giovedì, febbraio 24, 2011

Trilce XVIII

César Vallejo




Da Trilce


XXVIII




Ho fatto colazione da solo, senza


Madre, senza supplica, senza serviti, senz'acqua,


Senza padre che, nel facondo offertorio


Delle pannocchie chieda del suo ritardo


Di immagine, per le maggiori fibbie del suono.




Ma come avrei potuto far colazione. Come servirmi


Da piatti tanto lontani tali cose,


Ora che si è spezzato il focolare stesso


Quando madre neppur s'affaccia alle labbra


Come avrei mai potuto mangiare nonniente.




A casa di un buon amico ho fatto colazione,


Con suo padre appena tornanto dal mondo,


Con le sue zie canute che parlano


Con piccoli rintocchi di porcellana,


Bisbigliando da tutti i loro vedovi alveoli;


E con franche posate d'allegro tirritero


Che sono a casa loro. E allora grazie!


Che male mi dolsero i coltelli


Di questa mensa fin su nel palato.




Abbuffarsi è così a queste mense ove si gusta


Amor alieno e non il prorip amore


Ecco che si fa di nuovo terra la brocca che MADRE non porge


Colpo sferra la dura deglutizione; il dolce,


Fiele; olio o funebre caffé.




Quando spezzato giace il focolare


E dalla tomba non esce l'invito materno


Scura, scura la cucina, la miseria d'ampre.



César Vallejo
Trad. genseki

Trilce XVIII

César Vallejo




Da Trilce


XXVIII




Ho fatto colazione da solo, senza


Madre, senza supplica, senza serviti, senz'acqua,


Senza padre che, nel facondo offertorio


Delle pannocchie chieda del suo ritardo


Di immagine, per le maggiori fibbie del suono.




Ma come avrei potuto far colazione. Come servirmi


Da piatti tanto lontani tali cose,


Ora che si è spezzato il focolare stesso


Quando madre neppur s'affaccia alle labbra


Come avrei mai potuto mangiare nonniente.




A casa di un buon amico ho fatto colazione,


Con suo padre appena tornanto dal mondo,


Con le sue zie canute che parlano


Con piccoli rintocchi di porcellana,


Bisbigliando da tutti i loro vedovi alveoli;


E con franche posate d'allegro tirritero


Che sono a casa loro. E allora grazie!


Che male mi dolsero i coltelli


Di questa mensa fin su nel palato.




Abbuffarsi è così a queste mense ove si gusta


Amor alieno e non il prorip amore


Ecco che si fa di nuovo terra la brocca che MADRE non porge


Colpo sferra la dura deglutizione; il dolce,


Fiele; olio o funebre caffé.




Quando spezzato giace il focolare


E dalla tomba non esce l'invito materno


Scura, scura la cucina, la miseria d'ampre.



César Vallejo
Trad. genseki

Gerardo Diego

Vorrer esser convesso

Per la tua mano concava.

E come un tronco vuoto

Per accoglerti in grembo

E darti ombra e sogno.

Soave orizzontale interminabile

Per l'orma alterna e ansiosa

Del tuo piede sinistro

E del destro.

Essere d'ogni forma

Come acqua adeguata ad ogni coppa

E poterti abbracciar sempre da dentro.

E poi essere coppa

Per abbracciar da fuori al tempo stesso.

Acqua fattasi coppa

Il tuo confine – dentro e fuori – sempre esatto


Da: “Versos humanos

Trad genseki

Juan José Saer

Da quando è arrivato da Parigi, dopo tanti anni di assenza, la sua terra natale non gli ha causato nessuna emozione perchàe adesso, finalmente si è fatto adulto, e essere adulti significa essere riusciti a comprendere che non è nella propria terra natale ove si nasce ma in un posto molto più vasto e più neutro, né amico né nemico, sconosciuto, che nessuno può a buon diritto dire sua e che piuttosto che un senso di appartenenza en produce uno di estraneità. Un rifugio che non è né spaziale né geografico e neppure verbale ma piuttosto, e fin dove queste parole abbiano ancora un significato, qualche cosa di chimico, biologico, cosmico e in cui il visibile e l'invisibile, dai polpastrelli fino all'universo stellato, o quello che si può giungere a capire del visibile e dell'invisibile e che questo insieme che include la soglia stessa dell'inconcepibile patria non è ma prigione, essa pure abbadonata e chiusa dall'esterno, smisurata errabonda realtà ignea e gelida al riparo non solo dei sensi nostri ma anche dell'emozione, della nostalgia e del pensiero.

Da: "La pesquisa"

Trad genseki

martedì, febbraio 22, 2011

Alla Mamma

José Emilio Pacheco

Terribile è la fotografia
Pensare che nei suoi oggetti quadrangolari
Giace un istante del 1959
Volti che non sono piú,
Aria inesistente
Perché il tempo si vendica
Di quanti rompono l'ordine naturale congelandolo,
Le foto si screpolano, ingialliscono,
Non sono la musica del passato;
Sono il boato
Del crollo d'interne rovine
Non sono il verso, son lo scricchiolio
Della nostra irrimediabile cacofonia.

José Emilio Pacheco
Trad. genseki

José Emilio Pacheco


José Emilio Pacheco

Birds in the night

(Vallejo e Cernuda si incontrano a Lima)

A partire dalle coste del Perú ha messo in crisi
L'industria della pesca e ha provocato nelle cittá
del litorale l'invasione di uccelli.
Tutta la notte odo l'alato rumore che precipita
E come in un poema di Cisneros,
Albatri, pellicani e cormorani
Muoiono di fama a Lima, in pieno centro;
Sono torturati baudelariamente.

In questi vicoli miserabili
(Tanto simili a Messico)
César Vallejo passeggió, fece l'amore, deliró
Scrisse versi.

Giá! Ora lo imitano, lo venerano
"È un orgoglio per il continente",
In vita lo presero a calci, a sputi,
Lo ammazzarono di fame e di tristezza.

Disse Cernuda che nessun paese
Ha mai tollerato vivi i suoi poeti.

Va bene cosí.
Sarebbe forse meglio
Essere il Poeta Nazionale
Che tutti salutano per strada?
**
César Vallejo
Mi duole nelle ossa l'umiditá
Che trafigge come un cilicio
Qui soccombe per il mal di mare il nativo
Delle alte cittá dell'entroterra
Secche o morte
Messico sull'altipiano
Che fu bosco e laguna
E oggi è terrore e chissáche altro.
Dalla finestra entra l'aria di Lima
L'umiditá come una forma di pianto
Oggi venedí
15 aprile
Mezzo secolo dopo
La morte di Vallejo.
**
José Emilio Pacheco
Trad genseki

lunedì, febbraio 14, 2011

A sua madre

Fu quando tutti i voli si fecero marmo
Che l'autunno frullava nel fondo delle mie pupille
E le foglie più pesanti ancora del loro lutto
Non cessavano di balenare come monete
Senza una faccia senza una luna

Perduto il tuo volto nel suo occaso incessante
Anche il mio nome era un altro
La mia vicenda entrava nel porto
Le mie ultime lettere le scrivevo sulla carta da imballaggio

Dove potevo ormai appendere il cappello?
Sedermi al tavolo da gioco?
Accoccolarmi nell'orto sapendo che non mi amavi?
Che non mi amavi?
E le ali le scolpiva lo scalpello del volo
Nel marmo di quel pezzetto di cielo

Non fosti il mio battello
I tuoi occhi non mi furono lago

Sulla tua altra sponda aspettavo
Il mio traghetto, ora ora soltanto
So che avrai una mano per accarrezzare
I capelli stessi della luce

genseki

Manuel Altolaguirre

L'anima e la memoria

Manuel Altolaguirre

da: “Il cavallo greco”

Dopo la morte l'anima non si sente nuda. L'anima si veste della sua memoria, si limita con essa, illuminandola da dentro con la propria intelligenza e la propria volontà in modo che nulla di quanto visse resti occulto. L'anima resta avvolta dal paesaggio del suo comportamento, dei suoi pensieri, delle sue emozioni. La memoria, che in vita ci abbandona con tanta frequenza, nella morte ci presta il suo mantello, ci conforta e ci salva.

**

Se non in me, dove sta la mia vita? L'idea che possa essere registrata in un'intelligenza superiore mi riempie di speranza.

**

Rientriamo in noi solo con la morte. In tal modo ci incorporiamo con la forma totale della nostra storia, che, siccome il nostro corpo non è sufficiente per tante e tali attitudini, muore nell'attesa del giorno in cui sarà ancora convocato dallo spirito.
Morire è essere pianura, un grande volto impassibile, uno specchio di tutta l'anima nel quale si può leggere tutta una vita. Dove restò il tempo? Nell'oblio o nella disperazione. Nulla di tutto questo si trova in quel volto la cui presenza è un riflesso della divina sapienza che lo sta giudicando.
Le nostre vite sono come fiumi che sboccano in uno specchio. Quando tale specchio rifletta in un sol colpo e per sempre tutto quello che fummo, è perché finalmente siamo arrivati al momento della morte.

**

Nessun campo tanto vasto come la nostra memoria, percorrerlo è cercare se stessi. Ma questa ombra che cerca di conoscersi a forza di camminare su e giù per la propria vita non sono interamente io. Nemmeno questi che riceve a poco a poco strane impressioni e si mostra insensibile alla maggior parte di esse sono io, anche se nel mio sogno gli conferisco consistenza. Solo mi riconosco negli altri. Essi sono la mia riva e io l'ombra, è la loro luce che confondendosi con i miei primi grigi, forma le aurore, e se io sono d'acqua e loro di roccia, al nostro urto si formeranno piagge e litorali; se sono calore e loro neve, nel nostro incontro la primavera darà i suoi fiori e l'autunno maturarà i suoi frutti.

trad. genseki

Regola grammaticale

Regola grammaticale

La grammatica, come norma colettiva in poesia, non ha ragion d'essere. Ogni poeta forgia la propria grammatica personale e che non puo' essere trasferita, la propria sintassi, ortografia, analogia, prosodia, semantica. Basta che non esca dalle consuetudini di base dell'idioma. Il poeta può persino cambiare, in certo modo la struttura letterale e fonetica di una stessa parola, secondo i casi. E questo, lungi dal restringere la portata socialista e uniersale della poesia, come si potrebbe credere, la dilata all'infinito. Si sa che quanto più personale (ripeto, non dico individuale) è la sensibilità dell'artista, tanto la sua opera è più universale e collettiva.

César Vallejo

Otto Klemperer: Prelude to Richard Wagner's Lohengrin

Il nome

Il mio nome era tutto quello che volevi sapere
Elsa. Il mio nome.
All'Osteria del Gozzo tra una toma
E un gotto di Carcairone
Ti avvicinavi al mio ginocchio
Come la volpe alle uova del pavone
Ma nemmeno il mio ginocchio
Sapeva il mio nome,
Poi passeggiando ti indicavo
I gattici fioriti, gli arbusti della fusaria
E i fori delle mine fluviali
Profumavi di alga il mio nome
Lo chiedevi sulle unghie
Nel sorriso, nella curva del collo
Nella profondità del tuo tepore
Il mio nome pero' non lo conoscevo
Lo avevo perduto forse una volta in stazione
Mi era caduto di tasca mente cercavo
Di obliterare il biglietto nella fessura
Di quella macchina troppo gialla
La geografia delle tue mani non era
Mappa sufficiente per indovinare nemmeno la mia origine
Ritornammo passando per il lago
In Nissan
Come un grande cigno bianco


genseki

Il crepitare altissimo d'incendi

Il crepitare altissimo d'incendi
lassù sull'altipiano dove le nuvole di marmo
Ci oscuravano il respiro
Il vento delle lacrime ti scuoteva
Come i rami dell'abete
Il fumo si faceva più solido
Tu dipingevi quel melo dalla finestra del bagno
Ti osservavo dalla siepe
Tra gli altri alberi da frutto
Al congedarti odore di verderame
Poi fu sera, tramonto, oltre la curva fiamme
Come sfrigolavano cervi e miniature
Un istante di cenere il nostro
Con un occhio ai tuoi collant
Fissavo il rogo della cordigliera
Come un'immenso coniglio rosso
Scuotere sfrenato le orecchie
Davanti al parabrezza.

genseki

Juan Larrea

Juan Larrea

Spine quando nevica

Sognami sognami in fretta stella di terra
Coltivata dalle mie palpebre afferrami per i miei manici d'ombra
Inebriami di ali di marmo ardendo, ardendo stella stella tra le mie ceneri

Potere potere alla fine trovare sotto il mio sorriso la statua
Di una sera di sole i gesti a fior d'acqua
Gli occhi a fior di inverno

Tu che nell'alcova del vento stai vegliando
L'innocenza di dipendere dalla bellezza “volandera”
Che si tradisce nell'ardore con cui le foglie si voltano verso il petto più debole

Tu che assumi luce e abisso al borco di questa carne
Che cade fino ai miei piedi come vivezza ferita

Tu che in selva d'orrori avanzi smarrita

Supponi che nel mio silenzio vive una oscura rosa senza uscita e senza lotta

**

Il mare in persona

Eccolo il mare innalzato in un battito di ciglia
Il mare senza sogno come una grande paura di trifogli fioriti
Nella postura della terra sottomessa come sembra
Se ne vanno digià con le loro lane di evidenza sulla nube e sulla sua fatica
All'ombra di un olmo non c'è mai tempo da perdere

Credula squisita l'oscurità mi viene incontro
Nella mia fronte abita lo scorza di pane che mi porto dentro
Tagliato a picco su un uccello insicuro

Così mi allontano per azione del piano
Che mi cuce alle piante che precorrono il mare
Un cervo d'autunno scende a leccare la luna della tua mano
E ora sulla mia sponda il mondo comincia a spogliarsi
Per morire d'alberi in fondo ai miei occhi
I miei capelli si riempiono di pesci di penombra
Di scheletri di navi forzate

Senza andare più lontano
Sei fredda come l'ascia che abbatte il silenzio
Nella lotta tra il paesaggio e il suo colpo d'occhio

Poi quando il cielo esporta i suoi pianisti celebri
E la pioggia l'odore della mia persona
Come il tuo bel cuore si tradisce

Trad. genseki

Isola ti chiamavo

Isola ti chiamavo Elsa, Elisa
Tu mi chiamavi. Come mi chiamavo?
Non mi chiamavo, non avevo nome.
Tu sempre domandavi finché quasi
Volevo dirti di chiamarmi cigno
Nube, Callisto, Melibeo, Elosabad,
Islamey, Lohengrin, Ulisse. Zero.
Come mi chiamo? Ancora me lo chiedi?
Mi chiamero', mi chiamero' Tiamo.
Tu non smettevi pero' di domandare
Fino a rientrare nel tuo secondo sogno.

Gerardo Diego
Trad.genseki

San Sebastiano


Guido Reni

San Sebastiano

San Sebastiano

Legato a un tronco un corpo, torso bianco bersaglio.
Sibilo, volo, un bosco di saette.
Candore che oramai si scorge appena
Di bellissima pelle. Ombre
Di penne e di steli ecco oscurano
La lividezza così prepotente. Fiumi
Di sangue macchiano sul petto
Le bande della nobiltà nel Cristo.

Danzando fu la sua danza rapita.
Tronco non fu d'olivo in fiamma e nodo
Né fusto di betulla argentea lebbra.
Né torsione veementissima del sandalo
Che immobilizzi così sul proprio asse
L'alata varietà solo in un grido.

È Sebastiano il martire che vendica
La superbia oceanica, lo scoglio
Ove un titano incatenato canta
Nel fuoco e nella danza si scatena.
La fiamma non rubo' ma l'alimenta
Col suo sangue la esalta e la ridona
Al cielo che l'assorbe in nuovo incendio.

O bandiera di rossi e di violetti
E azzurri rapidissimi, o incolume
Sebastiano nell'asta, nel candore
Zebrato. Gia s'estraggono quei dardi
E nel sollievo tu canti in trionfo,
Danzi la fe di Cristo insanguinata.

Gerardo Diego
Trad. genseki

L'azzurro

Fu l'azzurro che garantì la nostra nascita
In dolcezza e celebrata promessa,
Poi qualcuni guardo' attraverso lo sguardo
Come affaciandosi da una finestra aperta
E un altro risuono' inclemente
Nel vuoto della voce:
L'anima esplose come reticolo
Come carosello di spore
Le mani le avevamo legate in mille nodi
Un nodo per ogni nome
Uno per lo sguardo, uno per chi origliava
Dalla stretta fessura delle orecchie
Il mondo si fece allora giardino
La speranza condannata a germogliare
Ognuno ha diritto ad almeno due vite
Una contiene se stessa e un'altra
La morte resta il seme piú fecondo.

genseki

Pelléas et Mélisande (Mes longs cheveux)

 
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Per ricordarmi dei tuoi capelli

Per ricordarmi dei tuoi capelli
Mi bastava fissare le mie dita
Le lune delle tue unghie, pure
Erano sciabole delle mie iridi.
Il segreto come decifrarlo?
O il tormento dei tuoi gesti,
Quando toglievi la mollica del pane
Scartavi il cuore delle mele
Ti chinavi ad accarezzare la caviglia
Con la tempia all'altezza della tavola preparata?
Il fiume dei tuoi capelli
Era come un firmamento
Un oceano di rame
Salato come il ghigno delle fiamme
Nell'inesanatura del caminetto.

genseki

L'azzurro

L'azzurro lo lasciai
Che aggredisse i miei occhi
Fino a farli leggeri come macchie
Fino a rendere l'ozono sonoro come la moneta
Che cade sullo zinco dell'acquisto
Perchè se di questo si trattava
Allora solo l'azzuro era la nostra lingua
Garanzia della vita ossigeno dell'essere
E i nostri corpi più liberi dei loro vestiti
Si sarebbero lasciati spogliare dall'anima
Dal vento
Per questo invocai l'azzuro sulle colline di cenere
Nei boschetti di ossa lo invocai
Con il flauto di sambuco accennando
melodie di miele
Perchè finalmente la mia voce perdesse
la sua pelle di polvere
E il solo senso fosse vuoto sguardo.

genseki

Bolañismi

Manuel Maples Arce, paseando por la Calzada del Cerro, bosque de
Chapultepec, México DF, agosto de 1976.
Este joven, Arturo Belano, vino a
verme para hacerme una entrevista. Sólo lo vi una vez. Lo acompañaban dos
muchachos y una muchacha, no sé sus nombres, casi no abrieron la boca, la
muchacha era norteamericana.
Le dije que abominaba del magnetófono por la misma razón que mi amigo
Borges abominaba de los espejos. ¿Usted fue amigo de Borges?, me preguntó
Arturo Belano con un tono asombrado un poco ofensivo para mí. Fuimos bastante
amigos, le respondí, íntimos, podría decirse, en los días lejanos de nuestra
juventud. La norteamericana quiso saber por qué Borges abominaba de los
magnetófonos. Supongo que porque es ciego, le dije en inglés. ¿Qué tiene que ver
la ceguera con los magnetófon dijo ella. Le recuerda los peligros del oído, le
respondí. Escuchar su propia voz, los pasos de uno mismo, los pasos del
enemigo. La norteamericana me miró a los ojos y asintió. No creo que conociera a
Borges demasiado bien. No creo que conociera mi obra en absoluto, aunque a mí
me tradujo John Dos Passos. Tampoco creo que conociera mucho a John Dos
Passos.
En fin, me pierdo. ¿En dónde estaba? Le dije a Arturo Belano que prefería
que no usara el magnetófono y que sería mejor que me dejara un cuestionario con
preguntas. Él accedió. Sacó una hoja y redactó las preguntas mientras yo le
enseñaba algunas habitaciones de la casa a sus acompañantes. Luego, cuando
tuvo terminado el cuestionario, hice que trajeran unas bebidas y estuvimos
hablando. Ya habían entrevistado a Arqueles Vela y a Germán List Arzubide.
¿Cree usted que alguien se puede interesar actualmente por el estridentismo?, le
pregunté. Por supuesto, maestro, dijo él, o algo parecido. Yo creo que el
estridentismo ya es historia y como tal sólo puede interesar a los historiadores de
la literatura, le dije. A mí me interesa y no soy un historiador, dijo él. Ah, bueno.
Esa noche, antes de acostarme, leí el cuestionario. Las preguntas típicas
de un joven entusiasta e ignorante. Hice, esa misma noche, un borrador con mis
respuestas. Al día siguiente lo pasé todo en limpio. Tres días más tarde, tal como
habíamos convenido, vino él a buscar el cuestionario. La criada lo hizo pasar pero
le dijo, por expresa instrucción mía, que yo no estaba. Luego le entregó el paquete
que yo tenía preparado para él: el cuestionario con mis respuestas y dos libros
míos que no me atreví a dedicarle (creo que hoy los jóvenes desdeñan estos
sentimentalismos). Los libros eran Andamios interiores y Urbe. Yo estaba al otro
lado de la puerta, escuchando. La criada dijo: esto le ha dejado el señor Maples.
Silencio. Arturo Belano debió de coger el paquete y mirarlo. Debió de hojear los
libros. Dos libros publicados hace tanto tiempo y con las páginas (excelente papel)
sin cortar. Silencio. Debió de mirar por encima el cuestionario. Después oí que
daba las gracias a la criada y se marchaba. Si vuelve a visitarme, pensé, estaré
justificado, si un día aparece por mi casa, sin anunciarse, para conversar conmigo,
para oírme contar mis viejas historias, para poner sus poemas a mi consideración,
estaré justificado. Todos los poetas, incluso los más vanguardistas, necesitan un
padre. Pero éstos eran huérfanos de vocación. Nunca volvió.
Roberto Bolaño
Los Detectives Salvajes

Manuel Maples Arce


Manuel Maples Arce

Prisma

Io sono un punto morto nel centro del momento
Equidistante al grido naufrago di una stella
Un parco
La luna senza corda
Mi opprime alle vetrate.

Margherite dorate
Che si sfogliano al vento.

Insorta la città di annunci luminosi
Galleggia in calendari,
E poi di sera in sera.
Per la strada stirata si dissangua il tranvai.

L'insonnia come fosse un rampicante,
Si avviluppa ai traliccci del telegrafo
Mentre vanno i rumori scardinando le porte
La notte si fa magra leccando il suo ricordo.

Il silenzio giallino mi risuona sugli occhi,
Prisma, diafana mia, come sentire tutto!

Le separai le mani,
Ma proprio in quel momento
Grigio delle stazioni
Le sue parole fradice mi si strinsero al collo,
E una locomotiva
Assetata di chilometri la strappo' dalle mie braccia.

Il suono delle sue parole oggi è più gelido che mai
E la locura di Edison a mani di pioggia!

Il cielo è un ostacolo al condominio inverso
Rifratto nelle lunule ombrose degli specchi;
I violini non crescono al modo del moscato,
E mentre van le orecchie esplorando il mattino
Rabbrividisce ossuto l'inverno in guardaroba.

Mi debordano i nervi
La stella del ricordo
Naufragava nell'acqua

Del silenzio

Tu de io

Ci incontrammo

Nella notte terribile,

Meditazione tematica
Che appassisce in giardini.

Locomotori, grida,
Arsenali, telegrafi,
E l'amor della vita
Son già sindacalisti,

E tutto si dilata in circoli concentrici.

Trad. genseki

Presunta foto di Duca o Buca Spadari

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Frammento

Ti sporgevi dai tuoi sogni come da una caverna
Ma il mio sonno era verde come quello dei cinghiali
Sognavo un sogno di lupo prigioniero
Nella magia di una miniera di carbone
E i tuoi piedi come due colombe
Frullavano sgraditi alle mie tempie
Le unghie delle tue mani erano firmamento
Nella notte dei bambù e dei denti ...

genseki

Unica Rovelli

Poi non seppi più nulla di Dreiser Cazzaniga e non rividi più, per lunghi anni, il comissario Fabro, cosi che finii per dimenticarmi del tutto di quell'incidente marginale e sgradevole. Fu inaspettatamente e per puro caso che rividi il commisario Fabro nella piccola latteria al lato della Cattedrale nella quale solevo cercare rifugio nei momenti di tranquilla serenità e solitudine che si facevano sempre più splendidi, frequenti e luminosi con l'avanzare della vecchiaia, amavo questo mio lungo tramonto, i miei passi che si facevano incerti, la stanchezza, l'insonnia che rendeva le notti un'avventura febbrile, gli antidolorifici e il loro tremolante sopore e le ultime latterie, specialmente quella al lato della cattedrale, con l'odore di limone e canella, i grandi contenitori di vetro con le perle di zucchero e le gocce di cioccolato, il frigorifero panciuto che era un'imitazione vecchissima di un modello ancora più vecchio di frigorifero statunitense che sarebbe stato perfettamente al suo posto in una casa marziana visitata da Bradbury. Una manona si appoggio' pesantemente con cordialità non gradita sulla mia spalla, e la voce pastosa e sfrigolante del comissario Fabro scivolo' nelle mie orecchie senza apparente sforzo: - Lermita! È dal tempo di Scoriosozzo che non la vedo, si ricorda, la manzottin? -
Come dimenticarla – dissi rabbrividendo involontariamente.
Si sieda Lermita, posso offrirle un caffe?
Non potevo fuggire perché la porta stava proprio dietro il comissario che en occupava tutta la larghezza, e non me la sentivo di tentare la fuga attraverso il retrobotega perché poi avrei avuto difficoltà a restare cliente di una latteria dalla quale ero fuggito per liberarmi della polizia. Mi sedetti e il gentile Fabro mi aggiorno' sul caso di Dreiser Cazzaniga. Risultava che Il Duca o Buca Spadaro non lo poterono reperire e quindi non fu interrogato. Attraverso vari riscontri si poté appurare che le scatole di carne manzottin erano state rubate dalla macchina di Buca o Duca Spadaro da Dunja Rabam Kosovara che ruppe il vetro posteriore con un mattone che portava nella borsa da Pristina. Dunja non aprì le scatolette perché temeva che fossero una trappola dei cristiani e che contenessero carne di maiale, così nonostante le proteste dei bambini le cambio' con due confezioni di pannolini giganti alla vecchia Gita che viveva davanti alle rovine dell'antica fabbrica Eterthanatos in cui Dunja aveva trovato rifugio con la famiglia dai rigori dell'inverno. La vecchia Gita aveva barattato le scatole di carne Simental con 15 kili di torba e 10 Kili di russule emetiche da Biotto Cèpedo, il viandante dei boschi che le aveva portate a valle da una delle sue lunghe escursioni sui fianchi poderosi del Mucrone. Biotto Cèpedo, alla fine en aveva usato il contenuto per preparare trappole per le volpi e gli sciacalli, nessuno sciacallo e nessunissima volpe si era degnata di farsi attrarre da quella pastura e Biotto Cèpedo aveva usato le scatole vuote per allontanare i passeri dal suo piccolo vigneto. Il telefono mobile di Dreiser Cazzaniga aveva registrato questo messaggio circa una settimana prima della sua morte: “Non voglio più parlare con te basta messaggi e telefonate, e lasciaci in pace”. Firmato Duca o Buca Spadaro. Il plurale. Chi era l'altro o gli altri che Dreiser Cazzaniga doveva lasciare in pace? Fu appurato che Duca o Buca Spadaro era stato visto nella valle e sui sentieri del Mucrone in compagnia di tale Unica Rovelli, ex-concubina di Bilbo il Chimico che Duca o Buca Spadaro aveva amato nell'adolescena e che per farlo ingelosire si era sposata con Bilbo il chimico e aveva visuto con lui circa trentanni geneando figli e figlie nella città alemanna di Francomorte. Unica Rovelli era facilmente riconoscibile dalla bocca, aveva una bocca larga, che si apriva da orecchia a orecchia come se la testa fosse stata tagliata in due poco sopra il mento e le due parti separate lasciate distrattamene appoggiate una sull'altra. La bocca di Unica Rovelli non era oscena. Questo no. Ma creava in quanti si imbattevano in lei una sensazione di doloroso disagio che risultava difficile da definire. Insomma, trattandosi di bocca era facile che la mente si immergesse in indecorose comparazioni, ma era più una ferita che una bocca e lo sguardo en percorreva i margini come volesse suturarla per recuperare il suo equilibrio in forza di un gesto pietoso verso tanta sventura. Unica Rovelli era per unanime testimonianza di quanti l'avevano conosciuta una creatura psicologicamente gelatinosa con l'anima di un'assassina piagnucolosa. Duca o Buca Spadaro e Unica Rovelli hanno fatto perdere le proprie tracce, alcuni miei collaboratori dubitano persino che siano esistiti, credono che siano una leggenda formatasi nei boschi del Mucrone, magari dalla fantasia avariata di Biotto Cèpedo dopo un'indigestione di muscaria e veicolata da carbonai e ortolane sulla base di qualche elemento reale. Magari Diuna aveva rubato davvero un paio di scatolette di carne manzottin dalla bicicletta di una vedova, una poveretta dalla bocca deforme aveva mangiato polenta scunsa in qualche piola della valle, e questi fatti avevano colpito la fantasia popolare. Dreiser Cazzaniga era morto e se la coppia Buca Unica era reale certo aveva avuto qualche responsabilità in questo avvenimento.
Furono di questo tenore le conclusioni del comissario Fabro e quella fu l'ultima volta che lo vidi e che sentii parlare di Dreiser Cazzaniga fino a quando conobbi genseki.
Tristano Lermita

domenica, gennaio 30, 2011

Al margine dell'abetaia

Era tutto un trascorrere di lupi sotto i cavi
Al margine dell'abetaia
Quando la tua ora si faceva acqua profonda
La mia pazienza asta e fuscello
Ti toglievi gli scarponi ogni volta
Che seduta scorgevi un grumo di malva
La pulmonaria assorbiva gli ululati
Nella mia gola il groppo di non baciarti.
Poi fu uno scudisciare di fianchi, larici
Strisciante l'odore della pelle gridava
Il tuo ricordo
Agli spettri dei rododendri.

genseki

Scoriosozzo

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Odessa

Ad Odessa ti aspettavo all'aereoporto
Ansioso di vederti spuntare con l'impermeabile giallo
Il tichettio sotto le braccia e la valigetta
Di metallo sferico
ma era in una latteria che reclinavo la testa
Una di quelle della mia infanzia
Con cannella e ardesia
a profumare il crepuscolo
E un sogno di giacinti stridenti
Le mosche le friggeva quella lampada azzura
E fu così che non seppi abbandonare i tuoi occhi
Ad altre ali, ad altri coltelli
A fendere il volo e la polpa
Poi furono solo labbra e abbracci
Il profumo acre di terital
Il tuo dolore che mi sprigionava
Come un nodo, un virgulto di muscoli
L'impermeabile giaceva davanti al caminetto
Come nei migliori film di una volta
La coperta era anch'essa in bianco e nero
Come la busta di vaniglia del lattaio.

genseki

Roque Dalton


Bolañismi

Soñé que estaba soñando y que en los túneles de los sueños encontraba el sueño de Roque Dalton: el sueño de los valientes que murieron por una quimera de mierda.

Sognai che stavo sognando e che nei tunnel del sogno incontravo il sogno di Roque Dalton: il sogno dei valorosi che morirono per una chimera di merda.

Roberto Bolaño
Trad. genseki

Roque Dalton

Alta ora di notte

Quando mi saprai morto tu non dire il mio nome
Perchè si fermerebbero e la morte e il riposo.

La tua voee, campana di tutti e cinque i sensi
Sarà il pallido faro che la mia nebbia cerca.

Quando mi saprai morto dimmi sillabe strane
Pronuncia pane, fiore, ape, lacrima e tormenta.

Non lasciare che le tue labbra trovino le mie undici lettere,
Ora ho sonno, ho amato e ho vinto il silenzio.

No, non dire il mio nome quando mi saprai morto
Dalla terra più oscura mi chiamerebbe la tua voce.

No, non dire il mio nome, non lo dire, per favore
Quando mi saprai morto tu non dire il mio nome.

27/01/11
14:38:09

Il mare

Ci sono grandi pietre nella tua tempestosa oscurità
Grandi pietre con le loro date lavate dalla tua ombra
Perchè persino il sole mangia della tua ombra

Scricchiola nel freddo congedandosi dall'aria
Che non osa penetrare in te.

O mare in cui i disperati possono dormire
Cullati da impassibili esplosioni
Alfabeto di vertigine paisage diluito che aggrediscono i muri
I gabbiani, la spuma dei pesci sono la tua primavera
La furia è una piramide verde
Una resurrezione del fuoco più acuto il tuo clima
La tua miglior traccia sarebbe una chiocciola
Che cammina con passi di bambino nel deserto.

Siempre amai i villaggi dissimili
Apparentemente rubati dalle mani del mare
Citfadine presso la sabbia
Porto scandalosi nel'elbrezza del salnitro
Casali rabbrividenti tra la nebbia piena di coralli
Grandi citàa titanice di fronte alle tempeste umiliate
Borghi di pescatori ciechi sotto un faro di olio
Fabbriche in agguato tra gli atolli con un largo coltello
Valapraiso come una grande cascata sospesa
Manta Punàa porti dell'Ecuador negatori delle foglie
Buenaventura aromatica come un gran porto sudicio
Panamàa con gli occhi (punzados?) dalla depravazione
Cartagena sempre in attesa dei pirati
Affamata
Wilemstadt naufraga nei domini del petrolio
Tenerife e la sua dolce coppa di vino
Barcellona che sbadiglia tra banche e carabinieri
Napoli bellamente tumefatta
Genova Leningrado Sochi La Guaira Buenos Aires
Montevideo come una margherita
Puerto Limon Corinto
Acajutla in una lenta spiaggia della mia patria
Dove tuti si guardano nello specchio pesante solcato dai delfini
Scostando come rapida sciabila
Le spighe infinite di smeraldo.


Ora di cenere

Finisce settembre. E' l'ora giusta per dirti
Quanto difficile è stato non morire.

Questa sera per esempio
Ho nelle mani grige
Libri belli che non so comprendere,
Non potrei cantare sebbene abbia smesso di piovere
E non ho ragione di ricordare
Il primo cane che amai da bambini.

Da quando ieri te en andasti
Persino la musica si è fatta umida e fredda.
Quando morirò
Solo ricorderanno il mio giubilo mattutino e palpabile,
La mia bandiera senza diritto a stancarsi,
La concreta verità che distribuii dal fuoco,
Il pugno che resi unanime
Con il clamore di pietra che pretese la speranza.

Fa freddo senza di te, Quando morrò
Diranno con buone intenzioni
Che non seppi piangere
Piove di nuovo.
Mai come oggi hanno tardato tanto le sette meno un cuarto.

O voglia di ridere
O di uccidermi.

*

Trad. genseki

Luis Cernuda

Luis Cernuda

Dove vive l'oblio

Dove vive l'oblio
In quei vasti giardini senza aurora
Dove io solo sia
Memoria di una pietra sepolta tra le ortiche
Sopra la quale il vento alla sua insonnia sfugge

Dove il mio nome lasci
Tra le braccia dei secoli il corpo che designa,
E non vi sia più nessun desiderio.

In quella gran regione ove l'angelo terribile dell'amore,
Non celi come acciaio
Nel mio petto la sua ala,
Sorridendo pieno di grazia aerea mentre cresce il tormento.

Là dove infine abbia termine l'affanno che esige un padrone ad immagine sua
Sottomettendo la propria a un'altra vita
Senza altro orizzonte che quello d'altri occhi fronte a fronte.

Dove pene e fortuna siano soltanto un nome,
Cielo e terra nativi attorno ad un ricordo,
Dove senza saperlo io mi ritrovi libero
Dissolto nella nebbia, assenza,
Un'assenza leggera come carne di bimbo

Laggiù, laggiù lontano
Dove vive l'oblio.

IV

Io fui

Colonna ardente, luna di primavera
mare dorato, occhi grandi.

Cercai quel che pensavo
Pensai come nel languido sogno dell'alba,
Quel che il desio dipinge nei giorni adolescenti.

Cantai, salii,
Un di fui luce,
In fiamma trascinato.

Come un colpo di vento

Che l'ombra va disfando
Nel nero caddi,
Nel mondo mai sazio

Son stato.

V

Voglio con afanno sonnolento
Della morte più lieve godere
Tra i boschi ed i mari di rugiada
In aria dissolto che trascorre e ignora

La morte voglio averla tra le mani
Rapido frutto colore di cenere
Fragile qual corno
Di luce quando nasce l'inverno
Voglio poterne bere la lontana amaezza:
Voglio ascoltarne il sogno dal rumore di arpa
Mentre sento diffondersi il freddo nelle vene
Perchè soltanto il freddo mi potrà consolare.

Morro' d'un desiderio
Se sottil desiderio vale morte;
Di me stesso privato vivere di desiderio
Senza mai risvegliarmi, senza ricordi
Lassù, lassù perduto nel freddo della luna.

*

VI

Il mare è un oblio
Una canzone, un labbro
Il mare è un amante
Che risponde al desio

È come un usignolo
Le sue acque son piume
Impulsi che si alzano
Fino alle fredde stelle

Accarezza con sogni
Che schiudono la morte
Che son lune accessibili
Son la vita più alta.
Sopra le spade oscure
Van le onde godendo.

*

trad genseki

Punto per punto

Punto per punto corrispondeva
Il tracciato del tuo candore con lo zenith
Con il calore vuoto del rame con le sue mani adunche
Quando afferravano lo specchio
Per maledire la lebbra degli occhi, la speranza
Delle labbra e tuttte quante le possibili preghiere:
Invoca il concavo risuonare su se stessa
della costernazione, quando anche il cielo
manca al respiro – gridava
E l'accoglievi aprendo tutti i pori
Alla pioggerellina rinfrescante della disperazione.

genseki
 
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La mano cerca il cenno

La tua voce cercava la parola come
La mano cerca il cenno, l'occhio il sottinteso
Come l'ala smarrita cerca la caduta
E il volo il rigore retto del mezzogiorno
La tua voce cercava la parola
Come il bagliore cerca l'elissi
Come qualsiasi sfera il punto e a capo
La tua voce si cercava nella parola
Come Achille cercava una tartaruga
Che accettasse la competizione
Come la trama cerca il dialogo
Il sentiero le orme l'erba del te il tepore del burro
La tua voce si cercava sempre a una soglia
Su di un limite sostando presso il verbo
Infinitamente vicina al suo svelarsi
Nella caducitá del proprio senso.

genseki

Agua Mojada

Guardala come si divincola
Come cerca di sfuggire alla storia
Di rientrare a tentoni nello sguardo
Da cui era uscita in forma di certezza
In quello spazio tra corpo e consapevolezza
In cui ogni corpo appare come oscenamente triste
Per volersi separare dalla sua genericitá
Eddai! Guarda come si contorce, tutta bagnata
porta qua quegli stracci, le orecchie, i tasselli
Porta qua, svelto prima che piova
Anzi, guarda che sta giá piovendo come
Quando eri bambino ad Ormea e la pioggia
Si porta via la neve sporca, la neve che non è piú bianca ma è sporca
E la pioggia se la porta via la porta via nei tombini
Sotto terra la neve bianca ma sporca sotto la terra nera
Piange e la pioggia cade sulla pioggia
Strato di pioggia su strato di pioggia
E lo sguardo cade sullo sguardo
Strato di sguardo su strato di sguardo
E la storia cade sulla storia strato a strato di storia
Fino a coprire lo sguardo della sua ignominia
E inutilmente si divincola si scuote scampana
Strilla come acqua su acqua la storia
La storia si scioglie nel tempo

genseki

Carne Manzottin

Il Duca detto anche lo Spadaro

Si dice, nelle piole dei borghi prossimi, che a Scoriosozzo qualcuno pur visse - , sussurró il comissario Fabro appoggiandosi rumorosamente alla spalliera della vecchia sedia - un tal Buca o Duca detto Spadaro, di lui poco si sa, se non che vegetava e ingrassava accanto alla stufa inebetito dalla televisione. Si dice che en tenesse accesa piú d'una contemporaneamente, en possedeva, pare, varie decine, e scendesse alla pianura in contate occasioni con una vecchia carretta dal bagagliaio pieno di scatolette di carne manzottin. Tutti nella valle e nella pianura hanno visto qualche volta un catorcio sudicio pieno di scatolette di carne manzottin. Sembra che la carne manzottin non la abbia mai tirata fuori dal bagagliaio. Perché teneva il bagagliaio zeppo di scatole di carne manzottin? Lermita, dica sinceramente, lei ha mai aperto nella sua vita una scatola di carne manzottin, en ha mai gustato il contenuto? - Comissario che cosa vuole da me? Risposi in un tono accentuato di stizza annoiata. - Non la prenda cosí caro Lermita, soltanto voglio che condivida con me questo esperimento – e, dopo aver goffamente frugato nelle tascone della deformata giacca di fustagno giallino che un tempo era forse stata arancione, gonfiate da una intera collezione di grandi mandilli stropicciati che dovevano aver raccolto e seccato intere secchiate di sudore commissarile, en trasse una scatoletta di carne manzottin, infilando l'indice nell'apposito anello con la cautela e il rispetto con cui il giovane sposo infila l'anello nuziale al dito della snella fanciulla davanti all'altare adornato di gigli, anche se in questo caso la manovra era all'inverso giacché si trattava di infilare l'anello nel dito e non il dito dell'anello di modo che non potevo fare a meno di pensare ad un oscena parodia del sacramento, inscenata con sfacciatagine blasfema dal comissario Fabro, per inveterato liberopensantismo o per studiare quelche mia reazione per qualche sua misteriosa ragione, aprí il contenitore metallico, e con l'altra mano rovesció il suo contenuto rosa e gelatinoso in un piattino celeste che il solerte cameriere, a un suo cenno imperioso gli aveva testé recato. I frammenti di carne rosa sfumavano nel grigio torbido della gelatina che verso l'esterno del cilindro, di cui aveva assunto per compressione la forma, andavano acquistando una tonalitá giallina, filamenti sopravissuti ad una soprannaturale macelleria in una nebbia solidificata, tutto il cieco orrore della realtá mi strinse la gola in una morsa ferrea, soffocavo, l'insensatezza impenetrabile dell'essere tremava come un cuore sfiancato negli ultimi battiti rosa dei filamenti che si dibattevano nella loro gelatina; Fabro trasse dal viluppo dei mandilli il suo opinello con cui divise esattamente in due la massa che ai miei occhi pareva palpitante, per un attimo pensai che i frammenti di carne trasformati in pseudopodi schizzassero verso i miei occhi e mi penetrassero nel cervello per succhiarmi quello che mi restava di autocoscienza – Che cosa le succede Lermita? - La voce di Fabro mi liberó da quell'incubo, i filamenti rientrarono nella gelatina e i miei occhi nelle loro orbite. Fabro mi stava offrendo nel piattino azzurro una metá della carne, l'altra meta la stava giá rumorosamente masticando lui, vincendo il ribrezzo con uno sforzo sovrumano la inghiottii anch'io a bocconcini. Perché il Duca Spadaro girava per la valle con il bagagliaio pieno di scatole di carne manzottin? Vi era un qualche legame tra Duca Spadaro e Dreiser Cazzaniga? La carne manzottin aveva qualche cosa a che fare con la morte di Dreiser Cazzaniga? Io en avevo mangiato un pezzo e non ero morto li per li. La carne manzottin era un segnale, un messaggio, una domanda? Dreiser Cazzaniga en conosceva la risposta e per questo doveva essere messo a tacere?
Tristano Lermita

Il Cadavere di Dreiser Cazzaniga a Scoriosozzo

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sabato, gennaio 22, 2011

Prima del grande urto

Avrei voluto averti conosciuta
Prima di addormentarmi nella macchina
Di addormentarmi davanti al palmizio
E il rombo poi e tutto quello sfacelo
E il gusto di bile nella bocca e di zinco
E le lacrime della carne come stille
Di rimorso quando ti caddero le forbici dal grembo
E i miei occhi si fecero porosi
Al potassio, al silicio del tuo ventre
Avrei voluto conoscerti prima del grande urto
Prima della voce roca prima della cassa toracica
Della fiera affamata, del pietrificarsi della fiamma nel focolare
Tra stemmi de emblemi avrei voluto conoscerti
Elevando il tuo fiato ad orifiamma
I tuoi occhi a guizzo di tromba il tuo dolore
Come la volpe in fuga si sarebbe nascosto tra le felci
la mia polvere si sarebbe deposta
Sui tuoi scaffali, sui tuoi guanciali come nel sogno
Del gatto che dorme ora sul raso e ti conserva
per se e per me in possibile memoria.

genseki

Rimorsi

Per tanti anni ho pascolato i miei rimorsi
Alla falda dei tuoi capelli, dimentico
Che nel mondo c'erano ancora nuvole,
Che il ghiaccio continuava a fiorire dal granito
I miei rimorsi li ho nutriti di verbena,
Di rucola, di erba cipollina, ma erano i tuoi capelli
Il loro orizzonte, la tua chioma screpolata e lisa
Il suo odore di acquaragia e nei giorni di festa
Di pinosilvestrevidal.
Neppure il rimorso piú piccolo ho voluto
Lasciarlo preda dei denti, l'ho stretto al petto
Come un tumore, come un ratto lo ho coccolato
E intanto crescevano i tuoi capelli, fino ai larici
Fino al pino mugo gemevano nella brina
Come steli spezzati, gocciolavano appena
Spruzzati di notte a ricordarmi quanto fosse
Pieno, il nostro niente ardente di tanto dolore
E il rimorso un ricorso prudente di fronte
A tutto il male che ci univa nella comune abiezione
Di animali infermi di parola, di verbo infetti
E di voce corrosa.

genseki

Schoenberg, Pelleas und Melisande, Abbado, GMJO 1

Un'altra Melisande

Ancora su Melisanda si distende il pensiero
Avvinto dalla sua natura vegetale,
Dal suo pullulare e germogliare dal susurro
Che sono le sue parole, la memoria radicale
Non sa di luoghi la sua tensione è atopica
Si sviluppa sempre come dentro se stessa
Per questo e solo per questo la chioma, rossa,
O aranciata è mistica imitazione dell'acqua
Ovazione al multiple frullo di tanti uccelli
Tutti vorrebbero bere dai suoi capelli
Io vorrei bere dai suoi capelli
La conoscenza liquida dello sprofondare in verticale
Nel corpo terroso ehe ci modella.
Il vero abbraccio è abbraccio di acqua e terra
Il solo amplesso in cui tutto si trasforma
Nella prossimitá del senza forma.
O Melisanda che non hai dato frutto
Ma solo chioma e rami d'etere e cromo
Nei pozzi rabbrividiva in te l'estraneitá
Gelida dei cieli, delle loro metalliche distanze
Ma lo spazio era nulla al tuo narcotizzante germinare
Le tue parole ti ricoprivano come corteccia.

*
genseki

Melisande

Cazorla

La tua voce

No, la tua voce non la trovi nella poesia
Non risuona nel gioco delle vibranti
Liquida come il guizzo della lingua
Nel sogno torrenziale del bacio,
Di quel bacio, o di quel petalo
La tua voce non si spezza qui in inflessioni
Di edera e di felce elastiche come il passo
Di una mattina elegante correndo in un parco alla moda
Tra scoiattoli e tepore non raschia l'intonaco
Non aderisce alla pietra come la lucertola agostana
Nel chiaroscuro del patio, non brilla nel fondo del pozzo
Come la corona di Melisanda
Non affoga avvolgendo come la cascata dei suoi capelli
Melisanda appartiene al mondo vegetale,
Esprime il desiderio della clorofilla
La tua voce furono forse le spine che la prefigurararono
O il luppolo scabroso e adesivo, ma certo sotto la sua pelle
Vellutata da pomice e borotalco
É l'animale che si tende nel sua salto verso la morte
La tua voce si faceva di malva e violetta
Aprendosi al mio goffo silenzio
Come il bosco al ricordo del temporale
Ma a stento contiene i brividi lo strazio
Degli artigli, la convulsione gemella della preda e del predatore
La tua voce non risale dalla profonditá della poesia
Fino a farsi coscienza della parola ma si acquatta nella sua morte
Come un bianco felino in una tana,
Madida e felpata, come la tua lingua di un altro bacio
...

Scoriosozzo

Che cosa ci faceva Dreiser Cazzaniga nei boschi di Scoriosozzo, che cosa lo aveva spinto a recarsi alle pendici del Monte Mucrone, alle soglie alte e luminose della Melanopartene, che avvolta nei suoi sette mantelli rossi benediceva il dolore dei pellegrini accogliendoli uno a uno tra i pesanti panneggi per un tempo sempre molto breve ma che ai meschini pareva un'eternitá di muschiosa beatitudine? Era difficile rispondere anche e soprattuto ora che questa domanda non si poteva piú farla direttamente a lui. Il Commissario Fabro pensava che Dreiser Cazzaniga dovesse conoscere qualcuno nel paese di Scoriozozzo; la difficoltá, tuttavia, stava nel fatto che il pasello di Scoriozzozzo in realtá non esisteva, e non solo non esisteva, nemeno aveva abitanti, Scoriosozzo era solo il mortuario sogno massonico di una pallida e grassa borghesia pedemontana. Quello che avrebbe potuto sembrare un borgo pittoresco radicato solidamente nel tempo e nel granito grigio del costone era in realtá solo un incastro di villule ottocentesche dalle forme grottescamente iniziatiche, simboliche, egiziane, di quell'Egitto di cartapesta e tarocchi che tanto affascinava il grasso Schikaneder. Certo dopo piú di un secolo quei tristi manieri melodrammatici in cui il granito era impiegato per imitare la cartapesta e che poggiavano su creste e costoni anch'essi di granito avevano assunto un tale convinzione del loro ruolo nel paesaggio da far si che Scoriozozzo potesse apparire un borgo agli occhi del viandante e persino del villegiante se non fosse stato che non aveva abitanti, e se non aveva abitanti come poteva Dreiser Cazzaniga essere ospitato da uno di loro per essere poi assassinato? In realtá nella valle si diceva o meglio si mormorava che un abitante residesse in quel triste mondo sarastriano anche se solo pochi si azzardavano a pronunciare il suo nome: un tale Duca o Buca detto anche Tucano: grasso, grasso, grasso, con lo sguardo perso perennemente in una smorfia di meraviglia eravi che diceva averlo scorto intento a far provvista di legna sul Mucrone e su Serretto nell'iminenza dell'inverno rigido di Scoriozozzo. Mo dove viveva, nessuno pareva saperlo a volerlo rivelare. Comunque Tristano decise di seguire il lentissimo Fabro nella sua ricerca. Il borgo di Scoriosozzo non lo si poteva percorrere senza essere scossi da un certa inquietudine, le sue magioni altezzose rivelavano nel portamento che la loro origine non era nell'arroganza rapace e spensierata di una feroce aristocrazia alpina, adusa alla razzia e al gelo, ma nei costumi biedermeier di un opulenta e untuosa e tronfia e suina borghesia di pianura e della pianura piú stagnante del continente. Stagnante nel suo ottuso benessere, nella sua cultura cimiteriale, nei suo entusiasmi cadaverici, nella sua grossolana teosofia. Scoriosozzo non era un borgo era un sogno molesto che si era a tal punto aggrappato al granito e alle robuste radici dei faggi da aver acquistato le convincenti sembianze di una solida esistenza. Scoriosozzo lo faceva star male come una sonata di Schubert suonata dalla figlia scrofolosa di un industriale di pianura per i suoi compari di sfruttamento e stupro prima di andarsene tutti al bordello marocchino a sodomizzare le tredicenni, Non poteva sopportare di immaginare i salotti tivestiti di mogano in cui un tempo la luce proveniente da pomposi candelabri illuminava tremante i ritratti di antenati comprati al mercato dell'antiquariato a metri quadri.
Tristano Lermita

martedì, gennaio 18, 2011

A Melisanda

La voce

No, la tua voce non la trovi nella poesia
Non risuona nel gioco delle vibranti
Liquida come il guizzo della lingua
Nel sogno torrenziale del bacio,
Di quel bacio, o di quel petalo
La tua voce non si spezza qui in inflessioni
Di edera e di felce elastiche come il passo
Di una mattina elegante correndo in un parco alla moda
Tra scoiattoli e tepore non raschia l'intonaco
Non aderisce alla pietra come la lucertola agostana
Nel chiaroscuro del patio, non brilla nel fondo del pozzo
Come la corona di Melisanda
Non affoga avvolgendo come la cascata dei suoi capelli
Melisanda appartiene al mondo vegetale,
Esprime il desiderio della clorofilla
La tua voce furono forse le spine che la prefigurararono
O il luppolo scabroso e adesivo, ma certo sotto la sua pelle
Vellutata da pomice e borotalco
É l'animale che si tende nel suo salto verso la morte
La tua voce si faceva di malva e violetta
Aprendosi al mio goffo silenzio
Come il bosco al ricordo del temporale
Ma a stento contiene i brividi lo strazio
Degli artigli, la convulsione gemella della preda e del predatore
La tua voce non risale dalla profonditá della poesia
Fino a farsi coscienza della parola ma si acquatta nella sua morte
Come un bianco felino in una tana,
Madida e felpata, come la tua lingua di un altro bacio

Ventana

Confidenze al Comissario Fabro

Davanti a un bicchiere di Inferno e a un piatto rovente di polenta scunsa finí per riconoscere con il commissario Fabro che lui e Dreiser Cazzaniga avevano avuto molte conoscenze in comune. Si Jules Lapache lo aveva conosciuto anche lui, no, prima del suo sodalizio con Dreiser Cazzaniga, quando Jules Lapache aveva ancora la sua scorbutica centoventisette verde e il maglioncino azzurro a girocollo e forse lavorava ancora per la rateale Einaudi. Si fu al Barfranca che lo conobbe, pe via del progetto di una rivista a cui egli si diceva interessato, non non gli aveva mai comprato nessun libro, si, fu lui a dargli il nome di Dreiser Cazzaniga come un possibile cliente, Jules Lapache aveva giá tutti i denti marci, allora, ma questo non selo ricordava si ricordava solo il maglioncino a girocollo, Po Jules e Dreiser Cazzaniga cominciarono a rassomigliarsi ogn giorno di piú solo che Dreiser Cazzaniga andava in bicicletta con lo zaino e ogni tanto i capelli se li lavava. Il commissario Fabro continuava con le sue domande, come se non avesse niente di meglio da fare, mentre con le ditona grasse girava le pagine di una gazzetta dello sport sudicia e piena di cerchietti vinosi. No la sorella di Jules non l'aveva proprio mai vista, no quella con cui viveva non era la sorella! Jules Lapache non era un alcolizzato, non aveva ammazzato nessuno, non aveva un tesoro nascosto, faceva ringhiare le donne che incontrava come mastine, tutte, quasi tutte, con lui ringhiavano, non avevano paura di lui, verso di lui provavano qualche cosa che aveva punti in comune con la paura ma soprattutto con la voglia di dilaniare con i denti carni giá infette, di sporcarsi le labbra con sangue stagnante e di lecarsele poi e di ululare, dopo aver ringhiato il ringhio piú ndo e scabbioso che femmina del totem dello sciacallo avessa mai potuto ringhiare da quando la luna era verde e baciava sulla bocca, una per uno tutte le sue fedeli cacciatrici. Gli avrebbero morso volentieri gli stinchi rinsecchiti a stento ricoperti da qui calzettini rigidi e verdevinosi che dovevano puzzare deliziosamente. Ma lui non sembrava temerle, le affrontava con una voce soffice soffice e esibiva con loro il suo odio per la vita, che era un odio contadino, l'odio di una lucertola sul muro, un odio cresciuto nell'odore del verderame e del letame nella disperazione della masturbazione dietro la gabbia dei conigli. Si e Dreiser Cazzaniga non si accorgeva di andar rassomigliandosi, di tentare di imitarlo anche se lui le ragazze non le faceva ringhiare, anzi! E cosí si convertiva in un enigma, un enigma appassionato che attraeva odi impotenti, tanto impotenti da restare in gran parte inespressi. Dreiser Cazzaniga e Jules Lapache divennero enigma e paria del borgo e della provincia eppure con loro tutte le armi restavano spuntate, nulla avrebbe potuto ferirli. Dreiser Cazzaniga, allora si mangiava le unghie.
Commissario lei pensa che l'abbiano assassinato?

genseki

lunedì, gennaio 17, 2011

Breton su Achim von Arnim - Parte II

Bisogna anche notare come egli si tenne sempre lontano dai fratelli Schlegel. Un simile atteggiamento, che credo deliberato, implica, in questo momento da parte di Arnim, un'adesione senza riseve alle tesi di Fichte, nell'amplissima misura in cui, , oggetto delle piú costanti polemiche e delle piú vilente, esse costatemente difendono i diritti della Ragione e della Critica in quanto epsressioni della filosofia della Riforma e della Rivoluzione. Per togliere qualsiasi dubbio sulla chiarezza e la nettezza di questa adesione basterebbe portare una testimonianza del 1811, ovvero l'anno della pubblicazione di Isabelle d'Egitto e che proprio in quell'epoca acquisisce tutto il suo valore: “Per piú di un ascoltatore, studente o no, le conferenze di Fichte, come lo sotolinea Achim von Arnim, sostituivano quella che fu la religione della Chiesa”.
Cosí ecco come riesce a svilupparsi, non senza momenti di grande effervescenza e frequenti ritorni allo scrupolo, in uno dei cervelli meglio organizzati del principio del XIX secolo, e,non bisogna dimenticrlo, un cervello essenzialmente poetico, la notevole situazione in cui si trova lo spirito, conteso, allora in modo piú evidente che mai, tra le forze del progresso e quelle regressive. Un'alleanza che richiama l'attenzione e che nella storia è raramente cosciente di se stessa anche se la possiamo definire eterna tende a porre nello stesso campo i poeti, gli artisti e gli scenziati che sanno valutare il valore ell'iluminaione che si produce a grandi intervalli a traverso di loro e ammettere che vi è qualche cosa al di lá di essa, non fose altro che la notte.. Da qui a voler rendere ancora piú oscura la notte non vi è che un passo, come lo testimonia Schelling quando si mise in testa di attirare verso la sua folosofia l'approvazione dei romantici preconizzando un ritorno del misticismo e infeudando la scinza all'arte quando dichiaró che: “entrambe dovevano finalmente coincidere, quando a scienza avrá risolto il suo problema, e certo lo risolverá, come l'arte ha giá risolto per sempre il suo (sono io che lo sottolineo”.
Nell'altro campo, raggruppati attorno a Fichte come piú tardi lo saranno attorno a Hegel si radunavano i partigiani dell'illuminismo e tra di loro è essenziale riconosce, a partire a questo istante Achim von Arnim. Effettivamente è proprio questa congiuntura e questa soltanto che ci fa capire il rimorso di Brentano, verso la fine della sua vita, che si accusa, lui che doveva morire monaco, d'avere favorito il matrimonio di sua sorella con arnim: “Son io” - dice: “ che po condussi da Bettina e cosí la consegnai alla letteratura, ai filosofi, alla Giovin Germania; è colpa mia se ella non ha piú religione”. de è ancora questa congiuntura che ci spiega come l'opera di Arnim, la cui fantasia è la piú abbagliante della sua epoca, non incorre nel giudizio che si puó su gran parte della letteratura romantic tedesca e che si esprime a mio giudizio con un'autorevolezza incomparabile, in questa critica di Hegel a proposito di Enrico di Ofterdingen romanzo cosí nebuloso di Novalis: “Il giovane autore si è lasciato trascinare da una prima brillante invenzone, ma non si è reso conto di quanto una simile concezione sia difettosa, precisamente per essere irrealizzabile. Le figure incorporee e le situazioni vuote sfuggono sepre alla realtá in cui dovrebbero inserirsi, invece, se prtendessero di avere una qualche realtá”. Nulla di cosí arbitrario, vago, irrisolto in Arnim. sono ben sicuro, avendoli riletti molte volte, che nei racconti che seguono non è stato commesso il benché minim abuso di fiducia, salvo l'iniziativ che consiste nel mettere in circolazione e in relazione esseri liberati fin dove è possibile dalla convenzione di presentarsi nella loro essenza e comportamento com esseri vivi. Una volta acconsentito ad entrare in scena, questi esseri si comportano con una naturalezza e, si potrebbe dire, un coraggiodi cui non saprei trovare l'eqivalente nelle creazioni di qualche altro narratore. E dicendo questo, non penso solo a Hoffmann e a i suoi “diavoli” di paccotiglia, tra cui un sedicente golem venuto dopo quello di arnim e che solo en è una grossolana contraffazione, Sono davvero oggetti di perfetta illusione che spingono la civetteria fino a sembrar sottrarsi alla volontá dell'autore, in modo tale che costui, come se sfuggisse ad ogni contagio romantico, assume al loro lato l'aspetto di un osservatore impersonale.
Trad genseki

Georges Ribemont-Dessaignes

Vecchie fotografie

Fu in una vecchia foto che ti ritrovai
Con le mani gonfie appoggiate al comodino
E la gonnellina nera del lutto di un altro fratellino
Morto prima di piangere, un fiore secco
Nel libro da messa e i mandorli fioriti
Nel cassetto della biancheria, il padre
Era un ingegnere con tanto di baffi,
Odore di treno e di cuoio e gli occhi
Con un germano dentro che volava
Nel mattino di Novembre su quel fiume
Che finiva per disfarsi nella cittá vecchia
Ubriaco di tannino e lisciva, il fiume,
Non il padre che faceva saltare il granito
Con il solo tuono degli occhi che beveva il tuorlo
Da un forellino e puzzava di ozono, di grasso di foca
Come un calafato e tu pregavi per lui, nella foto
Lo immaginavi tra tutte quelle vele
Accanto alla madonna ovale, e le funi
E abbassavi gli occhi e ti guardavi le scarpe
Entravi in un'altra foto dove eri nuda
Con i riccioli neri, le mani appoggiate ad una colonnina dorica
E si vedeva che puzzavi come un'oca
Prima di essere decapitata e come un'oca eri bianca
E ti guardavi i piedi senza vederli
E tuo padre sul ponte regolava funi e vele
Perforava il mare con i suoi tunnel di ghiaccio
Entrava con un tuono in antartide
Piantava la sua picozza su un iceberg
Poi con una stampella entravi in un'altra foto
Ti gettavi sotto la ruota del treno
E la Vergine dal suo uovo azzurro
Ti fulminava con i suoi raggi azzzurri
E tu ti allontanavi dai binari con una gamba in mano
La gonnellina da scolaretta delle monache
Spruzzata di sangue e ti fermavi a parlare con le chiocciole
Del gusto del cavolfiore e della cucina azzurra della vergine
Poi entravi in un'altra foto
In una successione di specchi e la Vergine
Ti sorrideva mentre ti guardavi i piedi
Pelavi le carote lavavi le sottane gettavi mangime ai granchi
Era la Vergine del Gelo, gelosa del padre,
La Vergine delle grotte che spiava l'ingegnere
Che tendava tranelli alla sua dinamite
Era la Vergine Ossidata
Quella che vive nell'abisso di una cascata di specchi
La vedi appena dietro il tuo volto piú sfocato
Dove hai le lentiggini e i capelli rossi
E i capelli neri unti e luminosi nello specchio di bronzo
Acqua di stagno come gli occhi dell'assassino
Ti fissi i piedi, ti sfoglia come una rosa,
E getta ogni petalo in un'altra foto
Alla Vergine della Primavera.

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