Quanto resta di me? Temo moltissimo. moltissimo di viscoso e iterativo, moltissimo di corrosivo e di torbido.
Tutto questo si cela dietro la pigrizia. La pigizia non è solo pigrizia, è, soprattutto sopravvalutazione di se stessi.
Eppure essere pronto a morire, lo vedo con chiarezza, significa essere pronto ad ogni istante a vivere per davvero senza il peso dell'istante precedente, senza il peso pesantissimo di tutti gli istanti precedenti che si sono susseguiti.
Essere pronto a morire. Ora. Deporre finalmente il fardello tanto gravoso degli istanti passati, con l'infinitá dei loro pensieri e delle volizioni. A questo si riduce tutto il resto: la pratica, la ragione, lo spirito, la fede.
Mi pare che praticare la disponibilitá alla morte, o alla vita sia soprattuto praticare la concentrazione.
Concentrarsi, diventare densi, impenetrabili, comprimere la propria massa nello spazio piú ristretto possibile. È forse questa una maniera di conseguire una tale meta?
Davvero non sono mai stato tanto intimo con la morte come spesso lo ho creduto, questa intimitá non si trova nella vorticosa coscienza dell'impermanenza e neppure nell'intuizione nullificante dell'infinito. Quell'intuizione insopportabile che suole visitarmi nei momenti del dormiveglia. No È tra un istante e l'altro, nella coscienza del loro tracorrere che si educa questa intimitá. Naturalmente anche nella scelta per la solitudine.
Finire probabilmente è piú facile di quello che sembra, è la fine che ci forma conformente ad essa. Succede da sola e quando succede siamo fatti, forse anche inmediatamente, adeguati allla sua modalitá.
O forse, essere pronti a morire, significa proprio accettare di non poter mai essere del tutto pronti, accettare che non si puó essere pronti a morire piuttosto che a vivere perché, appunto, si tratta di vivere. Vivere la propria morte. Vivere la morte. Vivere la morte come un momento della vita.
genseki
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