venerdì, aprile 30, 2010

Dreiser Cazzaniga e il Joseph Losey

Vi sono nelle nostre vite influenze determinanti e segrete che hanno il potere di orientarne il corso apparentemente casuale in un direzione che finisce per dotarle di un significato che si fa di giorno in giorno sempre meno provvisorio. Tali influenze sono veri e propri avvenimenti di veritá a cui finiamo per aderire con tanta profonditá da dimenticarli. Una di queste influenze nella vita specifica di Dreiser Cazzaniga fu il film, ormai quasi dimenticato di Joseph Losey, “Il ragazzo dai capelli verdi”. Questo film agí profondamente nella sua incoscienza definendo le regole di decodificazione delle sue esperienze successive fino all'epilogo, fino alla sottile giustificazione della propria radicale inadeguatezza. Fu Dreiser Cazzaniga stesso, attraverso la costante autoanalisi che ritrovó le tracce cancellate che lo ricondussero a questa pellicola o, per dirlo in modo piú preciso a questo avvenimento, al quale restó testardamente fedele, rigorosamente fedele, forse persino brutalmente fedele proprio perché la sua fedeltá poté essere protetta dalla dimenticanza, dall'oblio. Una delle veritá di Dreiser Cazzaniga, una delle veritá che lo costituirono come uomo, come umano e quindi come signore della sua stessa morte fu l'avvenimento di questo film. L'avvenimento della chiamata che lo interpellava direttamente da questo film, che lo interpellava chiamandolo con il suo vero nome con il suo nome autenticamente suo, quello che non poteva essere di un altro e che marcava la sua alteritá e separazione definiva dagli altri, dai suoi compagni di scuola, dai suoi professori, dai fratellini, dalla famiglia. Dreiser Cazzaniga visse il resto della sua vita come se i suoi capelli fossero verdi. Visse le sue relazioni con gli altri come se egli fosse portatore di un particolaritá sospetta, una lebbra, un segno, una marca che era al tempo stesso la testimonianza di una ardua, ripida veritá e la causa del sospetto, dell'escluzione, di una certa ostilitá e paura da parte degli altri.
La fedeltá a questa separatezza, a questa esclusione Dreiser Cazzaniga non la seppe accettare in modo naturale. No, La sua prima e ricorrente tentazione fu di fare il furbo con essa, di mediarla, di negoziarla, di addomesticarla. Era lui il ragazzo dai capelli verdi. Era lui che doveva rigorosamente testimoniare dell'intolerabilitá della vita in questa societá, ma proprio per questo egli aveva anche il diritto a odiare e a mentire. Odiare coloro che lo rifiutavano per il colore dei suoi capelli, mentire per preservare questo odio, fu questa la via maestra per rendere “mostruosa” la propria anima che Dreiser scelse finalmente e che seguí per molti anni in una spessa nebbia e a tratti nella piú completa oscuritá.
Si risveglió, per fortuna, anche da questo sogno, riconobbe il colore dei suoi capelli, verdissimi, come le giovani felci e fu allora in grado di germogliare al calore di qualche cosa di simile all'amore.

a cura di genseki

giovedì, aprile 29, 2010

Dreiser Cazzaniga e il linguaggio

Che il linguaggio fosse qualche cosa oltre il quale si dovesse cercare di sollevare gli occhi, le orecchie e il resto della testa per non annegare alla fine nel significato era una cosa che Dreiser Cazzaniga non ebbe mai ben chiara. En discutemmo a lungo negli ultimi tempi. Egli aveva tendenza a considerare le nostre povere parole sclerotizzate e ridotte a supporto dello scambio coatto come strumenti adeguati ad esprimere la bellezza e a esplorare l'essere. Non era solo quasi quasi convinto che con il liguaggio si possa comunicare qualche cosa che non sia attinente alla sequenza di comando e sfruttamento, era pure convinto, fino a un certo punto, che servisse per conoscere. Il linguaggio, invece, si imputridisce nei blog e nei libri di facce. Anche le facce sono un segno. Ci sono solo facce, ormai, i volti tendono a scomparire cosí come le maschere. I volti sono la presenza, le maschere la possibilitá vuota che permette il fiammeggiare di questa presenza o, per attenersi in modo piú rigoroso all'etimologia della parola, la sua risonanza. Entrambi sono stati sostituiti dalle facce che sono soltanto il pietrificarsi dell'assoluta mancanza di interioritá, dello spazio interiore che la maschera garantisce al volto. Le facce annullano le maschere, Dove ci sono facce non ci sono piú maschere. Le facce non si distinguono dalle maschere e viceversa. Su questo tema Dreiser Cazzaniga non mostrava una sensibilitá apprezzabile. Certo egli era ossessionato dai volti come prodotto della cultura e della storia. Era affascinato dai volti dei film di Pasolini e di Paradjanov. Tuttavia continuó a considerare volti le facce che incontrava sui sudici treni pendolari dove trascorse tante ore della sua vita come volti e i loro occhi come fornaci capaci di sviluppare il calore di intere galassie.

A cura di genseki

Deporre

Appena l'avessi deposto
Allora l'avrei visto sfumare, prender forma di incenso
Di volo di mosche, di ombra sullo stagno
Di cullarsi leggero delle felci
Se l'avessi deposto, se solo avessi potuto deporlo
Ma come staccarlo? Come?
Era incastonato come uno scarabeo il cuore nero
Il cuore nero era come l'uva
Come la grandine, cosí caldo dentro di me
Mi accarezzava dal basso
Era nero, come l'erba, come le fragole
Come tutte le cose che sono davvero nere
Per esempio i suoi baci, le sue labbra
Il mio desiderio il nostro abbraccio
Il vento e il grano
Tira un'altra carta, dai, vediamo cosa esce
Picche e fiori: domani neve! Allora...

*

Il pastore Thorvaldsen usciva da una poesia
Solo per entrare in un'altra
Con i suoi cani rossi, tra i ciottoli di lavagna
Tra le gandi marmitte di bronzo e i filari di pioppi
Con la sua lingua staffile
Era cosí palesemente virile
Era Sarastro
Era il sole che illuminava la teca antica
Che conteneva bambini in formalina.
Che dorava con i suoi raggi
Un braccio di Pitagora.

*

Sequenze rotazioni, altre movimenti ossei
Trascorsero prima che mettessero a punto
La scarica adeguata, la strategia l'irradiazione
Marzo nel frattempo continuava a benedire gli olivi
Con la sua pioggerelinna leggera
La sua voce da basso un poco infreddolita
Cantava anche altre lodi oltre lo spazio piú vocale
Sterminate spighe sonore covoni di accordi
Tutto stava in una sola voce che non fu mai incerta
Anche se era sempre marzo, se la nebbia sostava
Sui fianchi del monte che straziavano ancora i pini
E cantare l'estate era un esercizio per voci arcaiche
Mentre cristalli scoppiavano in mille striduli estremi
Il lamento degli ultimi merli all'avvento
Dell'onda di granito.

Genseki
Posted by Picasa

Da Rimbaud a Dogen

Non avevo mai notato, per mancanza di acribia, beninteso, come, se è vero che “Io è un altro” allora debe essere anche vero, recprocamente, che questo altro è nessuno, un niente. L'altro è vuoto. Vuoto proprio di Io. Io e altro sono il vuoto l'uno dell'altro. Ponendosi come altro l'Io si nega e in questa negazione travolge anche l'altro. Nella struttura “en abîme” delle loro reciproche negazioni Io e Altro consistono concretamente proprio in quanto nulla, vuoto. Il Maestro Dogen avrebbe detto: “Mu!”
Con ammirevole concisione, e io, genseki, ho trovato il senso di una serie di svolte nel mio cammino.

mercoledì, aprile 21, 2010

Fallimenti

Fallimenti

Dreiser Cazzaniga e il precipizio

Quello che Dreiser Cazzaniga soleva piú amaramente lamentare nei suo ultimi anni era la mancanza di radicalitá nelle sue scelte giovanili e nel modo di orientare poi la sua vita. In realtá le sue scelte apparivano ai suoi occhi certamente radicali ma non conseguentemente radicali, non radicali fino alle estreme conseguenze, radicali sí, ma con una buona rete di protezione. Non aveva avuto fiducia nelle sue scelte, nel suo istinto, nel suo cuore. Per questo la sua gioventú era stata anche piú stupida e miserabile di quanto sia solito esserlo una gioventú media in un paese sviluppato. Meschina gioventú a tratti abbietta, prologo adeguato a una vita segnata dal fallimento. Tuttavia non aveva nemmeno fiducia nel sentire comune, nella strada maestra, nel conformismo, anzi en aveva ancora di meno di quanta non en avesse in sé. E non si limitava a non avere fiducia, si spingeva fino a provare fastidio, disprezzo, ribrezzo per la vita conforme alle regole comuni dettate dalla paura, dall'ansia, dalla debolezza. Non seguiva la traccia e non si gettava a rompicollo nel bosco. Sostava piuttosto pigramente in tutte le radure a contemplare il sentiero ben tracciato e lui poi finiva per perdersi nella nebbia. E si lamentava, aveva il coraggio di lamentarsi, Preparava cosí con determinazione la sua dannazione, no solo per la mancanza di misericordia ma anche per accidia.
Nel momento in cui era stato in grado di ragionare in termini culturali de artistici si era gettato nell'abisso. Aveva preso la sua vita e l'aveva buttata di sotto. La sua vita era acqua sporca, il bambino bello e asciutto si succhiava l'alluce sottocoperta. Il fatto è che ci sono diversi modi di gettarsi nell'abisso, nell'ignoto. Uno è quello classico, con le braccia aperte, il corpo ben teso i piedi uniti e il capo eretto, Dreiser Cazzaniga si era gettato in posizione fetale.Nel primo caso si finisce per volare, nel secondo caso no. Ci si sfracella. E l'odore non è bello.
Avrebbe voluto farsi un'anima mostruosa, era riuscito a farsi un'anima con un po' di orticaria e una micosi spirituale, un'anima tendenzialmente fungosa.
Avrebbe voluto essere silenzioso e abbronzato bevitore di liquori roventi, era stato un timido chiacchierone scontroso dalla chioma unta.
Alla soglia della vecchiezza avrebbe voluto tornare a credere in Rimbaud, nella sua adolescenza cosí maestosamente superficiale, nella generositá della sua illusione. Era troppo tardi per cambiare di rotta, era abbastanza presto per rendersi conto con luciditá di quello che aveva fatto della sua vita.
Si sforzava di guardarsi con lo sguardo di Rimbaud e si disgustava.


Dalle: “Memorie di Dreiser Cazzaniga”
a cura di genseki

martedì, aprile 20, 2010

Barabba


Barabba

Da: "Il calice dorato"
di Georg Trakl
Trad. genseki

Barabba

Avvenne proprio alla stessa ora in cui trascinavano il figlio dell'uomo verso il Calvario che era il luogo in cui venivano giustiziati i ladri e gli assassini.
Accadde proprio all'ora alta e ardente in cui egli compí l'opera sua.
Accadde in quella stessa ora in cui una rumorosa moltitudine dilagava per le vie di Gerusalemme, tra la moltitudine andava Barabba, ladro e assassino con il capo orgogliosamente eretto.
Intorno a lui andavano puttane ingioellate con le labbra dipinte di rosso
E intorno a lui andavano uomini dagli sguardi illuminati dal vino e dal vizio. In tutti i discorsi era palese il peccato della loro carne; il disordine dei loro desideri era l'espresione dei loro pensieri.
Molti che agitavan lingue ubriache si stringevano a lui e gridavano: “Viva Barabba!” e tutti rispondevano: “Viva Barabba!”. Qualcuno aveva persino gridato: “Osanna!” Ma fu zittito perché giá avevano osannato quell'altro che era entrato in cittá come re e avevano posto foglie fresche di palma ai suoi piedi. Oggi, invece, il suolo lo coprivano di rose rosse e giubilavano: “Barabba!”.
Quando giunsero davanti ad un palazzo udirono provenire da dentro accordi musicali, risate e il rumore di un'orgia.
Un giovanotto vestito riccamente a festa uscí loro incontro. I suoi capeli erano lucidi di olio profumato il suo corpo odorava di costosissime essenze d'Arabia. I suoi occhi brillavano di gioia orgiastica e il sorriso della sua bocca era eccitato per i baci della sua diletta.
Quando il giovanotto ebbe riconosciuto Barabba si fece avanti a gli disse: “Entra nella mia casa o Barabba, devi riposare sui piú morbidi dei miei cuscini, le mie schiave cospargeranno il tuo corpo con il nardo piú costoso, ai tuoi piedi una fanciulla suonerá sul laud le melodie piú dolci, e nelle mie coppe piú preziose ti mesceró i miei vini piú ardenti e nei vini scioglieró le piú perfette delle mie perle. O Barabba sii oggi mio ospite e al mio ospite di oggi appartiene la mia diletta che è piú bella dell'aurora primaverile. Entra o Barabba e corona di rose il tuo capo e rallegrati perché oggi muore colui il cui capo fu coronato di spine.
Avendo quel giovane cosí parlato giubiló il popolo e Barabba ascese la scalinata marmorea come un vincitore. Il giovane si tolse le rose che lo coronavano e le accomodó alle tempie di Barabba, l'assassino. Pi entró in casa con lui mentre il popolo giubilava nella via.
Su morbidi cuscini riposó Barabba le schiave cosparsero il suo corpo con nardo costosissimo, ai suoi piedí una fanciulla suonó il laud e la diletta del giovane si sedette a lui in grembo, era piú bella dell'aurora primaverile. Risuonarono risate, verso inauditi piaceri si affrettarono gli invitati, che tutti erano nemici giurato dell'Unico, serve del sinedrio e farisei.
All'una il giovane chiese che si facesse silenzio, ogni rumore cessó. Allora il giovane riempí la sua coppa dorata con il vino piú costoso e nella coppa il vino era come sangue ardente. Vi gettó una perla e la porse a Barabba. Poi afferró una coppa di cristallo e bevve con Barabba dicendo: “Il Nazareno è morto! Viva Barabba!” E nella sala giubilarono. “Il Nazareno è morto! Viva Barabba!” E il popolo nelle vie gridava:
“Il Nazareno è morto! Viva Barabba!”
Di colpo il sole si spense la terra tremó nel piú profondo e un'orribile oscuritá avvolse il mondo. Tremó la creatura.
Alla stessa ora si compí l'opera della salvezza.

A un palmo dalle mele

Ad un palmo dalle mele
Allora fu tutto l'oro scoppiando
Tra mele tra merli inerti rammemoravi, ancora
L'ondata dei tuoi sentimenti
spenta come ancora piú vaga ascoltavi
nell'ultimo scorrere del sangue
La prehiera piú negra
lasciami serpente, diamante
Credere ancora nel pane
Domani sará il melo ancora piú ritorto
A vicende connesse i suoi chiodi
Il crocifisso
Lascia che baci il tuo mantello
Signora
dalla fodera rosa.

*

Una ferita, apre sempre
Rosa paradiso di rose
Miele di luce acquatica e sale
Oltre tutte le paure sgorga
delfino minerale lo spirito
a logiche piú alte alternando lo slancio
Portato dalla schiuma del suono
Di cristalli scroscianti di strepitose trombe.

genseki

Georg Trakl

Georg Trakl

L'Autunno del solitario

Ritorna l'oscuro autunno in abbondanza di frutti,
Splendore ingiallito dei bei giorni estivi.
Puro azzurro s'insinua dallo sfascio delle colline;
Da antiche saghe risuona volo d'uccello
Riposa giá il vino, morbida quiete
Riempie di risposte sussurrate l'oscura domanda.

Su alture deserte stanno sparse croci;
Nel bosco rosso si perde un gregge.
Vaga la nube sullo specchio del lago;
Quieta riposa la capanna del contadino
L'ala azzurra della sera dolcissimamente sfiora
Un tetto di paglia secca, la terra nera.

Presto si annideranno le stelle nelle fronti spossate;
In fresche locande circolano silenzi novelli.
Escono delicatamente gli angeli dagli occhi azzurri
Degli amanti che teneramente soffrono
Freme il canneto, osseo grigio assalto,
Quando nera rugiada stilla da nude pareti.

trad. genseki

Le gocce del tuo tempo

Diverse erano allora le parole e diverso il dolore
Il calore dell'agosto traboccava dagli olmi
L'ombra sgorgava ancora dalla soglie delle capanne
E la corsa scrosciava ai madidi talloni
Feriti come rami dall'ombra dei ruscelli
La piuma della tua iride era nera di corvo
Il palmo della mia mani stringeva tutti i tuoi sguardi
(alcuni sgusciavano via tra le dita non abbastanza serrate)
Nell'amido d'amore fecondo si covava
La speranza solare falena vellutata
Dalla ferita scoscesa stillava il desiderio
Alla palma era inchiodato dal nitrito festivo
Le gocce del tuo tempo le lasciavi cadere
E conservavi il fiato come un petalo trasparente
Tremante sull'avena che inclinava la nuca
In rari diagonali brividi d'argilla.

*
Altri vestiti altre erbe no non volevo provarli
Indossarli come l'acque indossa la corrente
Come il vento prova sul suo corpo vibrante
La fibra trasparente dei sofffi e dei voli
Preferivo cadere allora tra i rintocchi
Frantumarmi in un volo di accordi
In uno scroscio di significati e di ciglia dal battito asincrono
E poi i tuoi erano neri – con quei denti – e ricamati
Vestiti a dorare la primavera nei meli
Quante piume anch'esse nere erano sparse nel prato
Tra la colza, sulla neve, tra gli olivi impoveriti
Dal passo troppo rapido della storia!
Altre erbe altri racconti ad una svolta del senso
Promettevano che la parola fosse carne e ricamo.

*

genseki

venerdì, aprile 16, 2010

Wang Wei


Si tratta della riproduzione tarda di un dipinto di paesaggio di Wang Wei.

Wang wei



Questi nell'immagine sopra alla sinistra sono i caratteri della poesia analizzata nel testo di François Chgeng tradotto nel precedente messaggio.

Non sono una meraviglia ma non ho trovato di meglio.
genseki


Introduzione alla poesia cinese

La parola e il vuoto

Da François Cheng

La scrittura poetica cinese


Nell'ordine lessicale e sintattico, la preoccupazione piú importante dei poeti si riferisce (...) all'opposizione tra parole piene (i sostantivi e i due tipi di verbi, quelli di azione e quelli di qualitá) e parole vuote (pronomi personali, avverbi, preposizioni, congiunzioni, comparativi, particelle, etc.).
l'opposizione tra questi due tipi di parole si da in due registri. In un registro piú superficiale si tratta di alternare ingeniosamente parole piene e parole vuote per dar luogo al verso. Tuttavia i poeti si resero presto conto che la funione ritmica in poesia legata alla nozione filosofica di soffio vitale, puó svolgere una funzione sintattica, cioé di separare o di unir le parole (quello che nella lingua normale fanno le parole vuote) in modo che i poeti procedono, in un registro piú profondo a una riduzione di parole vuote (pronomi personali, comparativi, preposizioni e particelle) conservando solo alcuni avverbi e congiunzioni.
In questo modo introducono nella poesia la dimensione del vero vuoto corrispondente al soffio mediano. In questi, come in altri casi, il pensiero cinese considea il vuoto (...) come il luogo in cui gli esseri viventi e i segni si incrociano e si scambiano in modo non univoco, e per questo come il luogo per eccellenza dove si moltiplica il senso. In certi casi i poeti giungono persino a usare una parola vuota al posto di una piena (nella maggior parte dei casi un verbo) sempre con il proposito di introdurre il vuoto nel pieno ...
Nelle parole piene vi sono altre sottocategorie come per esempio tra parole morte e parole vive: si-zi e huo-zi; parole statiche e parole dinamiche: jing-zi e dong-zi che marcano la differenza tra sostantivo e verbo, ma anche tra verbo di qualitá (aggettivo) e verbo di azione. Per i poeti che cercano di afferrare l'azione segreta delle cose un verbo puó avere tre stati: dinamico (quando si usa come verbo di azione), statico, (quando si usa come verbo di qualitá), e, infine vuoto (quando al suo posto si usa una parola vuota).
...
Il “vuoto” ... tra i segni e “dietro” i segni modifica le loro relazioni e le loro implicazioni e ottiene l'effetto di restituire agli ideogrammi la loro natura ambivalente e mobile, il che permette l'espressione di una simbiosi sottile tra l'uomo e il mondo, simbiosi che la poetic cinese esprime con la combinazione di sue termini qing “sentimento interiore” e jing “paesaggio esteriore”.

Elisse dei pronomi personali
Il proposito di evitare il piú possibile le tre persone grammaticali è una decisione cosciente e da luogo a un linguaggio che situa il soggetto in una relazione particolare con le cose e con gli esseri. Cancellando o sottintendo la sua presenza il soggetto interiorizza gli elemeti esterni.
...
Montagna vuota/nulla vedere
Solo udire/ voce umana risuonare
Sol ponente/ penetrare bosco profondo
Ancora un istante/ illuminare muschio verde

In questa quartina di Wang Wei, poeta, pittore e seguace del Chan si descrive un paesaggio di montagna che è contemporaneamente un'esperienza spirituale del vuoto e della comunione con la natura. I due primi versi dovrebbero intepretarsi cosí: “Nella montagna deserta non vedo nessuno, solo posso udire voci lontane”. Con l'eliminazione del pronome personale e dei locativi il poeta si identifica inmediatamente con la montagna deserta che non è piú un complemento di luogo. Cosí, nel terzo verso il poeta è il raggio di sole che alla sera penetra nel bosco profondo.
Dal punto di vista del contenuto i due primi versi presentano il poeta come qualcuno che ancor non vede ...; i due ultimi versi, invece si centrano sulla visione: vedere lo splendore dorato dei raggi del sole al tramonto sul muschio verde (...). Vedere significa qui illuminazione e comunione profonda con l'essenza delle cose.

François Cheng
L'Écriture Poëtique en Chine
Trad. genseki

giovedì, aprile 15, 2010

Apollinaire


Apollinaire

Guillaume Apollinaire

Sulla poesia

Quella che segue è una pagina di Apollinaire, tratta da una lettera a Lou nella quale egli tenta di delineare una definizione della funzione del poeta e della poesia. Certo si tratta di un testo davvero goffo. Si puó perdonare una tale goffagine in considerazione del conteso e della persona a cui il testo è diretto? A Guillaume Apollinaire si puó perdonare tutto anche solo in virtú della “Chanson du mal aimé” ma qual era il suo fine nel voler ridurre il poeta a una specie di Giulio Verne in versi?
Che cosa cercava di dire a Lou spiegandole che la poesia trova la sua giustificazioe non in sé ma in altro da sé sie esso l'amore che come fu dett piú tardi consiste nel “dare ció che nonsi ha a qalcuno che non lo vuole” o, piuttosto l'immaginazione anticipatrice che, poi come si evince da altri testi dello stesso Apolinnaire è immaginazione tecnologia (i poeti per primi hanno immaginato il volo umano, etc). quest'ultimo fine è davvero risibile e ogi si è adirittura capovolto. È la tecnica che immagina da sola quello che nessun poeta mai poté immaginare: internet o la clonazione, Un testo davvero goffo.
genseki

“Ti devo pregare che non ti facia piú beffe dell'ufficio di poeta. So che non lo fai con cattiva intenzione ma se continui così diverrá un vizio. Per prima cosa, essere poeta non vuol dire che non si sia capaci di fare nient'altro. Molti poeti hanno fatto dell'altro e in modo rigoroso. (...). Inoltre, l'ufficio di poeta non è inutili, né folle e neppure frivolo. I poeti sono i creatori. ( Poeta viene dal greco e significa effettivamente creatore e poesia significa creazione). Peratnto sulla terra non esiste nulla, nulla appare agli occhi degli uomini che prima non sia stato immaginato da un poeta. L'amore stesso è poesia naturale della vita, l'istinto naturale che ci spinge a creare la vita, a riprodurci. te lo dico perché tu ti renda conto che non mi dedico all'ufficio di poeta per simulare di fare qualche cosa e dedicarmi al dolce far niente. So che coloro che si dedicano al lavoro poetico fanno qualche cosa che è essenziale, prmordiale, necessario, in definitiva divino. Naturalmente non mi riferisco ai semplici versificatori. parlo di coloro che con un processo penoso, amoroso o geniale giungono giungono poco a poco a esprimera una cosa nuova e muoiono per l'amore che gli ispirava.

G Apollinaire
Lettres à Lou
Trad. genseki