.
Ho supposto che sia la luce ciò cui solo è possibile di compiere questa operazione di moltiplicare se stessa e di diffondersi immediatamente in ogni parte. Qualunque cosa faccia ciò o è la luce medesima oppure della luce partecipa quando questa agisce per virtù sua propria.
La corporeità dunque o è la luce stessa o è, come detto qualche cosa che produce le dimensioni nella materia in quanto partecipa della luce e agisce per virtù di questa. Ma, invero, non è possibile che la forma prima produca le dimensioni nella materia per virtù della forma conseguente. La luce non è quindi forma conseguente la corporeità ma è essa stessa la corporeità.
Più dettagliatamente i sapienti pensano che la prima forma corporale sia più degna di tutte le forme conseguenti e di essenza più eccellente e più nobile e più simile alle forme che sussistono separatamente. La luce, invero, è di essenza più nobile e più degna e più eccellente di tutte quante le cose corporee e più simile alle forme che sussistono autonomamente, che sono le Intelligenze. La luce è dunque la prima forma corporea.
Ecco allora che la luce che è la prima forma creata nella prima materia moltiplicandosi da sé infinitamente, ovunque egualmente estendendosi, al principio del tempo dilatava la materia che si diffondeva così in tanta per una misura pari a quella dell’intera macchina del mondo senza tuttavia poterla oltrepassare.
L’estensione della materia non poté avvenire per una moltiplicazione finita della luce, perché il semplice moltiplicato per un numero finito non genera la quantità come dimostra Aristotele nel “De Caelo et Mundo”.
E’, invece, necessario che infinitamente moltiplicato generi una quantità finita perché il prodotto di una moltiplicazione infinita di qualche cosa supera infinitamente ciò della cui moltiplicazione è prodotto. E il semplice non è superato infinitamente dal semplice ma basta soltanto una quantità finita per superarlo infinitamente. Infatti, la quantità infinita supera il semplice infinitamente infinite volte. La luce, dunque, che in sé è semplice, infinitamente moltiplicata, estende in dimensioni di grandezza finita la semplice materia.

E’ poi possibile che un insieme infinito di numeri sia proporzionale ad un insieme infinito secondo un relazione numerica o anche non numerica. Vi sono infiniti maggiori e altri minori di altri infiniti.
L’insieme di tutti i numeri pari e di tutti i numeri dispari è infinito e, tuttavia, è maggiore dell’insieme di tutti i numeri pari che è comunque lo stesso infinito perché lo eccede per la quantità di tutti i numeri dispari. Anche l’insieme di tutti i numeri moltiplicati per due a partire dall’unità in avanti è infinito, e similmente l’insieme di tutte le metà corrispondenti ai loro doppi è infinito. L’insieme delle metà dovrebbe essere la metà dell’insieme dei suoi doppi. Allo stesso modo l’insieme di tutti i numeri triplicati a partire dall’unità e andando sempre avanti è triplo rispetto all’insieme dei terzi corrispondenti a questi tripli. E’ così chiaro che ogni tipo di proporzione numerica può essere una relazione tra finito e infinito.

Prendiamo allora un insieme infinito di tutti i doppi a partire dall’unità e un’insieme infinito di tutte le metà corrispondenti a questi doppi, se sottraiamo un’unità o un altro numero finito dall’insieme dei doppi, una volta compiuta la sottrazione non vi è più una relazione proporzionale tra il primo insieme e quanto resta del secondo. Non vi è qui una proporzione numerica perché se restasse una proporzione numerica fra il primo insieme e quanto resta del secondo dopo la sottrazione, quello che è sottratto sarebbe una quota parte di una quota parte, ovvero una quota di parti di una parte di ciò da cui è sottratto. Ma un numero finito non può essere una quota parte o una quota di parti di una quota parte di un numero infinito. Perciò se noi sottraiamo un numero da un insieme infinito di metà non resta nessuna proporzione numerica tra l’insieme infinito dei doppi e quanto rimane dell’insieme infinito delle metà.

Ecco allora che diviene chiaro come la luce attraverso la propria moltiplicazione infinita estenda la materia in dimensioni finite più o meno ampie secondo le diverse proporzioni che si stabiliscono tra l’una e l’altra e che possono essere numeriche oppure non numeriche. Per questo la luce per mezzo della sua moltiplicazione infinita. Se quindi la luce per mezzo della sua moltiplicazione infinita estende la materia per uno spazio di due cubiti raddoppiando la medesima moltiplicazione infinita ecco che la diffonde per uno spazio di quattro cubiti e dividendola per due la amplia di un cubito e così via secondo le altre proporzioni numeriche e non numeriche.

Questa penso fu l’idea di quei filosofi che supposero che ogni cosa sia composta di atomi o di quelli che affermano che i corpi sono composti da superfici, le superfici da linee e le linee da punti. E non si oppone a questa affermazione chi dice che la grandezza si compone soltanto di grandezze. Infatti, quando si definisce la parte si definisce anche il tutto. Detto altrimenti si dice metà quella parte del tutto che presa due volte ci ridà il tutto. Analogamente il raggio è una parte del diametro ma moltiplicato per tante volte quante si vuole non ci ridà mai i diametro e rimane sempre minore di quello. Ancora, l’angolo di contingenza è una parte dell’angolo retto in cui è contenuto infinite volte e tuttavia, se ve lo sottraiamo un numero finito di volte lo rende più piccolo, mentre se sottraiamo un punto dalla linea di cui esso è una parte questa non ne resta in alcun modo diminuita.

Ritornando al mio assunto dico che la luce per mezzo della sua infinita moltiplicazione estende in ogni parte egualmente la materia in forma sferica. Ne consegue per necessità di questa estensione che le parti estreme della materia siano più rarefatte e più diffuse delle parti più interne più prossime al centro. Quando le parti estreme siano sommamente rarefatte ecco che anche quelle interne divengono suscettibili di rarefazione.

In questo modo, dunque, la luce estendendo la prima materia in forma sferica e rarefacendola nelle sue parti estreme, attualizzò perfettamente le possibilità della materia nell’ultima sfera non lasciando in essa nulla che fosse suscettibile di ulteriore impressione. Il primo corpo all’estremità della sfera è tanto perfetto da essere detto firmamento perché nella sua composizione non entra nient’altro che la prima forma e la prima materia. Per questo è un corpo semplicissimo quanto alle parti che ne costituiscono l’essenza e quanto alla grandezza che è massima e non differisce dal genere corporeo che per il fatto che in esso la materia è perfetta soltanto grazie alla forma. Ma il genere corporeo che si trova in questo e in altri corpi, avendo nella sua essenza la prima materia e la prima forma prescinde dalla completa attualizzazione della materia attraverso la prima forma e dalla diminuzione della materia per mezzo della prima forma.

Raggiunta così la perfezione, il primo corpo, cioè il firmamento, diffonde da solo la sua luce da ogni sua parte verso il centro del tutto. Infatti, siccome la luce è a perfetta attualizzazione del primo corpo essa si diffonde necessariamente verso il centro del tutto. Ma poiché la forma nella sua interezza non è separabile dalla materia mentre si diffonde dal primo corpo diffonde con sé la spiritualità della materia del primo corpo. Così dal primo corpo procede la luce che è un corpo spirituale o se si preferisce uno spirito corporale. Dal momento che la luce nel suo passaggio non separa il corpo che attraversa essa immediatamente penetrò dal primo corpo celeste verso il centro. Il suo passaggio non deve essere inteso come un passaggio di qualche cosa che sia misurabile benché istantaneo dal cielo verso il centro del tutto, questo, infatti, non sarebbe possibile, ma il suo passaggio avviene per mezzo della sua moltiplicazione e generazione infinita di luce. Questa luce diffusa dal primo corpo verso il centro raccolse la massa esistente al di sotto del primo corpo; e poiché non poteva diminuire il primo corpo che è completo e invariabile non trovando nessun vuoto dovette necessariamente, per raccogliere questa massa, disgregarne ed estenderne le parti estreme. Così le parti interne della massa divenivano più dense e quelle esterne più rarefatte; e fu tanto grande la potenza della luce che raccoglieva e contemporaneamente disperdeva ciò che aveva raccolto che le parti estreme della massa che si trovava al di sotto del primo corpo furono massimamente rarefatte e assottigliate.
Veniva così formandosi ai margini di questa massa una seconda sfera perfetta e non suscettibile di ulteriore impressione. La completezza dell’attualizzazione la perfezione della seconda sfera dipende dal fatto che la sua luce è generata dalla prima sfera ma mentre in questa è semplice in essa è doppia.

Così la luce generata dal primo corpo completò l’attualizzazione della seconda sfera e al suo interno lasciò una massa più densa, poi la luce generata dalla seconda sfera completò l’attualizzazione della terza e attraverso un processo di aggregazione lasciò al di sotto di questa una massa di densità maggiore. Questo processo di aggregazione e di disgregazione continuò finché furono generate nove sfere celesti e fu raccolta all’interno della nona ed infima sfera una massa più densa che fu la materia dei quattro elementi. L’infima sfera, poi, che è la sfera della luna, generando anch’essa da sé sola la luce adunò la massa contenuta al suo proprio interno e nell’adunarla ne rese sottili e ne disgregò le parti estreme. Ma la potenza di questa sua luce non era bastevole a far si che nell’aggregare le parti estreme potesse disgregarle completamente. Rimase così in ogni parte di questa sfera la possibilità di ulteriori aggregazioni e disgregazioni cioè l’imperfezione dell’attualità. La parte più alta di questa massa non completamente disgregata divenne di fuoco e rimase in essa la materia degli elementi. Questo elemento generando da sé la sua propria luce e adunando la massa contenuta sotto di sé ne disgregò le parti estreme in grado minore però di quello raggiunto dalla disgregazione del suo proprio fuoco, producendo così proprio il fuoco. Il fuoco a sua volta generando da sé la sua propria luce e adunando la massa contenuta sotto di sé ne disgregò le parti estreme in grado minore di quello della sua propria disgregazione dando così luogo all’aere. Anche l’aere generando da sé un corpo spirituale o spirito corporale e adunando la massa contenuta al suo interno per disgregarne nell’atto le parti estreme produsse l’acqua e la terra. Ma poiché nell’acqua rimase più virtù aggregante che non disgregante, la stessa acqua e la terra risultarono dotate di peso.

In questo modo, dunque furono prodotte le 13 sfere di questo mondo sensibile: cioè le nove sfere celesti inalterabili, inaccrescibili, ingenerabili e incorruttibili in quanto completamante attualizzate, e le quattro esistenti secondo modalità opposte, ovvero alterabili, accrescibili, generabili e corruttibili in quanto incomplete. E’ chiaro, inoltre che ogni corpo superiore secondo la luce che d sé trae è forma e perfezione del corpo successivo; così come la potenza dell’unità è contenuta in ogni numero successivo all’uno allo stesso modo il primo corpo, in virtù della moltiplicazione della sua luce è contenuto in ogni corpo successivo.

La terra poi contiene la potenzialità di tutti i corpi superiori in quanto in essa è contenuta l’aggregazione di tutte le loro luci. Per questo i poeti è stata chiamata Pan, cioè il tutto; e anche Cibele, che deriva da cubo, per la sua solidità, perché essa è più compatta di ogni altro corpo, Cibele madre di tutti gli dei, giacché in essa sono adunate tutte le luci superne, che non sono sorte da lei per opera sua sebbene sia possibile trarre da lei con atti e operazioni appropriate la luce di qualsivoglia sfera. Così sarà da lei procreato, quasi come da una madre qualunque Dio. I corpi intermedi poi hanno due tipi di correlazioni. Per quanto riguarda i corpi inferiori essi hanno con loro le stesse relazioni che il primo cielo ha con gli altri corpi, per quanto riguarda quelli superiori hanno con essi lo stesso tipo di relazione che la terra ha con tutti i corpi.

Forma e perfezione di ogni corpo è la luce ch’è spirituale e pura nei superiori, più corporea e complessa negli inferiori. Tuttavia tutti i corpi non hanno la medesima forma pur procedendo tutti dalla stessa luce semplice o complessa, così come non l’hanno i numeri benché derivati dalla somma di più o meno unità.

Con questa frase è chiarita l’idea di quelli che dicono “tutte le cose sono uno in virtù della perfezione di una luce” e di coloro che dicono “le cose molteplici sono tali in virtù della differente moltiplicazione della sola luce”.

Poiché, poi, i corpi inferiori partecipano della forma di quelli superiori, un corpo inferiore a causa della partecipazione alla forma del corpo superiore è in grado di ricevere il moto dalla stessa virtù motoria incorporea da cui è questo è mosso. Per questo la virtù motoria dell’intelligenza o dell’anima che muove la prima suprema sfera con moto continuo muove anche tutte le altre sfere celesti inferiori con il medesimo moto. Ma quanto più in basso si trovano tanto più debolmente ne ricevono il movimento, perché quanto più una sfera è bassa tanto meno pura e più debole è in essa la prima luce corporea.

Sebbene, poi, gli elementi partecipano della forma del primo cielo, non sono tuttavia mossi dal motore del primo cielo con moto continuo. Sebbene partecipino di quella prima luce, purtuttavia non obbediscono alla prima virtù motoria perché la loro luce è debole, impura e lontana da quella del primo corpo e perché la loro materia ha densità che è principio di resistenza e di disobbedienza. Alcuni ritengono tuttavia che la sfera del fuoco ruoti di moto continuo e portano come prova la rotazione delle comete e dicono che questo moto influisce persino sull’acqua del mare generandovi le correnti. I veri filosofi, tuttavia, affermano che la terra è immune da un tale influsso.

Allo stesso modo le sfere che si trovano dopo la seconda sfera, che contando a partire dalla terra è detta ottava, dal momento che partecipano della sua forma hanno tutte in comune con essa il moto, e ne hanno anche, oltre questo, uno loro proprio.

Dal momento che le sfere celesti, in quanto perfette, non sono suscettibili di rarefazione e di condensazione in esse la luce non spinge parti di materia lontano dal centro in modo che si rarefacciano né verso il centro in modo da farle addensare, per questo tali sfere celesti non ricevono, dalla virtù motoria intellettiva, un moto verso l’alto e neppure uno verso il basso ma solo un moto circolare. Questa riverberando su di loro nel suo aspetto corporeo le spinge ad una rivoluzione corporea.
La luce che è in loro, invece spinge gli elementi incompleti e suscettibili di rarefazione e di condensazione verso il centro per condensarli o lontano da esso per rarefarli. Per questo essi sono mobili verso l’alto oppure verso il basso.

Nel corpo supremo, che è il più semplice di tutti i corpi vi sono quattro costituenti, cioè la forma, la materia, la composizione e il composto. La forma in quanto semplicissima vale come unità, la materia per la sua duplice possibilità, quella di essere impressionabile e ricettiva e quella di essere densa, proprietà quest’ultima fondamentale della materia si manifesta per prima cosa e principalmente in modo binario e perciò le è assegnata una natura binaria. La composizione ha in sé la trinità. Perché in essa appare la materia formata, la forma materiata e la proprietà stessa della composizione che distinta sia dalla materia sia dalla forma si trova in ogni composte ciò che è composto oltre questi tre è compreso come quaternità. Lo si trova nel primo corpo nel quale esistono virtualmente tutti gli altri corpi, come appunto quaternità, perciò, fondamentalmente il numero di tutti gli altri corpi non può superare la decina. Infatti, l’unità della forma, la binarietà della materia, la trinità della composizione e la quaternità del composto prese insieme costituiscono la decina. Per questo la decina è il numero dei corpi delle sfere del mondo, poiché, sebbene la sfera degli elementi sia quadripartita, resta tuttavia una per la sua partecipazione alla corruttibile natura terrestre.

Ne deriva che la decina è il numero dell’universo perché è un tutto perfetto ciò che in sé contiene forma e unità, materia e binarietà, composizione e trinità e composto e quaternità. Non vi è bisogno di aggiungere un quinto costituente perché ogni perfetta totalità è nella decina.

Da ciò si vede chiaramente come che le sole cinque proporzioni presenti nei quattro numeri uno, due, tre e quattro bastano a costituire la composizione e la concordia di ogni composto.

Per questo queste cinque sole proporzioni bastano a produrre l’armonia della musica dei gesti e delle danze.

Qui termina il trattato della luce del Vescovo di Lincoln.

trad. genseki



mercoledì, luglio 29, 2009

Genesi

Le parole che cadono
Nell'oceano indistinto
Sorgono, grandi isole
Dalla schiuma salmastra
Di stridenti richiami
Vivono di voli radenti
Il guano le copre nasconde
Il loro segreto silenzio.


Fonti da esse sorgendo
D'acque faconde
Nell'intreccio di metallici
Splendori di libellule
Frenetiche elitre
Ali e becchi variopinti
Cantano il senso
Ancora oscuro nel morbido
Maturare soterraneo


A radici micorrize
Dando alimento
Fronde distendono
Nel prurito della luce
Nella pelle luminosa
Che il sole allunga
Da clorofilla a clorofilla
Evocano, non parlano,
Al dormiente tra steli di sparto.


Finalmente la pelle tesa
Dei tamburi scoppia
Sorda, bisognosa di occhi
Rispecchia lo smarrimento
Della separazione
Lontana dal centro
La coscienza articola
La leggenda del proprio terrore
La morte è levatrice del senso.


Parole, di nuovo, rinnovate
Separate, gravato il suono
Di senso e significante
Staccionate, limite,
Fallo, faglia confine
Tracciano del sacro
Sul limite della palude
Timide come ninfee
Como fiori di loto
Schiacciati dallo zoccolo del Centauro.

genseki


Hector Murena

Hector Murena

Que se entienda
Esta dicha terrible
Que es cualquier barco
Hacia odo naufragio.

Che sia compresa
La terribile sorte
D'essere qualche battello
Verso ogni naufragio

trad. genseki.

Columbares II

Altre ronde, altre ore

Altre ronde, altre ore
Ad aprirsi piú leste
E l'eco delle strade
Nelle foglie di gelso
Con una mela in tasca
Con il fuoco negli occhi
Abbandonar la patria
Riempire le bisacce
Nutrire pulci e pulci
Lavarsi con la nebbia
Scaldarsi con il fumo
Rubare le castagne
Lottare con un angelo
Tra i rami di un immenso
Faggio dell'appennino
Nel mezzo dell'autunno
Come puzzano i piedi
Il sudore, il fustagno
la cenere di frasca
La diarrea da muscaria
Altre ronde, altre ore
Or piú lente or più spente
E l'eco del cammino
Che quell'altro ha percorso.

*

Columbares

La giga delle quattro e venti

Alla giga delle quattro e venti
Parteciparono tutti i corni
I cani gialli a gruppi sotto i meli
Sporgevano le lingue come stami
I cedroni ed i cervi profumavano
Con incensi di sangue
La posa delle roveri
Con i rami protesi verso la tempesta
Come le mani di un soprano drammatico

Il Duca ululava a Despina
Che piangeva nuda di rose
Nel mezzo del temporale verde e viola
Ed il carro dei comici traballava
Avanzando penosamente nel fango
Nel rumore assordante delle casseruole di rame
Che rappresentavano la commedia
Del concerto delle sfere.
Un filosofo straccione, dalla barba di stoppa
Seduto su un frammento di colonna corinzia
Tramandó questa scena fino ad oggi
Per deliziare una dama fiamminga.

genseki

sabato, luglio 25, 2009

Ashkenazy plays Ravel: Gaspard de la Nuit - Scarbo

La Tour de Nesle

La Torre di Nesle

Nella Torre di Nesle c'era un corpo di guardia dove si rifugiava la ronda per la notte
Brantôme

- Fante di fiori! -
- Donna di picche! - E il soldataccio che perdeva, con un pgno sulla tavola faceva saltare la sua posta fin contro la volta.

Allora Messer Hugo, il prevosto, sputó in un braciere di ferro con una smorfia egna di uno straccione che si sia inghiotito un ragno con la zuppa.

- Puah! I macellai spellano i porci a mezzanotte? Per Dio! È una barcaccia della fienagione che brucia sulla Senna! -

L'incendio, che d'apprima non era che un folletto innocente perduto nella bruma del fiume, si mise a fare di colpo il diavolo a quattro sparando cannonate e archibugiate a filo d'acqua.

Una folla innumerevole di illuminati, storpi, straccioni notturni, accorse sulla riva, danzavano gighe di fronte alla spirale di fiamma e di fumo.

Arrossavano una di fronte all'altra la Torre di Nesle da cui uscí la ronda con gli schioppi sulle spalle, e la Torre dl Louvre da dove, da una finestra, il Re e la Regina osservavano tutto senza essere visti.

Aloysius Bertrand
Trad. genseki

venerdì, luglio 24, 2009

La figlia dell'ambasciatore

La figlia del vecchio ambasciatore
Vive nuda per le strade
Mangia l'immondizia
È coperta di croste
Vaga coperta di croste
Per il quartiere alto della cittá
Quello delle palme
Quello delle profonde terre rosse
Si libera dei vestiti
Che le fanno indossare
Le suorine azzurre
Le suorine leggere come petali
Che sembrano volare attraverso le siepi
La figlia dell'ambasciatore,
Del vecchio ambasciatore
Vaga nuda per le strade
Coperta di croste, soprattutto sulle ginocchia
E le labbra gonfie di piaghe
- È la figlia del vecchio ambasciatore -
Mormorano le venditrici di pomodori
Avvolte nei loro pagne sgargianti
E quelle di kaolino
O del burro di Karite
Che sembra sangue sul punto di coagularsi
- Che se ne va per le strade tutta nuda -
Ha grandi occhi acquosi, sporgenti e rossi
E il collo sempre piegato a destra
Ti guarda con la testa bassa
E canticchia litanie bantù
I vestiti li getta via
Come le bande che con mano delicata
Le stringono sulle piaghe
Le infermiere dell'ospedale cinese
Con le loro divise grige e la pelle del viso tostata
- Guardate, è la figlia dell'ambasciatore, -
Dicono i sarti in fila con le loro singer
Sotto il jacarandá o il braquiquito sbandierando
Le maniche di camicie innocenti
- Che se va nuda per le strade, con quel pancione di sei mesi!-
La figlia dell'ambasciatore si sente libera
Come un uccello cui abbiano strappato gli occhi
E che vola in una notte piovosa
Sbattendo le ali contro i rami spinosi,

genseki


mercoledì, luglio 15, 2009

Madirias

Alessandra tra i lillá - parte II

Alessandra
Oggi vedo un parco
Una signora celeste
I lillá dei muri,
La macchia di arbusti che cresce
Oggi ascolto
Una canzone lontana
Una storia di principesse
E di castelli
E addii estivi.
La cicala
Mi sveglió per dirle
Che dalla finestra
Entra l'odore dei pini.

Cristina Peri Rossi
1976

trad. genseki

La cosa in sé

Per coloro che affermano la realtá e la certezza della cosa in sé non conosciamo un rimedio piú efficace che quello di rimandarli all'infimo livello della scuola della sapienza, cioè: ai vecchi misteri eleusini di Cerere e di Bacco perché comincino a capire in che cosa consiste il mistero di mangiare il pane e di bere il vino, dato che l'iniziato in questi misteri non soltanto giungeva a dubitare dell'essere della cos insé, ma arrivava fino alla disperazione relativamente q questo steso essere, e nella cosa sensibile esercitava in parte la sua stesa nullitá e la nientificazione di esse, e contemporaeamente si rendeva conto di come le cose esercitassero il processo analogo su di lui.
Nemmeno gli animali sono privi di questa sapienza, anzi dimostrano di essere profondamente iniziati ad esa,infatti non si arrestano davanti alle cose sensibili, come se queste fossero cose in sé, ma disperando della loro realtá; le afferrano e le divorano in un baleno; e la natura celebra come loro questi misteri in cui ci insegna in che cosnsiste la veritá delle cose sensibili.

Hegel
Fenomenologia dello spirito
trad. genseki

*

Certamente nessuno oggi, che entri in qualunque supermercato o centro commerciale puó nutrire qualche dubbio relativamente al fatto che gli oggetti che gli si presentano davanti in uno spettacolo multicolore abbiano qualche caratteristica di relatá e di certezza.Il mistero del mercato si manifesta nella pura cirolazione della merce che è una forma di ingestione e di assimilazione simbolica, non molto distante da quello che fu il mistero di Cerere e Bacco, ma con molta meno sapienza.
La certezza della nulla delle cose sensibili è sapienza comune di qualsiasi consumatore. Nessuna parola è piú adeguata di consumatore per indicare questa prosimitá al nulla. Consumatore o nullificatore è colui che entra nella sfera variopinta del mercato.
Il consumatore, infatti, non i ferma davanti alla cosa come se fosse davvero una cosa in sé, ma disperando della sua reaktá al di fuori della sfera ella circolazione, si getta su di essa la compra e appunto la consuma e consuma anche quest'ultimo residuo soggettivo del suo cosnumare.
Il Mercato, col la M maiuscola di Macdonald, celebra cosí con lui il mistero postistorico della merce.

genseki


Günther Eich

Günther Eich

Miniatura invernale

Sul verde dicembrino dell'altura
Si apre un pioppo come un monumento
Con lente ali tracciano cornacchie
Caratteri esoterici nel cielo

L'umida aria contiene suoni e segni
L'alta tensione vibra con i grilli
Gelano i funghi sul margine del bosco
Ed un nido di tordi sta marcendo

Il campo sta nelle linee ondulate
Il gelo delle pozze brilla per le crepe
Nubi pregne di neve van passando
Sull'alfabeto di questa amarezza.

Traducendo questi versi di Günther Eiche en scopro le affinitá con Trakl che alla lettura mi erano sfuggite

Secchi dietro il prato
Gli steli del luppolo
I fianchi del bosco
Mi donano l'autunno.

Verdi gli abeti
Vuoto il focolare
Non so piú da quando
Non en esce fumo

Il filo spinato
La terra bruciata
qualcuno è partito
io l'ho conosciuto?

Verdi gli abeti
La luce vivace,
I boschi silenti
Non hanno ricordi.

Come in Georg Trakl questa poesia è solo apparentemente una poesia della natura. La natura, anzi è assente anche come sfondo, essa fornisce soltanto la materia sonora e le forme per una cerimonia della disperazione. Cerimonia che si svolge interamente all'interno del linguaggio poetico nel blocco totale di qualunque deissi, nell'ossessione che lascia un particolare gusto di cenere nella memoria del lettore.

genseki