giovedì, aprile 23, 2009
Vecchia talpa
mercoledì, aprile 22, 2009
Sull'amore coniugale
Otia si capian animum quid mollius umbra,
Fundit quam multa populus alba coma,
Quam platanus platanoque decens intersita laurus
Et quae tan raro citrus honore viret?
Sin labor, ut teneras hortis diponere plantas;
Ut iuva virentes carpere mane rosas
Aut tenuem e foliis Laribus pinxisse coronam
Et suae tritilicae serta parare deae,
Nunc legere arbuteos fetus montanaque fraga
Aureaque in calathis mala referre novis
Nunc agere incautas in retia carca volucre
Mille moos placidi rura laboris habent!
...
Hic tecum, coniunx, vita frunda mihi est:
Ista semana nos fata manent. Mors usque vagatur
Improba, vis mortem fallere? Vive tibi
Pontanus
De amore coniugali
mercoledì, aprile 08, 2009
Pasqua 2009
Agostino
Confesiones I, 13
trad. genseki
Nikita Stanescu
Prima elegia
Dedicata a Ddedalo
Della famosa stirpe degli artigiani
Dei dedaliani
Comincia e finisce in se stesso
Nessun'aura lo annuncia, nessuna
Cometa lo segue.
Nulla spunta fuori da esso
Per questo non ha volto
Non ha forma
Simile a sfera
Un grande corpo
Avvolto da una pelle sottile.
Ha ancora meno pelle, tuttavia,
Di una sfera.
È la perfezione dell'interiore,
Non ha margine
Pur essendo ben delimitato.
Non lo segna la storia
Dei suoi movimenti
Come le orme dei ferri seguono
I cavalli.
Non ha presente
ma è difficile immaginare
In che modo non lo abbia
Completamente interno
Dentro il punto stesso
Piú concentrato ancora che in un punto.
Non urta nulla
Nulla lo ostacola
Non ha parti esteriori
Con cui urtare.
Avvolto in esso,
Qui, io dormo.
Tutto l'opposto d tutto
Non si oppone
Non nega
Dice No solo colui
Che comprende il Si
Chi tutto conosce
Nel No e nel Si ha le foglie strappate.
Eppure non dormo solo io qui
Con me dorme la serie di coloro
Il cui nome io porto,
La serie degli uomini mi abita
una spalla. La serie delle donne l'altra.
Ma non possono nemmeno penetrarvi. Soo
Piume invisibili
Agita le ali - qui -
Nella perfezione dell'interiore
Che in sé comincia e
In sé finisce.
Da nulla annunziato
Nessuna cometa lo segue.
*
Seconda Elegia
Getica
Nella cavitádi ogni tronco viveva un Dio
Se in qualche pietra si apriva una crepa
Ecco che subito vi collocavano un Dio.
Bastava che un ponte crollasse
Perché al suo posto mettessero un Dio
O che nella strade apparisse un fosso
Per collocarvi un Dio.
Non farti tagli alle mani o ai piedi
Per nessuna ragione,
Ci metterebbeo dentro un Dio
Come ovunque,
Un Dio da rispettare che protegga
Tutto quanto da noi si separa.
Lottatore, attento a non perdere un occhio
Porteranno un Dio e lo inseriranno nel'orbita
E le nostre anime rabbrividendo lo glorificheranno
E anche tu obbligherai la tua anima
A rendergli gloria.
Trad genseki
giovedì, aprile 02, 2009
C'è un paradosso nel marxismo
Marx
Nel momento in cui l'acqua e il vento sono forze cieche ecco che io posso navigare. Da qui questa altra navigazione politica che guarda ai bisogni, agli utensili, ai lavori, elementi ciechi, senza capricci, che non barano e contemporaneamente con questa separazione dello spirito dal corpo la volontá trova le sue armi e testa la sua potenza.
Uno dei termini illumina l'altro come si dice e come si dimostra ma astrattamente, mentre in ogni momento, nell'azione bisogna trovare lo spirito puro se si vuol trovare lo spirito puro. da qui si comprende che i nostri sociologhi mistici sono al livello dei maghi della pioggia. Invece ogni minimo cambiamento nelle condizioni inferiori è come un colpo di remo nell'acqua.;puó essere dato bene o male, ma una buona traversata o un naufragio dipendono dalle stesse leggi, e la sola differenza, per quanto riguarda l'azione dell'uomo, consiste in movimenti minimi, in minimi lavori, tutti orientati da uno spirito previdente e senza paura.
Alain
trad genseki
mercoledì, aprile 01, 2009
Kenneth Patchet
Religiome è che ti amo
Il tempo avrá disteso i nostri corpi
In un unico sogno, saziata la fame, spezzato il cuore
Come una bottiglia bevuta dai ladri.
Amata, lontano si incotrano le nostre bocche
Prossimi i capelle, stretti gli occhi
Fuori
Fuori dalla finestra rami agitati
Da mite vento, muovono gli uccelli rapide ali
Amore, in quest'aria sfinita moriamo.
Lascia che guardiamo il sonno,
Che infiliamo le dita nel respiro che cade su di noi.
Vivi possiamo amare, anche se s'approssima la morte
Non dobbiamo ascoltare il suo canto senza speranza.
Ora, stringiamoci forte, non moriremo uno accanto all'altro.
*
Ereditá
Ti lascio i piaceri della terra:
L'erba bruciata dal sole; corpi
D'acqua, amabili nella vastitá degli anni
Senza avere ali per noi;
La vasta meraviglia del firmamento, tutto l'arredamento
Sfasciato dello spazio cardiaco interiore;
La cinica immagine dl fumo che sale a spirale
Dalle case che non abbiamo mai avuto.
Ti lascio i mari sulle spiagge secche
La treccia d'oro della pergola
Sulle nostre tombe: il tenero suono
Del silenzio su tutte le cose.
Ritorno del corpo ribelle: qui;
La cruda quesione dell'erba;
Il volto cisposo dello spirito
senza splendore. Basta.
Ti lascio.
*
Argomento dell'allodola
Di primo matino venne il gigante
Raggiunse l'albero dei piccoli.
Le loro facce erano come mele candide
E i freddi rami oscuri
E i loro vestititini
Gesticolavano nel vento.
Non si udirono i passi
Dei suoi piedi pesanti. Subito si mise all'opera
Tirandoli giú dolcemente
In un grosso canestro
Che con una cinghia d'oro
Pendeva dalle sue spalle.
Uno solo sfugggí - un dolce grazioso piccino
Dai capelli color latte anacquato.
Cadde nell'erba alta
E non lo poté trovare
Pur avendo frugato con le dita
Fino a che sanguinarono e sorse il giorno,
Agitò i pugni verso il cielo
E chiamò Dio
con un nome brutto.
Ma non ci fu risposta e il gigante
Si inginocchió davanti all'albero
Abbracció il tronco con le mani
E lo scosse
Fino a che caddero tutti i piccini
Nell'erba. E lui li pestò fino a frne gelatina.
Ma non si fermó qui
Diede fuoco al suo canestro mezzo pieno
Tenendolo Tenendolo con le mani finché
Non fu tutto bruciato. Egli vide poi
Due uomini che si avvicinavano su cavalli fumanti
Dalla parte del mondo.
Trasse un piccolo flauto d'argento
Dalla tasca e suonó un motivo
Dopo l'altro
Fino a che essi lo raggiunsero.
Trad. genseki
sabato, marzo 28, 2009
Hegel e Dogen
Il contenuto concreto della certezza sensibile fa che questa si manifesti come la conoscenza più ricca, ossia come una conoscenza infinitamente ricca tale che – anche movendosi nello spazio e nel tempo come nl mezzo in cui essa si espande oltre se stessa, oppure prendendo un frammento di questa pienezza e entrando per suddivisione, dentro quel frammento medesimo – non sapremmo trovarne il limite.
Hegel
Fenomenologia dello Spirito
Cap. I
trad genseki
La prima frase della fenomenologia, il punto di partenza dell'avventura della Bildung univesale è anche il punto di arrivo, ovviamente, quello del sapere piú ricco.
La certezza sensibile è quel genere di immediatezza che corrisponde al pensiero hishiryo del Maestro Dogen: “non pensare con il pensiero, pensare con il non pensiero. Come si pensa con il non pensiero? Col pensiero hishiryo”.
Cioè saltando inmediatamente, oltre ogni mediazione nella certezza sensibile,
Cioè raggiungere la meta al principio del camminoIeri fui sogno
Appena prima, nulla; dopo, fumo!
Eppur nutro ambizioni, eppur presumo
E punto son del cerchio che mi serra.
Breve battaglia d'importuna guerra
In mia difesa son periglio estremo
Con le mie mani il mio essere scemo
Meno m'alberga il corpo che m'interra.
Ier non é pú, domani non ancora
L'oggi trascorre, è fu giá con movimento
Che mi getta di morte nella gora.
E vanga è l'ora che per le mie ossa
Con mercé della pena che m'accora
Scava nella mia vita la mia fossa.
trad genseki
venerdì, marzo 27, 2009
Lo spirito e la nazione
Hegel
Legge naturale
Werke II
Pagg. 496-97
trad genseki
mercoledì, marzo 18, 2009
Orologi
Che vuoi contare tu
Orologio molesto
In un soffio di vita sfortunata
che passa tanto presto
Fornito il suo cammin d'una giornata
Breve e costretta dall'uno all'altro polo
Essendo tal giornata un passo solo?
Se contassi il travaglio, il duol, la pena
Del viver mio, non potresti serrare
Tanti grani d'arena
Che il mar istesso potrebbero colmare.
Lascia passar le ore, non segnarle
Non voglio misurarle
Non m'aggrada conoscere la sorte
Del termine obbligato della morte.
Deh non mi far piú guerra
Il nome di pietoso infin accetta
Poco tempo mi spetta
Pria di dormir nel grembo della terra.
Ma se è tuo dovere
Contar i giorni della vita mia
Presto riposerai poiché le cure
E le tante premure
Che nutre lacrimoso
Il cor mio doloroso
L'ardente fiamma ria
Ch'amor attizza nelle vene oscure
(men che di sangue son di fuoco piene)
Mi spinge con gran possa
Nel grembo della morte, e mi accorcia il cammino
Ché con pie doloroso
Misero pellegrino
Vo`dando giri presso la nera fossa.
Ben so che sono fiato fuggitivo
Giá so, già temo, già son fatto accorto
Che polvere saró, quale tu, da morto
E vetro son, quale tu sei, da vivo.
Quevedo
Poesie Morali
Trad. genseki
giovedì, marzo 12, 2009
mercoledì, marzo 11, 2009
Il Risveglio
Queste, peró sono solo parole, nomi che servono per intendersi provvisoriamente.
Il Risveglio in se stesso è l'ultima veritá e l'ultima realtá, È la norma immutabile, indistruttibile, oltre la disriminazione, è l'autentica pura conocenza che tutto penetra e che tutti i Buddha possiedono; è la perfezione fondamentale attraverso la quale i Buddha ottengono la penetrazine nella natura di qualsiai realtá, di ogni forma; sta oltre ogni definizione, di ogni struttura, di ogni pensiero.
Prajnaparamita Sutra
a cura di genseki
La congiura degli spagnoli contro Venezia
In Saint-Réal ha ancora la forma della meraviglia e dell'avventura.
Il protagonista di questi primi paragrafi è il Marchese di Bedmar. Egli è il congiurato ideale, che unisce la determnazione e la segretezza a una specie di onniscienza. Profondo umanista trae i suoi metodi di azione e i suoi convincimenti dalla frequentazione assidua dei classici. Nn è ineressato ai vantaggi che la sua azione puó portargli personalmente quanto piutosto alla forma che esa riveste, quasi come fosse un'opera d'arte. Bedmar é l'artista della congiura, il dandy del complotto.
La Repubblica di Venezia è il suo destino in quanto sistema di governo assolutamente razionale. Il governo di Venezia è ermeticamente chiuso in uno scrigno di procedure che vanificano il potere del complotto in quanto ne assumono i modi e la logica come forme proprie e quotidiane dell'azione di governo. Il senato di Venezia è la isituzionalizzazione del complotto come forma permanente di dominio e di controllo.
La sfida tra Venezia e Bedmar è inevitabile:
Quando i francesi ebbero posto fine al conflitto ch che opponeva la Repubblica di Venezia al papa Paolo V, in modo tale che l'onore dovuto al Santo Soglio restasse intetto e la gloria che i veneziano meritavano non venisse negata, solo gli spagnoli si ritrovavano in una condizione per la quale avrebbero potuto lamentarsi. Siccome si erano schierati direttamente con il papa e si erano offerti di sottomettere Venezia con le armi, furono irritati dall'aver questi intrapreso trattative quasi senza una loro partecipazione: quando peró ebbero avuto maggior contezza dei segreti dell'accordo, seppero che non avevano motivo di lamentarsi di lui e che il disprezzo d cui erano stati fati oggetto in quell'occasione proveniva dalla Repubblica. Era il Senato che aveva voluto in qualche modo escluderli dalla mediazione. Pretendeva che non potessero essere arbitri dopo aver dimostrato tanta parzialitá.
Per quanto il loro risentimento fosse grande per questa ingiuria essi non lo vollero manifestare fino a che visse Enrico IV: il debito che questo principe aveva con i veneziani era troppo conosciuto, cosí come l'attenzione con cui si era preso cur dei loro intresi nel conflitto con la corte pontificia. La sua morte lasciava mano libera agli spagnoli ch avevano soltanto bisogno di un pretesto.
Una banda di pirate, detto Uscocchi si era stabilita nelle terre adriatiche della casa d'Austria. Questi delinquenti avevano commesso un numero infinio di violenze contro i suditi della Repubblica, e godevano della protezione dell'Arciduca ferdinando di Graz, sovrano del paese e che in seguito sarebbe divenuto imperatore. Era un principe molto religioso, ma i suoi ministri dividevano il bottino con gli Uscocchi.
L'Imperatore Mattia, commosso dalle giuste lamentele della Repubblica, stipuló un accordo in Vienna nel mese di febbraio del 1612; tuttavia questo accordo fu cosí mal asservato da parte dell'arciduca, che si giunse a una guerra aperta, in cui egli non ottenne tutti i vantaggi che gli Spagnoli si aspettavano. I veneziano poterono facilmente rivalersi delle perdite che subirono in alcuni piccoli combattimenti: Siccome non avevano niente da temere da parte dei Turchi, potevano sopportare la guerra in migliori condizioni che l'arciduca. Questo principe era spinto alla pace dall'imperatore, perché il Turco minacciava l'Ungheria; e aveva bicogno di grandi somme per favorire la sua ascesa al trono di Boemia che si verificó in seguito molto presto. Gli spagnoli avrebbero voluto fornirgli i mezzi per continuare la guerra; ma Carlo Emanuele, duca di Savoia contro il quale erano in guerra alllo steso tempo, non permetteva loro di raccogliere le forze, e siccome questo duca riceveva molto denaro dalla Repubblica non ebbero modo, mai, di separarlo da essa.
Il consiglio di Spagna era molto indignato di verificare come i veneziani fossero in vantaggio ovunqu. Il genio dolc e pacifico di Filippo III e del suo favorito il duca di lerma, non sapeva trovare un mezzo per tirarsi fuori da una situazione tanto pericolosa; ma un ministro che esi avevano in Italia e che non era altrettanto moderato, prese su di se di risolvere il problema.
Si trattava di don Alfonso de la Cueva, marchee di Bedmar, ambasciatore ordinario a Venezia, uno dei geni piú poderosi e degli spiriti piú pericolosi che la Spagna avesse mai prodotto. Si vede, dagli scritti che ci ha lasciato, che possdeva tutto ció che secondo la storia antica e moderrna serve alla formazione di un uomo straordinario. Egli comparava le cose che vi si trovano narrate con quelle che accadevano al tempo suo, Osservava esattamente differenze e somiglianze delle quistioni e come quello che le differenzia modifica quella che le rende simili. Egli giudicava del successo di una impresa non appena en conosceva il piano e le basi. Se poi gli avvenimenti provavano che non aveva indovinato, egli risaliva alla fonte del suo errore e cercava di scoprire ció che l'aveva ingannato. In questo modo, aveva egli compreso quali fossero le vie sicure, i mezzi utili e le circostanze capitali che fanno presagire un buon successo dei grandi progetti e che fanno si che essi finiscano quasi sempre per riuscire. Questa continua pratica della lettura, della riflessione dell'osservazione delle cose del mondo, l'avevano innalzato a un punto tale di sagacitá che nel consiglio di Spagna le su congetture sull'avvenire erano prese come profezie.
A questa profonda conoscenza della natura delle grandi questioni, egli univa talenti singolari per la manipolazione, una facilitá di parlare e di scrivere in modo straordinariamente gradevole, un meraviglioso istinto per conoscere gli uomini, un aspetto sempre gaio e aperto, un umor libero e compiacente tanto piú impenetrabile quanto piú tutti quanti credevano poter penetrarlo; modi dolci, insinuanti e lusighieri, che attiravano il segreto dei cuori piú difficili ad aprirsi; tutto l'aspetto della piú completa libertá di spirito nelle convulsioni piú atroci. Gli ambasciatori di Spagna erano allora in condizione di governare e corti presso le quali erano inviati e il marchese di bedmar era stato scelto per Venezia nell'anno 1607 dal momento che questo era considerato il piú difficile egli incarichi all'estero, e in cui non ci si poteva avvaler di donne, di monaci e neppure di favoriiti. Il consiglio di Spagna era cosí contento di lui, che, nonostante sorgessero ncessitá altorve, per sei interi anni non si risolse a richiamarlo. Un si lungo soggiorno diedegli agio di studiare i principi di quel governo, di dipanarne i piú segreti ingranaggi, di scoprirne i punti forti e quelli deboli, i vantaggi e i difetti. Quando si rese conto che l'Ariduca sarebbe stato costreto alla pace e che questa sarebbe stato vergognosa per la casa d'Austria dal momnento che aveva torto, risolse di tentare qualche cosa per prevenire tale eventualitá.
Cnsider'che nello stato in cui Venezia si trovava non era impossibile impadronirsene con le conoscenze che aveva e con le forze sulle quali poteva fare affidamento.
Gli eserciti l'avevano privato delle armi e ancor peggio di uomini capaci di portarle.
Siccome la flotta non era mai stata tanto bella, il senato non si era mai considerato cosí temibile e mai aveva temuto meno. Tuttavia questa flotta invincibile quasi non poteva allontanarsi dalla costa istriana dove si combatteva quella guerra. L¡esercito di terra, anch'esso era lontano; e non vi era nulla a Venezia che potesse opporsi a un attacco della marina spagnola. Per rendere piú sicuro questo attacco il marchese di Bedmar volle impadrronirsi dei posti principali, come Piazza S. Marco e l'arsenale; e, siccome sarebbe stato difficile farlo se la cittá fosse stata perfettamente tranquilla, pensó bene di far incendiare contemporanemente tutti i luoghi che erano piú adatti e che fosse piú importante soccorerre.
Non volle scrivere subito in Spagna: sapeva che i principi non amano essere messi al corrente di questo tip di imprese che quando sono giunte ad un punto tale di esecuzione che solo manca un loro cenno di approvazione. Si accontentó di far notare al marchese di Useda, principale segretario di stato che la casa d'Austria era svergognata dall'insolenza dei veneziano nella guerra del Friuli e che tutti i negoziato che si svolgevano a Vienna e altrove erano pieni di ignominia e che egli credeva che fosse giunto il mmento in cui la natura e la politica obbligano un suddito fedele a ricorrere a mezzi straordinari per preservare il proprio principe e il proprio paese da una infamia altrimenti inevitabile; che questa preoccupazione lo concerneva particolarmente, a cusa del suo incarico, in cui aveva sempre davanti agli occhi le fonti del male cui si doveva porre rimedio, che e che egli avrebbe cercato di condurre a termine questo suo compito in un modo degno dello zelo che lo animava per l'onore del suo signore.
Il duca di Useda, che lo conosceva per quello che, comprese subito che questo discorso nascondeva qualche progetto pericoloso e importante in parti eguali: ma, come coloro che sono saggi non vogliono sapere niente di questo genere di cose se non obbligati, non comunicó il suo pensiero al Primo Ministro e rispose al marchese di Bedmar in termini generali, lodando il suo zelo e rimetendosi per il resto alla sua ben conosciuta prudenza. Il marchese che si attendeva una risposta del genere non fu sorpreso dalla sua freddezza; si dispose a metterei atto il suo piano per assicurarsi di essere approvato.
Mai vi fu nel mondo una monarchia assoluta come il dominio che il senato di Venezia esercitava nel governo della Repubblica. Infinita è la differenza tra i nobili e quelli che non lo sono. Solo la nobiltá puó comandare nei paesi che en dipendono.
Saint-Réal
traduzione genseki
giovedì, marzo 05, 2009
Gramscismi
“Il “Vakúf”, - Ció che è rovina di chiesa o bene che gli appartenga – nell'idea del popolo ha in se stesso una forza misteriosa, quasi magica. Guai a chi tocca quella pianta o introduce tra quella rovine il gregge, le capre divoratrici di ogni fronda; sará colto all'improvviso da un malanno; rimarrá storpio, paralitico, mentecatto, come se si fosse imbattuto, in mezzo agli ardori meridiani o durante la notte oscura e piena di perigli in qualche “Ora” o “Zana” laddove queste fate invisibili e in perfetto silenzio stanno sedute a una tavola rotonda o in mezzo al sentiero.”
C'è ancora qualche altro accenno nel corso dell'articolo.
Questa nota di Gramsci cosi estranea al corso delle sue preccupazioni intellettuali quali esse ci appaiono nei Quaderni, cosí apparentemente divagatoria nella ci permette forse, per un istante di entrare nell'intimo della sua mente, di intravedere una fazione infinitesima del gomitolo di pensieri e desideri che continuamente si srotola nel suo e nel nostro cevello e che come un ronzio ci assicura che esistiamo. È questo ronzio quello che abbiamo di piú nostro, di piú personale, di piú simile ad una Io permanenente.
In queste poche righe di annotazione possiamo cogliere la tenerezza infantile del desiderio di un mondo di favole e di leggende, forse un appena un bagliore della strana convinzione di Gramsci di essere di origine albanese, la nostalgia della Sardegna arcaica, proprio quando anche la sua infanzia si fa per lui aracaica e il passato della terra leggendaria e della biografia perduta il solo orizzonte possibile.
L'isolamento delle rovine delle vecchie chiese è il correlativo simbolico dell'isolamento carcerario del suo corpo, anch'esso appunto segregato e in rovina.
Gramsci sente il suo corpo come il tempio, come il recinto del sacro nella sola forma in cui a lui è dato sentirlo.
Tutto questo nellinfinita noia dolente, nell'agonia ovattata di un pomeriggio carcerario.
genseki
mercoledì, marzo 04, 2009
Gaspard de la Nuit
Partenza per il Sabba
Jean Bodin
De la démonomanie des sorcières.
Ce n'era una dozzina che mangiavano la minestra alla bara, ciascuna usando per cucchiaio l'avambraccio di uno scheletro.
Il camino era rosso di bragia, le candele come funghi tra il fumo,i piatti avevano l'odore di una fossa primaverile.
Quando Maribas rideva o piangeva, si udiva come il gemere di un archetto sfregato sulle tre corde di un violino fracassato.
Purtuttavia il Rodomente sbatté diabolicamente sulla tavola, alla luce del sego, un grimorio ove finì per abbattersi una mosca carbonizzata.
Ronzava ancora la mosca quando un ragno dal ventre enorme e peloso scaló i bordi del magico volume.
Ormai peró strege e stregoni giá se en erano volati via attraverso il camino a cavallo delle loro scope e attizzatoi, Maribas sul manico di una padella.
trad genseki
La vergogna e la pietá
di esso parla Cesare Abba nel suo memoriale garibaldino pare che lo leggesse il Padre Canata nel Liceo Scolopico di Carcare.
Il contrasto tra l'abiezione, l'indifferenza e lo spettacolo è qui rapresentata con una precisione geometrica che ne fa qualche cosa di piú e di diverso da un testo di propaganda o di battaglia culturale anticlericale, ne fa una riflessione lucida su come la violenza e il dolore inflitto distruggano e le vittime e i carnefici, spoglino entrambi di qualsiasi dignitá. Gli inquisitori e gli eretici sono ridotti a grige comparse dementi bloccate nella confabulazione piú viscosa, triturate dalla tautologia, sfigurate dala perversione sistematica di ogni parola.
Tutti sono macchine che producono non senso. Passa nella mente di chi legge l'alito cinerino e morbido della demenza. Quello che resta è vergogna una vergogna piú profonda di ogni possibile pietá.
genseki
ndarono soggetti al Santo Uffizio, l'anno 1699, fra' Romualdo laico agostiniano e suora Geltrude bizzoca di san Benedetto: quegli per “quietismo, molinismo, eresia”; questa per orgoglio, vanità, temerarietà, ipocrisia”.
Ambo folli, però che il frate, con molte sentenze contraria a' dogmi o alle pratiche del cristianesimo, diceva ricever angeli messaggeri da Dio, parlar con essi, esser egli profeta, essere infallibile: e la Geltrude, tener commercio di spirito e corporale con Dio, essere pura e santa, aver inteso dalla Vergine Maria non far peccato godendo in oscenità col confessore; ed altri assai sconvolgimenti di ragione. I santi inquisitori ed i teologi del Santo Uffizio avevano disputato più volte con quei miseri, che ostinati, come mentecatti, ripetevano deliri ed eresie.
Chiusi nelle prigioni, la donna per venticinque anni, il frate per diciotto, (attesoché gli altri sette li passò a penitenza ne' conventi di san Domenico) tollerarono i martori più acerbi, la tortura, il flagello, il digiuno, la sete; e alla fine giunse il sospirato mamento del supplicio.
Avvegnaché gli inquisitori condannarono entrambo alla morte, per sentenze confermate dal vescovo di Albarracìn, stanziato a Vienna, e dal grande inquisitore delle Spagna; dopo di che il devoto imperatore Carlo VI comandò che quelle condanne fossero eseguite con la pompa dell' Atto-di-fede.
Le quali sentenze amplificavano il santissimo tribunale, la “dolcezza”, la “mansuetudine”, la “benignità” de' santi inquisitori: e incontro a sensi tanto umani e pietosi la malvagità, la irreligione, la ostinatezza de' due colpevoli. Poi dicevano la necessità di mantenere le discipline della sacrosanta cattolica religione, spegnere lo scandalo, e vendicare lo sdegno de' cristiani.
Già scorso di due ore il mezzo del giorno, mense innumerevoli ed abbondanti coprirono le tribune, così che la scena preparata e mestizia mutò in allegrezza. Fra' quali tripudi giunse prima la misera Geltrude legata sopra un carro, con vesti luride, chiome sparse e gran berretto di carta che diceva il nome, scritto con dipinte fiamme d'inferno.
Convoiavano il carro,tirato da bovi neri e preceduto da lunga processione di frati,molti principi e duchi sopra cavalli superbi; e dietro cavalcati a mule bianche, seguivano i tre padri inquisitori. Giunto il corteggio, e consegnata la donna ad altri frati domenicani e teologi per le ultime e finte pratiche di conversione, ricomparve corteggio simile al primo per frate Romualdo: ed allora gli inquisitori nella magnifica ordinata tribuna.
Compiute le formalità, bandito ad alta voce l'ostinato proponimento d' colpevoli, lette le sentenze in latino, prima la donna salì sul palco; e due frati manigoldi la legarono al tronco, e diedero fuoco alle chiome, imbiotate innanzi di unguenti resinosi acciò le fiamme durassero vive attorno al capo: indi bruciarono le vesti, anch'esse intrise nel catrame, e partirono.
La misera rimasta sola sul palco, mentre gemeva e le ardevano intorno e sotto i piedi le fiamme, cadde col coperchio del rogo; scomparso il corpo, rimasero ai sensi degli spettatori i gemiti di lei; le fiamme, il fumo, che andavano ad oscurare l'alta croce di Cristo svergognata.
Così fra' Romualdo morì nell'altro rogo, dopo aver visto il martirio della compagna.
Tra gli spettatori notatasi un drappello sordido, mesto, di ventisei prigioni del Santo Uffizio, voluti presenti alla cerimonia: soli fra tutti che piangessero di quei casi, perciocché gli altri, sia per viltà, o ignoranza, o religion false, o empia superstizione, applaudivano l'infame olocausto……
…Descrisse quell'atto in grosso volume Antonio Mongitore……
venerdì, febbraio 27, 2009
La morte - Carmelo Bene - Unamuno
Io non diró che siano le dottrine piú o meno poetiche e non-filosofiche che esporró quelle che mi fanno vivere, oso tuttavia affermare che è il mio anelo di vivere e di vivere per sempre che me le ispira. E se grazie ad esse potró corroborare e sostenere questo stesso anelo che forse sta venendo a mancare in altri, avró fatto opera umana o perlomeno avró vissuto. In una parola: con la ragione, contro la ragione o senza la ragione, io non ho voglia di morire. E, quando alfin morró, se é per sempre, non mi saró ucciso io, cioé non mi saró lasciato morire, sará il destino umano che mi avrá ucciso.
Unamuno
Del Sentimento Tragico della Vita
trad. genseki
giovedì, febbraio 26, 2009
Trilce XV
La rielaborazione della perdita e del lutto comporta l'assunzione dell'infanzia, un viaggio nel proprio passato, nel vuoto, negli inferi della personalitá che va formandosi e deformandosi. da questa discesa nell'abisso della terra la madre va mergendo come l'asse portante, che permette la coerenza el ricordo e la continuitá dell'io. La madre è colonna e colonnato e arco: asse e protezione. L'icona della madre è quella della Vergine, madre di dio padre. Nella mitologia familiare di Vallejo, oltre ogni etnicismo e senza tirare in ballo la psicanalisi, il padre è fratello e in parte anche figlio.
Se la madre assume la forma icona della Vergine Maria, il padre è il Padre e il Cristo contemporanemente.
L'immortalitá è propria della madre, affermata e riaffermata nelle forma di una immanenza e di una quiddità assolute: “cosí...così” che ritmano il rifiuto di qualsiasi orizzonte di trascendenza. L'immortalitá della madre è assolutamente carnale, corporale e architettonica.
genseki
Trilce XV
Madre, domani verró a Santiago
Per bagnarmi nel tuo pianto benedetto
Ora che vado riordinando piaghe e delusioni
Di false faccende.
Mi aspetterá il tuo arco di stupore,
Le tue colonne d'ansie tonsurate
Che finiscono con la vita e col cortile
Il corridoio tutto stucchi e gale;
Mi aspetterá il seggiolone aio
Quell'affare a ganasce di dinastico cuoio
Che con cinghie e laccetti stringe stretto
Natiche pronipoti.
Sto setacciando i miei piú puri affetti
Sto trivellando, non odi la sonda?
Non odi le campane strepitanti?
La tua formula d'amore sto plasmando
Per ciascuno dei vuoti del suolo
Per tutte le cinture piú distanti
E per le citazioni piú distinte.
Cosí morta immortale, cosí
Sotto l'arcata doppia del tuo sangue
Ove passar si debe con riguardo
Con un riguardo tale che mio padre
Persino lui si fece mezzo uomo
Fino ad essere il primo dei tuoi figli.
Cosí morta immortale,
Nel colonnato delle tue ossa
Che non cadrebbe neppure per le lacrime
E nel cui fianco non poté insinuare
Il destino nessuna delle dita
Così, madre immortale, cosí.
trad genseki
mercoledì, febbraio 25, 2009
Gilles de Rais
Nel quindicesimo secolo le due tendenze estreme dell'anima furono rappresentate da Giovanna d'Arco e dal Maresciallo de Rais. Non vi é alcuna ragione per affermare che Gilles fosse piú folle della Pulzella i cui meravigliosi eccessi non hanno relazione alcuna con manie e deliri.
Quando gli esperimenti alchemici e le evocazioni diaboliche falliscono Prelati, Blanchet e tutti i maghi e stregoni che circondano il Maresciallo ammettono che per agganciare Satana, Gilles avrebbe dovuto cedergli o l'anima o la vita o commettere crimini.
Gilles rifiuta di alienare la sua esistenza e di abbandonare l'anima, ma pensa senza orrore agli assassinii. Quest'uomo, tanto valoroso sui campi di battaglia, tanto coraggioso quando difende e accompagna Giovanna d'Arco, trema davanti al iavolo, ha paura quando pensa alla vita eterna, quando pensa a Cristo. E lo stesso vale per i suoi complici; per essere sicuro che essi non riveleranno i rivoltanti abomini che il castello nasconde, fa loro giurare il segreto sui santi evangeli, sicuro che nessuno di loro romperá il giuramento, perché, nl medio Evo , il piú impavido dei banditi non oserebbe assumere su di sé irremissibile misfatto di ingannare Dio!.
Comunque resta il fatto che mentre gli alchimisti abbandonano i loro fornelli impotenti, Gilles si abbandona a orge spaventevoli e la sua carne arsa dalle essenze disordinate delle bevute dei piatti, entra in eruzione, bolle e tumultua.
Non vi erano donne nel castello; Gilles sembra aver esecrato il sesso a Tiffauges. Dopo le bagasce degl accampamenti le prostitute della corte di carlo VII, sembra che lo abbia colto il disprezzo per le forme femminili. Come coloro il cui ideale di concupiscenza si altera e si svia, giunge a essere disgustato dalla delicatezza della pelle e dall'odore della donna che tutti i sodomiti detestano.
Egli conduce alla depravazione i ragazzi del coro della sua cappella, li aveva scelti “belli come angeli”. Furono i sol che egli amó e i soli che nei raptus omicidi risparmió.
Ma presto questa salsa di eiaculazioni infantili gli parve insipida. La legge del satanismo che vuole che l'eletto del male scenda fino all'ultimo scalino la spirale del peccato, era ancora una volta, in vigore. L'anima di Gilles doveva riempirsi di pus, perché in quel rosso tabernacolo decorato di ascessi potasse abitare compiaciuto l'Infimo!
Le litanie della foia si innalzarono nel vento salato dei macelli. la prima vittima di illes fu un bambinello il cui nome si ignora. Lo sgozzó, gli taglió le mani, gli estrasse il cuore, gli strappó gli occhi e li portó nella stanza di Prelati. Entrambi gli offrirono a con suppliche appassionate al diavolo che tacque. Gilles esasperato fuggí e Prelati avvolse i poveri resti in un lenzuolo e tremando fu, nella notte a seppellirli in terra consacrata accanto a una cappella dedicata a San Vincenzo.
Il sangue di quel fanciullo che Gilles aveva conservato per scrivere le su formule di evocazione e i suoi grimori, fu seme orribile e presto Gilles poté mietere e immagazinare la piú esorbitante messe di crimini che si conosca.
Dal 1432 al 1440, cioé negli otto anni che vanno dal ritiro del Maresciallo alla sua morte, gli abitanti dellAnjou, del Poitou, della Bretagna, errano singhiozzand sulle strade. Tutti i bambini scompaiono; i pastorelli sono rapiti nei campi, le bambine all'usicta da scuola, i ragazzetti che vanno a giocare a palla nelle stradine o si rincorrono all'orlo dei boschi, non tornano piú.
Nel corso di un'inchiesta ordinata dal Duca di Bretagna, gli scribi di Jean Touscheronde, commissario del Duca, redigono liste interminabili di bambini scomparsi.
Perduto, a ochebernart, il figlio di Donna Péronne “che andava a scuola e imparava molto bene” dice la madre.
Perduto a Sain-étienne de Monluc, il figlio di Guillaume Brice “poveretto che chiedeva l'elemosina”.
Perduto a Machecol, il figlio di Georget le Barbier “che fu visto, un certo giorno cogliere pere dietro il Palazzo Rondeau e che poi non fu piú visto”.
Perduto a Thonaye, il figlio di Mathelin Thouars “che si lamenta e piange e il figlio aveva dodici anni”.
A Machecoul ancora, il giorno di Pentecoste, i coniugi Sergent lasciano a casa il loro figliuolo di otto anni e al ritorno dai campi “non ritrovano piú il bambino di otto anni e molto se en meravigliano e soffrono”.
Huysmans
Là-bas
Trad e montaggio genseki
Credo Signore, aiuta la mia incredulitá
... Una fede assurda, senza ombra di incertezza, una fede da carbonai stupidi, si unuce all'incredulitá assurda, all'incredulitá senz'ombra di incertezza, all'incredulitá degli intellettuali afflitti da stupiditá affettiva ...
L'incertezza, il dubbio, la voce della ragione, era l'abisso, il “gouffre” terribile davanti al quale tremava Pascal. E fu questo a condurlo a formulare la sua terribile sentenza: “il faut s'abêtir” bisogna instupidire.
Per disperazione, si afferma, per disperazione si nega, e per essa ci si astiene dall'affermare e al negare...
Unamuno
Il Sentimento Tragico della Vita
trad genseki
martedì, febbraio 24, 2009
Unamuno I
Unamuno
Il Sentimento Tragico della vita
Trad. genseki
genseki
lunedì, febbraio 23, 2009
César vallejo come l'ho conosciuto
Poi si alzó per diegnare la terra sulla lavagna e per tutta la durata della classe ci ripeté che era rotonda e che questa on era la sola cosa sorpendente ma che anche girava su se stessa. Come prova portó il sorgere e il tramontare del sole, il modo in cui appaiono e scompaiono le navi nel mare d altre ancora. Io senplicemente restavo stupefato che questo mond in cui viviamo fose rotondo e girasse su se stesso e anche di quante cose sapesse il mio maestro. Quando la campana suonó annunciando la ricreazione César Vallejo si pulì il gesso dalle mani, si pettinó con le dita della mano, e suscí. Si mise sulla porta come se conversasse con gli altri maestri. Dico questo percé aveva un aspetto molto distratto.
Di nuovo in aula per l'ora di studio, poi ci sarebbe stata quella di lettura. C'era da ripassare la lezione. Mi chiamó accanto a sé e aprí il libro nella sezione del paperottolo. Ebbi fiducia in quello che sapevo e dissi:
questa parte l'ho giá fatta da temp. Anche quella di Rosaria e Pepito. Io lo so tutto questo libro.
Vallejo mi guardó con curiositá.
Sai ancje scrivere?
Quando risposi di si mi chiese di scrivere il mio nome e poi anche il suo. Non sapevo se si scrivesse con V o con B mi decisi per la prima e per fortuna ci azzeccai. Mi fece provare cn altre parole e con una lunga frase.
Sembrava divertirsi. Poi mi chiese:
Sai giá leggere e scrivere, perché ti hanno meso in prima.
Perché non so nient'altro.
Allora mi disse di andare a sedermi. Cercai di fare un po' di conversazione con il mio compagno di banco ma questi mi sussurró che era proibito parlare durante l'ora di studio.
Guardai allora il mio maestro.
César Vallejo, e questa mi sembró sempre che fosse la prima volta che lo vidi – teneva le mani sul tavolo e volgeva il viso verso la porta. Sotto gl abbondanti capelli la sua faccia mostrava tratti duri e definiti. Il naso era energico e il mento, ancora piú energico, risaltava nella parte inferiore come una ghiglia. I suoi occhi oscuri, non ricordo se fossero grigi o neri brillavano come se fossero pieni di lacrime.
Il suo vestito era vecchio e liso. e stringendo la apertura molle del colletto una cravattina di cuoio pendeva annodata sommariamente. Si mise a fumare e continuava a guardare verso la porta da cui entrava la luce chiara di aprile. Pensava o sognava non si sa che cosa. Da tutto il suo essere emanava una grande tristezza, mai ho visto un uomo che sembrasse piú triste, il suo dolore era contemporanemaente una condizione segreta e manifesta che finí per contagiarmi. Una qualche pena strana e inesplicabile mi colse. Anche se a prima vista poteva sembrare tranquillo, in quell'uomo vi era qualche cosa di straziato che io con la mia pronta sensibilitá di bambino percepivo e intendevo in tutta pienezza. Di colpo pensai ai miei lari, alle montagne che avevo attraversato e alla vita che avevo lasciato alle spalle. Tornando a esaminare i tratti del mio maestro li trovai simili a quelli di Cayetano Oruna, peone della nostra fattoria che chiamavamo Cayo, Certo questi era piú alto e ben piantato ma il volto e l'aria tra solenne e triste di amendue avevano gran somiglianza.. L'uomo Vallejo venne a me come un messaggio della terra e continuai a osservarlo, Gettó via la sigaretta, si toccó la fronte, lisció ancora una volta la chioma scura e si rimise tranquillo. La sua bocca si contraeva in un rictus doloroso. Cayo e lui, La personalitá di vallejo, tuttavia inquietava al solo vederla, Ero definitivamente scosso e sopettai che tanto soffrire e irradiare tristezza aveva qualche cosa da fare con il mistero della poesia. Di colpo si voltó e mi guardó, poi guardó tutti i bambini che stavano leggendo nei loro libri, io lo aprii, il mio libro. Non riuscivo a vedere le lettere e volevo piangere
Fu cosí che incontrai César Vallejoj e cosí lo vidi, per la prima volta.
Ciro Allegria
trad. genseki
sabato, febbraio 21, 2009
Supplica
Solo ancora uno sforzo
Lo sforzo di accompagnarmi
In questa solitudine
Lo sforzo di starmi accanto
Nel rapido – spero -
Spogliarmi dell'ultima
Veste dell'anima
Dell'anima stessa
Foglia diletta
Al vento, al deserto
Consacrata, al fuoco
Abbandonata
In questo denso
Perdermi dentro
Perdermi dentro
Allo Stesso.
genseki
venerdì, febbraio 20, 2009
Anno dopo anno
L'amore
Diventa cosí grande
Che ci brucia
Incenerisce i sogni
Incenerisce i gesti
Ci lascia con tizzoni di speranza
Anno dopo anno
L'amore
Non è più un girasole
Ma una stella
Non possiamo fissarlo
Ma ci annienta.
29.07.2001
genseki
Essere pronti
Quanto resta di me? Temo moltissimo. moltissimo di viscoso e iterativo, moltissimo di corrosivo e di torbido.
Tutto questo si cela dietro la pigrizia. La pigizia non è solo pigrizia, è, soprattutto sopravvalutazione di se stessi.
Eppure essere pronto a morire, lo vedo con chiarezza, significa essere pronto ad ogni istante a vivere per davvero senza il peso dell'istante precedente, senza il peso pesantissimo di tutti gli istanti precedenti che si sono susseguiti.
Essere pronto a morire. Ora. Deporre finalmente il fardello tanto gravoso degli istanti passati, con l'infinitá dei loro pensieri e delle volizioni. A questo si riduce tutto il resto: la pratica, la ragione, lo spirito, la fede.
Mi pare che praticare la disponibilitá alla morte, o alla vita sia soprattuto praticare la concentrazione.
Concentrarsi, diventare densi, impenetrabili, comprimere la propria massa nello spazio piú ristretto possibile. È forse questa una maniera di conseguire una tale meta?
Davvero non sono mai stato tanto intimo con la morte come spesso lo ho creduto, questa intimitá non si trova nella vorticosa coscienza dell'impermanenza e neppure nell'intuizione nullificante dell'infinito. Quell'intuizione insopportabile che suole visitarmi nei momenti del dormiveglia. No È tra un istante e l'altro, nella coscienza del loro tracorrere che si educa questa intimitá. Naturalmente anche nella scelta per la solitudine.
Finire probabilmente è piú facile di quello che sembra, è la fine che ci forma conformente ad essa. Succede da sola e quando succede siamo fatti, forse anche inmediatamente, adeguati allla sua modalitá.
O forse, essere pronti a morire, significa proprio accettare di non poter mai essere del tutto pronti, accettare che non si puó essere pronti a morire piuttosto che a vivere perché, appunto, si tratta di vivere. Vivere la propria morte. Vivere la morte. Vivere la morte come un momento della vita.
genseki
giovedì, febbraio 19, 2009
La viola da gamba
Egli riconobbe con assoluta certezza, la pallida figura
del suo intimo amico Jean-Gaspard Debureau, il gran pagliaccio dei Funamboli, che lo guardava con un'espressione indefinibile di malizia mista a benignitá
Théophile Gautier
Onuphrius
Au clair de la lune
Mon am Pierrot
Prête-moi ta plume
Pour écrire un mot.
Je n'ai plus de feu
Ouvre-moi la porte
Pour l'amour de Dieu
Il Maestro di cappella quasi non ebbe il tempo di interrogare l'archetto della viola che questa gli rispose con un gorgoglío buresco di lazzi e di tremoli come se avesse nella pancia un'indigestione di commedia italiana.
Era dapprima Donna barbara che rimproverava quelllo sciocco di Pierrot per aver lasciato cadere la scatola di parrucche di Madame Cassandra e sparso tutta la cipria sul pavimento.
Ecco, allora Madame Cassandra che raccoglie con devozione la sua parrucca E Arlecchino che stampa una pedata nelle natiche a quel belinone, e Colombina asciugrasi una lacrima dal tanto ridere e Pierrot distendere sul volto una smorfia tutta infarinata.
*
- La corda si era spezzata.
Trad. genseki
Ovunque il luogo stesso della via
Ivi tutto appare perfettamente compiuto, nulla manca. Se si praticasse con coraggio per tre incommensurabili kalpa, salendo tutti gli scalini dell'ascesa, nell'istante brevissimo del risveglio,si sarebbe testimoni della propria buddhitá originaria e spontanea e nulla piú. I meriti accumulati in interi kalpa son come le illusioni del sogno. Per questo il Tathagatha dichiara: “Nel risveglio supremo, effettivamente, non ho trovato nulla. Se vi avessi trovato qualche cosa, allora il Buddha Dipamkara non avrebbe profetizzato la mia venuta. E ancora: “questa realtá è pura eguaglianza senza alto né basso, Risveglio!”
Ecco il nostro spirito in primoridale purezza: nessuna differenza tra gli esseri viventi e i Buddha, tra le montagne e i fiumi del mondo, tra ció che ha forma e ció che forma non ha, e la totalità degli universi di tutti gli spazi vi forma eguaglianza perfetta sena i caratteri particolari di “stesso” e di “altro”.
Questo spirito primridalmente puro è sempre nella pienezza e la sua luminositá rende chiare tutte le cose. Siccome non lo hanno raggiunto le persone comuni lo confondono con la loro coscienza ordinaria. La loro coscienza ordinaria è oscura de essi non percepiscono la chiaritá fondamentale dl loro essere fondamentale. Perché quando si salta direttamente nel non spirito, l'essere fondamentale si manifesta da sé come la grande ruota del sole che sale nello spazio vuoto illuminando tutti gli orizzonti senza incontrare ostacoli. Così, l'adepto che conosce solo la sua coscienza la rifiuta, per praticare davvero, ma cosí si chiude il varco per entrare nello spirito e non lo puó piú cogliere. Riconoscete il vostro spirito fondamentale nella vostra coscienza ordinaria perché se esso non è la vostra coscienza ordinaria, nemmeno è da essa separato. Solo vi basta cessare di teorizzare sulla vostra coscienza ordinaria, di non pensare niente di essa, di non separarvene per cercare lo spirito e di non rifiuarla in nome di un metodo. Nulla di mediato e nulla di inmediato, nulla che resti o s'aggrappi, in ogni caso solo libertá, ovunque il luogo stesso della via.
mercoledì, febbraio 18, 2009
Il paese del passato
A questo paese appartengo, adesso con soddisfatta convinzione. In fondo, sono io che lo ho fatto! È cosa mio. Sono opera mia le sue parti deserte e l'abiezione e anche le grandi pianure e i fianchi dei monti coperti di selve luminose. Senza rimorsi mi riprometto di ripercorrerlo minziosamente per cartografarne il senso e il destino.
martedì, febbraio 17, 2009
Sulla povertá
Il modo piú facile per essere vivi nel mondo è una certa forma di povertá, una forma che concide con disponibilitá e apertura, se si vuole anche con fiducia. Certamente nel campo di questo concetto di povertá non entra il tratto distintivo della mancanza.
La povertà scelta e non subita, la povertá non ascetica e non mortificante non coincide con la sobrietà e la temperanza,
Si tratta, piuttosto di una temperanza con disponibilitá con totale apertura.
La scomparsa della povertá dall'orizzonte del pensiero etico e religioso coincide con l'uscita dell'uomo dal mondo e con la sua entrata nell'universo della merce.
Michel de Montaigne
Alla fine
Alla fine
Fu allora che lo trovammo
Intrecciato alle radici del lentisco
Tra i ciuffi della bellota irsuta
Lo scheletro dell'aquila
Non scafo per fendere le nubi
Simile invece a un cesto intessuto
Di vimini bianchi sfiniti
Preparato per avvolgere
Il risultato di qualche Opera
Alchemica dimenticata.
O forse si, uno scafo
Ma remoto, da ogni idea di spuma
E di flutto
Con timide dita lo ripulimmo
Dalla terra secca
E dagli aghi di pino
Per un momento ci parve di sentire
Pietá per il dolore del volo.
*
Perché certamente il volo
È un'altra dimensione del pensiero
Come, per esempio,
L'esperienza di essere sorretti,
Sollevati, sostenuti costantemente
Dalla forza stessa del mondo.
Questa esperienza manca al nostro pensiero
Schiacciati come siamo al duro suolo
Dalla ferrea gravitá
Lanciamo il nostro spirito come fuoco d'artificio
Verso il cielo
Perchè fiorisca
-hanabi-
In veritá
genseki
venerdì, febbraio 13, 2009
Englaro
genseki
La nottola di Minerva
Comprendere ció che è, questo è il compito della filosofia; perché vciò che è, è la ragione. In quanto all'individuo, ognuno è figlio del suo empo, e la filosofia proprio il tempo afferrato nel suo concetto. È insensato credere che qualche filosofia possa precorrere il presente. Quando dice una parola sulla teoria che spiega come debe essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo ardi: perché pensare il mndo accade sempre dopo che la realtá ha compiuto il suo processo di formazione e si trova realizzzata. Quando la filosofia sbozza a chiaroscuro un aspetto della vita, questo, giá invecchiato, in penombra, non può essere ringiovanito. ma solo riconsciuto: la nottola di Minerva inizia il suo volo al cadere il crepuscolo.
Hegel
Filosofia del Diritto
Introduzione
trad. genseki
Al calar del sole si leva in volo la nottola di Minerva, quando l'allungarsi delle ombre vela la molteplicità delle forme. Vola col cuore gonfio di nostalgia, la nostalgia per il mondo screziato delle apparenze multiformi. Quello che il suo volo lascia dietro di sè nel penetrare l'ombra che scende è il manto di Gerione della luce e dell'ombre che non conosce, cui volta le spalle e che le punge il cuore di rimpianto.
Se vola lo deve a questo vuoto rimpianto. È questa nostalgia che la sostiene e la guida nella notte tra i profili grigi di tutte le cose.
Così la nottola della filosofia sta sospesa tra due mondi, pur movendosi dall'uno all'altro perché il grigio è possibile solo la ove vi fu colore.