mercoledì, gennaio 14, 2009

Questo spirito è uno spirito senza spirito

Il Maestro Hungpo disse:

È meglio onorare un solo adepto del non spirito che tutti i Buddha di tutti gli spazi. Perché? Perché il non spirito è l'assenza di ogni stato dello spirito particolare.La sostanza di ciò che è così ha un duplice aspetto: dentro è immobile come pietra o legno; fuori non incontra ostacolo come se si trattasse dello spazio vuoto. Quivi non si trova nè soggetto nè oggetto, non luogo nè direzione, non aspetto nè forma, non guadagno nè perdita. Coloro che hanno fretta non osano impegnarsi in questo cammino. Hanno paura di cadere nel vuoto senza la possbilitá di trovare ove agrapparsi. Poi, avendo scrutato l'abisso, si tirano indietro e, tutti allo stesso modo, partono alla ricerca di conoscenze e di opinioni. Ecco perché coloro che ricercano conoscenze e opinioni sono in numero maggiore delle piume ma coloro che su risvegliano alla Via, rari come le corna
Manjusri corrisponde al principio ultimo e Samantabhadra alla pratica. Il principio ultimo è il principio della vacuitá che nulla puó ostruire e la pratica, la pratica inesauribile che consiste nel separarsi dai caratteri particolari. Avalokitesvara rappresenta la grande compassione e Mahastamaprapta la grande conoscenza. Quanto a Vimalakirti, ovvero “Pura Fama”, “puro” designa l'essenza dello spirito e “Fama” i suoi attributi. Siccome essenza e attributi non sono distinti si parla di “Pura Fama”.
Insomma, ogni uomo possiede ció che esprimono i grandi Bodhisattva: semplicemente lo spirito uno al quale deve risvegliarsi. I diseepoli attuali non si risvegliano rivolgendosi al proprio spirito ma attaccandosi ai caratteri particolari. Si appropriano di oggetti esterni al loro spirito che è come se in fin dei conti dessero le spalle alla Via.
Il Buddha dice che le sabbie del Gange non si inorgogliscono per essere caplestate dai Buddha, dai Bodhisattva, da Indra o da Brahma e gli altri dei e non si sdegnano quando lo sono da bufali, capre, insetti, formiche. Queste sabbie non desiderano tesori preziosi né incensi raffinati e disprezzano gli escrementi e le altre forme di sporcizia. Allo stesso modo questo spirito è uno spirito senza spirito.
Oltre tutti i caratteri particolari, gli esseri viventi e i Buddha non sono piú differenti gli uni dagli altri e basta conoscere questo non spirito per raggiungere il risveglio.
trad genseki
Huangopo "I Dialoghi" cap. II

lunedì, gennaio 12, 2009

Tucidide a Gaza


DIALOGO DEGLI ATENIESI E DEI MELI
(Tucidide V 84 114)
Il dialgo si svolge nell'anno 416 a.C. a Melo, isola delle cicladi legata a Sparta per la discendenza da una stirpe comune
Gli ateniesi propongono ai Meli di sottomettersi e di pagare un tributo al loro impero
Melo si trova davanti a un’alternativa:
accettare il dominio e salvarsi, o resistere, cosa che avrebbe causato l’assedio, la conquista e la distruzione della città.
Nelle pagine seguenti di Tucidide è delineata una situazione astrattamente molto simile a quello che accade oggi in Gaza.
Certo il lucido, tagliente realismo degli ambasciatori ateniesi è a un altro livello stilistico e intellettuale rispetto all'ipocrita, ripugnante, ingiustificabile vittimismo dei dirigenti israeliani.
Certo il destino dei Meli appare meno brutale alla fine di quello che attende i palestinesi. I bambini in special modo non sono bruciati vivi nelle loro scuole ma venduti come schiavi. Si puó discutere su quale delle due sventure sia meno ignobile.
Tuttavia si propone qui, forse per la prima volta il dilemma, se la resistenza disperata per la dignitá e per "l'onore" sia alla fine morale. Se piegarsi alla forza da parte del piú debole e quindi aderire liberamente alla necessitá non sia la vera forma che in questa circostanza assume la libertá.
Su questo dilemma va giudicata Hamas. E il giudizio è terribilmente difficile.
Come i Meli i Palestinesi non hanno amici. Né gli arabi, né gli spartani lo sono. Come i Meli anch'essi sono messi davanti alla scelta tra la sottomissione e la distruzione.
Come i Meli esssi sembrano aver scelto la distruzione.
Certamente l'Impero ateniese era un momento della storia, lo Stato di Israele solo pura negativitá. Ma l'analogia resta.

84, 1 Nell’estate seguente Alcibiade giunse per mare ad Argo con venti navi e arrestò trecento Argivi sospetti di favoreggiamento per Sparta: gli Ateniesi li deportarono nelle isole vicine loro suddite. E gli Ateniesi fecero una spedizione contro l’isola di Melo con trenta navi loro, sei di Chio, due di Lesbo, e con 1200 opliti, 300 arcieri e 20 arcieri a cavallo venuti da Atene, 1500 opliti circa venuti dagli alleati e dagli isolani.
2 I Meli infatti sono coloni dei Lacedemoni e non volevano sottostare ad Atene come gli altri isolani, ma dapprima se ne stavano tranquilli in quanto neutrali, poi, costretti dagli Ateniesi che ne devastavano la terra, si volsero aguerra aperta.
3 Invasa la terra e accampatisi con questi contingenti, gli strateghi Cleomede di Licomede e
Tisia di Tisimaco, prima di colpire il territorio, inviarono ambasciatori per intavolare una discussione. Ma i Meli non li condussero davanti al popolo, bensì li invitarono a parlare su quegli affari, per i quali erano venuti, stando davanti ai magistrati e agli oligarchi.

85 E gli ambasciatori ateniesi così parlarono: «Dal momento che la discussione non ha luogo in presenza del popolo, evidentemente perché esso resti ingannato non potendo udire, in un discorso continuato, argomenti persuasivi e inconfutabili una volta per tutte (abbiamo capito, infatti, che questo è lo scopo per cui ci avete condotto in disparte di fronte agli oligarchi), voi che siete qui seduti cercate di agire in modo ancor più sicuro. Rispondete punto per punto, e neppure voi con un discorso continuato, ma replicando subito a quelle frasi che a vostro parere sono inesatte. E dapprima diteci se vi piace la proposta che vi facciamo».

86 E i consiglieri Meli risposero: «La ragionevolezza dell’informarci tranquillamente a vicenda non incontra il nostro biasimo, ma i preparativi di guerra, che sono già qui presenti e non tarderanno a mostrarsi, ci appaiono discordanti da tutto ciò. Vediamo che voi siete venuti qui a giudicare ciò che diremo, e che la conclusione della discussione, se, come è naturale, noi avremo la meglio in difesa del diritto e perciò non cederemo, ci porterà la guerra, mentre ci porterà la schiavitù se ci faremo persuadere».

ATENIESI 87 «Se siete venuti qui con noi per far calcoli sui vostri sospetti per il futuro, o per qualche altro scopo che non sia quello di prendere per la città, sulla base delle circostanze presenti e di ciò che sta sotto i vostri occhi, una deliberazione che la salvi, smetteremo di parlare; se invece siete venuti proprio per questo, parliamone».

MELI 88 «È naturale e comprensibile per persone che si trovano in questa situazione volgersi a
considerare tante cose, sia con parole che con supposizioni. Pure, la presente riunione è stata indetta per discutere della nostra salvezza, e la discussione si svolga, se vi piace, nel modo in cui ci invitate a discutere».

MELI 90 «A nostro parere, almeno, è utile (è necessario infatti usare questo termine, dal momento che avete proposto di parlare dell’utile invece che del giusto) - è utile che noi non distruggiamo questo bene comune ma che sia salvaguardato il diritto che spetta a colui che di volta in volta si trova in mezzo ai pericoli, e che sia avvantaggiato colui che riesce a persuadere un altro anche senza raggiungere i limiti dell’esattezza più rigorosa. E questo fatto non è meno utile nei vostri riguardi, in quanto in caso di insuccesso sarete d’esempio agli altri a prezzo di una severissima punizione».

ATENIESI 91, 1 «Ma noi non temiamo la fine del nostro impero se anche dovesse finire, perché non sono terribili per i vinti quelli che come i Lacedemoni comandano ad altri (e del resto la presente contesa non riguarda noi e i Lacedemoni), bensì i soggetti, qualora di propria iniziativa assalgano chi comanda e lo sottomettano.
2 E su questa questione ci sia permesso di correre rischi: ma che noi siamo qui per favorire il
nostro impero e che per salvare la nostra città ora vi facciamo questi discorsi, tutto ciò ve lo mostreremo, intenzionati a comandare a voi senza spendere fatica e a salvarvi con vantaggio di entrambi».

MELI 92 «E come può derivare dell’utile a noi dall’essere vostri schiavi, come a voi dal
comandarci? ».
ATENIESI 93 «Perché a voi toccherebbe obbedire invece di subire la sorte più atroce, mentre noi , se non vi distruggessimo, ci guadagneremmo».

MELI 94 «E non potreste accettare che noi, restando in pace, fossimo amici invece che nemici, ma alleati di nessuna delle due parti? ».

ATENIESI 95 «No, perché la vostra ostilità non ci danneggia tanto quanto la vostra amicizia, manifesto esempio per i sudditi della nostra debolezza mentre l’odio lo è della nostra potenza».

MELI 96 «È così che vedono la giustizia i vostri sudditi, sì da porre sullo stesso piano quei popoli
che non hanno niente a che fare con voi e quelli che, vostri coloni per la maggior parte e vostri ribelli in un certo numero, sono stati da voi assoggettati? ».

ATENIESI 97 Sì, perché credono che né gli uni né gli altri manchino di giustificazioni per se stessi, e credono che alcuni di loro possano salvarsi grazie alla loro potenza, mentre noi non li assaliamo per paura. Sicché, oltre a farci comandare a un maggior numero di persone, voi con la vostra sottomissione ci fornireste un motivo di sicurezza, tanto più se, isolani e per giunta più deboli di altri, voi foste sconfitti da un popolo dominatore del mare».

MELI 98 «E nell’altro caso non credete di trarne sicurezza? Giacché, come voi ci avete distolto dal discorrere della giustizia e ci avete consigliato di obbedire a ciò che è utile per voi, così noi, mostrandovi il nostro vantaggio, dobbiamo cercare di persuadervi che il nostro utile può coincidere col vostro. E in realtà tutti coloro che ora sono neutrali, come non ve li renderete nemici allorché, guardando a quanto avviene a noi, penseranno che un giorno voi assalirete anche loro? In tal caso, che altro farete se non accrescere il numero dei vostri nemici e persuadere i riluttanti ad esserlo, anche se ora non ne hanno alcuna intenzione?».

ATENIESI 99 «No, perché noi non consideriamo pericolosi coloro che, abitatori di qualche parte della terraferma, grazie alla loro intatta libertà si guarderanno bene dallo stare sulla difensiva nei nostri riguardi; al contrario, noi temiamo quelli che, da qualche parte, sono isolani e non soggetti al nostro impero, come voi, insieme con coloro che ormai sono esasperati dalla costrizione del nostro dominio. Perhé costoro, abbandonandosi a calcoli errati, potrebbero numerosissime volte esporre se stessi e noi a un manifesto pericolo».

3
MELI 100 «Certo, se voi affrontate tali pericoli perché il vostro impero non abbia mai fine, e se i
vostri sudditi li affrontano per liberarsene, per noi che siamo ancora liberi sarebbe grande viltà e debolezza non affrontare ogni rischio prima di essere schiavi».

ATENIESI 101 «No, se la vostra deliberazione sarà ispirata a saggezza: ché per voi la lotta ora non è su un piano di parità, per decidere della vostra valentia, e cioè perché non siate tacciati di un’onta; ora piuttosto si decide la salvezza, cioè di non opporsi a chi è molto più forte».

MELI 102 Ma noi conosciamo le vicende della guerra, che talvolta danno una sor te comune alle
due parti avverse più di quanto ci si potrebbe aspettare dalla disparità delle forze; e per noi il cedere immediatamente ci priva di ogni speranza, mentre con l’agire c’è ancora qualche speranza di restare ritti in piedi».

ATENIESI 103, 1 «Ma la speranza, che incoraggia al pericolo, se anche danneggia quelli che vi si
affidano in una situazione di abbondanza, pure non li rovina. Ma quelli che tentano la sorte con tutte le loro sostanze (ché la speranza è per sua natura prodiga), la conoscono subito appena scivolano: essa però non lascia indietro qualche occasione perché uno possa poi stare attento, una volta che l'ha conosciuta.
2 E voi, che siete deboli e vi potete permettere una sola gettata di dadi, non vogliate subire questo danno o rendervi simili a molti uomini che, pur potendo salvarsi con mezzi umani, una volta che la speranza di manifesti aiuti li abbia abbandonati in mezzo alla sventura, si volgono alla speranza di ricevere soccorsi invisibili, e cioè alla mantica e ai vaticini e a tutte le altre cose di questo genere che affliggono gli uomini insieme cole speranze.

MELI 104 «Certo anche noi, siatene sicuri, pensiamo che è difficile lottare contro le vostre forze e
contro la sorte, se essa non sarà favorevole. Pure, noi confidiamo di non essere da meno per quanto riguarda la sorte che ci manderà la divinità, giacché noi, pii, ci opponiamo a persone ingiuste, e abbiamo fiducia chl l’inferiorità delle nostre forze sarà compensata dall’alleanza coi Lacedemoni, i quali saranno costretti ad aiutarci se non altro per dovere di consanguineità e per sentimento dell’onore. E insomma, la nostra audaci non ci sembra del tutto infondata».

ATENIESI 105 1 «Ma per quanto riguarda la devozione dei sentimenti verso la divinità, neppure noi crediamo di essere da meno, perché noi non pretendiamo né portiamo ad effetto alcuna cosa che devii dalle umane credenze nei confronti della divinità o dai desideri degli uomini nei confronti di se stessi.
2 Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comanda: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi., ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni dellastessa nostra potenza.
3 E così nei confronti della divinità, per quanto è probabile, non crediamo di essere inferiori a voi; quanto alla convinzione che avete nei riguardi dei Lacedemoni, per cui confidate che accorreranno in vostro aiuto per un sentimento d'onore, noi, pur considerando beata la vostra inesperienza, non invidiamo la vostra pazzia. 4 I Lacedemoni, di solito, sono valorosi quando sono chiamati in causa loro stessi con le loro consuetudini patrie, ma sul loro modo di trattare gli altri, sebbene vi sia molto da dire, pure in breve si potrebbe mostrare che costoro, nel modo più evidente tra tutti gli uomini che conosciamo, considerano onesto ciò che è piacevole e giusto ciò che è utile. Eppure, una tale convinzione non reca vantaggio agli irrazionali tentativi di salvezza a cui ora vi volgete».

MELI 106 «Ma noi abbiamo fiducia che per via dell’utile che ne deriva i Lacedemoni non vorranno, col tradire i Meli loro coloni, diventare infidi a quei Greci che sono favorevoli a loro e utili a quelli che sono loro nemici».

ATENIESI 107 «Non credete che l’utilità si accompagni alla sicurezza, mentre il giusto e l’onesto si compiono con pericolo (cosa che, solitamente, i Lacedemoni non osano fare)? ».

4
MELI 108 «Ma noi crediamo che loro tanto più affronteranno il pericolo per noi e lo
considereranno meno grave di quello affrontato per altri, in quanto noi siamo situati vicino alle azioni militari del Peloponneso e siamo più fidati di altri per via della consanguineità che si rivela nel nostro modo di pensare».

ATENIESI 109 «Ma la sicurezza, ai soccorritori, non è data dal benvolere di chi li ha chiamati in aiuto, ma solo dalla propria eventuale superiorità nell’agire, e a questo i Lacedemoni badano più degli altri (per sfiducia nel proprio apparato militare assalgono i vicini ricorrendo perfino all’aiuto di molti alleati), sicché non è probabile che compiano la traversata per arrivare fino a un'isola mentre noi siamo signori del mare».

MELI 110, 1 «Essi però potrebbero anche delegare altri a farlo, e vasto è il mare di Creta, in cui la cattura di qualcuno da parte di chi ne ha il controllo è più difficile di quanto non lo sia la salvezza di chivuole passare inosservato.
2 E se fallissero in questo intento, potrebbero anche rivolgersi contro la vostra terra e contro quegli alleati che vi sono rimasti e che Brasida non ha assalito; e le difficoltà allora non sorgerebbero tanto per una terra che non vi riguarda, quanto per la difesa del vostro suolo e di quello degli alleati».

ATENIESI 111, 1 «Ma una di queste eventualità non si potrà realizzare se non dopo che voi avrete sperimentato la vostra sorte e imparerete che gli Ateniesi non si sono mai ritirati da un assedio per timore di altri.
2 E noi riflettiamo che, pur avendo detto di volerci consultare per provvedere alla vostra salvezza, in questa discussione voi non avete detto ancora niente che possa dare agli uomini la fiducia di potersi salvare. Al contrario, le vostre maggiori forze sono rappresentate da speranze di cose di là da venire, mentre le forze che sono qui presenti sono insufficienti a vincere quelle schierate di fronte. E voi mostrate grande irragionevolezza se, dopo averci congedati, non prenderete qualche decisione più equilibrata di questa.
3 Che certo non vi volgerete a quel sentimento di onore, il quale procura grandi rovine agli uomini quando sorge in mezzo ai pericoli più evidenti e dall’esito più vergognoso. Infatti a molti, che pur prevedevano a che cosa andavano incontro, il cosiddetto sentimento dell’onore, sorretto dalla forza di un nome ingannevole, trascinò con sé, una volta che le suddette persone furono vinte da quella parola, il destino di piombare volontariamente nelle sciagure più atroci e di attirarsi per colpa della loro stessa irragionevolezza una vergogna più vergognosa che se fosse dipesa dalla sorte. 4 Ma da questo avvenire, se la vostra decisione sarà saggia, voi vi guarderete, e non considererete sconveniente essere vinti dalla più potente città, la quale vi sollecita a obbedire alle sue moderate richieste, a divenirne alleati conservando la vostra terra (pur essendo
sottomessi a un tributo) e, quando vi si concede la scelta tra la guerra e la sicurezza, a non intestardirvi nella soluzione peggiore. Coloro che non cedono a chi è pari di forze, si comportano al meglio di fronte ai più forti e sono moderati verso i più deboli, costoro ottengono i più grandi successi. 5 Riflettete dunque, anche dopo la nostra partenza, e ricordatevi più volte che state per prendere una decisione che riguarda la vostra patria, la quale è una sola e la cui salvezza dipende da un’unica decisione, a seconda che essa sia quella giusta o meno».

112, 1 Gli Ateniesi abbandonarono la discussione: i Meli, trattisi in disparte, poiché le loro vedute erano pressappoco simili alle risposte date nel dibattito, così risposero:
2 «Le nostre convinzioni non sono mutate, o Ateniesi, né in così breve tempo priveremo della sua libertà una città abitata già da settecento anni, ma fiduciosi nella sorte che ci manda la divinità, la quale ha sempre salvato la città fino ai nostri giorni, fiduciosi inoltre nel soccorso degli uomini e dei Lacedemoni, cercheremo di salvarci.
3 Noi vi proponiamo di esservi amici, e nemici di nessuna delle due parti in lotta, e vi invitiamo a ritirarvi dalla nostra terra dopo aver concluso un trattato che sembri essere utile sia a noi che a voi».

113 Così dunque risposero i Meli; gli Ateniesi, sciogliendo ormai il convegno, dissero: «Certo, a giudicare da vostre decisioni, voi, soli tra tutti quelli che conosciamo, considerate più sicuro il futuro del presente e, per il fatto che lo desiderate, contemplate l’incerto come se si stesse già realizzando e, gettandovi nelle braccia dei Lacedemoni e delle speranze e della sorte, quanto più siete pieni di fiducia, tanto più conoscerete gravi sciagure».

114, 1 E gli ambasciatori ateniesi tornarono al loro esercito: gli strateghi ateniesi, poiché i Meli non cedevano, si dettero subito alle operazioni belliche e, essendosi diviso il lavoro città per città, assediarono tutto all'intorno i Meli.
2 E in seguito gli Ateniesi, dopo aver lasciato per terra e per mare una guarnigione composta dai loro soldati e da quelli degli alleati, si ritirarono con il grosso dell'esercito. Quelli lasciati a Melo, rimanendo sul posto, continuavano l'assedio.
(…)
116, 3 Arrivò da Atene un altro esercito al comando di Filocrate di Demea, e i Meli ormai erano stretti da assedio a tutta forza; verificatosi anche un tradimento, si arresero agli Ateniesi a condizione che questi decidessero dei Meli secondo la loro discrezione.
4 E gli Ateniesi uccisero tutti i Meli adulti che catturarono e resero schiave le donne e i bambini; abit arono quindi loro stessi la località, dopo avervi inviato cinquecento
coloni.

Simone Weil a Gaza



Questi pensieri tratti dai quaderni di Simone Weil possono aiutare a intendere quello che sta accadendo in questi giorni in Palestina e che sta accadendo da secoli in angolo di questa terra impregnata di sangue:





Lo sventurato, non trovando né pietá, né simpatia non ne capisce il perché. Crede che se fosse lui al posto degli spettatori avrebbe pietá, perché immaginandosi al loro posto si inventa come spettacolo una sventura immaginaria in cui niente ostacoli la pietá.

Basta leggere i quotidiani di tutti i paesi sviluppati o ascoltare le notizie. I palestinesi non hanno diritto alla pietá.





Due pensieri alleviano un po' la sventura. Che essa finirá quasi subito, oppure che non finirá mai. Ma non si puó pensare che essa è, semplicemente. Questo è insostenibile.

In queste parole forse si puó intravedere il senso della resistenza disperata degli abitanti di Gaza e dei militanti di Hamas



***

La sofferenza non è nulla al di fuori del rapporto tra il paasato e il futuro, ma per l'uomo cosa c'è di più reale di questo rapporto? La realtá stessa.

***

Coloro cui era stata distrutta la cittá e che venivano condotti in schiavitú non avevano piú né passato né futuro: di quale oggetto potevano riempire il loro pensiero? Di menzogne e delle più infime, pronti, forse a rischiare la crocifissione per rubare un pollo piú che un tempo la morte in combattimento per difendere la loro cittá.

Nessuno compiangeva uno schiavo (un palestinese di Gaza); dunque egli poteva diffondere a sé il male che soffriva, solo con la cattiveria (lancio di missili Kassam), poiché gli era impossibile far soffrire gli altri per pietá.

Al di sotto di un certo livello questo desiderio di diffondere il male al di fuori di se sparisce e la sventura rende docili.

Questo grado estremo di sventura sembrerebbe essere l'obiettivo che Israele intende disumanamente raggiungere e che fino ad oggi non ha potuto conseguire.

***

Le perti in verde sono di genseki, le azzurre di Simone Weil dai Quaderni vol II pagg. 47-49 a cura di G. Gaeta.

sabato, gennaio 10, 2009

Nomadi del vento

Stephan Hermlin

Gli Uccelli e il test nucleare

Riportano i quotidiani che per l'influsso
Degli esperimenti con le bombe all'idrogeno
Gli uccelli migratori hanno variato
Le loro rotte per i mari del sud.

Per mari e per savane gli spinse
Il bisogno di vita, sui venti
Come sordi e ciechi, da tempi immemorabili
Alla ricerca di cibo e di un nido.

Non gli trattenne tuono né tifone
Neppure le reti dei cacciatori;
quando gli chiamava
Il grido stridulo a lanciarsi verso una stessa meta
Su uno stesso cammino
Sempre per il medesimo tragitto.

Essi che non temevano pioggia e tempesta
Videro un giorno in pieno mezzogiorno
Il volto atroce di una luce altissima
Questo gli spinse a cercare altre rotte
Verso nuove terre piú accoglienti
Che questo cambio scuota i vostri cuori.

Trad genseki

venerdì, gennaio 09, 2009

Lichenology

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L'albero di Gaza

A Gaza c'é un albero
un albero pieni di frutti
sono i frutti del sonno
non dormito
da tante palpebre sbarrate

palpebre spietate
son frutti senza ombra
frutti maturati alla linfa
di cenere

gabbiani senza occhi
vi pongono il loro nido
si nutrono del siero
dei sogni disossati

non un'ala si muove
nè foglia stormisce
aspettano una pioggia
che non venga dal cielo

ma cada dalla terra
dalle ossa dei morti
dalla carne disfatta
alle radici dei cardi

cada verso le nuvole
e sollevi dal fango
le palpebre sbarrate
e le ditta annerite.

Sergei Parajanov

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Gilles de Rais IV



Il grande Usuraio del tempo, Giovanni V Duca di Bretagna rifiutó di pubblicara nei suoi stati l'editto che fece tuttavia notificare, sottobanco a coloro tra i suoi sudditi che facevano affari con Gilles. Nessuno, quindi, osava piú comprare terre da Gilles per paura di attirarsi la collera del Re e l'dio del Duca, Giovanni V, restó il solo possibile compratore e fissó lui il prezzo. Questo spiega anche il furore di Gilles contro la sua famiglia che aveva sollecitato le lettere reali – e perché egli non si occupó piú, per tutta la sua vita di sua moglie e di sua figlia che relegó in un vecchio castelle a Pouzages.
La domanda sul perché e per quali motivi Gilles lasció la corte, mi sembra trovare risposta in questi stessi fatti. È evidente che giá da molto tempo, ancor prima che il Maresciallo si autoconfinasse nei suoi feudi, Carlo VII era assalito dalle suppliche della mogliee degli altri parenti di Gilles; d'altra parte, i cortigiani dovevano detestare il giovanotto a causa delle sue ricchezze e del suo fasto; quello stesso Re che abbandonó deliberatamente Giovanna d'Arco quando ritenne che non fosse piú utile, trovava un'occasione di vendicarsi su Gilles dei servizi che egli gli aveva reso. Quando aveva bisogno di denaro per le sue truppe, allora non si dava troppo pensiero del fatto che il Maresciallo fosse troppo prodigo! Ora che lo vedeva mezzo rovinato, gli rimproverava i suoi sperperi, e non gli risparmiava biasimo e minaccia. Si capisce che Gilles abbia lasciato quella corte senza nessun rimpianto. Ma c'è dell'altro. La stanchezza di una vita nomade, il disgusto degli accampamenti che probabilmente lo avevano colto; ebbe certamente fretta di concentrarsi in una atmosfera pacifica accanto ai suoi libri. Sembra che soprattutto la passione per l'alchimia l'abbia interamente dominato e che egli abbia abbandonato tutto a causa di essa. Bisogna, infatti notare che egli amó davvero in se stessa, quella scienza che lo precipitó della demonomania, quando sperava di produrre oro e di salvarsi quindi dalla miseria che lo assediava, la amó quando ancora era ricco. Fu, infatti, verso il 1426 quando il denaro scorreva a fiumi verso i suoi scrigni, che egli tentó, per la prima volta la riuscita della grande opera.
Eccolo, finalmente, a Tiffauges che sará il teatro dei suoi primi delitti di sadismo e di magia assassina.
Mancano i documenti per unire le due parti della sua vita cosí bizzarramente separate ma vi sono molte piste possibili. Quest'uomo era un vero mistico. Ha vissuto gli avvenimenti piú straodrdinari che la storia abbia mai mostrato. La frequentazione di Giovanna d'Arco ha certamente reso piú acuti i suoi slanci verso Dio. Ora dal misticismo esaltato al satanismo esasperato, non v'è che un passo. Nell'aldilá tutto si tocca. Egli ha trasferito la furia della preghiera nel mondo del suo inverso. In questo fu spinto dal gruppo di preti sacroleghi, dimanipolatori di metalli e di evocatori di demoni che lo corcondava a Tiffauges.
Fu Giovanna d'Arco che infiammó quest'anima smisurata, disposta a tutto alle orge di santitá come agli oltraggi del delitto. Poi non ci fu transizione: non appena morì Giovanna, egli cadde nelle mani degli stregoni che erano i piú squisiti scellerati e i letterati pi´raffinati. Coloro che lo frequentarono a Tiffauges erano ferventi latinisti, prodigiosi conversatori, possessori di arcani dimenticati, detentori di vecchi segreti. Gilles si trovava, evidentemente meglio con loro che con Dunois e La Hire.


Traduzione e montaggio a cura di genseki

mercoledì, gennaio 07, 2009

Gaspard de la nuit

Il Mercante di Tulipani

Il tulipano è tra i fiori ciò che tra gli uccelli è il pavone.
L'uno non ha profumo, l'altro non ha voce.
L'uno va orgoglioso della sua veste, l'altro della sua coda.


Nessun rumore se non il fruscio dei fogli di carta velina sotto le dita del dottor Huylten, che non alzava gli occhi salla sua bibbia fiorita di gotiche miniature se non per ammirare l'oro e la porpora dei due pesciolini prigionieri degli umidi fianchi d'un boccale.

Si aprirono scorrendo i battenti: era un mercante di fiori, che con le braccia cariche di vasi di tulipani si scusó di interrompere la lettura di un personaggio tanto sapiente.
“Maestro, disse, ecco il tesoro dei tesori, la meraviglia delle meraviglie, un bulbo come solo en fioriscono una volta ogni anni nei serragli dell'imperatore di Costantinopoli!

Un tulipano! Esclamó il vecchio corrucciato, un tulipano! Simbolo dell'orgoglio e della lussuria che hanno generato nella sventurata cittá di Wittemberg la detestabile eresia di Lutero e di Melantone!

Mastro Huylten chiuse la fibbia del fermaglio della sua bibbia pose gli occhiali nel loro astuccio e tiró le tende della finestra, per lasciar vedere, alla luce del sole, un fiore della passione con la sua corona di spine, la sua spugna, i suoi chiodi e le cinque piaghe di Nostro Signore.

Il mercante di tulipani si inchinó rispettosamente e, in silenzio, sconcertato dallo sguardo inquisitorio del duca d'Alba, il cui ritratto, capolavoro di Holbein, pendeva alla parete.

Louis Bertrand
Trad. genseki

Lamento per Gaza e per noi stessi



Certamente, se avesse vissuto fino ad oggi,il cuore di César Vallejo sarebbe ora a Gaza. Sarebbe a Gaza e saprebbe trovare le parole necessarie, quelle sole possibili, per spiegare a tutti noi che la scheggia che antra nelle palme e nel costato dei bambini di Gaza, quella scheggia di metallo ci sta trafiggendo tutti, ci colpirá tutti, presto o tardi. No, ci ha già colpiti, ci ha colpiti proprio adesso. Ha ucciso prima di tutto le nostre parole e ci ha condannato alla sete; alla sete del bicchiere e non dell'acqua.
Come possiamo bere se i bambini di Gaza hanno sete?
genseki

César Vallejo

Oggi una scheggia la ha ferita

Oggi una scheggia l'ha ferita
Una scheggia le è caduta accanto, ha colto
Accanto, forte colpo al modo suo
di essere al suo famoso centesimo
Che dolore la sorte!
Che dolore la porta,
Che dolore la fascia, che la
Asseta e l'affligge
L'asseta del bicchiere non del vino.
Oggi ha perduto aria la vicina
Di nascosto fumo del suo dogma;
Oggi l'ha ferita una scheggia.

L'immensitá la insegue
Con distanza superficiale ad ampio anello
Oggi la vicina, poveretta, ha perso vento
Dalla guancia, dal nord, dalla guancia, dall'est
Oggi l'ha ferita una scheggia.

Chi comprerá nei giorni aspri e perituri
Un tocchettino di caffelatte?
Chi senza di lei, abbasserá la sua traccia, fino a far luce?
Chi, poi sará il sabato alle sette?
Tristi sono le schegge che ci feriscono
Proprio
qui
Esattamente!
Oggi ha ferito la compagna di viaggio
Una fiamma spenta dall'oracolo – poverina -
Una scheggia.

Che dolore il dolore il dolor giovine
Dolor bambino il doloraccio, il colpo
Sulle mani
Asseta, affligge
Asseta del bicchiere e non del vino.
Poverina!

trad. genseki

martedì, gennaio 06, 2009

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Margherita di Navarra

Addio all'addio

Addio all'oggetto che per primo fece
Volgersi a lui la forza dei miei occhi
Dolce postura, onesto portamento
Armato a punto in ogni giostra e gioco
Che nessun occhio puó trovar riposo
Del mio piú degno. Addio gentil audacia:
Se di nascosto si reo non foste stato
Giammai grazia migliore avrei incontrato.

Addio vi dico o dolcissimo sguardo
Che cor non fu che non ne fosse colto,
D'occhi si belli e graziosi tanto
Che ad amarli i miei furon costretti
Ahi! Troppo presto vidi il raggio estinto
Ed oscurato dal furore piú fosco
Addio a quegli occhi che non sapevo falsi
Fino a celare dentro il miele il tosco.

Addio ancora al parlare gentile.
Sempre a proposito prudente e saggissimo,
Tenero con l'amico e sempre audace
Ove era uopo mostrare un altro volto.
Addio all'accento, al volto ed alla voce
Che mi hanno vinto e l'intelletto e il senso;
Or che il sermone vostro fu dettato
Peggio che morto con rimpianto vi penso.

Addio alla mano che spesso ho toccata
Come fosse, davvero perfettissima
Dentro la quale la mia si addormentava
Senza ferire d'onestá la legge.
Ora che siete contro me levata,
E l'amor convertite in crudeltate
Addio alla mano, ove ormai piú non vedo
La stimmata d'onore e di lealtate.

...
Addio all'addio che spesso mi deste,
Quando lungi da me ve en andavate
A fedeltá che serbar prometteste
Alle promesse che era meglio tacere
Poiché menzogna veggo rivelare
Il voler vostro e il segreto mal celato
Addio all'addio sovente taciuto
Di cui aumenta memoria il rimpianto.

Addio al core che credevo buono,
Giusto, leale a nessuno eguale
Sol d'una cosa perdono vi chieggo
de è davervi creduto verace
addio al trono su cui onesto amore
regnar dovea ma or veggo amor folle
condurre un gioco che troppo è mutevole.

Addio a quel cuore che al final del gioco
Inflisse al mio morte senza speranza
Per ferma fede de amore durevole
Altre parole piú non posso scrivere.
Marguerite de Navarre

trad. genseki

lunedì, gennaio 05, 2009

Denis Diderot e lo zen

Smarrito di notte in un'immensa foresta non ho che una modesta lanterna per orientarmi. Sopraggiunge uno sconosciuto che mi dice: "Amico mio, per trovare meglio la strada soffia sulla fiammella". Lo sconosciuto è un teologo.
Denis Diderot
***
Un antico Buddha, uno di quei vecchi maestri cinesi dalle vesti macchiate e dagli occhi cisposi disse:
Smarrito di notte in un'immensa foresta non ho che una modesta lanterna per orientarmi. Sopraggiunge uno sconosciuto che mi dice: "Amico mio per trovare meglio la strada soffia sulla fammella". Lo sconosciuto è un Buddha.
Soffia sulla fiammella del tuo Io e sarai una sola cosa con la notte, con il nulla, oltre ogni discriminazione tra luce e tenebre tra te e gli alberi nell'unitá che viene prima dell'uno.
genseki

martedì, dicembre 30, 2008

Monty Python - Germania vs. Grecia

O fonti secche o arido vapore


O fonti secche o arido vapore
Pietra che manchi al piede
all'occhio al fuoco
Occhio che cieco anneghi di vedere
Parole di dolore
Non ne trovo
Prima della parola maledetti
Vi maledica il suono dal silenzio
La luce vi maledica dalla notte
Prima di spazio e tempo maledetti
O fonti secche o arido vapore
Pietra che manchi al piede
Voce all'odio
genseki

Gramsci e la fine della storia

Scrive Gramsci nelle pagine dei Quaderni dedicate alla filosofia di Benedetto Croce:

“La formulazione di Engels che l'unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente soggettivo [...]. L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie [...]. C'è dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l'unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un punto di partenza ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire verso l'unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario».

L'unificazione culturale del genere umano corrisponde in questo testo alla sparizione delle contraddizioni. Tuttavia la sparizione delle contraddizioni non puó che significare anche contemporaneamente la sparizione della dialettica dal momento che non vi è dialettica ove non è contaddizione. Se, tuttavia, come pare, anche nel pensiero di Gramsci la dialettica è la legge che governa la realtá umana e quella naturale, quale tipo di realtá sarebbe quella senza dialettica? Una realtá certamente non piú umana. Non piú umana in che senso? Certamente non nel senso di una realtá piú naturale. Che cosa allora? Qualche cosa che si situa al di lá del reale, nell'elemento dell'ultrareale che non è né trascendente né immanente e che quindi non non è né puó essere neppure anteriore piuttosto che posteriore. Infatti se non vi è contraddizione, ció che resta abolito è la negazione. Non puó evidentemente darsi negazione senza che inmediatamente si dia contraddizione e all'inverso ove non vi sia contraddizione non vi è possilitá di negazione. Senza negazione non si puó parlare di “punto di partenza” e neppure di principio. Perché vi sia partenza o perché vi sia inizio, è infatti necessario che vi sia negazione di uno stato che è appunto quello anteriore alla partenza o all'inizio e che nello stesso tempo è interno ad entrambi. Non so se si potrebbe dire attuale a tutti e due. L'unificazione del genere umano non può dunque essere considerata un punto di arrivo o di partenza se non in senso assolutamente relativo o metaforico.
In queste linee, tuttavia, Gramsci sembrerebbe voler far consistere la differenza tra idealismo e materialismo proprio in una opposta concezione del punto di arrivo e di quello di partenza. Gli idealisti sarebbero quelli che considerano lo spirito come il punto di partenza e i materialisti coloro che lo considerano un punto di arrivo,
Tuttavia se lo spirito, sarebbe meglio dire, il regno dello spirito realizzato è concepito da Gramsci come il regno della non contraddizione allora anche la contraddizione partenza-arrivo è tolta e con essa la contraddizione tra idealismo e materialismo che appunto non puó sussistere che in senso soltanto relativo.
D'altra parte la relazione dialettica tra partenza e arrivo è tale per cui l'arrivo è concepibile solo come legato alla partenza. In questo senso Gramsci sembrerebbe volerci dire che il materialismo è necessariamente legato all'idealismo e che non puó essere concepito se non in relazione dialettica con esso.
genseki

Lichenology

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Lichenology

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Lichenology

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lunedì, dicembre 29, 2008

Etienne de la Boétie

Sonetto

Lasso per quanti giorni, lasso per quante notti
Vissi lungi del loco ove il cor mio dimora
Venti giorni costretto in oscura dimora
Un secolo mi parve di sofferenze a fiotti.

Solo porto la colpa o cattivo, infelice
Del sospirare invano, di ció che m'addolora:
Perché mal consigliato ho lasciato in mal'ora
Colei che in nessun luogo mai lasciare mi lice.

Ho vergoga che omai la pelle scolorata
Veggasi pel dolore di rughe come arata:
Ho vergogna che infine l' inumano dolore

Tinga il capo anzitempo con il bianco colore
Ancora son minore pel computo degli anni
Eppur sono giá vecchio per quello degli affanni.

trad. genseki

martedì, dicembre 23, 2008

Jalisco

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Bordiga

A Janitzio la morte non fa paura


«In Messico, nel lago Patzcuaro, si trova la piccola isola di Janitzio. A 2.350 metri d'altezza, un paesaggio stupendo si spalanca davanti ai visitatori: acque tranquille, montagne dai fianchi tormentati, un cielo così vicino che sembra di poterlo toccare col dito. Discendenti da una razza fiera, gli indiani Tarascani combatterono contro gli Spagnoli «conquistadores». Furono vinti e adottarono la religione cristiana degli invasori; ma i santi che essi venerano hanno conservato i caratteri delle antiche divanità. Il Sole, l'Acqua, il Fuoco e la Luna. I Tarascani sono abili nel lavorare il cuoio, nello scolpire il legno, nel lavorare l'argilla e nel tessere la lana. Sono anche abilissimi pescatori. Quando ritirano le loro reti dalla strana foggia, somiglianti a grosse farfalle, sono sempre ricche di pesce. Ma anche se industriosi, i Tarascani sono ancora molto primitivi. Essi considerano infatti la vita come uno stato transitorio, un breve momento che bisogna passare per giungere alla beatitudine della morte. La morte non rappresenta più un'inesorabile fatalità; al contrario essa è considerata un bene, l'unico veramente inestimabile. Ecco perché «il giorno dei morti» non è, per gli abitanti di Janitzio, un giorno di dolore. La festa inizia di buon mattino. Le case vengono decorate a festa e tutte le immagini dei santi si arricchiscono di pizzi e fiori di carta. I ritratti dei defunti vengono esposti e illuminati da decine di ceri. Le donne preparano i piatti favoriti dai parenti defunti poiché essi, tornando a visitare i vivi, vi traggano consolazione.Nel cimitero, dietro la chiesa, si decorano anche le tombe che molto spesso non hanno nome. Non vi sono iscrizioni funebri a Janitzio! Ma non per questo si dimenticano i morti. La via che conduce dal cimitero al villaggio viene cosparsa di petali di fiori, affinché i defunti possano agevolmente trovare la strada di casa.Nel «giorno dei morti» le donne di Janitzio si fanno belle. Pettinano le lunghe trecce scure e si adornano di gioielli d'argento. Il costume si compone di una lunga sottana rossa bordata di nero a larghe pieghe. La camicetta ricamata scompare sotto il «rebozo» che ricopre la testa e le spalle e dal quale, spesso, spunta la testina dell'ultimo nato. A mezzanotte le donne vanno tutte insieme nel camposanto e si inginocchiano a pregare per i loro cari defunti. Accendono i ceri, i più grandi dedicati agli adulti e i più piccoli per coloro che se ne sono andati troppo presto da «questa valle di lacrime». Poi si abbandonano alla meditazione che, a poco a poco, si traduce in parole. Inizia così uno litania che non è di dolore, ma che esprime la comunione esistente tra i vivi e i morti.Intanto gli uomini rimasti al villaggio si riuniscono a bere vicino alla chiesa dove è stato elevato un catafalco nero dedicato ai morti che non hanno più nessuno che preghi per loro. Ritorneranno a casa verso l'alba, mentre le loro donne, che hanno vegliato tutta la notte al cimitero, vanno a sentire la messa seminascoste nel «rebozo». Trascorre così a Janitzio «la giornata dei morti». Sui volti degli abitanti del villaggio non si legge dolore, ma la festosa aspettativa di chi attende la visita delle persone più care».


Abbiamo ripresa tal quale e col suo titolo questa notiziola da un giornale italiano per i ragazzi. È una delle tante rifritture di materiale americano di «cultura» che passano di giornale in giornale e di rivista in rivista senza che pennaioli di servizio si accorgano di altro che del grado di effetto del pezzo che circola. Il ricopiatore ennesimo non si è nemmeno sognato il significato profondo che la sua diffusione nasconde, sia pur nella forma convenzionalmente conformista.
Le nobilissime popolazioni messicane, diventate cattoliche sotto il terrore spietato degli invasori spagnoli, mostrerebbero, col non avere terrore ed orrore della morte, di essere rimaste «primitive».
Erano, invece, quei popoli, eredi di una civiltà incompresa ai cristiani di allora e di oggi, e trasmessa dal comunismo antichissimo. L'insulso individualismo moderno non può che stupire beota se, pur nel testo scolorito, si legge di tombe senza iscrizione e di cibi che si apprestano ai morti che nessuno commemora. Veri «morti ignoti», non per retorica bolsa e demagogica, ma per possente semplicità di una vita che è della specie e per la specie, eterna come natura e non come sciocco sciame di anime vaganti negli extra-mondi, per la quale, e per il suo sviluppo, valgono le esperienze dei morti, dei vivi e dei non nati, in una serie storica il cui avvicendarsi non è lutto, ma gioia di tutti i momenti del ciclo materiale.
Anche nel simbolo, quei costumi sono più alti di quelli nostrani, ad esempio in quelle donne che si fanno belle per i morti e non per il più danaroso dei vivi, come nella società mercantile, fogna in cui noi siamo immersi.
Se sotto le spoglie degli squallidi santi cattolici vive ancora la forma antichissima delle divinità non inumane, come il Sole, ciò ricorda le notizie - quanto giunte a noi travisate! - della civiltà Incas, che Marx ammirava. Non erano primitivi e feroci tanto da immolare i più begli esemplari della specie giovane al Sole che chiedeva sangue umano, ma splendide di un intuito possente, quelle comunità che riconoscevano il fluire della vita nella energia, che è la stessa quando il Sole la irradia sul pianeta e quando fluisce nelle arterie dell'uomo vivo e diventa unità ed amore nella specie una, che fino a quando non cade nella superstizione dell'anima personale col suo bilancio bigotto di dare ed avere, soprastruttura della venalità monetaria, non teme la morte e non ignora che la morte della persona può essere inno di gioia, e contributo fecondo alla vita dell'umanità.
Nel comunismo naturale e primigenio, anche se l'umanità è sentita nel limite dell'orda, il singolo non ha scopi che consistano nel sottrarre bene al fratello ma è pronto ad immolarsi per il sopravvivere della grande fratria senza alcuna paura. Sciocca leggenda vede in questa forma il terrore del dio che si plachi col sangue.
Nella forma dello scambio, della moneta, e delle classi, il senso della perennità della specie sparisce, e sorge quello ignobile della perennità del peculio, tradotta nella immortalità dell'anima che contratta la sua felicita fuori natura con un dio strozzino che tiene questa banca e pesa. In queste società che pretendono di essere salite da barbarie a civiltà si teme la morte personale e ci si prostra alle mummie, fino ai mausolei di Mosca, dalla storia infame.
Nel comunismo, che non si e avuto ancora, ma che resta certezza di scienza, si riconquista la identità del singolo e della sua sorte con quella della specie, distrutta entro essa tutti i limiti di famiglia, razza e nazione. Con questa vittoria finisce ogni timore della morte personale, ed allora soltanto ogni culto del vivo e del morto, essendo per la prima volta la società organizzata sul benessere e la gioia e sulla riduzione al minimo razionale del dolore della sofferenza e del sacrificio, togliendo ogni carattere misterioso e sinistro alla vicenda armoniosa del succedersi delle generazioni, condizione naturale del prosperare della specie
.

Source: «Il Programma Comunista» N. 23 - 15-29 Dicembre 1961
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Natale 2008


Ancora una volta il Fuoco ha penetrato la Terra.
Non si è schiantato con strepito come un fulmine sulle montagne. Forse il Signore deve forzare la porta per entrare nella sua casa?
Senza sismi, senza tuoni, appare la fiamma che ha illuminato ogni cosa dall'interno.
Dal cuore dell'infimo tra gli atomi fino all'energia delle leggi piú universali,
ha invaso con assoluta naturalezza, ogni individuo, e nel suo insieme, ogni elemento, ogni modello, ogni unione del nostro cosmo, tanto che potrebbe credersi che esso abbia spontaneamente preso fuoco.
In ogni nuova Umanitá che oggi si genera,
il Verbo ha prolungato l'atto senza fine
della sua nascita, e in virtú della sua immersione nel seno del Mondo, le grandi acque della Materia, senza nemmeno un brivido, si sono riempite di vita.
Apparentemente nulla ha tremato, per l'ineffabile trasformazione. Tuttavia, misteriosamente e realmente, al contatto con la parola sostanziale, lUniverso, immensa ostia si è fatto carne.
Da allora ogni materia si è incarnata, Dio mio, per opera della tua incarnazione.

Pierre Teilhard de Chardin
Inno dell'Universo
Trad. genseki

lunedì, dicembre 22, 2008

César Vallejo


Ciro Alegria

César Vallejo come l'ho conosciuto

Parte I

Un signore circospetto, carico di anni e di sapienza, era in visita a casa una domenica sera, e fu allora che udii per la prima volta il nome di César Vallejo e le discussione che provocava. Si parlava del fatto che il lunedí avrei dovuto cominciare ad andare a scuola.

- Se avessi un figlio – suggerí questo Signore – lo manderei al Seminario. È una scuola di preti ed è molto conveniente.

Io ascoltavo attentamente questa conversazione dalla quale dipendeva il mio destino di studente. Mia nonna rispose con dignitá:

- In realtà suo padre mi ha scritto che lo mandi alla Scuola Nazionale di San Giovanni. È quello che ha detto definitivamente. Tutti gli uomini della famiglia sono stati educati li -.

- Che classe frequenterá?

- Quest'anno va in prima.

Il vecchio fece quasi un salto e poi disse con molta concitazione:

- Ma signora! Qui non si tratta di Scuole, si tratta di buon senso ... Ma lei lo sa chi insegna in prima alla Scuola di San Giovanni? Lo sa? Ebbene, quel Cesare Vallejo, quello che crede di essere un poeta e gli manca qualche rotella ... -

- Vabbé, ma per insegnare in prima... - disse la nonna per calmarlo un po'.

Ma il nostro ospite sembrava deciso a salvare dal pericolo quel povero innocente che io ero e argomentó:

- No, signora! Questo Vallejo se non è un idiota è sicuramente un pazzo. Non potrebbe farlo entrare in seconda. Entrando ho visto che il bambino stava leggendo il giornale ...-

Il mio presunto salvatore fece una smorfia sconsolata quando la nonna gli disse:

- Si, sa giá leggere e scrivere ma non le altra materie che si insegnano in prima -.

Il vecchio era peró determinato a spendere tutte le sue risorse per liberare il mio povero cervello da influenze perturbatrici, e prese una direzione piú condiscendente:

- Tuttavia signora, lei non mi negherá che in quanto all'educazione e specialmente a quella religiosa il seminario è il collegio migliore. Il suo prestigio va crescendo ... -

E la nonna:

- anche nel piano di studi del San Giovanni c`è religione e non sono per niente anticattolici ...-

Il vecchio si arrese. Forse per consolarsi, peró, si mise a esporre alcune considerazioni fatali per il modernismo e per tutta una serie di altri ismi e poi fece lampi e tuoni di ordine estetico contro l'arte del mio maestro, ma io non ci capivo niente. Finalmente se en andó con un'espressione abbastanza contrariata e non senza farmi gli auguri di buona fortuna in un modo tra disperato e compassinevole.
Mi riuscí difficile conciliare il sonno nel mezzo delle inquietudini che si impadronivano di un bambino che domani aspettava il suo primo giorno di scuola e pensava al suo maestro, che si diceva fosse un poeta e che il vecchio severo aveva chiamato pazzo o forse idiota.
Un mio compagno di viaggio che studiava in quella stessa scuola mi ci accompagnó.

- Voi non entrate da qui – mi disse quando giungemmo ad una grande porta sulla quale si leggeva l'iscrizione: dio e patria, - questa porta è per noi, quelli delle medie. Passiamo di lá -.
Camminammo verso l`angolo della strada, e quando lo svoltammo, si aprí a metá la porta che usavano i maestri e gli alunni delle elementari. Ci fermammo di colpo e mio zio mi presentó a quello che sarebbe stato il mio maestro. Accanto alla porta, immobile c'era Cesare Vallejo, magro, giallognolo, quasi ieratico, mi parve un albero che avesse perso le sue foglie. Il suo vestito era scuro, come scura la sua pelle. Per la prima volta vidi la luce intensa dei suoi occhi quando si inclinó per domandarmi, con tenera attenzione, come mi chiamassi. Scambió poi alcune parole con mio zio e quando questi se en andó mi disse “vieni di qua” Entrammo in un piccolo cortile dove stavano giocando molti bambini. La classe di prima era su uno dei lati. Allora si mise ad aprire i banchi per vedere se ce en fosse uno libero in base al fatto che vi fossero o no abiti al suo interno, poi me en indicó uno dicendo:
- Ti siederai qui, metti le tue cose, no, non così, devi essere ordinato, prima la lavagnetta che è piú grande, sopra il tuo libro e il berretto -.

Trad. genseki

Jimmy Giuffre

venerdì, dicembre 19, 2008

Celan





Io ho scritto poesie, cosa altro posso dire?


Paul Celan

Huerta

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Obaku

Huang-Po
Insegnamenti

I

Il maestro disse a Pei Siu:
Tutti i Budda e tutti gli esseri viventi non sono altro che uno spirito solo: altro metodo spirituale non v'è.
Da tempi senza inizio, questo spirito, che non è mai nato, non ha mai cessato di esistere, non è giallo e non è neppure azzurro, non possiede forma alcuna nè aspetto, non dipende dall'essere e neppure dal non essere, non è antico e non è nuovo, nè lungo, nè corto, nè grande nè piccolo, oltre ogni delimitazione e ogni denominazione: Eccolo, realtá intriseca.
Ma quando si fanno delle considerazioni si finisce per divagare... illimitato e insondabile, sembra lo spazio vuoto
Questo spirito è il Budda e tra il Budda e gli esseri viventi non c'è differenza. Tuttavia gli esseri viventi cercano sempre altrove afferrandosi a caratteri peculiari, e mentre van cercando avviene che perdono tutto, perché inviando la loro idea di Budda alla ricerca del Budda e il loro spirito alla ricerca dello spirito, anche senza mai tirare il fiato per interi kalpa, non possono arrivare da nessuna parte, ignorando, come ignorano che`proprio il Budda è gli esseri viventi tutti.
Quando è essere vivente, questo spirito non risulta in nulla sminuito e quando è Budda non per questo deve apparire come accresciuto. Così avviene che le sei trascendenze e l'infinitá delle pratiche come i meriti piú numerosi che i granelli di sabbia del Gange vi si trovino riuniti fondamentalmente al completo senza che un esercizio temporaneo ve li abbia aggiunti. Quando l'occasione si presenta ecco che allora , essi si esprimono, se no, se ne restano tranquilli.
Se non credete fermamente che questo spirito è il Budda e se volete praticare aggrappandovi a caratteri particolari per ottenere meriti siete preda di un equivoco grave e finirete per abbandonare la Via.
Questo spirito è il Budda e non v'è altro Budda e neppure altro spirito. Questo spirito chiaro e puro è simile allo spazio vuoto, in nessun punto avendo forma particolare alcuna.
Suscitare un particolare stato dello spirito per mezzo dei pensieri significa allontanarsi dalla sostanza delle cose e afferrarsi a caratteristiche particolari. Ora, fin dai tempi senza inizio, non vi fu mai un “Budda attaccato alle particolaritá”. Esercitarsi nelle sei trascendenze e nell'nfinitá di pratiche per diventare Budda significa intraprendere una via graduale e mai si vide un Budda graduale. Basta risvegliarsi a questo spirito uno per non “avere piú la menoma veritá da trovare”, tale è l'autentico Budda.
Il Budda e gli essere viventi non sono distinti nello spirito uno, che come lo spazio vuoto non è mai confuso e mai si degrada. Infatti, guardate il sole che illumina la terra intera. Al suo sorgere la luce si diffonde su tutta la terra ma non per questo lo spazio è reso piú luminoso. Quando tramonta e le tenebre ricoprono la terra non si fa per questo piú oscuro.
Luce e oscuritá reciprocamente si scacciano, immutato e vuoto resta lo spazio nella natura sua. Lo stesso avviene per questo spirito del Budda e degli esseri viventi.
Havvi chi suol considerare il Budda provvisto di segni particolari come la purezza, la luminositá e la libertá, e gli esseri viventi con i segni dell'impuritá, dell'oscuritá e dell'essere incatenati al samasara. Eppur coloro che in siffatto modo credono, neppure al trascorrere di kalpa innumerevoli potranno entrare nel porto del risveglio, essendo essi come afferrati ai caratteri particolari.
In questo spirito uno, dunque non resta la menoma realtá da trovare, posto che lo spirito è il Budda. Ai giorni nostri, i discepoli che non si sono risvegliati a questo spirito, nella sostanza loro altro non fanno che produrre pensieri, uno dopo l'altro affannosamente, cercando il Budda all'esterno e praticare aggrappandosi ai caratteri particolari; si tratta di un metodo malvagio e non della Via del Risveglio
trad. genseki

giovedì, dicembre 18, 2008

Il prezzo di un sorso d'acqua

E trovansi nel diserto di Azoad due sepolture fatte di non so che sasso, nel quale sono intagliate alcune lettere che dicono ivi esser seppelliti due uomini, uno de' quali fu ricchissimo mercante, e passando per quel diserto infestato dalla sete comperó dall'altro che era vetturale, una tazza d'acqua per diecimila ducati: ma tuttavia morí della sete e il mercatante che cmpró l'acqua e il vetturale che gliela vendé.

Leone Africano
Descrizione dell'Africa

mercoledì, dicembre 17, 2008

Equivalenti Matematici del Dogma

Lucian Blaga
L'Eone Dogmatico

La matematica piú recente include alcune costruzioni, come, per esempio, quelle dei “transfiniti” (il simbolo Aleph di Cantor) attraverso dei quali si fanno, involontariamente, alcune concessioni al pensiero dogmatico, cosí importanti, da poter essere chiamate, senza mezzi termini “equivalenti matematici del dogma". Il simbolo Aleph designa una grandezza transfinita che si mantiene identica a se stessa qualunque grandezza finita venga ad essa sottratta. Ricordiamo qui la affermazione di Filone secondo il quale la sostanza prima non soffre nessuna diminuzione a causa delle emanazioni originate da essa. Tra il simbolo Aleph e la formula di Filone c'è una perfetta somiglianza strutturale (la differenza consiste nel fatto che il dogma paral di essenze e di processi comsologici, mentre l'Aleph è puramente matematico). Cantor e (altri con lui) giunse, per successioni logiche di calcoli e di considerazioni a stabilire le diverse antinomie del transfinito. La questione principale a questo livello non è in che modo i matematici giunsero a queste antinomie, bensí come pensano di risolverle. Le antinomie, in generale, si possono risolvere per differenziazione logica di concetti, per differenziazioni applicabili senza restrizioni non solo in un mabito trascendente ma anche in uno logico-concreto. (“Dio è uno e molteplice” è un'antinomia. Essa puó risolversi attraverso una differenziazione logica di concetti, valida senza restrizioni in qualunque dominio come, per esempio, attraverso i concetti di sostanza e di manifestazione; sulla base di questa differenziazione la antinomia si risolverebbe in modo logico: Dio è uno in quanto sostanza e molteplice nelle sue manifestazioni). Abbiamo visto che a volte si cercó la soluzione alle antinomie non attraverso la differenziazione logica di concetti, bensí attraverso la separazione di concetti solidali. (Dio è uno in quanto essere e molteplice in quanto persona) Come si risolvono le antinomie del transfinito? Attraverso una distinzione di concetti e più esattamente attraverso una distinzione tra i concetti di potenza e di somma di un insieme (Menge). Ma bisogna esaminare quale sia la natura di questa distinzione. Cantor ottiene il concetto di potenza (Mächtigkeit) per mezzo di un'astrazione della possibilitá di coordinazione (Zuordnung) reciproca degli elementi di due insiemi. Quando i due insiemi di elementi coordinati sono finiti, la potenza di ciascuno coincide con la somma di ciascuno. Potenza è quindi un concetto piú astratto di quello di somma mentre dal punto di vista delle sue caratteristiche matematiche (piú esattamente per quello che si riferisce alle sue relazioni di eguaglianza, di più e di meno) reciprocamente solidale con quello di somma. Se due insiemi sono uguali come potenza lo sono anche come somma e all'inverso. Ma quando questi due concetti si applicano all'ambito del transfinito la solidarietá aritmetica sparisce. Due transfiniti possono avere la stessa potenza pur rappresentando somme differenti. Perché Cantor suppone che la solidarietá di potenza e somma cessi nell'ambito del transfinito? Per le stesse antinomie del transfinito. Queste antinomie sono quelle che obbligano l'intelletto a postulare una separazione di concetti che l'intelletto non concepise altrimenti che come che come in relazione solidale. (Questo postulato, una volta ammesso, rende possibile tutta una matematica dei transfiniti, di articolazioni assolutamente logiche). Per la soluzione delle antinomie del transfinito, Cantor sceglie il cammino della separazione dei concetti solidali: potenza e somma. Le antinomie ottenute in questo modo conducono, tanto per calcoli come per considerazioni logiche, alla postulazione di un determinato dominio di una separazione di concetti solidali nell'ambito logico-concreto. Noiabbiamo seguito questo procedimento, quando abbiamo analizzatole formule dogmatiche, il procedimeno di “trasfigurazione delle antinomie”.
Si deve approfondire se apparirono, tra le costruzioni piú recenti della scienza, altre idee, piú o meno vicine strutturalmente, alla formula dogmatica e alla antinomia trasfigurata.

Trad. genseki

martedì, dicembre 16, 2008

la leyenda del tiempo-camaron

La leggenda del tempo

Sopra il tempo va il sogno
Come fosse un veliero
Nessuno sguscia semi
Dentro il cuore del sogno

Sopra il tempo va il sogno
Sepolto fino al collo
Oggi e domani mangiano
Fiori oscuri di lutto

Sulla stessa colonna
Sogno e tempo abbracciati
Il pianto del bambino
Nella lingua del vecchio

Sopra il tempo va il sogno

Se il sogno finge muri
Nelle lande del tempo
Il tempo gli fa credere
Ch'è nato il quel momento

Sopra il tempo va il sogno

Federico Garcia Lorca
trad. genseki

Per Maresa


Come chi s'è perduto


Come chi s`è perduto nella selva profonda
Lungi dalle radure dai sentier dalle genti;
Come colui che in pelago mosso da forti venti,
Si vede preda omai del turbinio dell'onda;


Come chi a passi lenti va mesurando il campo
Quando la notte al mondo ogni chiarezza tolle,
I' luce e rotta persi ed a modo di folle
Persi a lungo l'oggetto ove il mio ben accampo.


Ma quando vedi (e' mali più non ti stanno attorno)
Nel bosco, in mar al campo, e meta e porto e giorno;
Il ben presente credi maggior dei mali feri;


Ed io che in vostra assenza sofferto ho tal dolore
Dimentico, al veder vostro chiaro splendore,
Bosco, tormenta e notte lunghi rabbiosi e neri.


Etienne Jodelle (1532-1573)


trad genseki

La Sinagoga

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Gaspard de la nuit


La barba a punta

Chi non marcia a testa alta
Con la barba ben fresata
de il baffo torciglione
Di dama non trova considerazione


Le poesie di d'Assouci


Era festa nella Sinagoga tenebrosamente stellata di lucignoli argentati, i rabbini coi paramenti e i quevedos baciavano o loro talmud, norbottavano canticchiavano per il naso, sputavano e si soffiavano il naso, gli uni seduti e gli altri no.

Ma ecco che, all'improvviso, in mezzo a cotante barbe ora rotonde, ora ovali ora quadrate che ricciolavano o allisciavan esalando aromi d'ambra e benzoino, fu avvistata una barba a punta.

Un dottore chiamao Elébotham, che portava sul capo una mola scintillante di gioielli a modo di cappello si alzó e disse: “Profanazione! C'è qui una barba a punta!
Una barba luterana! - Un mantell corto! - A morte il Filisteo.” - E la folla ribolliva di rabbia nei banchi tumultuosi mentre il sacrificatore strepitava: “Sansone! A me una mascella d'asino!"

Ma il cavalier Melchiorre aveva srotolato una pergamena autenticata dal sigillo imperiale: “Si ordina, lesse ad alta voce, di arrestare il macellaio Isaac van Eck, per essere l'assasino impiccato, lui porco giudeo tra due porci fiamminghi”.

Trenta alabardieri si staccarono a passi pesanti e ticchettanti dall'ombra del corridoio.
- “Me ne infischio dei vostri alabardieri!” ghignó il macellaio Issac. E da una finestra si gettó nel Reno.
Louis Bertrand
trad. genseki

Mansur al-Hallaj

Kitab at-tawasin

Il tasin della lampada profetica

a cura di genseki

Una lampada apparve dalla luce dell'invisibile, una lampada piú luminosa di ogni altra. Era la Signora delle lune che manifestava il suo splendore sulle altre lune. Era una stella dell'empireo. Allah lo chiamó “illetterato” a causa della concentrazione della sua ispirazione, lo chiamó “consacrato” per la maestá della sua benedizione e “Makkan” perché risiede nella Sua prossimitá.

Egli gonfió il petto e accrebbe il suo potere e sollevó il peso che pesava sulle tue spalle e così impose la sua autoritá. ... la sua lampada brilló dalla sorgente di ogni divina magnificenza.

Egli non riferì nulla che non fosse in accordo alla sua visione interiore, e non comandó nulla a coloro che seguono il suo esempio che non fosse in accordo con la veritá della sua condotta. Restò alla presenza di Allah e condusse altri alla Sua Presenza. Disse. quando spiegó chi egli fosse, che era stato inviato come guida per definire i limiti della condotta.

Nessuno è capace di intendere il suo vero significato, se non il Sincero, che lo accompagna, convinto della sua autenticitá, fino a che non resta nessuna differenza tra di loro.

Nessuno lo conosce senza ignorare la sua vera qualitá. La sua qualitá è rivelata solo a coloro a cui Allah ha deciso di aprirla. ...

La luce della profezia apparve dalla sua luce a la sua luce sorse da quella del Mistero. Nessuna luce è piú luminosa, piú manifesta, piú increata che la luce del Signore della Generosità.

La sua ispirazione precedette qualsiasi altra ispirazione, la sua esistenza precedette la non esistenza, il suo nome precedette la Penna perché esisteva anteriormente. Non vi era nulla sull'orizzonte, oltre l'orizzonte o sotto l'orizzonte di più bello, nobile e giusto, di piú benevolo e simpatetico di colui che ebbe questo ruolo. Il suo titolo è Signore della Creazione, il suo nome è Ahmad, il suo attributo è Muhammad. Il suo comando è il più sicuro, la sua essenza la piú eccellente, i suoi attributi i piú gloriosi, e la sua aspirazione è unica.

Oh meraviglia! Che cosa è piú manifesto, piú visibile, piú grande, pú famoso, piú luminoso, piú poderoso e piú saggio di lui. Egli è de era conosciuto prima della creazione delle cose e degli esseri. Egli fu e continua essendo prima del prima e dopo il dopo, prima di qualitá e di sostanza. La sua sostanza è pura luce, la sua parola è profetica, la sua conoscenza celestiale, la sua lingua l'arabo la sua tribú non è dell'Oriente e nemmeno dell'Occidente, la sua genealogia quella dei patriarchi, la sua missione la conciliazione e il suo titolo “Illetterato”.

Gli occhi furono aperti grazie ai suoi segni e i segreti svelati dalla sua presenza, fu Allah che lo fece articolare la Sua Parola, e essendone la Prova lo confermó. Fu Allah che lo invió. Egli è la prova e il provato. È lui che disseta la sete del cuore tanto assettato, è il portatore della parola increata che non è pronunziata dalla lingua, che non è prodotta. Essa è unita ad Allah senza separazione, e sorpassa il concepibile, essa annunzia la fine e le fini e le fini delle fini.

Si eleva alle nubi e si dirige alla Casa Sacra. Egli è il limite, l'eroico guerriero, Egli è colui che ricevette l'ordine di rompere gli idoli e colui che condusse l'umanitá a stermirnarli.

Sopra di lui una nube luminosa, una nube luminosa sotto di lui, da esse cade la pioggia che genera frutti, Tutta la conoscenza è una goccia del suo oceano, tutta la spaienza è appena una manciata della sua corrente e tutto il tempo è appena un'ora della sua vita.

Allah è con lui e con lui è la realtá. Egli è il primo nell'unione e l'ultimo dei profeti, egli è dentro la realtà e fuori è la gnosi.

Nessuno studioso mai raggiunse la sua conoscenza e nessun filosofo la sua comprensione.
Allah non concesse la sua Reltá alla sua creazione, perché lui e lui e il suo esserci è Lui, e Lui è Lui.

Nulla uscí dalla M di MHMD, e nulla entró nella H e la H è unita alla seconda M e la D è come la prima M. D è perpetuitá, M è rango, H è stato spirutuale cosí come la seconda M.

Allah rese manifesta la sua parola, ampliò la sua azione e confermó la sua prova. Inviò Furqan su di lui, rese adeguata la sua lingua e spendente il suo cuore. Rese i suoi contemporanei incapaci di imitarlo e ne esaltó la gloria.

Se fuggi dai suoi dominii, che strada prenderai senza una guida o povero infermo? Le massime dei filosofi sono come un mucchio di sabbia di fronte alla sua sapienza.

***

venerdì, dicembre 12, 2008

Canto espiatorio di cacciatori numidi

Era scontento il nostro Dio
E non riuscivamo a sapere perché
Più ormai non si compiaceva
Di immergersi nell'Oceano
Sulle cui acque fluttuava
La sua pancia enorme
Iridata come una perla molle
Lucida come la luna piena sulle dune
Non conduceva più al pascolo
Le sue greggi di tonni dal dorso d'argento
Né si dilettava giacendo con le contadinotte
In forma di capro o di fagiolo cornuto
Non appariva, come soleva, nelle grandi vasche
Di rame brunito per le purificazioni
Lustrali degli amanti
Facendo bollire di colpo l'acqua azzurra.
Era alga, ora, ora muschio
Ora prateria di placton
Piaga dell'ascella delle fave
Goccia putrida sulla pelle di rospo
Dei meloni.

Era scontento il nostro Dio
Per questo l'acqua fermentava
Nelle caldaie di bronzo
I cetrioli si inturgidivano alla vista
Degli orifizi delle zucche
E i tacchini ammonivano segale e zecche
Dignitosi predicatori di un pestilente evangelio.

E in noi, in si andava spegnendo
Poco a poco
La poesia
Che era il santo complemento della caccia
Il balsamo di dolcezza dopo lo stupro
La Numidia rossa di bacche, distesa di cespugli spinosi
Giaceva sterile
Distesa silente di brume febbrili
Nella viscosa pace di novembre.

giovedì, dicembre 11, 2008

Lichenology

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Cuor di Vascello

Se del corpo della poesia
Vuoi aprire il cuore come di vascello
Cerca oltre la carena, fuori della stiva
Tra le vele sta il cuore bianco
Battito di vento, fiato
Polso della tramontana che monda
Le onde la spuma la luna e loda
Il volo appena un po' scabroso
delle api oceaniche, si le api di Teti -
Quella del mito -
Intente a cercare polline di placton
Nelle fratture dei capoversi
Nei sibili delle frombole, tra le froge delle balene
Che nitriscono come immense cavalle azzure
Tra le vele laggiú
E la luna del cuore.

Gilles de Rais III


A Tiffauges risiede tutto il clero di una metropoli, decano, vicari, tesorieri, chierici e diaconi scolari e coristi; ci è giunto il rendiconto delle spese per le , le stole e le casuble.
Gli ornamenti sacerdotali abbondano, qui incontriamo i teli vermigli dei paramenti di un altare, cortine di seta smeraldina, una cappa di velluto cremisi, viola con un telo d’oro , un’altra in tessuto di damasco aurora, dalmatiche di satin per i diaconi, baldacchini decorati a figure a uccelli d’oro cipriota, là piatti, calici, cibori, lavorati col martello, borchiati, cosparsi di gemme, reliquari tra i quali la testa in argento di Sait Honoré, un mucchio di ori incandescenti che un artista stabilitosi nel castello cesella secondo i suoi gusti.
E tutto era a portata di tutti; la sua tavola era aperta ad ogni ospite; da tutti gli angoli della Francia lunghe carovane si dirigevano verso questo castello in cui gli artisti, i poeti, gli scienziati trovavano un’ospitalità principesca, semplici agi, doni di benvenuto e omaggi alla loror partenza.
Già indebolita per i salassi profondi praticati dalla guerra la sua fortuna vacillò sotto queste spese; allora egli imboccò la strada terribile degli usurai, chiese prestiti ai peggiori borghesi, ipotecò i castelli alienò le proprietà, in certi momenti si ridusse a impegnare gli arredi del culto, i suoi gioielli, i suoi libri.
Una memoria che gli eredi di Gilles rivolsero al Re ci rivela che la sua immensa fortuna disparve in meno di otto anni.
Un giorno sono le signorie di Confolens, di Chabannes, di Chateaumourant, di Lombert che vengono cedute a un capitano d’armigeri a vil prezzo; un altro è il feudo de Fontaine-milon, le terre di Grattecuisse che compera il Vescovo d’Angers, la fortezza di Saint-Etienne de Mer Morte acquistata da Guillaume Le Ferron per un pezzo di pane; un altro ancora è il castello di Blaison e di Chemillé che un tal Guillaume de la Jumelière ottiene a forfait e che non paga. Tutta una lista poi di castellanie e foreste, saline e prati, un lungo foglio di carta sul quale egli aveva minuziosamente annotato gli acquisti e le vendite.
Spaventata da queste follie, la famiglia del maresciallo supplicò il Re d’intervenire; e, in effetti, nel 1436, Carlo VII°, “Convinto – come dice del cattivo comportamento del sire De Rais” gli vietò nel Gran Consiglio e con lettere datate da Amboise di vendere o alienare qualsivoglia fortezza, castello o terra.
Questa ordinanza, in realtà non fece altro che affrettare la rovina dell’interdetto.
trad genseki

Alcuni Maestri

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