lunedì, gennaio 17, 2011

Tristano Lermita

Incontro con Dreiser Cazzaniga

Ricordava di aver incontrato Dreiser Cazzaniga nel corso delle sue passeggiate novembrine, con la testa in fiamme e Carducci nel cuore. La sua percezione dell'autunno era profondamente carducciana per via della poesia imparata a memoria d'autunno, alle elementari e per il fatto che per la via che egli percorreva per andare a scuola davvero respirava l'aspro odore dei mosti e se non vi erano spiedi vi erano cacciatori di cinghiali, sugli usci, che non rimiravano il cielo ma si rimiravano le scarpe piene di fango, Insomma l'autunno lo viveva in un universo parallelo che chiamava Carducci, E fu in autunno che incontró Dreiser Cazzaniga sulla stradina di Santa Libera, prima che decidessero di asfaltarla, stradina che menava al mare attraverso un lunghissimo itinerario tra alte querce rosse. Dreiser Cazzaniga avanzava col passo di un ciccione che è profondamente convinto di essere magro. In generale si muoveva e gesticolava come qualcuno che fosse di colpo stato precipitato in un altro corpo e non se en fosse ancora reso conto, Dai suoi occhi tranquilli e acquosi sembrava guardare il mondo come se fossero intensi e fiammegianti, il sorriso dolce che modellava la sua bocca pareva che nascondesse una smorfia invisibile di annoiato disprezzo, le dita pallide e lunghisime le muoveva come se fossero tozze e brunite dal fuoco del lavoro e della lotta. La lunga barba castana e i capelli che scendevano formando abbozzi di anelli fino al collo sfiniti e unti sotto il rigido cappello nero gli conferivano un profilo vagamente giudaico. Scrutava pigramente il bosco in cerca di funghi, reggeva con la mano destra una copia dell'Orlando Furioso di Garzanti. Non sapeva chi fosse en come si chiamasse, venne a conoscenza del suo nome nel caffé del borgo mentre comprava un biglietto della corriera che scende verso il mare e trangugiava un caffé amaro e colloso. Lo rivide altra volte, anche in cittá, con i seguaci di Mastro Arrigo, con qualche prostituta ucraina biondissima e stupida, mentre entrava in una panetteria a comprare la focaccia. Dreiser Cazzaniga non aveva per lui nessun interesse e nulla faceva presagire che fosse destinato, proprio lui a incontrarne il cadavere in quel bosco di carpini epilettici alle pendici del monte mucrone con la testa appoggiata a un tronco coperto da uno spesso strato di Trametes Versicolor. Era Dicembre, Il monte Rosa lontano era solo un'idea traingolare, come era finito lassú quel corpo coperto da una giacca grunge, col basco ancora ficcato sulla testa calva e un paio di scarponi da muratore di cui no gli ea sfugitto dal piede? Restó a fissare il cadavere e si percepí di colpo come un leggero segugio giallo intento a fiutare le ascelle di quel morto. Poi si ricordó di Nastagio degli Onesti, di Botticelli, una donna nuda correva nel bosco in uno schianto secco di rami. Quando riaprí gli occhi e ritrovó la calma si accorse che il Commissario Fabro gli aveva appoggiato una mano sulla spalla.

I GRANDI DEL TEATRO - Salvo Randone "La conversione dell'innominato".

La tuta

La tuta, la sua parte superiore l'aveva comprata in autunno nell'umidissima Piazza dell'Aviatore, ora tutti lo avevano dimenticato, certo l'Aviatore non aveva piú discendenti, o questi si erano dispersi dimentichi della loro stirpe. Eppure era stata gran festa con la banda tutta ben lucidata e il maestro Orlando a scuotere pigramente la bacchetta come se la banda fosse stata di un altro e il cugino Tchenzo, quello che era rimasto sempre giovane e che provava il suono dei freni delle locomotive a soffiare nel clarinetto che tutti credevano fosse il diminutivo di Clarino e il volo cerimonioso dei piccioni tra i tigli dorati sulla piazza della stazione e poi al ristorante con il Borgomastro, i cani, i monelli, i marinaretti e le comitive in bicletta. Tutto era stato dimenticato, in Piazza dell'Aviatore ci avevo comprato la tuta che presto divenne un umile talismano, una tuta da poche palanche, beige, e nera aveva il potere come tutti gli altri talismani che aveva raccolto come orfani del caso di conferire all'attimo la solennitá di un promessa che sarebbe stata mantenuta. L'aveva comprata in un negozio albanese che si chiamava KOLA MIT HAT. Parole che evocarono su due piedi un animale mitologico una specie di incartapecorita tarasca da guardaroba. In un misto di hispano-germano-albionico quel nome gli apparve come dotato incontrovertibilmente del seguente significato: la coda incontra il cappello, la coda con la testa (in un'altra possibile versione). Il serpente Ourobouro insomma, anche enza palindromo. Un talismano, un enigma, un animale mitologico bastavano a renderlo sicuro che nonostante tutto, nonostante la miseria l'abiezione e il ridicolo la vita doveva avere un senso, magari non serio e pomposo, magari secco e spelacchiato e un poco ammuffitto ma sempre un senso. La tuta la indossava da allora quando cercava dentro di se la povertá delle foglie di autunno.

Contro i pensieri neri

Contro i pensieri neri

Pensieri
Non neri pensieri
La loro relazione paradigmatica con la morte è una facile risorsa
Una cattiva metafora
I pensieri non piangono
Non compatiscono i loro oggetti
Nemmeno possono essere pensati come ausiliari della ragione
(Fourier non aveva poi torto quando annunciava la scienza della follía)
L'espropriato osserva che, nella prospettiva della morte, le cose
Forzate a occupare uno spazio limitato piuttosto che a fluire in un
Tempo amorfo suppostamente illimitato
Si ordinano come in un quadro di Mantegna
Mai prima si era visto cosí, al centro della scena
Come un santo con un leone ai suoi piedi
Non sono mai stato un santo e non addomesticai mai un leone
L'importante è il centro del quadro
Come lo vedo, come lo vedono
Nella prospettiva dell'equidistanza
il fatto di essere senza che questo sia un motivo di orgoglio
(Che orgoglio puó mai avere colui che sta per morire?)
Il centro di un piccolo sistema planetario
Al quale, in onore della chiarezza, manca una quarta dimensione

Il tempo, il punto cieco della prospettiva.

Enrique Lihn
Trad genseki

La porta e il portatore

Barzakh, vi si entra seguendo, magari un portatore della chiave, io non en ho mai incontrati, di portatori di chiavi tranne forse quella splendida figliola finlandese che coccolava un gatto tra i due seni perfetti in una pizzzeria di Via Meravigli a Milano. Non la ho seguita peró. La siciliana amara di Bra che voleva che io gli restituissi la copia del quotidiano che mi aveva prestato, ma non una qualsiasi copia di quel quotidiano, proprio quella che mi aveva prestato, Io mentivo compulsivamente allora, e cercavo di entrare nel Mondo dei Significati attarverso le porte al fondo delle case, degli appartamenti, delle villette, delle camere di albergo. Ogni luogo abitabile, allora mi pareva la porta aperta sulla meraviglia di una vita possibile, si aprivano davanti a me inesauribili vite possibili e la pura vita possibile era per me una finestra aperta su un cortile triste, su un grande albero sporco, su una via poco frequentata a guardare la pioggia cadere per sempre un mattino di riposo ma non di festa, un mattino di sciopero o di alluvione o di incipiente guerra civile, insomma un mattino senza lavoro ma feriale, alla finestra che piove. Poi queste porte si sono chiuse, adesso sono scomparse e cerco dentro di me la meraviglia: percheggio il furgone sotto un albero, al fresco, in periferia, ragazzi zingari bruciano piramide di pneumatici e poi vi girano in torno con le moto che urlano pú del sole. Chiudo gli occhi e cerco la porta o il portatore nella paura che sale dentro di me e che come un'onda si solleva dentro di me e con sé mi porta oltre la soglia di Barzakh a Rue Fontaine 41

Enrique Lihn

Nel 1999, tornato dal Venezuela sognai che mi portavano alla casa dove viveva, allora, Enrique Lihn, in un paese che avrebbe potuto essere il Cile e in una cittá che avrebbe potuto essere Santiago, se pensaimo che il Cile e Santiago per un certo periodo furono simili all'inferno e che questa somiglianza, in qualche profonditá della cittá reale e della cittá immaginaria rimarrá

per sempre. Certo io sapevo che Enrique Lihn era già morto, tuttavia, quando mi invitarono a fare la sua conoscenza non mi opposi. Foprse pensai in uno scherzo di quelli che erano con me, tutti cileni, o forse in un miracole. Probabiolmente non pensai un bel niente, o non mi resi ben conto di quello che avevano detto.
...
Al principio lo ricobbi a stento, la sua faccia non era quella che appare nelle foto dei suoi libri, era dimagrito e ringiovanito, era piú bello, i suoi occhi erano migliori che quelli in biaco e nero della quarta di copertina. In relatá Lihn non sembrava Lihn, ormai quanto piuttosto uno di quegli attori di Hollywood di serie B che appaiono nei film che vanno subito in TV o che non passano mai nelle sale europee e entrano immediatamente nei videoclub. Comunque anche se non somigilia a se stesso Lihn era Lihn, non vi era alcun dubbio.

Roberto Bolaño
Incontro con Enrique Lihn
Trad genseki

Enrique Lihn


Enrique Lihn

Ora davvero tu e io siamo piú lontani uno dall'altro
Che due stelle in galassie differenti.
Nessun astronomo mai riuscirá a vederci insieme
Nel suo vertiginoso campo visuale
Né il fotografo di cartagena davanti alla sua Polaroid
Cosí fu per sette anni infiniti
Le altre immagini sono nubi di memoria
Da questa e da quelle se ne è andata la vita.

Drive in

Sullo schermo si legge: è solo per te
La proiezione comincerebbe se finalmente ti adormentassi
Se non fosse perché, a volte, per fortuna, la perdi
Vai al cinema da solo
Sei solo sullo schermo
I tuoi incontri con la star
Sarano pure fatali ma non aggiungono
Il suo nome alla povertá del cast:
Sei tu che reciti tutte le parti.
Magari, sará l'ultima volta che lavoreremo insieme
L'angoscia che ti sveglia suona falsa
Rinunzi ad annotare nel tuo quaderno dei sogni
Questa cosa da nulla che riempirebbe cento pagine
L'analisi che alla fine
Sarebbe un'operazione di routine.

Buona notte Achille

Finalmente ce l'abbiamo fatta a prenderti nel tallone
La morte che fuggi
Correrá senza scomporsi accanto a te.
Buona notte, Achille

Sto per attraversare la barriera

Sto per attraversare la barriera
Dello specchio per vedere
Ció che non si puó vedere:
Come sarebbe il mondo
Se copiasse lo specchio
La realtá non al rovescio
Colma infine del suo nulla.

Siccome erano anni che mi detestavi

Sicome erano anni che mi detestavi
Perché a tuo insindacabile giudizio ero stato
Cattivo coniuge d'una amica tua
Mi scegliesti per farmi dir di tuo marito
Cose che ripetesti avendole inventate
Come se io le avesi dette di lui, tra amici comuni
In una casa precisa
“Un perfetto mediocre”
Volesti infliggergli questa ferita nel costato
Celebro qui tutta la precisione
Della femmine perversitá
Per fare ammenda dei miei eccessi in lode e per la gloria
Delle donne
Mi piacerrebe ascoltare la tua verione dei fatti un giorno o l'altro
Ma, naturalmente, dopo la morte.

Come se il sogno fosse scritto in strofe regolari

Come se il sogno fosse scritto in strofe regolari
Ogni risveglio notturno significa
Che il corpo si riabitua alla sua idea fissa: il nemico
Monta la guardia dentro di lui
Senza mai chiudere un occhio
Signore e padrone della cittadella conquistata.

Enrique Lihn
Trad genseki

Rue Fontaine 42


Rue Fontaine 41

Rue Fontaine 41

Che è il nome adeguato per un nuovo blog o un nuovo diario o entrambe le cose, ancora non lo so, Rue Fontaine è da intendersi come l'indice, la localizazione geografica, e storica, in una certa misura del Barzakh. Una porta del Barzakh, insomma. E questo vuol dire che in realtá il mio modo di pensare mostra una continuitá che mi sorprende. La sorpresa dipende, credo, dal fatto che io mi sforzo di stare piú attento alle discontinuitá e alle variazioni che alla continuitá. l'anima, (che oggi si suole chiamare mente) è una successione di avvenimenti discreti e non continui, la continuitá è un'illusione. Questo equivale a dire che se si nega la continuitá dell'anima si finisce per riaffermarla come illusione, ovvero, una continuitá vi è e questa è la coninuitá dell'illusione che vi sia una continuitá, mentre la realtá è che i pensieri sorgono come bolle nell'acqua della marmitta in modo discreto, senza logica, senza relazioni e cosí come sono sorti ricompaiono e con i pensieri anche l'anima è sorta come una discontinutá e scoppierá come una bollicina confondendosi nell'acqua del tutto. Ora che ci penso mi pare che anche nel sorgere discreto dei pensieri ci sia una continuitá, la continuitá del loro stesso apparire: i pensieri e gli altri eventi che occorrono nell'anima, occorrono, appunto in modo continuo, non si possono mai arrestare. Sembra quindi che l'anima sia dotata di due ripi di continuitá, una la continuitá del'illusione e l'altra la continuitá della produzione.
Comunque alla soglia della vecchiaia comincio ad afferarmi come un naufrago ai tronchi marci di acqua salata alle occorrenze di continuitá. Volevo godermela questa mia vecchiaia cecando i semi a partire dai rami su cui le foglie giá hanno acquistato il colore del rame, avevo fatto, naturalemente, i conti senza il dolore e la debolezza che ora minacciano la mia capacitá di godere di qualsiasi cosa e meno ancora della vecchiaia. Cerco le origini delle mie convinzioni piú profonde, dei gesti e delle decisioni che hanno condizionato la mia vita e che la condizionano. La vecchiaia (incipiente) è come un altipiano. (Ovvero come l'illusione di un altipiano, sembra un altipiano perché è incipiente, poi giungerá a sembrare persino una parete, e credo che finira per apparire come uno strapiombo notturno con il trampolino dell'ultimo salto) da quassú si vedono tutti i sentieri che abbiamo percorso per arrivare fin quassú. (verso i ventanni pensavo che avrebbero finito per delineare una forma, un'immagine, una parola, che fosse il senso della vita, del percorso “Die Linien des Lebens sind verschieden”... ora temo che non sará cosí bello e nitido) e le loro intersezioni. Ho notato che le origini sono spesso un brano che lessi e dimenticai completamente, una poesia, una parola a volte, che non ricordavo ssolutamente piú e che si sono sviluppati come semi appunto in ramificati edifizi arborei. Io parto dalla fogliolina giallina lassú sul ramo tremolante e scendo nel tempo e nello spazio fino a trovare il seme che ha generato tutto questo e quando lo trovo sono sorpreso dalla casualitá di tutto il processo.

mercoledì, dicembre 22, 2010

Georges Ribemont-Dessaignes


Memoria

Considerato, oggi, il passato mi appare come la faccia visibile della luna, con tutto quello che vi si voglia vedere di fantasmagorico e di impreciso. Luci, ombre, figure, La veritá, o quella cosa che si è abituati a chiamare veritá, proprio quella, io non la conosco, la dimentico, non la guardo, non so che cosa sia. Eppure io mo sento capacissimo di scrivere qualche cosa che si potrebbe chiamare un romanzo, una narrazione in cui non appaia assolutamente nessun essere del passato, nessun avvenimento accaduto, ma nel quale i fatti descritti da me e gli esseri che avró fatto agire saranno piú comparabili a ció che esistette che la loro fotografia fedelmente conservata nei ricordi e nei documenti...
Naturalmente tratteró di avvenimenti e faró delle dichiarazioni. Tuttavia non li considererño altro che vecchi vestiti, piú o meno amati di cui ci si ricorsda con una certa emozione, di viaggi compiuti, foto di un album di famiglia, parleró delle cose vissute con il sentimento di farmio capire.
Georges Ribemont-Dessaignes
Avant Dada

trad. genseki

martedì, dicembre 21, 2010

Preludio delle origini

Da cosa sei nato o poeta? Dal tempo e dallo spazio,
Senza principio né fine,
Senza padre e senza madre
Sorgente nel giardino delle origini.
Qualcuno chiede qual è la sua nascita?
Dall'acqua che sgorga dalla prima sorgente.
Oh fontana della memoria, fontana del gran centro della terra
Anche tu nascesti, tu che scorri sui ciottoli bianchi del ricordo,
Di ció che era senza essere, prima del sapere dell'esistenza?
Eccoti voluta arrotolata come una vipera
Sviluppata nella marea amica al sole e alla luna
E presto sfuggente alla mano che si bagna
Al piede che osa
Marciare sull'acqua
Da chi sono nato? Forse dal vento,
Dal gran vento senza pace, senza dimora
Anch'egli nato dagli orizzonti che mai raggiungono
Né la mano adulatrice
Né il piede del viaggiatore che per calmarlo meglio
Maschera la sua marcia in danza e la sua danza in volo.
Dal gran vento con criniera di giumenta
Con dita di foglie morte,
Con grida d'uccello migratore
Dal sonno senza riposo all'ombra dei camini,
Dallo sguardo di fumo,
Dall'amore crudele dei soli estivi
Nelle valli piú ampie,
Informato del sangue degli omicidi e delle lacrime dei lutti
Su pietre, polvere e sudore.
Forse sei nato dalla notte o dal fuoco?
È vero, ho visto le greggi transumanti
Dormire in uno spazio di pacifiche tenebre,
Mentre negli angoli cupi dimenticati dagli uomini
Risplendeva l'infimo miracolo dei versi lucenti.
Davvero ho visto sulle panchine della solitudine
Sulla lenta deriva dello zodiaco,
Intrecciarsi le mani, fondersi gli aliti
Aprirsi i cuori da dove sgocciolava
Un pianto straziante e divino.
Davvero ho visto danzare il fuoco sulla punta dell'erba
Correre sulle colline e godere della fuga del mistero,
Vegliare come l'amore in preda al ricordo
Nell'atrio del silenzio
Attorto dalle delizie del suicidio e i deliri,
Scaturito dal mio respiro con la fiamma che lo divora
E con cui nutre la sua fame di troni, sangue e contrade
Fino a vomitare da solo le proprie ossa, la pomice e lo zolfo
E la cenere della sua potenza.
Davvero in qualche eden di noncuranza
Ho visto lucciole accendersi tra balsami notturni
Fuochi fatui di assenza e mancanza
Sogno noncurante di raggiungere con due strilli il silenzio.
Forse, peró nacqui dalla terra,
Come un'erba, un grillo, una pietra
Come un¡eco da tempo dimenticata in un pozzo
Che germina di colpo quando la linfa cresce
E svapora sospiro promesso alla rugiada,
Liana virtuale aspirata dalle stelle,
Fuori dal tuo ventre, peso del cuore, terra mia.
Eccomi in equilibrio tra due forze
Danzatore effimero
Per un eterno giorno
Per un amore eterno,
Gioiello leggero impermanente
Per la vita eterna
Per la morte eterna
Ammutolisca la domanda posta!
Fratelli, sono ma giammai non naqui.

Georges Ribemont-Dessaignes
Trad. genseki

Matthijs Vermeulen - Prélude des origines (1959)

sabato, dicembre 18, 2010

Olivier Messiaen - Desseins éternels

Tra i fiori degli ontani

Altri vivrá forse di mercoledi altre mattine
Io i miei mercoledi gli ho persi con l'inverno
E con la solitudine. mercoledi di mercato
Senza treni, mercoledi al caffé pensando
Al tuo stupore di vedermi nello specchio
Dove custodisci tutte le prospettive
Mercoldi di fusarie e di anemoni
Mercoledi tra tricoloma e muscaria
Mercoledi stringendo la tua crinolina
Domando i tuoi fianchi sul materasso di rame
Mercoledi fiutando benzina all'angolo del sicomoro
Mercoledi spiando i tuoi piedi
Desiderosi di tacco e cerniera
Mercoledi pisciando nel lavabo
D'una stanza nemica senza rami
Il melo alla finestra era solo un fantasma
Tu cantavi tra i fiori degli ontani.

genseki

Nel tuo fiume

Invano avevo cercato di guadarti
Coscienziosamente avvolgendomi i gins
Al di sopra la caviglia
Poi finivo sempre per inciampare e sommergermi in te
Nel tuo fiume
E andare in letargo come uno di quei caimani
Che avevano fatto indigestione di tartarughe
E non avevo abbastanza lacrime
Per confluire nel tuo fiume
Per esserti affluente del tuo corso torrentizio
Per fondermi nella tua corrente principale
Accarezzato dalle tue anguille
Avevo nausea invece, mi trascinavi,
Come un travicello per i tuoi mulinelli
Invano cercavo la pozza, lo stagno
Invano tendevo le mani ai rami degli ontani.
Ero grasso, maledizione, e nudo,
Ero la tua balena d'acqua dolce
Su di me si posavano anche gli aironi
Rosa e cinerini, non avevo mai avuto
La destrezza necessaria per farmi acqua
Cataratta delle tue angosce, cascata dei tuoi soprassalti
No poco a poco andavo evaporando
Tra le tife e i canneti nella carezza di quel sole
Che portava al pascolo tutte le sue nuvole.

genseki

gemini e apollo

Cosa fosse poi quel nostro discorrere da un equivoco all'altro
Quando in fondo quello che cercavo
Era solo tepore, luce di un giorno feriale
Minestra sorbita lentamente col cucchiaio
A radio spenta le ciabatte della vicina di ballatoio
Le tue labbra sapevano allora di zinco, le tue dita
O le tue dita intorno a tutti quei bicchieri
Come fuscelli tirolesi mi richiamavano
Alle estati alpine dell'infanzia
Quando ero grasso e felice e solo come una felce
E gemini e apollo riempivano il cielo notturno
Da dove sei venuta fuori, da quale mattino
Da quale sciopero dei tram o dei treni
Da quale dei tanti miei mercoledi all'alba
Fragranti di soltudine tra i bagolari?
La tuta del mercoledí era davvero rosa?
I tuoi seni odoravano di posacenere
Di tappo di bottiglia di birra dell'infanzia
I tuoi capelli stingevano sul sofá
Nell'umiditá richiamo per i merli.

genseki

Ontologia e caffé

Il caffé lo preferivi senza sale
L'ontologia dialettica
Scendevi le scale da anni nei miei sogni
E le tue ascelle erano il nido
O la tana tiepida del mio frugare
L'indivia nel tinello
L'odore di ammoniaco sul pianerottolo
Tutto quanto in una luce di sabato mattina
Vissuto al mercoledi, non pensavo nemmeno
A togliere i tuoi alluci dalle tasche del mio cappotto
Quando dovevo andare al Collegio Docenti
Gli accarezzavo mentre dormivo sul calorifero
Ma comprando il giornale mi dimenticavo il tuo nome
Il tuo indirizzo era quello di un altro portone
Se sventolavi lo facevi da un altro balcone
Il mio desiderio si perdeva tra le antenne
Poi ti incontravo in una nuova latteria
E era sempre una sorpresa vederti tra i ceci
E la mezzaluna fragrante della panissa
E non sapere come cominciare quel discorso
Che si era tane volte interrotto per sempre.

*
genseki

Nascita del canto

Poi sarebbero apparse anche le ali
Sole, sull'orizzonte come una fuga di pioppi
Nel crepuscolo del parabrezza
Come l'arco di un'arpa vulcanica inclinata sulla pianura
E noi due li a tremare
Con i palmi madidi delle mani
Con i pollici in astinenza e tutto quel rimorso di bottiglie
Sulla sporcizia dimenticata dei tavoli
Immonde nella loro diafana immensitá
Ci minacciavano fin nel ventre del bagagliaio
Dove ci stringemmo tra catene e ruote di scorta
Nel desiderio di un'altra nascita canora.

genseki

Honegger: Une Cantate de Noel (Christmas Cantata) (1/3)

Da altri vertici mossa, sibilando, fragorosa
Come lava che nel suo cammino sfrigolando soffoca
L'ascoltavo avanzare ma il nero, l'oscuro
Non era il manto, non l'avvolgente panneggio
Che rifulgeva notturno; l'ossame avariato
Che ticchettava nella sua voce e quell'odore di farina
Che finiva per disfare anche la speranza.
Non lasciavano spazio alla serenitá selvosa
Che percepivo salire dal muschio, dalla foglie di betulla
Gioielli sul velluto delicato degli aghi di pino.
Alle spalle, come l'alito dell'attesa, gialla
Come l'avorio dello sfinimento con passo arenoso,
Tra gli anemoni marciti delle primavere che mancammo
Scendeva come fuoco incerto serpeggiante tra trucioli,
Tra rovi, da vertici ove i Baal sanguinavano dai ventri
Gonfi e crudeli, la maledizione sfinita
Che evocammo sul nostro abbraccio
A sigillarne il patto infecondo come monete
Prestate l'una all'altra nel mutuo d'usura dei corpi.
Cosí ci avrebbe trovati come il morto diadema
Nella tomba dello scrigno vuoto tra le risatine dei sorci
E lo schiamazzare dei corvi pochi istanti prima
Che tutto il bosco crollasse e la realtá del male
Si svelasse nella sua nausea d'oceano.

genseki

Al confine, al silenzio

Era nel punto di intersezione del sogno
Che perforava la palma il centro di quella e altre reti
Staccionate, filo spinato
altri limiti e canalizzazioni come vene
Dello spazio inclinato, del manto, della pelle
Era nel punto in cui il sogno confina con il simbolo
Sotto quel lnguaggio frondoso, la brezza di trillanti ghirlande
E l'anima che il pollame lascia cadere nelle piume bianche
Che avanzava verso il proprio sogno
E che in esso avanzanza anche quel nulla
L'altro, il senza tempo, l'oscuro volto di luce assoluta
E non era che il suo corpo addormentato
Quello che carbonizzava le parole, che si assopiva nei suoi brividi
Che si faceva eterno nel panico e poi nell'alito
Piú fermo ancora convinto in se stesso posto
A guardia del suo concepirsi di fronte alla possibilitá
Al confine, al silenzio.

genseki

giovedì, dicembre 16, 2010

A bocca spenta

Chi potrebbe dormire con i piedi
Anche ravvolti nel camicione
Come fossero due baci qualsiasi?
I piedi lasciali fuori dal tuo sonno.
Nel mio posso accogliere anche loro
Con tutti gl altri pesci
A bocca spenta.

genseki

lunedì, dicembre 13, 2010

Le tue calze

Le tue calze stese sul balcone
Trionfavano dell’angolo del quinto piano
Ma il vero tepore era quello dentro
Il tinello, il latte, il sapone, lo zinco
Ti guardavo dormire senza piedi
E aspettavo il freddo del mattino
Per godere di un altro caffè
Della vista delle ortensie disseccate
Dal vetro del tram sognando arance
Su fino alla collina del cancro
Pensavo al tuo fianco stanco
Orizzonte del mio riposo.

genseki

Achim von Arnim


Breton su Arnim

Parte I

Breton su Achim von Arnim

All'epoca in cui il ventenne Achim von Arnim studiava fisica e matematica all'universitá di Goettingen si affrontano due concezioni scientifiche l'una delle quali assai recente, che lungi dal tendere ad avvicinarsi intraprendono l'una contro l'altra una lotta mortale. Nelle circostanze storiche in cui tale dibattito si svolge, per uno spirito agile e ardente come quello di Arnim non è possibile la neutralitá. Per renderlo comprensibile non mi resta che ripercorrere le peripezie a prima vista curiose del dramma mentale che allora si rappresentava sotto l'apparenza puramente intellettuale di imporre una scelta tra due metodi, quello sperimentale e quello speculativo che portano con sé la necessitá di scegliere tra due spiegazioni profondamente discordanti del mondo e della vita.
Non si insisterá mai troppo sul ruolo che la fisica ha svolto nelle preoccupazioni dei romantici. La ranocchia scorticata che, inaspettatament nel 1786, sul tavolo di Galvani, compie il movimento ben conosciuto, tenendo conto della straordinaria rivelazione che ha rappresentato per loro, dell'aiuto che ha loro donato nella percezione di un mondo nuovo, subito agghindato di mistiche grazie e dell'abitudine che essi acquisirono di mettere il loro cuore a nudo, proprio come il suo, ebbene, poeticamenente quella ranocchia potrebbe essere considerata il loro totem. Ora, quando nell'anno 1800 Arnim entra nel circolo universitario di Iena, è notevole che il suo genio lo attragga verso Ritter che, movendo dall'esperinza di Galvani giunge, con Volta, di cui ignorava le ricerche, a mettere in luce alcuni fenomeni suscettibili di confermare la scoperta del magnetismo animale. La figura di Ritter, effettivamente sembra la piú attraente del momento. Fisico, ma anche cabalista, teosofo e poeta, Ritter, come egli stesso narra nei suo “Frammenti” era afflitto da un tic bizzarro che si presentava come un folletto e che ricorda molto da vicino la “scrittura automatica” dei medium. Tale tic lo obblgava a interrompersi continuamente mentre scriveva e ad annotare sui margini le cose piú buffe. Questo surrealista ante litteram diviene dopo Mesmer il piú grande apologeta del sonno, grazie al quale, dice, “L'uomo ricade nell'organismo universale, è davvero onnipotente fisicamente, si muta in un mago”. Egli si concentra sul magnetismo e sul sonnambulismo. Scrive: “nel magnetismo animale si esce dall'ambito della coscienza volontaria per entrare in quello dell'attivitá automatica, ove di nuovo il corpo organico si comporta come una cosa inorganica e ci rivela cosí, contemporaneamente i segreti di due mondi”. Per farsi un'iea precisa delle sue idee e dell'estensione dei suoi interessi prendiamo in considerazione questa affermazione: “Molti dei miei frammenti non ho potuto pubblicarli, perché nella loro forma primitiva sarebbero apparsi troppo scabrosi, soprattutto uno, composto poche settimane prima del matrimonio dell'autore e che è di tale natura che sarebbe sembrato impossibile che con idee simili un uomo potesse pensare di sposarsi”. A quanto pare si trattava della storia dei rapporti sessuali attraverso i secoli, con, a modo di epilogo una descrizione della forma ideale di tali rapporti, fatta in modo tale che “nessun giudice, nemmeno il piú liberale sarebbe stato clemente con l'autore, nonostante il rigore della dimostrazione”. È significativo che Achim von Arnim, la cui prima opera è un “Abbozzo di una teoria dei fenomeni dell'elettricitá” fosse ospite abituale nella casa di campagna di Ritter a Belvedere presso Iena. È in questa casa che si organizza un “partito anti-schelling” e si attacca vivacemente la sua “Filosofia della Natura”. Ritter considerava il sistema di Schelling “un pezzo di fisica” e considerava il suo autore “incapace di essere un vero filosofo: un filosofo chimico, niente di piú che un filosofo-elettricista”. Alcuni autori menzionano, in questo periodo della vita di Arnim, l'esistenza di una relazione con Novalis. Pare, tuttavia, che si trattase solo di contatti occasionali dovuti ad un legame di riconoscenza che legava Ritter a Novalis che l'aveva scoperto e strappato alla sua condizione miserabile. Nonostante le sue frequenti e sospette incursioni nel mondo metafisico, tutto fa pensare che uno scienziato di gran classe come Ritter godesse, agli occhi di un giovane formato al rigore metodologico e di temperamento curioso come Arnim, di un maggior prestigio che un poeta mistico smarrito a un punto tale da rimproeverare a Fichte di non aver posto l'estasi alla base del suo sistema. In ogni modo la morte di Novalis nel 1801 rende la sua influenza possibile su Arnim temporalemente molto limitata. Sappiamo inoltre che Arnim, che subito si interesó ai lavori di Priestley e di Volta, e a quelli del fisico umorista Lichtemberg, e il cui protestantesimo era sensibilmente kantiano, non intrattenne nessuna relazione personale con Schelling. Siccome fu tra i primi a condannare la su “Filosofia della natura”, non poté, necessariamente seguire il suo autore attraverso i capricci della sua evoluzione e neppure, a maggior ragione accodarsi quando l'opportunismo, che per meglio sedurre Schelling aveva preso la forma di caroline Schlegel, gli dettó la conversione alle idee piú nebulose di Ritter e di Jacob Boehme che impregnavano il neocatolicesimo di allora.

mercoledì, dicembre 08, 2010

Nei giardini di Adone

Nei giardini di Adone coltivo vane parole
Effimere come teneri piselli -
Che il gelo di febbraio non permette,
E il timido bramito di rampicanti
Invano alzano al luminoso melo -
Prosperare fino al pallido verde
Che riassume l’orto nella sua delicata
Finita tessitura sonora, fuga e contrappunto
Tra sperma e clorofilla
Persino la lavanda geme il suo profumo
Nel giocondo canestro pronta
A morire avendo appena il tempo
Di rammemorare l’amido e la zampogna.

genseki

sabato, dicembre 04, 2010

La voce

È la parola che alberga la voce
La mia parola rifugio al tuo discorso
Al canto forse, ti modula la bocca
La tua parola suscita il mio fiato
Non lascia dimorare la mia lingua
La parola è rifugio della voce, canestro
Ove riposa in frequente sussulto
Fragranza è la voce nella spazio del dire
Nella morta parola sovrana voce sparge
Polline e strilli demenza e campane
Fino a che tutto il suono sia incarnato.

La paura

Era d’asfalto

Era d’asfalto la lingua bianca
La lingua della paura
E il prato era oltre quel nastro
Quel bianco che lecca cento metri di denti
Ê pane la mia paura, è mollica
Tu sei il suo latte
Gocciola tepore con roco fiato
Scaldato al rosso degli scogli
Era d’asfalto la paura
Quella bianca sul prato
Quella che confonde i pioppi con le gocce
Con un asfodelo in mano
Davanti al parabrezza hai aperto
La porta della paura
Nel tripudio sconcio di mille denti.

Briggio: La Stazione

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venerdì, dicembre 03, 2010

Mouchette

I giardinio d'Adone

Fioriscono nei giardini d’Adone
Sillabe, corolle di senso , effimere
In vimini e coccio
Versi maschere rime e tanti altri petali
Soavi al tatto, al credere; fuori
Incede alta foresta col ritmo del Vero
Brucia corona di specchi ogni chioma
E parla solo chi brucia
E cenere consola.

Raccogli viandante nel palmo della mano
Le reliquie di questo incendio
Che fu occhio e cuore
E sangue feconderá il tuo giardino
Fino alla prossima resurrezione.

Nessuno che sia saggio
Protegge la parola, la sua dal fuoco
Lascia che dilegui in altra bocca
D’altri ancora tormento e sospetto

Fioriscono ancora nei giardini d’Adone
Rime e parole, giá cavo il respiro si fa fiamma
D’altri petali, d’altre carezze e cenere
Ove sospetto ora foresta ora morte.

Lo sciamano di Briggio

Anche Briggio come alquanto altri barrios valligiani possdeva il proprio sciamano, colui che era incaricato di tramandare le gesta ella stirpe e la continuitá delle tradizioni e della parlata. Lo sciamano del barrio di Briggio aveva un nom benedetto, dorato: era infatti chiamato Abbondio, Abbondio Agatupolo e tutti nelle stradine strette e scivolose, cui l’umiditá quasi perenne conferiva odore di muffa, muschio e bollitura di cavol con mosto solevano designarlo con rispetto, o a volte con mal disimulata stizza Mastro Abbondio. Di origine forse levantina giunse nel barrio come calafato e fattosi ginnasiarca si elevó poco a poco con le sole sue forze fino alla prestigiosa carica di sciamano che nessuno per lunghissimi anni pensó mai di contendergli. No, mai fu sfidato Mastro Abbondio. Di modesta statura e carnagione scura aveva la fronte scolpita da tre profonde rughe che si accentuavano quando assumeva il fiero cipiglio con cui era solito presentarsi in pubblico nelle occasioni ufficiali e nelle festivitá e proprio nel centro delle tre rughe come un punto di intersezione un pronunciata prominenza callosa, come una specie di piccolo corno.
Si fissó nella memoria del giovin Dreiser Cazzaniga, tale prominenza, come marchio del sapere e della cultura a tal segno che quando giá era uno studioso, onesto adolescente non poteva figurarsi Cicerone, Patone o Aristotele stesso senza una pronuncatissima protuberanza frontale come unicorni, insomma del Parnaso. Voce aveva roca e carnosa per lo smodato uso di nicotina che ingiallivagli altresí le falangi dell’indice e del medio della mano destra. Gran parte della sua vita era dedicata alla stesura di una monumentale “Historia Barrii Briggi” grazie a una cospicua documentazione messagli a disposizione dal fratello, persona grigia e da tutti ignorata nonostante i somigliassero come due gocce d’acqua, forse proprio pe l’assenza del corno di Mastro Abbondio. Della sua maggiore fatica soleva egli dare pubbliche letture in molto contate occasioni, sfogliava allora davanti agli attoniti briggesi immensi fasci di scartafacci, borbottando con voce roca che si confondeva nel fruscio pergamenaceo senza mai iincontrare quelloche cercava. Queste letture non erano lette perché non trovava mai quello che aveva intenzione di leggere. Alla sua morte non fu possibile trovare traccia dell’opera sua maggiore, nemmeno poche righe che si potessero ad essa attibuire. Tra colpi di tosse e arzigogoli delle mani egli riusciva, tuttavia di comunicare ai briggesi la tesi principale che aveva scoperto e dimostrato. I briggesi erano originari di Trebisonda, in Asia Minore ed erano giunti nell’umido barriio chiamati da un rdine monastico del luogo per la loro perizia artigianale nella produione di oggetti sferici, biglie, perle, pelote e palle. Adduceva come prova di questa teoria il fatto che nella parlata briggesi si trovassero elementi celtici. Il fatto che a Trebisonda non vi fossero celti e che anzi un proverbio di Cappadocia citato da Bessarone suonasse: “Raro come un celta in Trebisonda” non turbava i briggesi che non sapevano chi fosse Bessarione e non avevano mai udito parlare di Cappadocia. L’ordine monastico poi aveva la sua sede in Marsiglia ed era stato fondato molti secoli dopo l’esodo preteso dei briggesi da Trebisonda secondo lo stesso mastro Abbondio; neppure questa contraddizione aveva peró il potere di scuotere la ferma fede che gli abitanti del barrio riponevano nel loro sciamano, vuoi percé non la notavano, vuoi perché il fatto di potersi fregiare di tale esotica provenienza gli faceva sentire superiori agl altri villani che appartenevano al luogo dove erano spuntati come funghi dall’umido sottobosco.
Soleva Mastro Abondio abbellire il suo discorso con citazioni in antiche, illustri lingue straniere e soprattutto in castigliano. Grande e amara fu la sopresa del giovin Dreiser Cazzaniga quando, avendo appreso egli il castigliano, dovette rendersi conto del fatto che le citazioni di Mastro Abbondio non solo non erano in castigliano ma in uno scorretto gagliego, ma che nemmeno il loro significao coincideva con quello che Mastro Abbodio gli attribuiva. La figura dello Sciamano cadde fragorosamente nella mente di Dreiser Cazzaniga laciando il suolo cosparso di cocci taglienti. Per lunghi anni Dreiser Cazzaniga irrise e rabbiosamente denigró Mastro Abbondio e l’opera sua e solo dopo che vari lustri accumularono sulle sua spalle dolore e delusioni comprese che Matro Abbondio aveva svolto nel Barrio una nobile e amara funzione, non per le sue conoscenze e per la sua cultura, ché non possedeva né le une né l’altra, ma per aver saputo scolpire nelle anime dei giovani briggesi il rispetto per il sapere e l’amore per la propria terra e la propria stirpe facendo in modo che si sentissero parte di una vicenda che superava le loro vite individuali e affondava nei secoli, che si sentissero un popolo, pochi anni prima che la televisione finisse pre traformarli definitivamente in una plebe stracciona dipendente dall’annona.

venerdì, novembre 19, 2010

Per i tre grandi maestri del realismo drammatico del XVII secolo, Caravaggio, Rembrandt e Bernini, lo spechio è un'utensile quasi altrettanto importante del pennello, o lo scalpello. L'obiettivo consisteva nello scongelare l'espressione della passione, liberandola dalle restrizioni imposte dai modelli classici; nel dotare della maggiore autenticitá possibile la mobilitá naturale del volto e i gesti del corpo. E mentre si convertivano nei loro propri modelli per portare a compimento questo processo di animazione, scoprirono l'intensitá della propria identificazione con la storia che raccontavano. Autoritraendosi, gli artisti si trasformavano in attori e pubblico contemporaneamente, i produttori e consumatori della propria rappresentazione.
Simon Schama
Il potere dell'arte
Bernini

Memorie di Dreiser Cazzaniga

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Memorie di Dreiser Cazzaniga

L'Africa di Dreiser Cazzaniga

Come avvenne che Dreiser Cazzaniga nel pieno della sua amara goventú finisse nel Cuore Tenebroso del'Africa Equatoriale? Neppure lui riuscí mai a chiarirselo bene. Per imitare Rambaldo? Per idealismo? Per paura? Per desiderio di avventtura? La sola cosa che Dreiser Cazzaniga mostró sempre di sapere con sicurezza fu che la decisione sciagurata la prese durante un'escursione con Beaumont in un mattino fragrante tra l'abetaia e il mare dell'adolescenza mentre presentiva la discesa del Dio ladro e medico di cui a quei tempi adorava le tracce lievi sui prati e l'arena: Hermes.
Poi la decisione la mantenne. L'Africa di Dreiser Cazzaniga fu una discesa iniziatica nelle viscere della sua pretenziosa ingenuitá. Lui, a volte la chiamava proprio stupiditá. Dreiser Cazzaniga era stato programmato per essere un perdente (lo abbiamo giá visto).
Il viaggio comincio nei Paesi bassi cattolici, Dreiser Cazzaniga ricorda di come fu portato quasi di peso dall'entusiasmo degli amici fino al'aereo. Era il primo aereo dela sua vita e non capí niente di quello che doveva fare per imbarcarsi. Se lo trovó fatto, lo fece, insomma senza poi potersi ricordare quello che aveva fatto. Poi fu una locanda aeroportuale piena di ubriachi calvi provenienti dalla poderosa isola di Albione che vomitavano e pisciavano per i corridoi e sugli ascensori. Piú morto che vivo, in una mattina di riflessi di cromo raggiunse il velivolo che doveva portarlo in Camerun. Del volo non ricordó mai pú nulla salvo lo scalo a Kano per problemi di stabilitá dovuti all'infuriare del vento Rosso, l'Harmattan. Restarono ore nell'aereoport che doveva essere rovente avvolti in una fiammegiante nebbia di sabbia rossa. Il suo casuale compagno di viaggio era un bulgaro che gli spiegava in una specie di inglese (Dreiser no capiva l'inglese) come per vincere la paura dell'Africa la cosa migliore fosse l'acquavite di ginepro di cui aveva una bottiglia in ogni tasca della sahariana. (Dreiser Cazzaniga anche se non capiva l'inglese capiva perfettamente quello che il bulgaro voleva dirgli in quello che egli credeva fosse inglese). Poi l'aereo decolló e dopo una serie infinita di vuoti d'aria finalmente atterró a Douala. Una nube di calore insopportabile e umido come quello del calderone di una antica tintoria colpí e avvolse il poverso Dreiser Cazzaniga mettendo al tappeto quel poco che restava del suo buon senso giá screpolato da ore e ore di ansia intervallate da raffiche di paura. Nel mezzo di una folla frenetica egli cominció a distribuire scellini, franchi, corone, talleri a qualsiasi sbirraccio gli si avvicinasse con fare minaccioso e si ritrovó senza bagaglio in una cella di fango secco dal suolo di fango pisciato in mezzo a topi e escrementi e altri insetti in qualche luogo attorno all'aeroporto di Douala. Dopo un tempo che non seppe mai calcolare nel ricordo la porta si aprí e un uomo entró gridando: “Dreiser! Dreiser!” Distribuendo pacche sulla spalle a tutti gli sbirracci e sorrisi e sigarette, fece cenn a Dreiser Cazzaniga di seguirlo. Dreiser Cazzaniga lo seguí. Era un gigante canuto dalla dentatura gialla e nera, portava una camicia che la settimana precedente aveva dovuto essere bianca, e una collana di denti di varie fiere anch'essi gialli e neri in mezzo ad altri feticci pelosi, stivali messicani, la fondina di una pistola in cui teneva le chiavi della macchina e il guinzaglio di uno dei suoi cani. Dreiser Cazzaniga entró nella sua macchina come si entra in un frigorifero, la barba gli si ricoprì si brina. Avrebbe trascorso i primi venti giorni in Africa tormentato da una violenta bronchite. L'interno della macchina era pieno di denti, conchiglie e feticci pelosi che pendevano sporchi da ogni gancio disponibile. Sui sedili giacevano abbandonati porno di Taiwan e film di Kungfu di Hongkong. Dreiser Cazzaniga si abbandonó alla spossatezza che precede la morte bianca mentre il veicolo si apriva il passo in un delirio di claxon e di mani tese che il Señor Zocco si affrettava a colmare di banconote stropicciate. La casa di Don Zocco era circondata da altissimi muri, cani rabbiosi, servi servili, siepi spinose. Dreiser Cazzaniga en varc'il cancello con il rombo rovente della febbre nelle tempie. Un servo in mutande trateneva a stento un cane dai denti coperti di una leggera bava rosa, Dreiser Cazzaniga non aveva piú forza per avere paura. La sua stanza gli fu mostrata e Don Zanco lo invitó a trascorrere la serata, se avesse voluto con i suoi invitati in piscina. Dreiser Cazzaniga declinó l'invito, ovviamente, Un motore di Boeing ronzava senza sosta nella sua testa, lo assordava lo spingeva a fumare una sigaretta dopo l'altra.
Solo. Cercava di dormire. Il motore non si spegneva, la notte era come un'immensa spugna caldissima e profumata, che ottundeva i sensi e lasciava solo il sussulto di sporadici palpiti di paura. Dreiser Cazzaniga cercó un po' di fresco guardando fuori dalla finestra. a finestra dava sulla piscina, nella piscina Don Zanco e i suoi amici saltavano tra gli spruzzi circondati da una decina di schiamazanti ragazzine nude. Sembravano trainati dalle punte dei loro sessi turgidi sui forti corpi spossati dal gin. Dreiser Cazzaniga rinunció a scendere in piscina, si rassegnó al motore del Boeing, si lasció cadere sul letto e cadde in un doloroso sopore. Poi il motore si spense, Dreiser Cazzaniga precipitó con terrore nel nulla del suo silenzio interno. Si riseveglió gridando nel silenzio azzurro della sua prima mattina africana, nell'illusione tanto dolce che i grandi alberi che incorniciavano il paesaggio che si vedeva dalla finestra fossero scaturiti di colpo dalla terra proprio nel corso di quella sola notte.

Memorie d Dreiser Cazzaniga




Il Barrio di Briggio ove Dreiser Cazzaniga trascorse la prima gioventù.
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Il folle melograno

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Il folle Melograno

In questi cortili bianchissimi dove spira il vento del sud
Sibilando per le stanze dalle ampie volte, ditemi: è il folle melograno
Che saltella nella luce spargendo la sua risata fruttuosa
Con ostinazioni e sussurri di vento? Diteni, è il folle melograno
Che freme in foglioline novelle con l'alba
Illuminando tutti i colori con un brivido di trionfo?

Quando nei campi ove si risvegliano nude le fanciulle
Mietono con bionde mani il trifoglio,
Percorrono i confini dei loro sogni, ditemi, è il folle melograno
Che insospettabilmente colloca nei suoi freddi panieri le luci
Con nomi traboccanti di gorgheggi? Ditemi,
È il folle melograno che combatte il coperchio di nuvole del mondo?

Il giorno che la gelosia adorna con sette tipi di piume
Abbbraciando l'eterno sole con migliaa di prismi
Accecanti, ditemi, è il folle melograno
Che afferra una criniera con cento frustate nella sua corsa
Mai afflitto mai brontolone? Ditemi, è il fole melograno
Che proclama a gran voce lo spuntare della nuova speranza?

Ditemi è il folle melograno che saluta da lontano
Agitando un fazzoletto di foglie di fuoco fresco
Un mare che sta per pertorire mille e una barca
Che onde che vano e vengono mille e una volta
Su spiagge inodore? Ditemi, è il folle meolgrano
Che fa scricchiolare le alte brigli nella trasparenza dell'etere?

In alto con grappolo glauco che s'incendia di festa
Arrogante, avventato, ditemi, è il folle melograno
Che fa scoppiare in luce nel bel mezzo del mondo i temporali del demonio?
Che estende da parte a parte la nuca di zafferano del giorno
Intrecciato con sparto? Ditemi, è il folle melograno
Che sbottona in fretta e furia la seta del giorno?

Sottoveste per il primo d'aprile e cicale a ferragosto
Ditemi, quegli che gioca, che infuria, che confonde,
Agitando come minacce le sue cattive ombre nere
Versando in grembo al sole uccelli inebrianti
Ditemi, colui che mette ali aperte al petto delle cose
Al petto dei nostri sogni piú profondi, è il folle melograno?

Odysseas Elytis
Orientamenti
Trad genseki

giovedì, novembre 18, 2010

Poesia dell'addio

Il sole sbriciola la sabbia bianca del cortile
Le palme agitano la criniera come un grido
È bene che tu beva il vino del disprezzo
Prima dell'addio
Non troverai un altro amico
Quando giungerai
Alle porte di Hûrqalya.

genseki
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Memorie di Dreiser Cazzaniga

Dreiser Cazzaniga e il macinino

Fin dalla piú tenera infanzia Dreiser Cazzaniga ebbe una percezione chiara di quelo che fosse l'immortalitá. Lui l'immortalitá la percepiva nelle cose, negli oggetti piú semplici che andava scoprendo in casa della Nonna Violante detta la Dama Azul. La casa della Dama Azul aveva due colori bellissimi, l'arancione della cucina e l'azzurro della stanzza da letto. Tutti i mobili dela cucina erano dipinti di un arancione solare e le gambe delle sedie e dei tavoli erano arancioni, il sole che entrava come a fiotti dalla finestra incorniciata di gerani esaltava il canto luminoso del colore, lo faceva esplodere negli occhi. La dama Azul, come era allora costume delle vecchie signore del Barrio aveva i capelli azzurri, e l'azzurro era l'altro colore della case, il colore che dominava nella stanza da letto freschissima in cui Dreiser Cazzaniga dormiva, leggeva e sognava. Dal soffitto pendeva una curiosa lampada che emanava una pallidissima luce azzurra che a Dreiser Cazzaniga faceva pensare alla morte. Non è che lui sapesse che cosa fosse la morte e che cosa avesse a che fare con quella fievole luce azzurra in cui ad osservala bene parevano predominare i toni verdi, un sottile verde cobalto, tuttavia le due immagini, la lucina e la morte era incatenate una all'altra. Molti anni dopo, la lucina azzurra avrebbe iluminato due grossi piedi pallidi e sporchi che spuntavano da una coperta troppo corta su di un letto troppo corto. Cosí sorgeva la morte agli occhi di Dreiser Cazzaniga, Gli oggetti della cucina immersi nela loro atmosfera di agrumi, invece, erano assolutamente immortali: erano immortali i piselli che egli aiutava a sgusciare traendol dal sacchetto di spessa carta marroncina, erano immortali gli stofinacci bianchi con l'impronta di qualche bruciatura, era immortale il macinino del caffe, era tutto di legno e quando si apriva il cassettino emanava un odore profondo che stordiva di piacere, era immortale il mortaio per fare il pesto di marmo grigio con le sue venuzze azzurre come i capelli della nonna Dama, era la grande radio di legno con le sue due pesanti porte di legno e tutte le colonnine che separavano gli altoparlanti, il vaso del basilico alla finestra la grattugia del parmigiano e quella ancora piú temibile del pecorino sardo che la nonna Dama Azul, la Violante benedetta ripuliva con infinita pazienza, con la lama di un colello per estrarne anche la piú piccola briciola di formaggio. Tutta questa meraviglia avvolgeva gli oggetti della cucina che sorgevano dal sempre, dall'evidenza, davanti a Dreiser Cazzaniga che li percepiva come meravigliosi proprio perché nel momente in ciu gli apparivano gli apparivano come rivelandosi sullo sfondo di una preeseistenza, un sempre che era l'evidenza stessa della loro permenenza. Dreiser Cazzaniga, bambino rabbrividiva di gratitudine per l'esistenza del mondo e per la sua indubitabile eternitá.

L'eccentrico

L'eccentrico

Questa volta non avevo vie d'uscita
La cosa migliore era fare
Come tutti gli altri
La gente del villaggio non avrebbe capito
Nemmeno gli artisti della capitale,
D'altra parte, nessuno avrebbe capito
Lo sapevo bene.
Sarebbe stato beffardo, elegante,
Ma anche un tenero dono di speranza
Se non fossi stato sicuro che sarebbe passato inavvertito
Non restava piú nulla da esaminare,
Il tempo per la riflessione era trascorso.
Avevo stabilito il tempo e il luogo.
La veritá è che avevo già da qualche tempo
Deciso di cominciare ad invecchiare,
Per non dare troppo nell'occhio.
Qualche pelo bianco nella barba,
Passeggiare con il bastone, e tanti altri piccoli dettagli
Per rendere il tutto piú credibile.
Bastava già.
La decisione l'avevo presa. Sarei morto come tutti gli altri
Non avevo ancora deciso di che
Ma sarei morto, che diamine.
Proprio come mio nonne, il tempo dell'immortalitá
Non era ancora maturo, la societá non era pronta
Tutti erano tanto abiuati a morire
Tutti erano troppo abituati a morire,
Ci sarebbero volute generazioni per cambiare questa abitudine,
Questo costume tanto radicato
Se non fossi morto avrebbero
Finito per ammazzarmi
Sarei morto allora, da solo. Dovevo cercarmi un assasino
Su Facebucco o goggole.
O un'assasina che mi istillase goccia a goccia
Un veleno tiepido
Un estratto di anime marcite e peli madidi
Sarebbe stato un po' come fare l'amore.
Dovevo ricordarmi di controllare i trigliceridi
Chi rinuncerebbe a morire sano,
Senza cirrosi o colesterolo?
Prima di morire dovevo smettere di fumare
Fare lunghe passeggiate e rinunciare alla pancetta fritta
Sarei morto senza cancro perbacco
Ma sarei morto, Lo avevo deciso.
Non avevo altra scelta.

*

genseki

Memorie di Dreiser Cazzaniga

La Gaviota di Solentiname

Gli amici di Dreiser Cazzaniga vivenano una doppia vita. Proprio tutti. Una era, appunto la loro vita. L'altra, meschina davvero, era quella che menavano nella scatola cranica di Dreiser Cazzaniga, sottomessi ai suoi bizzarri e cangianti paesaggi interiori. Condannati a lunghe e ripetitive conversazioni. A dire il vero questo destino Dreiser Cazzaniga non lo riservava solo agli amici, ma a parenti, amanti, nemici. Tutti condannati ad avere un doppio nella sua testa e a non poter saperlo.
Il piú condannato di tutti, comunque, era Dreiser Cazzaniga stesso. Egli non poteva, invero, godere, che so io, di una gita per le sierre autunnali che incoronavano dei loro fiammeggianti boschi e dei loro pascoli diamantini il barrio povero e infreddolito, senza dover convocare proprio a quella escursione uno dei suoi amici diletti. Si, certo uno dei tanti tenerissimi compagni che dovevano tradirlo, tutti o per l'abbraccio della Señora de las Aguas Verdes, o per un'avventura in compagnia di Jesús il Verde, una di quelle avventure che non hanno mai ritorno, o semplicemente pugnalarlo alle spalle con un pugnale intinto nel veleno, cosí, solo per vederlo contorcersi dal dolore.
Cosí Dreiser Cazzaniga peccatore cieco e meschinello abbandonato dalla Grazia era condannato a vivere qualsiasi esperienza estetica, amorosa, politica, o sportiva, soltando condividendola con questi doppi ignari. Erano i suoi prigionieri. Erano velieri in bottiglia. La sua mente era la bottiglia. Imprigionandoli, peró Dreiser Cazzaniga finiva per imprigionare soprattutto se stesso. Come vivere con una Dama Bunducchia nella testa che vi va sbavando tutto il parquet dell'anima con la sua bava di alcolista mentre voi le sputate addosso tutto il vostro furioso, inutile disprezo,? Come contemplare un dipinto di Paolo Veronese discutendone tutti i particolari con lo zio Cardinale, quasi catatonico e dallo sguardo a tratti misteriosamente indulgente, mentre gli si dimostrava con logica impeccabile quanto spregevole e straccione fosse il Profeta di Nazareth, per vederlo ridere soddisfatto, guardandosi le unghie pallide sulla veste rossissima macchiata di ragú? Era piú terribile essere la bottiglia che il veliero o il piccione che vi era restato imprigionato. Dreiser Cazzaniga viveva solo se poteva porre tra se e la vita la conversazione immaginale con un doppio. Uno strazio. Penitenza e preghiera avrebbero forse potuto salvarlo Ma questo non avvenne. La bottiglia si ruppe da sola. O meglio fu il doppio di una certa dolcissima bianca gabianella che semplicemente ruppe la bottiglia col piccolo becco crudele aduso a sventrare i piccioni e Dreiser Cazzaniga la vide volare via nel cielo immenso che era anche esso nella sua mente, intendendo cosí che la sua mente non era una bottiglia ma un universo. Rotta la bottiglia tutti furono liberi, felloni e leali, vivi e morti, tutti i doppi ritrovarono la loro libertá e Dreiser Cazzaniga ritrovó il silenzio, la Rosa Blanca, il perdono e respiró finalmente la bellezza del mondo e dell'essere mortali. Dolce Gabbianella. Forse ella fu, o meglio il suo doppio fu, un inconsapevole strumento della Vergine Pastora. Dreiser Cazzaniga amó la di lei libera rotta, la carena, la vena e il palpito per tutta la sua pigra vecchiezza.

Alejandra Pizarnik - Extracción de la piedra de la locura

Alejandra Pizarnik


Alejandra Pizarnik

Ceneri

Abbiamo detto parole
Parole adatte a risvegliare i morti
Parole per accendere un fuoco
Parole in cui poter sedersi
E sorridere.

Abbiamo creato il sermone
Dell'uccello e del mare,
Il sermone dell'acqua,
Il sermone dell'amore.

Ci siamo messi in ginocchio
E adorato lunghe frasi
Come sospiro di stella,
Come onde,
Come ali.

Abbiamo inventato nuovi nomi
Per il vino e per la risata,
Per gli sguardi e i loro terribili
Sentieri.

Ora sono sola
Come l'avara che delira
Su una montagna d'oro -
Scagliando parole verso il cielo,
Sono sola
Senza poter dire a chi amo
Quelle parole per cui vivo.

Da “Aventuras perdidas”

Trad, genseki

Slavoj Zizek

Il Sogno e la rivoluzione

In una rivoluzione davvero radicale il popolo non solo realizza il proprio sogno di emancipazione; quanto piuttosto reinventa completamente il suo modo di sognare.

Zizek

Heiner Müller


Messia

Un annuncio soleva risuonare. Il treno arriverá alle 18h15' e partirá alle 18h20' – il treno puntulamente non arrivava alle 18h15'. Si udiva, invece, un altro annuncio: il treno arriverá alle 20h10'. Questa era la situazione. Basicamente, uno stato di antipazione messianica. Era l'annncio costante dell'imminente arrivo del Messiah, e si sapeva perfettamente che il Messiah non sarebbe mai arrivato. E tutavia è così bello sentire anunciare la sua venuta ancora e poi di nuovo.

*
Heiner Müller
Trad. genseki

lunedì, novembre 08, 2010

Nana Mouskouri - Pauvre Rutebeuf

Povero Rutebeuf

Gli amici
Da Rutebeuf
trad genseki

De' miei amici cos'è avvenuto,
Quale destino avranno avuto?
Accanto a me s'erano stretti
Per tanto tempo, i miei diletti.
Guardali ora sono dispersi
Qua e la sbattuti da venti avversi
Erano amici che porta il vento
E c'era vento alla mia porta
Una ventata li portó via!
L'amore è morto.

Nella stagion ch'ogni albero si spoglia
Quando sui rami non resta foglia
Ma vanno a terra
Nel freddo inverno
La povertà ratto m'atterra
Da tutti i lati per me v'è guerra
L'amore è morto

Non voglio dire in qual maniera
Sono caduto in tale inferno
Con tanta onta
Per quale onda son naufragato.

De' miei amici cos'è avvenuto,
Quale destino avranno avuto?
Accanto a me s'erano stretti
Per tanto tempo, i miei diletti.
Guardali ora sono dispersi,
Qua e là sbattuti da venti avversi;
Erano amici che porta il vento
E c'era vento alla mia porta:
Una ventata li portó via!
L'amore è morto.

Male non v`è che venga solo
A me toccava si amaro duolo
E peggior torto!

Povero senno e povera memoria
Dio mi concesse, il re di gloria,
Povera borsa!
E sul mio culo quando c'è vento
La tramontana ratta s'avventa
Vento a me viene, vento non svento
L'amore è morto

Erano amici che porta il vento
E c'era vento alla mia porta:
Una ventata li portó via!

Pauvre Rutebeuf Léo Ferré

Virgilio

Dall'Egloga I

Perché non resti a dormire da me stasera?
Ho un letto di frasche che ho appena tagliato
Nel bosco
E per colazione ci sonole castagne,
Quelle belle tenere e le mele le la toma di capra.
E poi, lo vedi? I camini fumano giá in paese
E l'ombra dei molti piú alti, guarda come cresce
Nella valle!

trad genseki

José Hierro

Beethoven davanti alla televisione

Tedesco, di Bonn, identificava
Tutti i suoni della natura:
Quello del mae, quello del fiume, quello del vento e la pioggia,
Il canto dell'usignolo, quello dell'upupa e del cuculo.
Un giorno un uccello cantó de egli non udiva il suo canto:
Fu il primo segnle di allarme.
Poi, implacabile, a poco a poco, la sorditá crebbe
Finché la notte sonora lo avvolse.
Da allora compose con il suono che solo immaginava.
Non poté mai ascoltare la sua Messa in Re,
I suoi ultime quartetti, la sua ultima sinfonia.

Ludovico Van Beethoven morí nel milleotocentoventisette
(è quello che pensano i disinformati),
Io, tuttavia lo vidi al Lincoln Center.
Fu negli anni novanta. Sedevamo in poltrone contigue.
Scrissi sul mio programma:
“Concerto eccelente”. Assentí:
“Non si prenda il disturbo di scrivere, ci sento perfettamente”.

Poi, nell'intervallo, parlammo della sua musica,
(Forse si rese conto
Che lo avevo appena riconosciuto.)
Avvisarono che era il momento di tornare in sala
Per ascoltare la Nona.
Van Beethoven si voltó e fece per andarsene.
“Perché proprio ora?” Gli chiesi.
“Torni in albergo. Ascolteró la Nona
In televisione, c'è la diretta”, rispose.
“Permette che l'accompagni?”, dissi.
Si strinse nelle spalle.

Tutto finiva cosí
Seduti davanti al televisore.
Ascoltammo il galoppo della battuta
Sul leggío: Silenzio. Ruggí l'orchestra.
Allora Ludwig Van Beethoven
Si alzó e tolse l'audio.
Il silenzio era allora assoluto.

A volte canticchiava, alzava la mano
Per indicare l'entrata dei timpani
Nello scherzo. Pianse con l'adagio,
Si riprese entusiasta quando il coro cantava
Le parole di Schiller.

Io non udró mai, nessuno potrá
Udire ció ch'egli udiva.
Il concerto terminó. Egli si alzó di nuovo,
Si avvicinó al televisore.
Le camere inquadravano adesso
Il pubblico entusiasta.
Van Beethoven udiva, nel millenovecentonovanta,
Quegli applausi che non poteva udire a Vienna,
Nel milleottocentoventiquattro.

José Hierro
Trad genseki

giovedì, novembre 04, 2010

Pasolini, Jara, Hernandez

Adesso che sappiamo con certezza che il loro sacrificio è stato inutile, che la brutalitá delle loro morti è abisso di abiezione, posto che i loro popoli hanno dimostrato di non essere degni di loro, di non voler percorrere il cammino della dignitá da loro indicato, anzi di volerlo piuttosto ostruire con la spazzatura dei loro consumi infantili, adesso ancora piú grande è l'affetto che vogliamo offrire alle loro ombre senza pace, quando i nostri occhi ancora una volta vedono seccarssi anche le lacrime della speranza e tutto è corruzione, intorno a noi, corruzione dei ricchi come dei poveri, prepotenza dei forti e ahimé anche dei deboli e persino l'odio è inaridito dall'aviditá, dall'usura che siede trionfante alle fonti della vita.

genseki

In memoria di Pier Paolo Pasolini, Victor Jara e Miguel Hernandez

Axion Esti Anigo To Stoma Mou Odysseas Elytis Mikis Theodorakis Grigori...

Odysseas Elytis

Odysseas Elytis

Traduzioni di genseki

“Orientamenti”

Marina delle rocce

Hai sapore di tempesta sulle labbra – Ma dove te ne andavi
Per intere giornate nella dura fanasia della pietra e del mare?
Il vento che porta le aquile spoglió le colline
Spoglió il tuo desiderio fino alle ossa
Le figlie dei tuoi occhi raccolsero la testimonianza della Chimera
Mentre la linea del ricordo rabbrividiva di schiuma!
Dove sta la costa ben nota del piccolo settembre?
Sulla terra rossa con cui giocavi con il capo basso
La macchia d’arbusti delle altre ragazze
Gli angoli dove le tue amiche abandonavano fasci di rosmarino.

Ma dov’era che te ne andavi
Tutta la notte con il duro incantesimo della pietra e del mare?
Ti diceva di misurare nell’acqua nuda i suoi giorni luminosi
Che supina godessi dell’alba delle cose
Che ancora andssi errando per i campi dorati
Col trifoglio della luna in petto eroina del giambo

Hai sulle labbra il sapor del temporale
E un vestito rosso come il sangue
Nell’oro piú profondo dell’estate
Nell’aroma dei giacinti – ma dov’era che te ne andavi?

Quando scendevi verso le spiagge, verso le baie, i ciottoli
V’era fresca erba marina, salubre
Ma sul fondo un’emozione umana sanguinava
Sorpesa spalancavi allora le braccia pronunciando il suo nome
Risalendo leggera fino alla trasparenza delle profonditá
Dove luceva la tua stella marina.

Ascolta, la parola è la sapienza degli ultimi
Il tempo un frenetico scultore di uomini
E sopra il sole ci mette una bestia di speranza,
E tu, ancora piú vicina a lui stringi un amore
Che sa di temporale sulle labbra

Azzurro fino al midollo non potrai contare su un’altra estate
Perché i fiumi invertano il corso
E ti portino indietro da tua madre,
Perché tu possa ribaciare altri ciliegi
O cavalcare il Mistral

Ferma sulla roccia senza oggi, senza domani
Tra i pericoli delle rocce con chioma di temporale
Prenderai congedo dal tuo enigma.

*** ^


Etá del glauco ricordo

Lontano viti e olivi fino al mare
Ancora piú lontano rosse barche di pescatori fino al ricordo
Elitre dorate di Agosto durante la siesta
Con alghe o conchiglie. E quella imbarcazione
Appena varata, verde che nella calma del seno delle acque
Ancora puó leggersi Dio provvede

Passarono gli anni come foglie o ciottoli
Ricordo i ragazzini, i marinai che partivano
Tinte le vele come i loro cuori
Cantavano ai punti cardinali
Portavano i venti del nord tatuati sul petto.

Che cosa cercavo quando giungesti tinta d’aurora
Negli occhi l’etá del mare
Il vigore del sole nel corpo – che cercava
Nel fondo delle grotte marine dei sogni spaziosi
Dove il vento faceva schiuma dei suoi sentimenti
Glauco e sconosciuto, incidendo sul mio petto il suo emblema marino

Con sabbia tra le dita chiudevo le dita
Con la sabbia negli occhi stringevo le dita
Era il dolore –
Era aprile ricordo quando sentii per la prima volta il tuo peso umano
Il tuo corpo umano fango e peccato
Come nel nostro primo giorno sulla terra
Facevan festa le amarillidi – Ricordo tuttavia che provasti dolore
Fu un profondo morso sulle labbra
Un graffio sulla pelle proprio dove resta inciso per sempre il tempo
Allora ti lasciai

E un alito rumoroso sollevó le candide case
I bianchi sentimenti appena lavati lassú
Nel cielo illuminato da un sorriso.

Lo avró allora vicino a me un otre d’acqua immortale
Un abbozzo della libertá dl vento che si agita
E quelle mani tue ove l’Amore si tormenterá
E quella tua conchiglia in cui risuonará l’Egeo.

*** ^


Trad. genseki

Il Fabbro

Era solo il vento che si udiva
Fischiare fuori dalle tapparelle verde oliva
Quel vento che adesso modellava le lenzuola
Le ginocchia si infiltrava tra braccia
E ombelico
Increspava il vino rosso nel bicchiere
Del Fabbro all'osteria del borgo
Conferendogli quel lieve gusto di prezzemolo
Perché era una gabbia non un prato
Una gabbia piena di scintille
Una voliera piena di schegge luminose
In cui si carbonizzava il suo dolore
Nelle infinite cerimonie dell'accoppiamento
Perché era solo in fondo, dentro di lei
Era sempre solo semre piú solo
In gabbia e le tapparelle che sbattevano
Alcuni isolati piú in la come nacchere
Gigantesche aprendosi e chiudendosi
Sulle gengive grige dei davanzali
Come valve di vongole sudate
Non potevano servire da messaggeri
Tra la sua fiamma e quelle ginocchia
Tra la pupilla del suo stupore
E l'affronto consumato dal vento al loro tepore
Quanto vento ha soffiato o Fabbro!
Da piazza Baracca al Kon tiki
Eppure quel ventre. Il suo:
Come ogni altro ventre è rimasto sterile
Vuoto come una bottiglia verde
Sul tavolo zoppo di un'osteria
Mentre il mattino trascina il suo guanciale
Tra i frassini e le farnie in cerca del vento
Che solo puó spegnere l'arsura
Di tutta questa inconsapevoe sterilitá.

*

genseki

Feu de joie

Camera ad ore

Alla locanda dell'Universo alla locanda dell'Aveyron
La metropolitana passa dalla finestra
La ragazza dagli occhi in sol forse verrá da me
Cuor mio
Che mai le diremo quando infine la vedremo
Conta i fiori cara mia
Conta i fiori del muro
Un gerbido è il mio cuore
Attenzione la scala è instabile, salire non è sicuro
Dove sei bella cow-girls
Che pascoli gli amanti lungo il Tigri.

Louis Aragon
Feu de Joie
trad genseki

American String Quartet - Shostakovich String Quartet No. 3 in F Major -...

Feu de joie

Giovedí puro

Strade, campagne, dove correvo? Gl specchi mi cacciavano alle svolte, verso altre paludi.
I viali verdeggianti! Un tempo, ammiravo senza sbattere le palpebre, ma il sole non è piú un'ortensia. La victoria rappresenta un carro allegorico: Flora e quella sgualdrina dalle labbra esangui. Troppo lusso per un prato senza tante pretese: ai pavesi, le bandiere! Tutte le morose saranno alla finestra. In mio onore? Che granchio state pigliando. Il giorno va penetrandomi. Che cosa vogliono da me gli specchi bianchi e le donne incrociate? Gioco o menzogna? Ad ogni modo non è questo il colore del mio sangue.
Sul fiammeggiante bitume di Marte, o bucaneve! Tutti mi hanno letto nel cuore.
Che vergogna! Che vergogna!
L. Aragon
Feu de joie
Trad. genseki

La morte dei castagni

La morte dei castagni era una morte che scorreva
Scorreva nelle vene del latte
Nel grigio di tutti i muschi era una morte
Senza scheletro una morte falena
Una morte di feltro tra le pagine di una morta poesia
Una morte di pane tra mani empie
Una morte di farina avvolta in banconote
Una morte scabbiosa in un letto di rame
La morte dei castagni era anche la mia polvere
Il bruco bianco, quello di gelo sul manto azzurro
Della Vergine Maria la ruggine roca del suo seno
Il dolore dell'assenza del bambino
La morte dei castagni era luce azzurra
Era parrucca di mosche voraci
Era la cipria della vecchia dimenticata
Nella sua stanza dal napalm
Di guerre scadute era il siero sul mio palmo
Il flusso dei tuoi occhi non di lacrime
Non di sale dolce come una candela spenta
Prima del sipario voluttuoso dei profumi
Incenso felci amarezza
Un vescovo verde decapita i piselli
Il loro sangue colloso schizza sui paramenti
La morte era solo quella dei castagni
Nelle mani troppo nodose dei vescovi ortolani.

6 ottobre 2010

genseki

Odysseas Elytis

mercoledì, novembre 03, 2010

Il sole soliarca

Odysseas Elytis

Il battello impazzito

Il battello impazzito che salpa verso il monte
Alzando il gran pavese inizia la manovra.

Ecco l'ancora affonda tra i pini da pinoli
Carica aria fresca per casi di emergenza

Fatta di pietra nera, fatta di sogni tenui
Un capitano ingenuo astuti marinai

Raggiunge il tempo andato attraverso l'abisso
Scarica delusioni e gemiti e sospiri

Vieni Cristo Signore esclamo con stupore
Che battello impazzito proprio un battello folle

Per anni ci ha portato non abbiam naufragato
Con mille capitani tutti li sostituimmo

I cataclismi mai li abbiamo messi in conto
Siam penetrati ovunque sempre ne siamo usciti

Sull'albero maestro sta la vedetta attenta
Eternamente vigile il Sole Soliarca

trad genseki

lunedì, novembre 01, 2010

Nel mio sogno morivi

Nel mio sogno morivi
Finalmente eri vinto
Che non c'era paura
Ormai capivi
Nel mio sogno morivi
Ed era la tua morte
Anche la mia
Nel sogno a me
Infine tu morivi
Libero ormai
Da quanto ti sconfisse
Dolce sconfitta
Ora sapevi accogliere
Ora sapevi accettare l'abbraccio
E del mondo sereno
Nella pioggia
Ascoltare il tepore
Nel sogno a me morivi
Dal tuo sogno fuggivi.

*

genseki

lunedì, ottobre 25, 2010

Marina

Odysseas Elytis

Marina

La menta mi devi donare
Verbena e basilico aspetto
Perché ti possa baciare
Che mai dovró ricordare?

Fonte di vaghe colombe
La sciabola degli Arcangeli
Giardino di bianche stelle
La sotto il pozzo insondabile

Quando di notte ti portavo
All'altro estremo del cielo
Ascendere ti contemplavo
Di Vespero come sorella

Marina verde stella mia
Marina luce vespertina
marina tu colomba mia
E giglio della calura

Trad. genseki

Mikis Theodorakis- Maria Farantouri: MARINA - ΜΑΡΙΝΑ

sabato, ottobre 23, 2010

José Coronel Urtecho

José Coronel Urtecho

Questo è come la luce
Questo è luce
Utile come la luce
Così adorabile
Incantevole

La poesia è di sicuro
Pú interessante e più apprezzata
E certamente piú incantevole
Delle cascate del Niagara, del Gran Canyon
l'Oceano Atlantico
E altri ancora piú ammirevoli fenomeni naturali.
È utile almeno come la luce e altrettanto meravigliosa.
Stravagante
Precisamente perché rende possibile dire
Che non è possibile far muovere una montagna ma una poesia
Puó
Essere mossa ovunque.

Gratamente mostruosa
Perché puó dire sul serio o per scherzo:
"La poesia è migliore della speranza,
Perché la poesia è la pazienza della speranza,
E tutte le immagini vive della speranza,
La poesia è meglio dell'eccitazione, piú deliziosa,
La poesia è superiore al successo e alla vittoria.
La sua serena benedizione persiste
Molto dopo che la piú favolosa prodeza
È decollata come un bengala ed è caduta
La poesia è un animale molto piú afascinante e potente
Di quanti bosco, giungla, arca, circo, o zoo
Possano contenere".

Perché la poesia ingrandice e sublima la realtá:
La poesia dice della realtá che se è magnifica
È pure stupida:
Perché in certo modo la poesia è onnipotente,
Perché la realtá è varia, ricca, potente e viva,
Ma non basta,
Perché è stupida e disodinata o solo a tratti
In modo erratico, intelligente:
Perché senza la poesia la realtá è muta
O incoerente:
È incipiente, come la pompa e la magniloquenza del tuono
I suoi sermoni confinano conl'incessante orazione dell'oceano:
Perché lo splendore e la gloria della realtá
Senza la poesia,
Impallidiscono, come le rosse recite del crepuscol
I fiumi blu, le finestre matutine.
L'arte della poesia rende possibile dire
Pandemonium.
Perché la poesia è allegra e esatta. E dice:
"Il tramonto sembra una corrida.
Un braccio addormentato si sente come soda,
Effervescente".

La poesia risuscita il passato, come Lazzaro,
Trasforma un leone in sfinge e ragazzina.
Conferisce a una ragazzina lo splendore del latino
Converte acqua in vino in tutte le nozze di Cana in Galilea.
Insomma è un fatto che la poesia inventó
L'unicorno, il centauro e la fenice.
Eppoi! La poesia è un'arca perenne,
Un autobus che custodisce, trasporta e partorisce tutti
Gli animali della mente.
Per questo la poesia diede e da la parola al perdono
Per questo una storia della poesia sará una
Storia dell'allegria e una storia
Del mistero d'amore,
Perché la poesia fornisce spontanemene
Abbonantemente e liberamente
Tutti quei vezzeggiativi e diminutivi di cui
L'amore ha bisogno e senza i quali il mistero dell'amore non si domina.
La poesia è come luce è luce.
Risplende su tutte le cose come il cielo azzurro
Con eguale azzurra giustizia.
La poesia, infatti, è la luce del sole del conscio.
È la terra dei frutti del sapere
Negli orti dell'essere:
Ci insegna i piaceri della cittá
Illumna le strutture della reatá.
È una delle cause del sapere e del ridere:
Affila i fischi degli intelligenti:
È come il mattino e i flauti della
Mattina che cantano incantatori.
È come nascita e rinascita della
Prima mattina per sempre.
La poesia è rapida come le tigri, abile come
I gatti, piena di vita come le arance.
E tuttavia è immortale: sempre-verde e
Sempre-in-fiore; molto dopo che i faraoni e i cesari sono crollati,
Continua a brillare e dura piú che diamante,
Perché la poesia è la attualitá della
Posibilitá. È
Realtá dell'immaginazione
Garanzia di esaltazione
Processione di possesso
Attivitá di significazione e
Significazione del mattino e
Maestria di significazione.

La lode della poesia è come la chiaritá delle
Cime dei monti,
Le cime della poesia sono come l'esaltazione delle montagne.
È la consumazione della coscienza nel paese del domani!

Da Pol-la d'anánta, katánta, paránta .... 1970

Memorie di Dreiser Cazzaniga

Il mio Comunismo

Riporto qui queste poche linee di Dreiser Cazzaniga che ho trovato in un taccuino omaggio delle supposte UNIPLUS. Il comunismo cui Dreiser Cazzaniga si riferisce è quello che nei Barrios del Norte si esprimeva soprattutto nelle grandi feste della Salciccia, con la rumba e le ragazzone grassone con le gonne di cotorne a fiori. Qualcuno di questi militanti diventava Alguazile di un barrio, talvolta e ingrassava, la faccia si copriva di rughe sagge con le lacrime agli occhi raccontgava ai giovani della bellezza del grande paese della steppa in cui era stato in torpedone per una visita coatta e oobligata di 4 giorni ai mausolei dei suoi dirigente assassinati da quegli stessi che, una volta mummmificati, affermavano di venerarli.
genseki

Sul mio Comunismo

In realtá io non ho avuto mai un incontro, o un'esperienza di quello che fu davvero il comunismo. Quel comunismo per cui milioni di persone furono disposti a sacrificare tutto anche la vita e ad affrontare morte e disperazione, Quello che ho conosciuto era una pallida immagine dell'originale o, peggio ancora, una tossica contraffazione. I comunisti che ho conosciuto io non erano in grado di sacrificarsi per niente e per nessuno il loro orizzonte mentale era limitato al consumo, nei confini del quartiere o del paese. Comunismo era per loro, al massimo il nome di una rivalsa individuale, di un'individuale promozione sociale, o piú semplicemente, nel caso di quelli che avevano meno capacitá, pura e semplice invidia e risentimento. Il comunismo era generositá e amore. In tutti coloro che ho conosciuto e che si chiamavano comunisti non ho mai visto né generositá né amore. Forse la parola che meglio descrive il tono fondamentale del loro carattere è risentimento. Risentimento che si mescolava di volta in volta con la paura, l'invidia, la grettezza, la rabbia. Il comunismo era passione per la giustizia. Tra i comunisti che mi è toccato in sorte di incontrare non vi era, davvero, passione per l'ingiustizia. Rabbia per l'ingiustizia subita e anche dolore si, certo, ma non passione per la giustiizia da fare (che la giustizia è fare) agli altri.
Così il mio comunismo fu sempre libresco, passione cartacea, pergamenaceo, astratto. Fu, insomma, un equivoco in piú di una vita fondatata sul vuoto e appunto sull'equivoco.
Dreiser Cazzaniga

martedì, ottobre 19, 2010

Febbre

L'abbraccio delle felci cancellava
Il felice ricordo degli accordi,
Che risuonavano tra l'erica e i miei passi,
Quanto ho bevuto dalla fonte ove
Piú non bevo: purezza fin da giovane
Fuggendo, occulto educavo la vergogna
Nel sentiero selvoso nascondendo
L'amore che negavo, la rampogna
Che mi fece nemico del mio bene
Al mio gene ribelle, al candore inetto
Poi finalmente rinnegai giovinezza
Come la serpe che cambia di pelle
Vissi di stizza ora riposo in febbre.

genseki

Messiaen: "Un vitrail et des oiseaux"

lunedì, ottobre 18, 2010

Luigi Nono : Prometeo, I. (Prologo) --- 1/2

2 Ottobre

Fu nel momento in cui l'ora si apriva
Che la lasciai filtrare tra le mani
Nell'equilibrio sobrio della schiuma
Alla soglia del culmine del getto
Il battito fu allora una cascata
Di gemiti, di ritornelli, di intarsi
Luce d'abete: schizzi di conifere
Che in spirale si svincolano dal rosso
Abbraccio del granito a scaturire
In flusso di purezza verticale.

genseki

Le contemplazioni

XIV

Domani allora in cui imbianca la campagna
partiró, come vedi, so bene che mi aspetti
Andró per la foresta, andró per la montagna.
Troppo a lungo da te lontano ho dimorato.

Andró con gli occhi bassi fissi sui miei pensieri,
Solo, ignorato, curvo e con le mani in croce,
Senza vedere nulla, sordo ad ogni rumore,
Triste sará il mio giorno, e la mia notte atroce.

Non guarderò il tramonto che si colora d'oro,
Né le vele lontane in rotta in rotta verso Honfleur,
E quando giungeró poseró sul tuo avello
Un mazzetto di vischio e di erica in fiore.

giovedì, settembre 30, 2010

Morire

Ah! Tutto questo è proprio un gran morire
Un morire di morte che ci muore
CHe ci muore a morire d'ogni morte
Che ci tonde la chioma foglia a foglia
Che ci spoglia e disgrega in muta argilla
Come si sfoglia ora la parola
E ne resta la pala che si affonda
La dove a morte ognun ognora muore.

genseki

Decostruendo Lutero

Come potevamo smontare Lutero
Considerare la sua mascella come un edificio
Fare degli occhi una cavitá urbana
Una grotta metropolitana
Come stanare i topi della sua incoscienza
Installati, noi peccatori
Sotto la pioggia detergente
Di sangue ossidato, di origano e grano
Grano cosí biondo spighe su spighe immense biche?
Tutto tutto dipendeva dai suoi occhi
Maturati come vecchie prugne e il calamaio di Worms
Statico il suo passo, dipanava il sentiero
Con il suo incedere retto
Per furibonde diagonali, strabica rotta
Senza collo: capitello troppo rigido
Nella fotografia con il saio - colpa dell'amido -
La corda del mugnaio cingendo: l'orribile latrato
Del cavallo che scivola sull'argilla - finalmente -
Sull'argilla? No non era Guernica!
Fu gesucristo che parló con i suoi tomi
Che svolazzavano come pipistrelli
Sotto le volte della biblioteca,
Il tessuto delle sue mele, il moccolo
Mentre lui strillava parole scheggiate
all'immensa vetrata della Fede.

genseki

léo ferré - Rimbaud - le bateau ivre
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Rimbaud - Le bateau ivre (Gerard Philipe)