venerdì, novembre 21, 2008

Gilles de Rais

da Huysmans
traduzione e montaggio del testo di genseki

Come si può penetrare negli avvenimenti del Medioevo, quando nessuno è nemmeno capace di spiegare gli episodi più recenti, i sotterranei della Rivoluzione, della Comune, per esempio? Non resta dunque che fabbricare la propria visione, immaginarsi da sé le creature di un altro tempo, incarnarsi in esse, rivestire, se si può gli stracci delle loro apparenze, forgiarsi, infine, con dettagli abilmente scelti dei quadri d’insieme fallaci.
Gilles de Rais, formidabile satanista fu, nel XV° secolo, il più artista, il più squisito, il più crudele e il più scellerato degli uomini.
Il nome di Gilles resiste da quattro secoli soltanto grazie all’immensità dei vizi di cui è il simbolo. Tuttavia la difficoltà maggiore è quella di spiegare in che modo quest’uomo, che fu un capitano coraggioso e un buon cristiano, divenne improvisamente sacrilego e sadico, vile e crudele. Non c’è nessun esempio, che si sappia di un così repentino cambiamento di un’anima, per questo tutti i suoi biografie si stupiscono di una tale magia spirituale, di questa metamorfosi dell’anima operata con un colpo di bacchetta, come in teatro; i vizi di certo dovettero infiltrarsi in lui in modi di cui sono perdute le tracce attraverso peccati invisibili ignorati dalle cronache.
Gilles de Rais, la cui infanzia ci è ignota, nacque intorno al 1404 sui confini tra la Bretagna e l’Anjou, nel castello di Machecoul. Suo padre muore alla fine di ottobre del 1415; sua madre si risposa quasi subito con un Sire d’Estouville e lo abbandona insieme a suo fratello René; passa quindi sotto la tutela di suo nonno, Jean de Craon, Signore di Champtocé e di La Suze, “Uomo vecchio e anziano e di età molto avanzata” come riporrtano le cronache. Egli non è sorvegliato né diretto da questo vecchio bonario e distratto che si sbarazza di lui sposandolo con Catherine de Thouars, il 30 di Novembre del 1420.
La sua presenza alla corte del Delfino è attestata 5 anni dopo; i suoi contemporanei ce lo presentano come un uomo robusto e nervoso, d’una bellezza inebriante, di rara eleganza. Non abbiamo informazioni sul ruolo da lui svolto presso questa corte, ma si può supplire facilmente, immaginandosi l’arrivo di Gilles, il più ricco dei baroni francesi presso un re molto povero. In questo momento, infatti, Carlo VII° è ridotto allo stremo, non ha denaro, ed è privo di ogni prestigio e autorità è già molto se le città della Loira gli obbediscono; la situazione della Francia estenuata dai massacri, già devastata, qualche anno prima, dalla peste è spaventosa. Essa è scarificata fino a sanguinare, vuotata fino al midollo dall’Inghilterra che simile alla piovra leggendaria, il kraken, emerge dal mare e lancia oltre lo stretto, sulla Bretagna, la Normandia, una parte della Piccardia, l’Ile de France, tutto il Nord e il Centro fino a Orléans, i suoi tentacoli che non lasciano quando si sollevano che città inaridite, campagne morte. Gli appelli di Carlo che reclama sussidi, inventa esazioni, sollecita il pagamento delle tasse sono inutili. Le città sacheggiate, i campi abbandonati e ripopolati dai lupi, non possono soccorrere un Re di dubbia legittimità. Egli mendica vanamente qualche spicciolo. A Chinon, la sua piccola corte è una rete di intrighi che talvolta terminano con egli omicidi. Stanco d’essere braccato, vagamente al sicuro ddietro la Loira, Carlo e i suoi partigiani finiscono per consolarsi con orge esuberanti, dei disastri che continuano ad avvicinarsi; in questo regnare alla giornata, mentre i prestiti e le razzie rendono i banchetti opulenti e lunghe le sbronze, si finisce per dimenticarsi dell’allarme permanente e dei soprassalti e si soffaca il pensiero del domani annegandolo nel vino e palpando le puttane. Che cosa ci si poteva aspettare d’altra parte da un Re sonnolento e già sfiorito, di madre infame e padre folle. Foucquet, nel ritratto che si può vedere al Louvre lo dipinge, con un grugno da maiale, occhi da usuraio di campagna, labbra dolenti e lardose, colorito da castrato, sembra che Foucquet abbia voluto dipingere un prete cattivo raffreddato e dalla sbronza triste. Egli era l’uomo che aveva fatto assassinare Giovanni senza paura e cabbandonerà Giovanna D’Arco; e questo basta per giudicarlo. E’ chiaro che Gilles de Rais che aveva arruolato delle truppe a proprie spese fosse accolto a braccia aperte in questa corte. Certamente egli vi organizzò tornei, fu dai cortigiani e prestò ingenti somme al Re. Tuttavia, nonostante il suo successo non sembra ch’egli sia mai sprofondato come Carlo VII nell’egosmo ansioso e nel vizio; lo ritorviamo infatti, ben presto nell’Anjou e nel Maine che difende dagli Inglesi. Qua egli si dimostrò “Valente e ardito capitano”, come affermano le cronache, anche se schiacciato dalla superiorità numerica del nemico dovette fuggire.

Montaigne

Questa frase l'ho rubata al blog stanzas, senza permesso;´era irresistibile.
genseki

"Qui ne voit que j'ai pris une route par laquelle, sans cesse et sans travail, j'ira iautant qu'il y aura d'encre et de papier au monde?"
(Essais III,9, "De la vanité")

Mercedes Sosa - Alfonsina y el Mar

Sugestiones vegetales

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Alfonsina Storni

Suggestione di un salice

Eppure esiste una cittá di muschio
Dal cielo grigio che angeli verdi
Percorrono volando nel tramonto
Con ali chiuse di cristalli infranti
E freddi specchi nell'erba ai cui bordi
Chinate piangono le vedove lunghe
Del vento che di giallo va tingendosi
E il vetro rende vaghe al dondolarsi.
E un punto nello spazio di pendenti
Gerbidi d'acqua ed una bimba morta
Che va pensando su piedi di trifoglio
E una grotta che piove dolcemente
Batraci vegetali che si schiantano,
Foglie nascenti sopra il dolce limo.

trad. genseki

mercoledì, novembre 19, 2008

Odi come bramisce

Resta il fatto che le ultimissime parole di Rimbaud furono un'invocazione ad Allah. Il fatto. Da cui trarre le conseguenze che si vuole che siano. Quali? Quelle che furono e quelle che saranno.


Odi come bramisce
Accanto alle robinie
In aprile la fronda
Dei viridi legumi.

Netta nel suo vapore,
A Febo! Ora la scorgi
Che s'agita la testa
Dei santi d'altre ere...

Lungi da biche chiare
Da soglie e da bei tetti
I cari Antichi vogliono
Il filtro menzognero...

Ora non è feriale
Non è neppure astrale
La bruma che s'esala
Dall'effetto notturno.

Eppur, eppure restano
E Sicilia e Germania
In questa nebbia triste
E giustamente pallida.

*

trad genseki

Mamma da fidanzata

Mamma da fidanzata
Dai grandi occhi scontrosi
Dai capelli corvini
Dalla pelle brunita
Mamma da fidanzata
Restava cosí sola
Sicura di non valere
Il prezzo di uno sguardo
Nel suo dialetto raro
Nel dialetto perduto
Negli occhi le restava
Il riflesso del grano
Dei prati di lavanda
E della cittá rossa
Mamma da fidanzata
Non aveva illusioni
O forse le perdeva
Allo scender le scale
Mamma da fidanzata
Quantoquanto piangeva
Nessuno lo sapeva
Con le sue calze nuove
E tutte le carezze
Perdute per sfiducia
Mamma da fidanzata
Non l'ho mai conosciuta
Non l'ho piú ritrovata
Nel tempo s'é smarrita
Di un abbraccio negato.

genseki

martedì, novembre 18, 2008

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La madre

Sul trono del mare siede
Tra scrosci cromatici code di cavallo azzurre
Nodi verdi e porporini di ali sciolte
Trombe spente e chiavi del paradiso
Di rame e filamenti di quelli che furono intenti
Avventi forse a perdersi nell'attesa fastosa
Sul trono del mare siede
Che ha forma di conchiglia
Che ha forma di orecchia sveglia
Che ha forma di orecchia di madreperla
Che ascolta gli schiocchi delle lingue
Delle cime delle onde, delle dita dei morti scarni
Che i flutti limano e levigano
E che qualche bambino raccoglierá sulla spiaggia
Sotto forma di ciottolo liscio liscio lievemente iridato
Un frammento osseo, insomma -
Siede su un trono di fili elettrici celesti
Su un trono di zucchero filato scintillante
Siede su un trono di piume di pavone bianco
Di sogni di vergine che abbia divorato una crostata al limone
Siede su questo e su tutti i troni con tutte le mani che reggono tutti gli oggetti
Che stringono tutti i simboli
Che aprono tutte le credenze, tutte le madie, tutti i comó con il loro odore
Stagionati di lavanda
Siede su un trono vertiginosamente alto
Vertiginosamente altissimo una torre proboscide e fagiolo magico
Una torre da illustrazione di gulliver
Siede sul mare sui polmoni, siede, color carrubo
Schiantato dal fulmine
Siede
Sola con occhi dolci di rapace ubriaco di ampi cerchi
Su un campo di orzo
Con occhi di giovenca alimentata con foglie di artemisia
Siede
La Madre.
Da sempre a sempre

Lucian Blaga


Paradossi cinesi

Da: “L'eone dogmatico”

Menzionammo, in relazione con i commentari monisti di Sankara, i paradossi del concreto visti dal punto di vista dell'acategoriale metafisico. Nello stesso ordine di idee citiamo, inoltre, per la curiositá che presentano, i paradossi del pensatore cinese Hui Shi (IV sec a. C.) Eccone alcuni: “Una freccia in volo no è né in movimento né in rioposo”; “Il sole tramonta quando è allo zenit”. “Se qualcuno parte oggi per Yue, arriverá ieri”. “Una tartaruga è piú lunga di un serpente”, etc. In realtá Zenone aveva tentato di pensare logicamente il movimento, e, non potendolo fare se non in modo antinomico, negó la sua esistenza. La tesi di Zenone è l'espressione suprema del dominio della logica. Non cosí per Hui Shi. Egli si situa nel fondo trascendente delle cose, nel Tao. Dal trascendente, poi, apre una finestra sul nostro mondo concreto. Come il Tao la nicchia trascendente del fenomeno è senza spazio e senza tempo. Hui Shi sostiene con ragione, che il piano della trascendenza comporta che: “una freccia in volo non si trovi né in movimento né in riposo”, perché nel trascendente questi stati e questi modi di esistenza non si danno. Cosí nel trascendente senza lo spazio “il sole tramonta quando è allo zenit”, perché lá non vi è né occaso né zenit e le cose partecipano dell'onnipresenza del Tao. Una tartaruga è piú lunga di un serpente” perché sotto la specie del trascendente tutte le dimensioni sono illusorie. Tutte queste cineserie, rare e fragili, diventano comprensibili grazie alla trasposizione che divora le dimensioni nel Tao, nell'acategoriale.
Trad. genseki

Natura morta con rosa, limone aghi di pino e datteri

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lunedì, novembre 17, 2008

Al di lá della vita e della morte II

César Vallejo

Mi pare ancora di vederla – continuai singhiozzando – che non sapeva che cosa fare per il regalo cercando di tirarmi fuori un parere: - Ti ho visto, bugiardo; vuoi far credere che piangi mentre di nascosto ridi! E mi baciava piú che tutti voi, perché ero il piú piccino!
Al termine della veglia dolorosa Angelo mi parve di nuovo sfinito e come prima del lampo straordinariamente magro. Certo, dovevo aver sofferto una difficoltá visiva, motivata dal bagliore improvviso per trovare il suo aspetto risollevato e fresco come, naturalmente non poteva essere stato.
Ancora non dava segno di voler apparire l'aurora del giorno seguente, quando mi montai e partii per la fattorua, congedandomi da Angelo che restava ancora qualche giorno per gli affari che avevano motivato il suo arrivo a Santiago.
Finita la prima giornata di viaggio, mi accadde qualche cosa di inaudito. Nella locanda mi trovai piegato su un banco, riposando, e un'anziana della baracca che guardandomi, improvvisamente spaventata mi chiese compassionevolmente:
Che cosa si è fatto Signore? Ha la faccia insanguinata. Mio Dio!...
Saltai in piedi. E lo specchio mi confermó in effetti il volto macchiato di piccole chiazze di sangue secca. Un forte brivido mi scosse. Sangue? Da dove? Mi ero accostato al volto di Angelo mentre piangeva ... Ma ... No. No. Da dove veniva questo sangue? È facile comprendere il terrore e l'allarme che sorsero nel mioanimo con mille presentimenti. Nulla si puó paragonare con quella scossa del mio cuore. Mai troverò le parole adeguate ad esprimerla. Oggi stesso, mentrte scrivo nella mia stanza solitaria è presente quel vecchio sangue e la mia faccia unta con esso e quella vecchia e il viaggio e mio fratello che piange e che mia madre morta non bació e...
Ho dovuto interrompere la scrittura di queste righe, sono fuggito disperatamente verso il balcone. Tanto forte e sapventoso è il ricordo di quel mosteriososcarlatto ..,
O notte di incubo indimenticabile in quella capanna in cui l'immagine di mia madre, tra le spinte di fili strani, senza capo, che si rompevano solo a guardarli, si alternava a quella di mia Angelo che piangeva lacrime di rubino, per sempre!
Continuai il viaggio, Infine, dopo una settimana di trotto per cordigliere e terrecalde di montagna dopo aver attraversato il Marañon, una mattina, entrai nei tereni della fattoria. Lo spazio nuvoloso riverberava irregolarmente di lontani tuoni e fugaci schiarite.
Smontai proprio davanti al palo per ferrare i cavalli del portone della casa che da sulla strada. Cani latrarono nella calma fuliginosa della montagna triste e pacificata. Dopo quanto tempo ritornavo a questa casa solitaria, piantata nel ventre profondissimo del bosco!
Una voce che da dentro chiamava i mastini per contenerli, tra il garrulo allarme degli uccelli domestici sembró essere stranamente fiutata dallo stanco e timoroso solipede che starnutó piú volte, piego le orecchie quasi in orizzontale in avanti, e, impennandosi, cercó di togliermi le redini dalle mani per fuggire via. L'enorme portone era chiuso. Si sarebbe detto che la toccai in modo quasi meccanico. Poi quella stessa voce continuó a vibrare dall'altro lato del muro, e venne un momento in cui al separarsi, con forza esplosiva spaventevole, dei duie battenti del portale, questo timbro boccale venne a pararsi propio nei miei ventisei anni totali e mi lasció alla punta del'eternitá. Le porte si spalancarono.
Meditate brevemente s questo incredibile avvenimento, che spezza le leggi della vita e della morte, che supera ogni possibilitá; parola di speranza e di fede tra l'assurdo e l'infinito, innegabile sconnessione di luogo e di tempo; nebulosa che fa piangere di disarmoniche, inconoscibili armonie.
Mia mi si fece incontro per accogliermi!
Figlio mio – escamó stupefatta -Tu vivo? Sei resuscitato? Che cosa vedo, Signore dei cieli?
Mia madre! Mia madre in anima e corpo! Viva! Con tanta vita che oggi penso che sentii, alla sua presenza, affacciarsi al mio naso due desolati granelli di decrepitezza che poi finirono per cadere e pesare sul mio cuore fino a curvarmi senilmente, come se per un baratto fantastico del destino mia madre fosse appena nata e io, invece provenissi da tempi tanto antichi, che mi davano un senso di paternitá relativamente a lei.
Si. Mia madre stava li. Vestita di nero unanime. Viva. Non morta. Era possibile? No. Non loera. In nessun modo. Quella signora non era mia madre. Non poteva esserlo. E poi che che cosa aveva detto quando mi aveva visto? Mi credeva morto?
Figlio dell'anima mia – scoppió a singhiozzare mia madre e corse a stringermi contro il suo seno, con quella frenesia e quel pianto di gioia con i quali sempre mi protesse in tutti i miei ritorni e in tutte le mie partenze.
Io mi ero fatto come di pietra. La vidi gettarmi al collo le braccia adorate, baciarmi avidamente e come se volesse divorarmi e singhiozzare le sue coccole e quelle carezze che giammai torneranno a piovere nelle mie viscere. Poi con entrambe le mani afferró il mio volto impassibile e mi fissó cosí faccia a faccia, sfinendomi di domande. Io, dopo alcuni secondi, scoppiai a piangere ma senza cambiare di espressione e neppure di atteggiamento: le mie lacrime parevano acqua pura che sgorgasse dalle pupille di una statua.
Infine raccolsi tuute le luci disperse del mio spirito. Mi ritiri di alcuni passi. E lasciai comparire, Mio Dio! Questa maternitá che non volevo ricevere nel cuore e disconoscevo e temevo; la feci comparire davanti a non so che di sacro, sconosciuto per me fino a questo momento, e lanciai un grido silenzioso di due fili a tutta la sua presenza, con lo stesso ritmi del martello che si avvicina e si allontana dall'incudine, con cui il figlio lancia il suo primo gemito, all'essere strappato dal ventre della madre, econ cui pare indicarle che è vivo e darle allo stesso tempo un segnale con il quale riconoscersi entrambi per i secoli dei secoli. Gemetti fuori di me:
Mai! Mai! Mia madre è morta da tempo, non puó essere...
Ella si alzó spaventata davanti alle mie parole e come se dubitasse che fossi proprio io. Poi riprese a stringermi tra le braccia e tutti e due continuammo a piangere un pianto quale mai pianse e neppure piangerá nessun essere vivente.
Certo – ripetevo – Mia madre morí. Anche mio fratello Angelo lo sa.
E a questo punto le macchie di sangue che avvertivo sul mio volto, mi attraversarono la mente come segni di un altro mondo.
-Ma figlio del mio cuore! - sussurrava lei quasi senza forze – Sei mio figlio morto, quello che io stessa ho visto nella bara? Sei tu! Credo in Dio! Vieni tra le mie braccia! Ma che? ... Non vedi che sono tua madre? Guardami! Guardami! Toccami! Non ci credi, forse?
La contemplai ancora. Toccai la sua adorabile testolina imbancata. Nulla. Non credevo nulla.
Certo, ti vedo – le risposi – ti tocco – Ma non credo. Non puó capitare una cosa tanto impossibile.
E scoppiai a ridere con tutte le mie forze!

trad. genseki

Escrituras

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Perché Rimbaud?


Perché Rimbaud, dunque? Perché egli ci ha trascinato su quell'alta torre dove risuonano come bronzi sonori gli inni di Ambrogio, da dove il prato e le sue erbe si svolgono come filamenti di incensi luminosi su su fino alle stelle invisibili in pieno giorno.
E la tristezza della radura, ci insegnó, e l'allegria del volo dei corvi, il loro richiamo che ci saluta come vecchi amici che si incontrano inaspettatamente alla porta di una locanda. Non ci sono piú locande. Si puó ancora trovare la campagna di Novembre con i grandi, misteriosi cappelli delle Lepiote, archetipi di ombrelli sacredotali. E la sete che sale dal mormorio delle acque verdi dei torrentelli, una sete che nessun uragano di foglie potrá mai placare.
Cosí Rimbaud ha sigillato la nostra vita in uno scrigno di cuoio fulbé con un fiore appassito di jacarandá.
E con stupore la ritroviamo adesso in questa forma inaspettata. Pur sempre fedele. Tanto piú fedele quanto piú dimenticata.

Eccola! Ritrovata
Che? - L'eternitá:
Il mare che si mescola
Col sole.

Anima sentinella
Il credo mormoriamo
Del nulla della notte
E del giorno infiammato.

Da tutti i voti umani
Dagli slanci comuni
Eccoti svincolata
Volando via alla guisa.

Perché da voi soltanto
O braci vellutate
Il Dovere s'esala
Senza mai dire basta.

É morta la speranza
Nessuna epifania
la scienza e la pazienza
Son supplizio sicuro.

Eccola ritrovata
Che? - L'eternitá
Ove il mare
Si mescola col sole.
genseki

giovedì, novembre 13, 2008

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Cerco una malattia che non mi uccida

Carilda Oliver Labra

Cerco una malattia che non mi uccida
Ma il dolore costante della vita;
Giusto per fare finta di dormire
Sotto il tremore greve della brina

Ricerco un'acqua cosmica che lavi
La terribile lacrima che ossida;
Cerco morir distinto e vo' ferita
Da una pena volgare a tutti ignota

Congedando mi vo' con un sorriso
Di grazia e di sventura luminosa
Con l'orrore segreto nel midollo

Resto in silenzio nel verso e nella prosa
Perché s'incida nella pietra dura
Questa donna morí d'esser gioiosa.

Trad. genseki

Ruben Dario

Il testo seguente è la traduzione di Tutecotzimí di Ruben Dario


Ê il mattino magico dellìnfiammato tropico
Come un grasso serpente avanza il fiume idropico
Nelle cui acque glauche le foglie secche vanno
Giunto alla pozza verde sopra le pietre fosche
Rubin, cristallo zaffiro, le susuranti mosche
del vapor della terra van perforando il tulle
E intatta nel vestito d'elegante velluto
movendo l'aria al fango con duplice ventaglio
l'estatica farfalla sta in preda di un'abbaglio
Le selve fosche vibrano con il calor del giorno
Il dindo nero lancia il suo richiamo intorno
e il grillo assorda il verde canneto fitto fitto
un uccello del bosco intona un suon di corno
prolunga la cigala il suo frinire eterno
Il suo sibilo acuto ripete il picchio verde.
I maestosi avogado invade lo scoiattolo
la sua coda è piumosa e l'cchiolino brilla
rode coi denti i frutti dellalbero materno
e con un volo rapido che le vespe scompiglia
passa monello e oscuro il gracchio ben caudato
Chiamando il suo compagno con un aspro concerto
Respirano ampiamente i boschi primitivi
al piú sottil rumore fuggono i quetzal schivi
sopra l'aristolochi volteggia il colibrí
e presso il parassita lussuoso sta l'iguana
la misteriosa figlia della montagna indiana
che anida il teutl occulto del sacro teocalí.
Trad. genseki

mercoledì, novembre 12, 2008

Omaggio a Yma Sumac

Ruben Dario

Tutecotzimi

Es la mñanana magica del encendido trópico
Como una gran serpiente camina el rio hidrópico
En cuyas aguas glaucas las hojas secas van.
...
Junto al verdoso charco , sobre las piedras toscas.
Rubí, cristal, zafiro, las susurrantes moscas
Del vaho de la tierra pasan criblando el tul
E intacta con su veste de terciopelo rico,
Abanicando el lodo con su doble abanico,
Está como extasiada la mariposa azul.
Las selvas foscas vibran con el calor del día;
Al viento el pavo negro su grito agudo fía,
Y el grillo aturde el verde, túpido carrizal;
Un pájaro del bosque remeda un son de cuerno;
Prolonga la cigarra su chincharrar eterno
Y el grito de su pito repite el pito-real.
Los altos aguacates invade ágil la ardilla,
Su cola es un plumero, su ojo pequeño brilla,
Sus dientes llueven frutas del árbol productor;
con su vuelo rápido que espanta el avispero,
pasa el bribón y ocuro sante-clarinero
Llamndo al compañero con áspero clamor.
Su vasto aliento lanzan los bosques primitivos,
Vuelan al menor ruido los quetzales esquivos,
Sobre la aristoloquia revuela el colibrí;
Y junto ala parasita lujosa está la iguana,
Como hija misteriosa de la montaña indiana
Que anida el teutl oculto del sacro teocalí.