sabato, febbraio 27, 2010

Le mani

Le vostre mani amatele cosí saranno belle
Nessun ungüento sembri troppo caro per loro
Curatele e tagliate ogni unghia spezzata
Per loro usate sempre lo strumento adeguato.

Iddio fece le mani feconde in meraviglia;
Il loro bianco è quello serafico dei gigli
Nel giardino carnale sono due fiori simili
Hanno sangue di rosa sotto unghie sottili

Mistica primavera circola nelle vene
E sembrano sorridere il mughetto e la viola
Sulle linee del palmo s'addorme la verbena
Rivelano le mani segreti spirituali.

I piú grandi pittori amarono le mani
I pittori di mani sono grandi maestri.

Come due bianchi cigni che nuotano affiancati,
Due vele che sull'onda si fondono nel bianco,
Immergete le mani nei catini argentati
Asciugatele in lini impregnati di aromi.

Le mani sono l'uomo come l'ali l'uccello;
Le mani dei malvagi son terre inaridite
Quelle della vecchina che maneggiano il fuso
Hanno molta saggezza incisa nelle rughe.

Mani di contadini, mani di marinai
Appaiono dorate sotto la pelle bruna.
L'ala dei cormorani porta l'odore salso
Le mani della vergine il bacio della luna.

Le mani piú preziose fanno mestieri oscuri,
Quelle del carpentiere sono mani santissime.
Sono le vostre figlie son le vostre gemelle
Le dita i nipotini benedetti piccini
Attenti ai loro giochi ai piccoli contrasti
Alla loro condotta in tutti i suoi dettagli.

Le dita fanno reti e sorgono cittá;
Le dita han celebrato la lira anticamente
Lavorando si piegano ai compiti piú vili
A volte manovali ed altre musicisti

Liberati nel bosco dell'organo alla messa,
Le dita sono uccelli e sulle loro punte,
Che volano tra i rami come tante ghiandaie,
Ci sorride lo stormo dei segni della croce,

Il pollice è un gran duro piccolo e corpulento
Dotato della forza d'Ercole trionfante,
Quello piú gracilino, sensibile alla grazia,
È il dolce dito mignolo: è restato bambino.

Siate servi alle mani che son serve fedeli,
Fatele riposare in un letto di lino.

Sono le vostre mani che danno le carezze
Son sorelle dei gigli, sorelle delle ali,
Non meritano disprezzo e neppure abbandono
Lasciatele fiorire come degli asfodeli.

Elevate al signore le gioie profumate
La sera di preghiere dischiuse sulle labbra.
O mani, mani giunte per i poveri morti,
Perché Dio nelle mani ci rinfreschi la febbre.

Perché il mese dei frutti vi carichi di doni
Se resterete aperti su un nido di perdoni.
E infine, voi che siete nemici delle armi,
E tristi vi specchiate in un fiume di pianto
Vegliardi i cui capelli vanno bianchi alla luce,

Garzoni occhi divini ove l'amor si desta
Donna che vai mischiando i tuoi sogni con gli angeli

Il cuore gonfio a volte in fondo a strani vespri
Non sapendo di avere il voler nelle mani
Tutti voi dimandate: Signore, in veritá,
Dove trovar la cura ai nostri mali estremi?

Ê nelle vostre mani, sono loro, le mani.


Germain Nouveau
trad genseki

giovedì, febbraio 25, 2010

I sufi d'Andalusia

Abû Jafar al-'Uryanî II

Si racconta che mentre egli si trovava a Siviglia vennero a informarlo che la gente della fortezza di Kutamah aveva bisogno di pioggia. Sebbene la firtezza fosse sull'altra sponda di un braccio di mare e si dovesse viaggiare otto giorni per raggiungerla via terra, lui si mise in cammino con uno dei suoi discepoli chiamato Muhammad. Prima che partissero suggerirono loro di pregare per loro senza intraprendere il viaggio, egli rispose che Allâh gli aveva ordinato di andare di persona. Quando raggiunsero la fortezza non vi poterono entrare ma egli fece la preghiera di istiqâ e poco dopo Allâh inviò la pioggia. La pioggia cadde intorno a lui e al suo discepolo ma non una sola goccia li bagnó. Quando il discepolo espresse il suo stupore per il fatto che la misericordia divina non fosse caduta anche su dilui, il maestro esclamó: - certo che sarebbe caduta ma avrei dovuto pensarci prima.

Un giorno mentre stavo seduto presso il Maestro, si presentó un uomo con suo figlio. Salutó e ingiunse al figlio di fare altrettanto. Allora il nostro Maestro aveva giá perduto la vista. L'uomo disse: - O Sidi, ecco mio figlio che ha imparato a memoria il Corano.
Udendo queste parole l'aspetto del maestro cambió completamente per l'impressione di uno stato spirituale. Disse allora: - È l'Eterno che porta il transitorio, che il Corano ci porti e ci preservi, noi e tuo figlio!
Questo annedoto è un esempio dei suoi stati di presenza spirituale.

Ibn Arabi
Trad a cura di genseki

Non c'è né spirito né metodo

- L'errore ha il potere di velare il mio spirito e non ho ancora compreso come liberarmene.
- Restare nell'errore o liberarsene questo vuol dire semplicemente ancora un errore. In fondo l'errore non ha radici e esiste soltanto perché vi è discriminazione. Quando non avrete piú opinioni iintorno a ció che è ordinario o straordinario, allora l'errore scomparirá da sé. Che altro si dovrebbe poter fare? Quando non resta nemmeno un granello di polvere a cui afferrarsi, allora, come si dice, si aspira alla buddhitá sacrificando ad essa entrambe le braccia.
- Se non ci si puó afferrare a nulla che cosa mi raccomandate riguardo alle cose sensibili?
- Lo spirito si trasmette con lo spirito.
- Se lo spirito si trasmette perché dite che non vi è nemmeno lo spirito?
- Non avere niente da trasmettere. Questo si chiama trasmettere lo spirito, se si comprende che cosa è questo spirito allora non c'è spirito, non c'è metodo..
- Se non vi è nè spirito nè metodo, che cosa vuol dire trasmettere?
- Io vi parlo di trasmissione dello spirito e voi pensate che esista qualche cosa del genere. Per questo il Patriarca ha detto:

Quando riconobbi la natura del mio spirito
Fu qualche cosa davvero inimmaginabile
Una realizzazione che realizza l'irrealizzabile
Di cui no dir'se davvero avvenne.

Ma se io vi insegnassi qualche cosa del genere, non sapreste che farvene

Huangpo
Dialoghi
trad a cura di genseki

I sufi d'Andalusia

Abû Ja'far al-Urianî

Il primo che incontrai sulla Via di Allâh fu Abû Ja'far al-Urianî. Questo maestro venne a Siviglia quando io avevo appena cominciato ad acquisire le conoscenze di questa nobile Via. Fui il primo di coloro che si indirizzarono a lui. Entrato nella sua casa, lo trovai consacrato al dhikr. Mi presenai e lui seppe imediatamente qual era la mia necessitá spirituale.
Mi chisese: - Sei fermamente convinto a seguire la Via di Allâh?
Risposi: - Il servitore puó prendere la decisione, ma è Allâh che stabilisce.
Mi disse allora: - Chiudi la porta, rompi ogni legame, prendi come compagno Il Generoso, Egli ti parlerá senza veli.
Mi impegnai cosí fino ad ottenere l'apertura.
Bencjé fosse un campagnolo illeterato che non sapeva né contare né scrivere, bastaa ascoltare i suoi insegnamenti sul Tawhid per apprezzare il suo livello spirituale.
Dominava i pensieri con l'energia spirituale e poteva superae gli ostacoli dell'esistenza grazie alle sue parole. Lo si vedeva sempre invocare in stato di purezza rituale, rivolto verso la Qiblah, la maggior parte dei casi a digiuno. Un giorno fu fatto prigioniero dai cristiani. Siccome ancora prima di partire sapeva quelo che sarebbe successo avvertí tutta la carovana che sarebbero stati fatti prigionieri dai cristiani il giorno dopo. Il mattino dopo, come aveva previsto, il nemico tese un'imboscata e furono fatti prigionieri. I cristiani ebbero molti riguardi per il maestro e gli diedero un alloggio comodo e servi. Poco dopo poté essere liberato avendo pagato un riscatto di 500 dinari e si mise in viaggio verso il nostro paese. Al suo arrivo gli proponemmo di raccogliere la somma tra due o tre persone. Egli ci rispose che voleva raccoglierla da molte, se fosse statoorno del giudizio posibile voleva ottenere da ciascuno una piccola somma perché Allâh pesava ogni anima il Giorno del Giudizio e in ogni anima c'era qualche cosa degna di essere salvata dal Fuoco. Cosí Egli voleva prendere il bene di ciascuno per la comunitá di Muhammad.

Ibn Arabi
Trad genseki

mercoledì, febbraio 24, 2010

Il cardo

Quando mi donasti il tuo cardo
Il latte profumava ancora caldo
Sulle tue labbra azzure per il freddo
Il coro delle capre balbettava
I passi di una danza zodiacale
Dalle tue labbra gocciolava il latte
Sul circolo dell'erba bruciata
Dove i ceppi carbonizzati
Fiorirono in ironiche scintille
Il tuo cardo era solo un ricordo
Grigio argentato del nostro sole antico
Il dio barbuto che preservava i tuoi talloni
Lo portava tatuato sulle palpebre
Convulsa come le pieghe della tua veste
La tua mano fingeva d'essere un gioiello
Nessun artista barbaro avrebbe cesellato
L'asprezza con cui ti seppi cingere.

genseki

lunedì, febbraio 22, 2010

Il tuo occhio

Il tuo occhio si schiudeva come un tulipano
Alle carezze delicate del mio sguardo
Il tuo occhio era velluto all'alito del mio contemplarti
Il tuo occhio sorgeva all'orizzonte della mia vista
Rotolava sulla mia luce come una palla da biliardo sul velluto
Il tuo occhio penetrava il mio osservarti
Tatuare su di me la tua avversione
A qualunque sbocciare
Pioveva su di me il tuo occhio le sue gocce ardenti
Sui petali delle mie palpebre
Le tue erano ali allora sulla notte della pupilla
Sulle smeraldo spezzato dell'iride
Con le nocche cercavo il tuo occhio
Perché per sempre fosse anello del mio essere in te
Lancia che assicurava il tuo possesso
L'occhio impenetrabile altrove
In cui ti ritiravi per sparire sotto la pellicola della luce
Come il lago sparisce sotto le increspature dell'acqua verde
Quando la brezza lo accarezza
Le onde sotto il grido rabbioso dei loro tentacoli corallini
Gli steli sotto le scaglie quando sognano i rettili
Il tuo occhio era alba al mio sogno indefinito
Tramonto rovente per l'ebrezza dei miei antichi liquori
L'avrei intrecciato alle mie dita il tuo occhio
Per accarazare con il palmo della mano
La direzione delle tue luci
Il tuo occhio guizzante come un luccio
Nel torrente delle tue visioni
Nella cascata turbinosa che vela la grotte
Delle tue passioni ramificate
Il tuo occhio fu sentiero al mio perdermi
Groppa al mio saltare alla mia fuga
Il tuo occhio testimone delle mie lacrime
Tomba del mio giudizio balbuziente
Galeone del mio oro perduto
Per sempre nei fondali del tuo oceano.

genseki

Michel Leiris II

Mi appare,l'insieme dei miei scritti, piuttosto come il racconto di un sogno durato smisuratamente che una lunga conversazione quando lo considero da questa distanza ove quello che si è visto e quello che si è immaginato non sono più che una foschia così indistinta che si finisce per domandarsi se davvero è esistito ció che pareva esservi di più reale, (di più fisicamente sperimentato).


Dando valore essenzialmente allo sgorgare presente del canto, non provo piacere nel rileggere quello che ho pubblicato molto tempo fa o appena ieri e quelle pagine diverse - che miravano nella maggior parte a una conoscenza di sé che pretendo perseguire ma che si dimostra illusoria alla prova dei fatti, i frutti della mia investigazione restano sparsi in una moltitudine di brani piú o meno letterari che il tempo mi fa dimenticare e i cui risultati dovrebbero riassumersi in una frase o una figura che si possa afferrare in un sol colpo (una chimera e niente piú, giacché bisognerebbe che questo riratto assoluto, mi mostrasse ripreseo a tutti i livelli e in tutte le diferenti etá che ho attraversato) - ne lascio allora naufragare il contenuto nel calderone di una memoria inetta a restituirmi qualche cosa di più che poche briciole del mio passato. Quasi quasi direi che i miei anni non sono stati altro che la materia di una aritmetica follemente astratta (i decenni che si aggiungono ai decenni) e che tutti questi racconti, impressioni, riflessioni o pure costruzioni mentali che ho messo nero su bianco non pesano niente, o almeno non più di un sogno sognato da tanto tempo e che ha perso ogni significato ammesso che ne avesse quando mi abitava.

A cor et à cri
Gallimard p. 96-97
trad genseki

Michel Leiris

Anatomizzando le parole che amamo, senza preoccuparci di seguire le etimologie e il significato ammessi, noi scopriamo le loro virtú pú recondite, canalizzate dalle associazion di suoni, di forme e di idee.

Smulacre et glossaire

Osservazioni sugli angoli

Era da un angolo che la parola conferiva visuale
Prima di cristalizzarsi al suo senso e ad altri possibili
Era da un angolo visuale predefinito
Che finiva per porsi la parola con tutto il peso del suo significato
Ammettevano anche un angolo particolarmente ottuso
Un seno di mare cristallino come la foto di un depliant
Una sequenza del tuffo di un gabbiano
A decapitare un grasso sudicio picccione sul granito
Di una gotica piazza accanto al mare.
Nell'angolo, in quall'angolo dimenticato
Un paracqua arcobaleno a spicchi
Evocava la natura dispiegabile di tutti gli altri angoli
La meraviglia dei meccanismi a soffietto
Come quelli delle vecchie macchine fotografiche
I quadri di pessimo gusto di rachel che raffiguravano paracqua
E ombrelloni arcobaleno
Piegati con angoli differenti su una fredda spiaggia arancione
Poi tutto volava via
Come un biglietto del bus
Come il ricordo degli angoli retti della metropolitana di Pechino
Era stretto nell'angolo ora dalla tempesta dei significati
Dei suoi ricordi si dibatteva nel suo angolo
Nella poltona di legno angolosa
Con i gomiti con i gomiti a formare un angolo divergente
Spezzato a significare la sconfitta, la disfatta
La crocifissione
Si, spezzato, ficcato a forza in un angolo
Eppure sempre cosciente di essere cosciente
Dei tanti angoli della coscienza
Ciascuno con il suo angolo visuale o auricolare
E così ancora di nuovo ancora
E ancora di nuovo fino al rompersi o meglio al frantumarsi
In uno scroscio vero e proprio delle specchio con il suo enigma
Dell'erompere del salmone come puro scatto
Madido muscolo sforza traiettoria

Argento e nulla.

genseki

sabato, febbraio 20, 2010

Hisperica famina

Devo confessare il mio stupore nell'incontrarmi per la prima volta con il mondo del “Latino Hisperico”. Fino ad ora non en avevo mai sentito parlare, nonostante una certa passione per il latino medioevale.
Il latino hisperico è il latino scritto dai monaci irlandesi nei primi secoli di cristianzzazione dell'isola. il VI e il VII. Si tratta di un latino quasi totalmente indecifrabile e stupefacente. La difficoltá di comprensione e lo stupore sono dovuti soprattutto al suo lessico. La sintassi è infatti elementare, paratattica, quasi del tutto priva di subordinate, con il verbo tra il soggetto e il complemento. Il lessico invece è assolutamente stravagante. Le parole del latino classico sono impiegate nel latino hisperico come se avessero tutte lo stesso valore e la stessa funzione, come se fossero equvalenti. Una metafora è considerata equivalente a un sostantivo di uso comune, a un'immagine mitologica, o a un neologismo formato da parole greche per un uso tecnico filosofico o teologico. Gli oggetti e le azioni piú quotidiani sono designati di volta in volta con i termin piú peregrini. A questo si aggiunge una forte presenza di termini celtici o germanici brutalmente latinizzati, per esempio per mezzo dell'uso di una desinenza.
Una descrizione come questa, tuttavia, non rende lo stupore e la meraviglia che colgono il lettore di fronte ad un testo come questo:

Adelphus adelpha meter
Alle pilus hius tegater
Dedronte tonaliter,
Blebomen agialius
Nicate dodrantibus
Sic mundi vita huius,

Calexomen agialus
tu det bolen suum
nobisque auxilium
Didaxon, sapisure,

Toto biblion acute
Non debes reticere

Equinomicun epensum
Habemus apud deum
Si autumetimus audum

Fallax est vita mundi
Decidit ut flos feni

Chiuso nello splendore della sua impenetrabilitá nell'asprezza delle sue alliterazioni, nell'ingenuitá delle sue metafore.
È un testo il cui senso è quello di comunicare l'artificioso, faticoso, entusiasmante processo della sua elaborazione. Un testo che significa soltanto il suo farsi e il suo disfarsi.
Un testo progettato, infatti, per essere caduco. Il tempo finisce per chiuderlo ancora di piú in se stesso, per allontanarlo da ogni possibile interpretazione per trasformarlo da testo a gioiello, un gioiello cesellato nel significante grafico e in quello sonoro.
Un testo che peró si apre alla fine nella ingenua banalitá di un facile e leggero proverbio sapienzale, la cui banalitá non sorregge nessuna possibile malinconia.

Una possibile traduzione della prima strofa è la seguente:
Fratello, sorella, madre, padre figlio e figlia muoiono ugualmene
Vediamo la barca sbattuta dalle onde, cosí è la vita di questo mondo

venerdì, febbraio 19, 2010

Cappotto di finamore

Alla fine lei non si voltó nemmeno
Il suo profilo restó oscurato dal fiore della calla
Che emergeva appena dal vaso di cristallo
Come la bocca di un bambino che sta affogando
Anche le teste decapitate delle anatre
Una per ogni posacenere erano restate
Esattamente la dove lei le aveva lasciate
Si mosse per afferrare le chiavi le squame
Scivolarono appena sulla lama piantata nella crepa del tinello
Non avevo piú abbastanza saliva
Per fumare un'altra sigaretta
Indossava scarpe di scarabeo i suoi piedi erano cuoriformi
Il neon del palazzo dirimpetto disegnava sul suo cappotto di cammello
RISTORANTE CINESE KUNMING
Pensavo al suo seno come a una lattina di pesche scriroppate
Da lasciare per anni nella dispensa del ricordo.

genseki


Tournesol

Léger
Tournesol

Girasole

Di André Breton non ho mai amato Lautréamont. Che non è poca disamistade, Non ho mai amato nemmeno Sade e nemmeno quell'idea degna del peggior Tarantino che la cosa più ganza che ci sia sia uscire per strada con la pistola e sparare nel mucchio, nelle folla, alla rinfusa. Ci sono tante cose di André Breton che come il mio povero amico Dreiser Cazzaniga non ho mai amato. Eppure è stato uno dei miei venerati maestri, Grazie a lui ho coltivato l'arte dell'insuccesso con il solo successo che in essa è permesso: il fallimento. Lbertá colore d'uomo.
Sempre ho sognato di tradurre

Il girasole

Girasole

La viaggiatrice che aveva attraversato le Halles nel crepuscolo dell'estate
Camminava in punta di pedi
La disperazione trascinava per il cielo i gicheri bellissimi
La borsetta conteneva la fiala dei sali mio sogno
Sali che solo la madrina di Dio aveva fino ad allora respirato
Come bruma si dispiegavano i torpori
Nel Cane Fumatore
Dove erano appena entrati pro e contro
La ragazza la si poteva appena scorgere a sghimbescio
Essere pareva nunzia del salnitro
O della curva nera su bianco che diciamo pensiero
Poco a poco si accendevano i lampioni negli ippocastani
La Dama senza ombra si era inginocchiata sul Pont-au-Change
Rue Git-le-Coeur non erano piú gli stessi
Gli impegni notturni erano infine mantenuti
I piccioni viaggiatori i baci d scorta
Confluivano in seno all'incognita beltá
Come dardi sotto il crespo dei significati perfetti
Una fattoria prosperava in piena Parigi
Le sue finestre davano sulla via lattea
Nessuno piú vi abitava a causa di coloro che la frequentavano
Tutti lo sapevano che erano piú fedeli di coloro che la infestavano
Alcuni come questa donna sembra che nuotino
E nell'amore c'è posto per un po' della loro sostanza
Che li interiorizza
Nessun potere sensoriale si sta facendo beffe di me
Eppure il grillo che cantava nella chioma cinerina
Una sera accanto alla statua di Étienne Marcel
M ha strizzato l'occhio con complicitá
Ecco che passa m'ha detto André Breton

André Breton
da "Clair de terre"
Trad. genseki

giovedì, febbraio 18, 2010

Cuori di primavera

L'azzurro penetrava a stento
la gran coltre frondosa di tutte le primavere
Una primavera per ogni bacio
Un'ala per ogni primavera
Era tutto un tramestio di frulli e spinte
Gli aceri cercavano un varco verso il sole
Le graminacee come raggi
Saettavano tra le scure foglie dell'edera
verso la processione dei cuori
Con un panno giallo sfregavo i ricordi
Li collocavo in ordine di primavera
Tutte le primavere avevano almeno un cuore
Alcune ne avevano piú di uno
Alcuni cuori erano sfregiati dal peso del risentimento
Altri dall'oscuritá del loro stesso sangue
La processione dei cuori la illuminavano
Ceri di menta e buttafuochi di bronzo
Cuore per cuore primavera per primavera
Il suo cuore sanguinante lui lo reggeva in una mano
Avvolto in una coroncina fosforescente
Il cuore di sua madre era trafitto da un ramo appuntito di fusaria
Le gocce di sangue si confondevano
Con quegli stupidi fiorellini rossi
Anche il suo petto dava latte di sangue
Da tutti quei forellini di rubino
Si fissavano con occhi lampeggianti
Come lampade al neon tra le gemme dei carpini
Sotto quei raggi scorrevano le primavere
Passavano i cuori e i grandi mantelli
I fastelli di belladonna e le salamandre
E tutti i dolori che erano piú di sette
Da maggio a maggio
Fino a dopo autunno
Fino alla croce di ghiaccio di gennaio.

genseki

mercoledì, febbraio 17, 2010

Pianto

indossati i vestiti da tramonto
senza pupille declinavi il mio sguardo
senza innalzare le mani alle nuvole
spalancavo la vista a un altro volto
dall'interno del cavo dei tuoi occhi
conobbi infine i tratti tuoi perfetti
mi feci allora azzurro come l'acqua
che sulle guance ti scorre se non piangi

genseki

martedì, febbraio 16, 2010

Soglia

Alla soglia sta il punto di parola
Dove collassa l'istante successivo
Ogni istante necessita uno sguardo
dalla soglia si scorge la finestra
Il volo, o solo l'ala e poi la schiuma
Che si frange in processo senza fine
E ricade prima d'altri istanti
L'istante è istante solo se lo dici
La soglia stringe l'istante taciuto
Fuori è la cavitá del tuo soffrire
La soglia è specchio dell'oltrepassare.

genseki

Bruno Maderna: Aura (1972) Prima parte

lunedì, febbraio 15, 2010

Invano

Invano ascoltava gli ottoni
Avvolgere le gomene sonore
Ai tronchi delle palme, al bagolaro
Solitario nell'azzurro del parco
L'inquietudine del metallo
Distillava solo remota
L'eco d'altri ascolti
Futuri, forse sperati
Concavi sempre rotando
Certamente oscuri oltre i mondi

Alla rete sonora, alla griglia delle trombe
Al zampettare inetto dei clarinetti
Allo sbocciare dell'oboe come orchidea
Dal limo dell'improvvido laghetto
Si aggrappava cercando un appoggio
Uno specchio, possibilmente lo spiccare d'un volo
In piena consapevolezza d'istante in istante
Dell'ardente errore del delitto delle galassie
Degli acidi del latte e delle linfe

Raggi di flauti come schegge di fresco mattino
Scintillavano sullo spessore del prato
Il tamburo della terra scuoteva l'ombelico
Del guerriero sepolto dalla madreselva
Trascinato da un odore di polvere
Nel numinoso regno degli archi

Invano, certamente, il suono lo torniva
In presenza in consistenza
Appena a un capello
Dall'essere accolto

Invano - ancora

genseki

domenica, febbraio 14, 2010

Hijab


C'è sempre un angolo del velo che richiede espressamene di non essere sollevato, qualsiasi cosa ne pensino gli imbecilli questa è la condizione stessa dell'incantesimo.

André Breton
Flagrant Délit

La Dama Bunducchia e Dreiser Cazzaniga

II Parte

Le memorie di Dreiser Cazzaniga che ci sono state legate come un lascito che per noi è un onore e un rinnovato dolore non sono, come qualche lettore potrebbe pensare, una serie di ordinati quadernetti o pile di fogli numerati in appositi classificatori. No! Sono una serie di appunti, paragrafi, racconti, annotazione, cartoline postali, lettere, pacchetti di sigarette, biglietti del bus e altro materiale scrivibile ancora gettati alla rinfusa in una serie di vecchi scatoloni IKEA, quelli con le maniglie di corda da marinai per intederci (adesso non ricordo piú il loro nome svedese ma ricordo bene che corrisponevano ai robusti scaffali ISVAR). Sembra che Dreiser Cazzaniga avesse inscatolato tutto quanto restava della sua vita in forma cartacea per bruciarlo. Non lo fece e noi non sappiamo se mai volle farlo davvero. Quello che sappiamo è che è molto difficile organizzare questo materiale in forma coerente: i nomi delle persone si sovrappongono, i periodi si allungano o si accorciano, i luoghi degli eventi possono variare. La vita stessa non è univoca, le tracce che lascia dietro di sé una vita non costituiscono una successione univoca di eventi puntuali, classificabili magari anche come cause e effetti. La Dama Bunducchia dai piedi nodosi e dal sorriso tarlato è anche altre donne che appaiono e scompaiono sul palcoscenico degli amori di Dreiser Cazzaniga,
Dreiser Cazzaniga volle essere libero del suo passato e volle che fossero liberi tutti coloro che vi si trovarono intrappolati per una frazione di tempo piú o meno lunga, come i paesaggi sul cui sfondo trascorse, le case, le stanze e i letti che resero possibile l'intimitá e la densitá del suo tempo trascorso.
Lasció che il passato bruciasse se stesso in uno sfrigolio e in un sorriso si facesse scintilla e angelo
lui rimase sempre nel qui, proteso nell'istante, nell'emergenza dell'istante respirando, guardando, udendo per dimenticare.

Dorothy Day

Ancora su Catholic Worker

Dorothy Day, Peter Maurin e tutti gli altri perseguirono il sogno di istituire un vero ordine mendicante nella societá industriale, anzi nella societá capitalista e industriale per eccellenza, quella degli USA. Probabilmente fu, fino ad oggi, l'ultimo tentativo o uno degli ultimi tentativi di questo tipo. Io non sono a conoscenza di altri. Gl ordini mendicanti sono scomparsi progressivamente col progressivo scomparire del mondo contadino e dell'ordine sociale tradizionale. Le forme moderne di organizzazione ecclesiale sono piuttosto i “Movimenti” come “Sant'Egidio” o “i Kiko” in Spagna che mantengono molte volte un piccolo nucleo monastico, ma certamente non mendicante. Qualche cosa che sembra piuttosto uno spauracchio che un modello. Se sia possibile un ordine mendicante nel mondo dell'economia assoluta e del consumo è una questione forse oziosa. È concretamente possibile quello che nella storia si manifesta concretamente. Certo il tentativo del Catholic Worker fu un nobile fallimento. restó confinato nell'ambito dell'anticonformismo e nell'emarginazione culturale. Eppure è un fallimento da cui si irradia una luce che ancora ci illumina. Certo Dorothy day e i suoi un successo nemmeno tanto piccolo lo ebbero e fu quello di non essere iconizzai, di non diventare simboli buoni per qualsiasi uso come Madre Teresa o Che Guevara. Questo giá indica che il cammino da loro indicato era piú prossimo alla veritá, piú fecondo di quanto il fallimento lasci pensare e che per questo non cessa ancora di essere un modello.

Il fallimento è il dono che è dato a chi serve la veritá e che li permette di spogliarsi, di farsi trasparente, di accettare l'autunno della propria coscienza e di permanere in esso fino al glorioso inverno dello splendore.

Certo Dorothy Day volle testimoniare il cattolicesimo nel cuore della metropoli meno sacra della storia, volle radicarlo nella sua forma di Civitas Cristiana, nel centro della City inumana del morto valore di scambio e per farlo dovette farsi eretica.

Per rendere possibile l'ortodossia dovette rivestirsi dell'eresia, Farsi patara o bogomila per essere davvero radicalmente ortodossa.

genseki

venerdì, febbraio 12, 2010

Catholic Worker

Peter Maurin e Dorothy Day, il Catholic Worker, la bellezza di perseguire il fallimento con assoluta determinazione, con innocenza, con sfacciato coraggio. Il Catholic Worker era la deriva di un gruppo luminoso impegnato a rivivere il medioevo in piena Nuova York del XX secolo. Il medioevo con gli ordini mendicanti, con vagabondi, con i contadini e i movimenti pauperistici in una societá di operai e impiegati, ristorazione collettiva, conflitti razziali, democrazia pubblicitaria e marketing politico. Vissero ardendo il loro sogno acronico o discronico nella Terra di Mezzo delle loro case di accoglienza e fattorie pacifiste, non violente. La loro bellezza e la bellezza della loro vita sono una celebrazione della dignitá che sorge dalla vita quando è vissuta nella libertá. Anche o forse soprattutto nella libertá di sognare un mondo in cui sia possibile davvero vivere, Un mondo in cui la vita viva di ciascuno fecondi quella di tutti gli altri. Poi il tempo si è ripiegato su di loro, su di noi nell'etá oscura del conformismo e dell'inconsapevole disperazione.

genseki

Peter Maurin

Peter Maurin

Io studiavo alla Columbia, e anche qui giunse la notizia
Che un santo era morto nel quartiere dei mendicanti.
Peter Maurin il Santo agitatore
Predicava nei parchi:
“Licenziate i padroni” o
“Dare e non togliere
Rende l'uomo umano”
Con un solo vestito stropicciato e non della sua taglia. Senza un giaciglio
Nella casa che lui stesso fondó, neppure un angolo per i suoi libri.
Camminava senza far caso ai semafori.
...
E lei consagrata da allora a
“Opere di misericordia e di rivolta”. Una vita
Di quotidiana comunione e partecipazione
In ogni sciopero, manifestazione, marcia, protesta o boicottaggio,
Qui vengono a lavorare senza stipendio studenti, seminaristi
Professori, marinai, mendicanti, e a volte restano
Tutta la vita. Molti sono stati in prigione o ci stanno.
Hennacy digiunava davanti agli edifici del governo
Con un manifesto, distribuendo volantini e vendendo il giornale
E non pagava le tasse perché l'85% è per la guerra
Lavorava come bracciante nei campi per non pagarle.
Hugh magro, con i pantaloni corti sandali e poncho
Jack English, un brillante giornalista de Cleveland
Fu cuoco del Catholic Worker e poi si fece monaco.
Roger La Porte era bello e biondo aveva 22 anni: si sacrificó
Dandosi fuoco impregnato di benzina davanti alle nazioni Unite.
Un vecchio ex-marine, Smoky Joe, che lottó contro Sandino
In Nicaragua, morí qui convertito alla non violenza
Qui lavoró Merton prima della Trappa.
Il giornale si vende a 1 centesimo
Come lo vendette Dorothy Day per la prima volta
A Union Square il Primo Maggio del 1933
Il terzo anno della depressione
12 milioni di disoccupati
E Peter con il giornale cercava di fare una rivoluzione piuttosto che pubblicare opinioni
Le pentole fumano
Comnciano ad arrivare i poveri, i senza fissa dimora, quelli del Bowery
Fanno la coda. “Ecco gli altri USA” dice Dorothy
Gli uomini sradicati dalla macchina
E abbandonati dalla Santa Madre Stato.
Grida. Uno entra dando calci e spintoni
Due del catholic Worker lo portano fuori con calma.
“ Non chiamiamo mai la polizia perché crediamo nella non Violenza”
E mi dice: Quando fui a Cuba
Vidi che Sandino era un eroe
Ne godetti. Perché da giovane avevo raccolto denaro per lui.

Ernesto Cardenal
Trad genseki

giovedì, febbraio 11, 2010

Il Postino Cheval

Il Postino Cheval è il Lautréamont dell'architettura. Breton lo ha sacrificato per noi e ce lo ha servito nei modi dovuti per sempre nuovi festini.
Il palazzo ideale visto nella realtá è l'opera di un ortolano ossesionato dalla fertiltá. Un ortolano che coltiva la sua immaginazione come le melanzane.
genseki

Postino Cheval

Noi gli uccelli stregati da te per sempre su questo belvedere
E che ogni notte formiamo un solo ramo fiorito dalle tue spalle fino alle stanghe della tua carretta animata
Ci strappiamo con vivacitá di scintille dal tuo polso
Siamo noi i sospiri della statua di vetro che si solleva sul gomito quando l'uomo esce
E brillanti fenditure si aprono nel suo letto
Fenditure da cui si scorgono i cervi dalle corna coralline in una radura
E donne nude sul fondo di una miniera
Te ne ricordi ti alzavi allora e scendevi
Dal treno
Senza degnare di uno sguardo la locomotiva in preda alle immense radici barometriche
Che si lamenta nella foresta vergini delle caldaie ferite
Con i camini dal fumo di giacinto mossa dai serpenti azzurri

Ti precediamo allora noi le piante soggette a metamorfosi
Che ogni notte facciamo segni che l'uomo puó comprendere
Mentra la sua casa rovina e si meraviglia degli incastri singolari
Che il suo letto va provando con il corridoio e con la scalinata
La scalinata che si ramifica indefinitamente
E conduce alla porta di un frantoio che sbocca di colpo in una pubblica piazza
A schiena di cigno che apre un'ala come un rampa
Gira su se stesso come se dovesse mordersi ma no si accontenta d'aprire i suoi scalina ai nostri passi
Come cassetti
Come cassetti di carne dalla maniglia di capelli
Ora che migliaia di germani si pettinano le piume
Senza voltarti afferravi la cazzuola per modellare i seni
Ti sorridevamo cingevi la nostra vita
E assumevamo i modi i modi del tuo piacere
Immobile sotto le nostre pupille per sempre come la donna ama vedere l'uomo
Dopo l'amore,

André Breton
Clair de Terre
trad. genseki

mercoledì, febbraio 10, 2010

Il volo rosso

Il volo rosso dei colombi crepitava
Come un incendio di zolfanelli
Tra la nascente geometria degli olivi
Tutto continuava a colare: latte
Sangue e miele
Nella nebbia di zafferano.

Lo zoccolo appena oltre la vista
Spezzava l'asse dell'ora
Quando?
Palizzata di canne e palma
Scacchiera di ere adesso ritagliavano
L'immagine di un altro trapasso.

genseki


La Dama Bunducchia e Dreiser Cazzaniga

Prima parte

La dama Bunducchia era una signora di Gallura, proprietaria di varie centinaia di vacchette sarde e ossessiva bevitrice di Fernet. Non Branca. Fernet e basta. Una qualunque delle imitazioni che si trovano nel Liedl. La dama Bunducchia era bassa, nera, legnosa e con due immensi piedi nocchiuti come quelli di un santo eremita in un pala di altare tardogotica.
Aveva i capelli ricciuti come una africana, una risata improvvida e sorprendente e un guardaroba grigio. Un guardaroba i cui capi avevano ciascuno in un modo differente qualche cosa di topesco.
La dama Bunducchia beveva e viveva in un grandissimo appartamento di un edificio verdastro la cui facciata dava sui moli passeggeri del porto. I moli gitani, insomma. Beveva e forse sognava le sue vacchette sarde che dormivano nella macchia sotto i lentischi e i lecci. La dama Bunducchia aveva un amante ufficiale, un giovane muscoloso caribico, antico guerrigliero e disoccupato portuale.
Come accadde che la dama Bunducchia finisse tra le braccia di Dreiser Cazzaniga resta un mistero.
Allora Dreiser Cazzaniga soleva vestire di nero, sbandierava una lunghissima barba incolta che, come avrebbe capito solo molti anni dopo contribuva a mantenerlo in uno stato perenne di leggera tensione e nervosismo, Fu Cesare che gliela presentò, un gigantesco campiere rivoluzionario sempre vestito di fresco lino e panama ecuadoriano.
Cesare lo convinse che Bunducchia non era poi cosí brutta che il guerrigliero caribico non era poi così imprescindibile, che lui sì che avrebbe voluto goderne con una stretta feroce (di Bunducchia non del guerrigliero), che aveva programmato un fine settimana in Versilia, che aveva prenotato un albergo.
Dreiser Cazzaniga si ritrovó nel letto della dama Bunducchia che lo stringeva e si sfregava sulla sua pelle come una pietra pomice. Dreiser Cazzaniga non poté aprire gli occhi per tutto il tempo della relazione che allacció con la dama Bunducchia. Aveva vergogna del mondo, aveva paura della bocca sdentata della vecchia Bunducchia, aveva paura del suo proprio linguaggio che andava disfacendosi con il proggredire di quella scorticante relazione. La dama Bunducchia era insaziabile. Dreiser Cazzaniga poteva solo chiudere gli occhi prigioniero di quel suo incantesimo inacidito. Come si puó arrivare a questo? Si domandava Dreiser Cazzaniga in quell'estate di rovente agonia salina che trascorse nell'arida Gallura. Tutte le sue menzogne salivano alla superficie della coscienza si manifestavano nella loro abbietta natura, bruciavano e sparivano una ad una nel lungo processo di purificazione dalla vergogna che costituivano i prolungati e violenti abbracci della Dama Bunducchia. Correva per i monti aridi, la mattina si scorticava nella macchia si lasciava bruciare dai raggi spinosi del sole. Ritornava affranto la sera ai banchetti sontuosi che Bunducchia gli faceva preparare. Calava la sera. Chiudeva gli occhi. Non dormiva.

a cura di genseki

martedì, febbraio 09, 2010

La camera nuziale

La camera nuziale era un cesto di fiamme
Si aprivano ferite tra le ore ed il vento
Nell'aria si pettinavano i lamenti piú antichi
Precipitavano
Da Venerdí a silenzio per tutte le ruote
Del firmamento
La camera nuziale rinviava le immagini
Di fiamme e rotazioni
Di ruote vertiginosamente rotanti
Intorno all'asse del tempo
Fiamme tracimavano dall'una all'altra coppa
La camera nuziale era il nido del tempo
Il tempo una carola di fiammelle
Cercava una mano il suo velo
Ogni mano il suo scialle ricamato
Chi restava per lo sposo?
Olio, mandorle birra.

genseki

lunedì, febbraio 08, 2010

I sufi d'Andalusia

Ad-Durrat al fâkhirah

Non diceva mai "Io". Non l'ho mai udito pronunciare questa parola. Durante il periodo della mia ignoranza, cioé prima che entrassi nella Via soleva venire in visita da noi per incontrare uno dei miei zii.

Avevamo cercato per lui una moglie e avevamo cercato di fare le cose per bene. Accadde che io mi ammalai, e durante la malattia egli venne a farmi visita in modo che gli esposi il nostro progetto."Fratello mio", mi disse, "mi sono giá sposato e giovedi entrerò nella mia camera nuziale". Se ne andó. Qualche tempo dopo venne a trovarmi Umm az-Zahrá, una donna che era nella Via di Allâh e le spiegai l'assunto. Avendomi lasciato andó da lui e apprese che subito dopo aver lasciato la mia casa si era ammalato. Lei gli chiese del matrmonio e lui rispose: "O Fatima, mi sono giá sposato e tra cinque giorni entreró nella mia camera nuziale come ho detto a mio fratello Ibn 'Arabi. Lei gli chiese: "Con chi ti sposi? Perché hai tenuto segreto il tuo matrimonio?" Lui rispose: "Sorella mia saprai giovedí". Giovedí morí. Nella notte di venerdí entró nel paradiso. Secondo il volere di Dio come un novello sposo.

Ibn 'Arabi
I sufi d'Andalusia
trad. genseki

Luigi Nono: A Pierre. Dell'Azzurro silenzio, inquietum (1985)

Nichita Stanescu

Lezione di volo

Per prima cosa stringi le spalle
Poi ti sollevi sulla punta dei piedi
Chiudi gli occhi
Ti tappi le orecchie.
Dici a te stesso:
Ora prenderó il volo.
Poi dici:
Eccomi in volo, tutto qua?

Stringi le spalle
Come i fiumi che si radunano in uno solo
Chiudi gli occhi
Come fanno le nuvole intorno al campo.
Ti sollevi sulle punte dei piedi
Come la piramide emerge dalla sabbia.
Rinunci all'udito
L'udito di un secolo intero
Poi dici a te stesso:
Adesso prenderó il volo
Dalla nascita alla morte.
Poi dici ancora:
Volo -
Era proprio il momento giusto.
Raduni i tuoi fiumi
Come le tue spalle
Ti innalzi tra belati di capre
E dici: Nevermore
E subito dopo: froufrou, flûte!
Sbatti le ali di un altro,
E poi
Diventi questo qualcun altro
Che, lui, resterá per sempre
Quel qualcun altro.

Trad. genseki

sabato, febbraio 06, 2010

Ion Barbu

Ion Barbu

L'Ultimo Centauro

L'ultimo giorno si affrettó da loco a loco
Attonito... Al tramonto ratto si dispiegó
Sul crepuscolo verde, screpolando il travertino
Con il calice reale dei pensieri nella bestia cresciuti...

Fusero gli altopiani il raro blocco
Sera, al freddo bianco con la carne cosparsa
Uscí come chiocciola di vapore, mentre sradicato
Schiariva nella notte un cuore di fuoco.

Permanenente carnefice, l'ombra – lama, elsa -
Ricadde sulle braci con i suoi fili gravi
E la sfera lucente si dissolse in frammenti.

Già s'addorme la terra. Nessun centauro errante:
Solo il trotto mai spento della limpida mandria
È sogno di miniere di sorgenti dorate.

Trad. genseki

venerdì, febbraio 05, 2010

Bilinguismo

Dobbiamo essere blingui anche in una lingua sola. dobbiamo avere una lingua minore all'interno della nostra lingua, dobbiamo fare della nostra lngua un uso minore. Il plurilinguismo non significa soltanto il possesso di piú sistemi ciascuno dei quali sarebbe omogeneo in se stesso; signfica innanzitutto la linea di fuga o di variazione che intacca ogni sistema impedendogli di essere omogeneo. Non parlare come un irlandese o un rumeno in una lingua diversa dalla propria, ma al contrario parlare nella propria lingua come uno straniero.

Glles Deleuze - Claire Parnet
Conversazioni

Sulla cresta

Sulla cresta di sabbia seduti osservavamo
L'avanzata del sale in grandi getti
In cristalli in frequenti crolli,
Proprio sulla soglia tra il mare e le ali
nel punto esatto in cui si apriva
Il taglio la fenditura erosa scorticata
Come la lingua che negava ogni parola
Deglutiva, peró, sillabe come sciroccoo
Iodio celeste silenzio tra scoppio e scoppio.

genseki

giovedì, febbraio 04, 2010

Ereditá

Se scavi appena piú a fondo
Li vedrai gli occhi del pesce
Spalancati tra tutte quelle radici
Piangere fiotti di lacrime nere
Li vedrai gli occhi del pesce
Sperduti come le mani nell'autunno
Uno qua uno là tra le radici
Tra quegli autunni d'ororame
Stesi a marcire sugli steli morti
I ciottoli erano un fiume, in autunno
Ricordi? I pesci si perdevano tra i capelli
I tuoi - ciocche di riccioli, glebe
Ove ora la pala insiste, affonda
Cerca la luna, giú ancora piú a fondo
Come se pozzo fosse ove giace il cielo
Nel ricordo perduto dell'antico fiume
galleggiano come vesciche gli occhi dei pesci
E le tue mani e le tue piaghe e le ciocche
d'ororame dei capelli. Era autunno.
Cava, adesso! Pú a fondo. Fino agli occhi.
La tue mani saranno per gli eredi.

genseki

mercoledì, febbraio 03, 2010

Asura

Seyyed Hossein Nasr

La testa di Husayn

O Husayn, amato da Dio tra molti,
Il tuo corpo è sepolo nelle sabbie del'Iraq
La tua testa sulle sponde ondulate del Nilo.
Due mondi ti rendono omaggio nei due mausolei
Due riflessi in un piano d'anima maestosa.
La tua testa fu tagliata in quel giorno di lutto,
La asura in cui il cosmo pianse il tuo decesso.
La tua testa divenne spazio di vita
Nella terra dei faraoni e dell'Islam.
Una cittá intera è cresciuta in
Intorno alla tua nobile testa tagliata
Che ancora orbita intorno all'asse della tua tomba
Che diffonde una baraka palpabile ai sensi.
I fedeli pregano nella tua moschea,
I sufi intonano i nomi di Dio
Le nascite e le morti
Ritmano le visite ai tuoi luoghi santi
O Hussayn,
Tu che fosti luce degli occhi
Di chi Dio amó sopra tutte le creature,
Mentre il tuo corpo è testimone dei lamenti dei pellegrini
E dell'agonia degli afflitti sul cammino della terra
La tua testa detta il ritmo della vita in questa vasta cittá
La tua testa cuore della medina della Vittoria
La tua qahira in cui vivono e hanno vissuto santi e poeti
Celebrando con le loro vite e le loro azioni quella Veritá
Per cui hai sparso il tuo sangue benedetto
Per la quale hai dato la vita.
La tua moschea al Cairo è chiara testimonianza
Del trionfo di ció che è vissuto nella Veritá,
Percé anche se l'errore passa per la realtá,
Finisce per evaporare con la nebbiolina dell'alba
Davanti al sole della Veritá Suprema che sorge
Per la quale sei morto,
Martire esemplare,
Quella Veritá verso la quale ci conducono
Le tue reliquie terrene attraverso la baraka che spargono,
Evocando il messaggio della tua vita
Che è il trionfo finale della Veritá,
Essa sola avrá l'ultima parola.

16 Aprile 1967
trad. genseki

Hussain Hai - Marsiya - Nusrat Fateh Ali Khan

Culla

Sui tuoi petali cadeva la cannella
I pollici impastavano fili di polline
Lo strofinaccio bisunto ricordava
Il tepore del latte della madre
Smunto il formaggio si faceva nido
Nel cavo della clavicola, la scapola
Sbocciava a volo d'ape,
O mia cera sensata, modellata
Appena sul ritornello del fiato
Tra le lenzuola attente di novembre
Azzurra come la luna sulla culla
Dove il sogno di tante altre carezze
Ti afferrava i piedini come fiori

genseki

martedì, febbraio 02, 2010

È cercandolo che ve ne separate

La rete degli insegnamenti dispensati dai tre veicoli veicoli contiene molte cure e rimedi opportuni. È nella pratica viva e concreta che si applicano e non ve ne sono due uguali. Se lo comprendete non vi potrete piú sbagliare. Per prima cosa dovete perdere ogni attaccamento ai testi sulla base dei quali venite costruendo le vostre teorie, perché questi testi contengono degl insegnamenti che si riferiscono a determinate circostanze concrete, e non esiste un metodo propriamente detto che possa essere insegnato dal Tathagatha. La nostra scuola non ha tesiCu relativamente a questo. Noi ci accontentiamo sapere che il riposo è la calma dello spirito e che allora non vi è piú bisogno di produrre pensieri che si concatenano.


Dialogo II


  • Si sente dire sempre che lo spirito è il Buddhha ma io ancora non ho compreso di quale spirito si tratti?

  • Quanti spiriti ci sono in voi?

  • Insomma è lo spirito ordinario o quello straodinario che è Buddha?

  • Ma dov'è che avete uno spirito ordinario e uno straordinario?

  • I tre veicoli hanno sempre insegnato che vi è uno spirito ordinario e uno straordinario, allora perché lei, dice che non vi é nulla di simile, maestro?

  • I tre veicoli dicono e lo dicono chiaramente che è falso distinguere tra spirito ordinario e spirito straordinario. Siccome non lo capite vi mettete subito a cercare l'esistenza di uno spirito o di un altro, cioè a fare proprio il contrario e prendete il vuoto per una cosa concreta. È un grave errore e questo errore vi allontana dallo spirito.

    Solo quando avrete cacciato i “vostri sentimenti ordinari sullo straordinario”, allora non vi sará Buddha se non nel vostro spirito. Il primo Patriarca è venuto da Occidente per mostrare direttamente all'uomo la buddhitá di tutto il suo essere. Ma voi non ve ne rendete conto, vi attaccate ai concetti di ordinario e di straordinario, galoppate in tutte le direzioni fuori di voi, e, naturalmente, finite per distogliervi sempre di piú dallo spirito. È per questo che si dice che lo spirito è Buddha. Se solo per un istante sorge un'altra emozione cadete in preda a un altro destino. Oggi, come da tempo senza inizio, non esiste nessun altro metodo spirituale.

  • Per quale ragione, Reverendo, lei dice che lo spirito è il Buddha?

  • Che ragioni andate mai cercando? Non appena en avete trovata una ecco che vi separate dallo spirito.

  • Lei dice che le cose stanno cosí da un tempo senza inizio, per quale ragione?

  • È cercandolo che ve ne separate. Se non cercate dove sta la distinzone?

  • Se non vi è distinzione perchè ricorrere al verbo essere?

  • Se non discriminate tra ordinario e straordinario dove sta il predicato? Se “essere” vale come “non-essere” lo spirito non è nemmeno spirito. Una volta dimenticato tutto ció che riguarda lo spirito dove cercarlo ancora?

Huang-po

Dialoghi

trad. a cura di genseki

Alcol

Dreiser Cazzaniga e l'alcol

L'adolescenza di Dreiser Cazzaniga fu una traversata nella piscina dell'alcolismo. Una traversata verde e arancione che pareva non dovesse mai approdare all'altra riva. Vedeva il mondo come attraverso una pellicola d'acqua saldamente compressa sugli occhi, deformato, ora verdastro ora arancione, e gli arti senza gravitá dai movimenti immemori lo facevano sentire ora foglia ora pietra. Erano notti di vomito sulfureo e di pruriti insopportabile di catarro e di freddo. La mattina era il risveglio del Martini, poi vi era la colletta alla stazione per ragranellare quattrini per altri Martini. Molti Martini ebbero su Dreiser Cazzaniga l'effetto di facilitare un apprendimento inspiegabilmente rapido e sicuro del latino poetico. Da ubriaco Dreiser Cazzaniga soleva leggere la Farsaglia di Lucano seduto di fronte al mare, incurante degli spruzzi salini, in una vecchia edizione a cura dell'accademico d'Italia Ettore Romagnoli, dalla copertina nera che prendeva in prestito nell'aristocratica e polverosa biblioteca del prestigioso seminario Humboldt in cui studiava come paria. Di Lucano lo affascinava l'oscuro terrore e la vergogna deforme che impregnavano i suoi versi e la sua complicitá subdola nell'omicidio della propria madre. Lo sognava come un giovane brufoloso dal collo lungo lungo e dallo sguardo sfuggente, le labbra piegate in un sorriso di scusa.
Poi, dopo le lezioni era la volta delle sei o sette birre karlshafen e poi un paio di litri di rosso denso dolcetto a pranzo e altri ancora a cena e poi ricominciare il giorno dopo a sognare il martini mentre il tram franava tra scintille di metallica frizione da Briggio il Decimo al mare su cui splendeva la stella del pastore in un cielo di miniatura borgognona. Dreiser Cazzaniga voleva davvero essere un poeta maledetto, immaginava bandiere rosse sulla bianca torre arabeggiante di Avellano in un vorticoso volo di gabbiani. Le ragazzine, compagne di quotidiana discesa dalla neve briggesca al mare gli facevano paure rivestiva i loro corpi che la sua immaginazione tendeva a denudare con un pudico velo di distorsione alcolica.

a cura di genseki

lunedì, febbraio 01, 2010

Battesimo

Nella radura dei mandorli
Celebrammo il nostro battesimo
Fummo battezzati nel latte
Come scorie appassite di mughetto
La lingua dell'erba era piú bianca
Del tuo fiato e della mia costanza
Nelle tuniche viola ci stringemmo
Tu mi dicevi tutte le tue dita
Io ti cantavo il mio fiato e le orme
Che sfilacciano i rami degli ontani
I voli silenziosi mi dicevi
Da nocche e da pupille e poi gli specchi:
Fammi d'ogni tua sillaba riflesso
Laggiù nel fondo delle tue pupille
Dove scorre rovente la visione
Che alle nostre labbra come nebbia
Ci lasciava ubriachi tra le mandorle
Ma la terra riempiva ora le bocche
L'odore della terra nelle palpebre
Il peso delle terra sui menischi
Terra respiravamo come un bacio
E fummo infine piú bianchi del latte.

genseki

Luigi Nono : Como una ola de fuerza y luz (1971/72) ... 4/4

Il silenzio

Luigi Nono

Il silenzio.

È molto difficile ascoltarlo.
È molto difficile ascoltare , in silenzo, gl altri. Altri pensieri, altri rumori, altre sonoritá, altre idee. Attraverso l'ascolto, cerchiamo abtualmente di ritrovarci negli altri. Vogliamo ritrovare i nostri propri meccanismi, il nostro proprio sistema, la nostra razionalitá, nell'altro.

In questo vi è una violenza totalmente conservatrice.

Invece di ascoltare il silenzio, di ascoltare gli altri, speriamo di ascoltare ancora una volta di piú noi stessi. Questa ripetizione è accademica, conservatrice, reazionaria. È un muro elevato contro il pensiero, contro quello che ancora non si puó spiegare. È il prodotto di una mentalitá sistematica basata sugli a priori interni de esterni, sociali o estetici. Amiamo il confort, la ripetizione, i miti: amiamo ascoltare sempre la stessa cosa, cone le sue pccole differenze che ci permettono di dimostrare la nostra intelligenza.

Ascoltare musica.
È qualche cosa di molto difficile.
Credo che oggi sia un fenomeno raro.

Ascoltiamo abitualmente in modo letteraro, ascoltiamo quello che si è scritto, ci ascoltiamo ...

L'errore rompe le regole. È una trasgressione. È opposizione alle istituzoni stabilite. È ciò che ci permette di intravedere altri spazi, altri cieli, altri sentimenti all'interno e all'esterno, senza dicotomie tra i due, contrariamente alla mentalitá banale e manichea sostenuta oggi.

Risvegliare l'udto, gli occhi, il pensero, il massimo d interiorizzazone esteriorizzata: questo oggi è essenziale.

Luigi Nono
Intrevista a “Contrechamps”

Trad. e selezione genseki


sabato, gennaio 30, 2010

Gypsy holocaust Auschwitz song Latcho Drom

La prima volta che apprendemmo che i nostri amici venivano macellati ci fu un grido d’orrore. Poi ne vennero massacrati cento.
Ma quando ne rimasero uccisi mille e il macello non finiva, si estese una coperta di silenzio. Quando il male arriva come la pioggia, nessuno urla: alt!
Quando i crimini si ammucchiano diventano invisibili.
Quando le sofferenze diventano insopportabili, le grida non si sentono più.
Anche le grida cadono, come pioggia d’estate.


Bertolt Brecht

Dreiser Cazzaniga e la meraviglia

Dreiser Cazzaniga incontró innumerevoli volte nel corso della sua vita la meraviglia. No, non era certo un cacciatore di meraviglia, uno di quei tipi speciali dall'aria innocente che finiscono per arruolarsi in polizia per inseguire la propria personale meraviglia sulle autostrade e per gli svincoli del porto. Anzi, molte volte, avendo incrociato la meraviglia, essendosi imbattuto in essa, non la riconobbe, o avendola riconosciuta non seppe lasciare che lo invadesse davvero fino al midollo.
Eppure la meraviglia si trova intessuta a tutta la sua vicenda vitale. La meraviglia per la neve che sempre ritorna e che sembra cambiare il mondo per sempre. Poi se en va si scioglie e sembra che non ci sia mai stata. La meraviglia per la camminata di una ragazza sul marciapiedi davanti al bar in cui sta comprando il biglietto del treno e tante altre meraviglie di tipo minimalista come quelle di Amélie o del primo sorso di birra, insomma.
In realtá anche piú meravigliosa è la meraviglia oscura, la meraviglia per la testardaggine dei malvagi, per esempio, per la loro astuzia paziente, per la noncuranza dei violenti, per la viltá dei vinti, per la propria viltá.
La meraviglia oscura ebbe su Dreiser Cazzaniga un potere forse maggiore dell'altra. Questa è una affermazione dubbia perché effettivamente Dreiser fu sempre semplicemente schiacciato, annientato dalla meraviglia della natura. La meraviglia che sempre lo attendeva all'entrata di un sentiero nel bosco, alla scoperta di una radura, all'apparizione di una nuova sfumatuta dell'autunno.
Meraviglia e vergogna furono i due poli dell'anima rinsecchita di Dreiser Cazzaniga, almeno fino a quando non scoprí il sarcasmo e la frenesia dell'umorismo.
Un giorno la mamma comunicó solennemente al piccolo Dreiser Cazzaniga che il tempo era venuto per lui di scendere a giocare al patio con gli altri mocciosi e matotti di Briggio. Dreiser non sapeva che cosa fosse il patio, dalla finesta della cucina vedeva gli abeti sui fanchi dei monti che separavano Briggio dalla cittá che un grand'uomo batezzó Pastrufazio sventolare come manti d'avventura e rabbrividí di verde.
Il patio invece era un terreno tra i condomini recentemente innalzati, pieno di detriti metallici, mucchi di sabbia, pozze e scheletri di furgoni militari ianchi della lontana guerra dei padri rossi.
Accoccolato nella sabbia in un circolo col branco dei matotti Dreiser si sentí sereno, sicuro, concentrato a muovere un piccolo camion su strade immaginarie quando un moccioso scuro scuro chiamato Roberto gli gridó:
-ragno, ragno, sembra un ragno con quelle bianche gambette secche secche!
Dreiser non rispose la meraviglia gli colava in gola. Sorsi amari furono quelli. Perché, perché? Pensava e gli doleva il futuro troppo lungo e piano davanti alla sue mani incapaci di depredare.

a cura di genseki

venerdì, gennaio 29, 2010

Alamogordo

Le tue lacrime profumavano di miele
Come alcuni gelsomini sono latte
Le scostavi con una mano nuda
Come fossero cortina di pupilla
Entrava allora l'umido del lupo
Il roco alito del dirupo ventoso
E tante tante rose di caffé, sventate
Come fanciulle col primo completino di flanella
L'orbita sua era caverna al nostro tremare
Allo stringerci nei panni freschi dei tremuli
Pioppi
L'orizzonte era una sequenza di errori
Ritmati dai filari dei cactus.

genseki

M.Rostropovich - Bloch Schelomo (1)

giovedì, gennaio 28, 2010

Un amore di Dreiser Cazzaniga

Tra tutte le cocenti vergogne della gioventú di Dreiser Cazzaniga, particolarmente doloroso fu l'amore per la giovine Stefi Paglia parmense. Una piccola scintilla di carnalitá brufolosa nelle nebbie di Milano. Allora Dreiser Cazzaniga dormiva nella nebbia, mangiava nebbia, si dissetava con la nebbia e passava interminabili pomeriggi nelle librerie più prestigiose della cittá per dimenticare che non poteva saziare la fame, che le scarpe di plastica gli facevano puzzare i piedi e che la dermatite atopica di cui giá soffriva e che gli sarebbe stata diagnosticata solo molti anni dopo lo costringeva a grattarsi saguinosamente le gambe. Era però soddistatto viveva nella cittá,passava per corso di Porta Romana che gli pareva un canyon, godeva dei tram arancioni con le loro panche lignee, leggeva Quenau e Aragon: si sentiva un Paysan de Milan. Seguiva il ricordo delle sue precoci letture dadaiste nelle piccole gallerie commerciali e si svegliava presto la mattina per passeggiare tra i fuochi fatui delle discariche dismesse di Porto di mare fino a che la barba non si coprisse di brina. Un vero nebbioso e affumicato maudit che non beveva piú e fumava poco. Come conobbe la signorina Stefi? DreiseR Cazzaniga non ce lo racconta. Certo lo teneva ben impresso nella memoria; ma non lo racconta. O, almeno, io non ho trovato nel disordine delle sue carte la pagina a questo ricordo dedicata. Stefi Paglia era bassa, scura, morbida, flessibile e unta. avvolta in un costosissimo cappotto di montone, con un taglio di capelli da cosmopolitan e accettava di passare tantissime serate con lui e i suoi pruriti al cinema, al teatro al ristorante. Pagava lei! Gli regaló anche un paio di guanti di pelle che costavano una fortuna e che Dreiser Cazzaniga perse durante una partita di caccia al cinghiale mentre correva verso una rovere per mettersi al sicuro dalla furia di madre ferita di una rabbiosa cinghialessa. Fino ad allora gli pareva che Stefi Paglia gli accarezzase le mani dolenti.
Dreiser Cazzaniga passeggiava abbracciato a Stefi, la strizzava ma non la baciava, Stefi gli raccontava le pratiche sadomaso alle quali il fidanzato parmense era solito sottometterla nel fine settimana. Dreiser Cazzaniga non la vide mai nuda. Un volta lo invitó a dormire con lei nella sua casa di San Babila. Dreiser dormí sul divano lei gli versava il te in un bicchiere verde di quelli infrangibili avvolta in una camicia ibizenca dalle mille pieghe.
La mattina dopo Stefi gli raccontó che lo aveva sognato mentre entrava nella sua camera e le infliggeva larghe e profonde ferite slabbrate con un coltello da frutta arrugginito.
Dreiser Cazzaniga non la rivide mai piú.
genseki

Dialettica della memoria

Il “Giorno della memoria” è l'istituzionalizzazione della celebrazione rituale dell'unicitá e dell'eccezionalitá di quello che oggi viene comunemente chiamato “Olocausto”.

Il nazionalsocialismo tedesco segregó gli ebrei europei, li separó dalla comunitá umana li mise a parte come unici come eccezionali e giustificó in questo modo la necessitá del loro sterminio.

Proclamare oggi l'unicitá e l'eccezionalitá dello sterminio degli ebrei europei è assumere il punto di vista dei loro carnefici e consolidarlo.

Significa perpetuarlo attraverso la sua apparente negazione.

I nazisti commisero il genocidio perché considerarono gli ebrei a parte dell'umanitá, perché negarono il loro appartenere alla specie umana.

Proclamare l'unicitá dello sterminio degli ebrei relativamente a tutti gli altri stermini e genocidi che ritmano la millenaria preistoria umana è accettare questa loro separazione questa loro segregazione, significa fare proprio il punto di vista dei carnefici.

Lo sguardo con cui la vittima si guarda si confonde con quello con cui la guarda il suo carnefice.

Quello che si esecra è lo sterminio, ma si accetta la separatezza che en è la condizione teorica.

La negazione del nazismo sarebbe la negazione della separatezza, della segregazione sarebbe l'affermazione della comune dolente dignitá di tutte le vittime in quanto vittime e in quanto umane.

Affermare la natura unica e straordinaria dello sterminio significa accettare la logica che lo ha prodotto, perpetuarlo e quindi creare le condizioni per l'avvento e la giustificazioni di altri stermini, di altro orrore.

In questo senso la memoria è almento di odio sempre nuovo, condizione di possibilitá di altro orrore.

La perpetuazione della memoria non è la negazione dell'olocausto ne è la cattiva sintesi dialettica.

genseki

mercoledì, gennaio 27, 2010

Eduard Bagrickij (1895-1934)

In tutta a sua struttura psicologica, nella sua percezione Bagrickij era un poeta nel senso piú alto della parola -con una splendida comprensione della forza poetica, con un amore appassionato per il verso sonoro.
Lidiia Ginzburg

*

Benché giá famoso sulla scena degli albori della letteratura sovetica per la forza e la maestria de suoi versi vibranti e metaforici. in seguito alla morte prematura la vita e la poesia di Bagrickij furono converiti in una leggenda letteraria sovietica.
Tale leggenda venne poi consacrata dal primo congresso degli scrittori sovietici quello che codificó il realismo socialista come la ortodossia letteraria e artistica.

Le sue poesie furono materia per gli inni ufficiali e la legenda sovietica di Bagrickji finí per ridurre la sua poesia a un numero scelto e ridotto di poesie ideologiche.

Si dimenticó la sua critica all'oppressione burocratica e all'abbandono degli ideali egualitari.

Bagrickij fu insomma considerato soprattuto come l'autore di due opere: " la Giovane Pioniera" (1932) e "Il lamento di Opanas" (1926).

Diversamente da molti altri membri della prima generazione di poeti sovietici Bagrickij morí al culmine della sua carriera letteraria.

Egli era considerato come la figura principale del "Romanticismo Rivoluzionario Sovietico" e si lodava soprattutto il suo indistruttibile ottimismo sovietico nonostante la salute molto compromessa e il suo impiego dei temi clasici della poesia popolare ucraina e di quella russa. In effettii nella sua poesia sono forti gli influssi di Robert Burns e del poeta nazionale ucraino Taras Shevchenko ma anche quelli dei Poeti Maledetti, dei parnassiani e dei romantici tedeschi.

Valerii Kirpotin, capo del Dipartimento Letterario del Comitato Centrale e uno dei padri della dottrina del realismo socialista scrisse di Bagrickij che "egli era un romantico che, attraverso il canto e la parola si sforzó di esprimere la passione e il sogno della rivoluzione. La sua artiglieria poetica bombardava il vecchio mondo".


Viktor Shklovskii scrisse:

Uno strobscopio e un dosco rotante che al margine è perforato..

Il poeta contemla l mondo attraverso lo stroboscopio del suo cuore...
Bagrickij morí a trentasette anni. I suoi capelli erano tutti grigi. Centocinquanta scalini separavano la sua stanza dal mondo. Adorava il sole, il sud, l'anguria, gli uccelli, il mare, la prmavera e tra lui e il mondo c'erano centocinquanta scalini.
Nella sua stanza c'era un pesce; il pesce nuotava in acqua azzurra. Il pese nell'acqua azzurra fu l0ultimo frammento di vita che poté vedere dal suo giaciglio.

Eduard Bagrickij (1895-1934)

Eduard Bagrickij (1895-1934)

La sola resenza nella cultura italiana della figura e della poesia di Euard Bagrickij è un esile librettino della Collezione di Poesia Einaudi del 1965. La traduzione era di Strada e anche la brutta introduzione.
Dopo di allora nient'altro, Il libro me lo ha prestato Maresa quasi dieci anni fa. Devo ancora restituirglielo. Mi segue nascosto tra il passaporto e il permesso di soggiorno in tutti i miei ultimi viaggi.

L'ultima notte

Il fagiano esplose come un fuoco d'artificio
I pallini strapparono gli aghi dalle foglie.
L'uccello piomb'cometa di penne,
In uno scompiglio di albe primaverili.

L'Arciduca tornó a casa.
Si spoglió. Bevve del vino.
Il setter morbido gli si stese
Ai piedi, come una sfinge.

La pistola con cui fu ucciso
(Non ne ricordo il tipo)
Giaceva ancora dall'armaiolo
Fra una canna da pesca e un coltello.

Il futuro assasino sonnecchiava,
La testa reclinata
Sul duro pugno giovinetto
Coperto di bruno pelo.


A Odessa i castagni si vestivano di fumo
E quando scendeva la sera, il mare,
Ansando, si volgeva sul suo asse,
Simile a una ruota.

La mia finestra dava nel giardino
E nel crepuscolo, tra il fogliame,
Becchi di gas s'alzavano turchini
Sopra le insegne delle birrerie.

E su questa luce effevervescente
Rumoreggiando con un milione d'ali
Volavano gli stornelli a sfracellarsi
Contro i vtri e contro i cavi.

Primavera gl spingeva dalle rocce nere
Con la sferza ei venti di mare.

Uscii...
Dietro la porta mi si chiuse...
E la notte circondandomi
D'un moto d'ali, fiori e stelle,
Sorse in tutti gli angoli.

Oltrepasai le piccole case ebree.
Udivo il terribile ronfiare
Dei carrettieri stesi nei carri,
E nelle finestre si vedeva

Il sabato in parrrucca porporina
Che andava reggendo una candela.

Oltrepassai le piccole case ebree
Uscii al brillio delle rotaie
Al deposito tranviario si struggeva
Il lampione, circondato dalla grande primavera.

Avevo solo diciassette anni
E per questo certo la notte
Turbinava e respirava in me
E mi camminnava accanto.

Ero il suo specchio, il suo sosia,
Ero un secondo universo
I pianeti mi penetravano
Da parte a parte, come un bichier d'acqua,
E mi pareva che una luce leggera
Stillasse dai pori simile a sudore.

Oltrepassai il deposito tranviaruo
Dietro, imponderabile come il fumo
La via asfaltata, turbinando, volava
Ad occidente verso le onde del mare.

E d'un tratto udii un suono prolungato:
Sul mondo volava una tromba,
Languendo di passione. E io dissi
"Ecco le prime gru!"

Sulla polvere, sulla mia giovinezza
Passava echeggiando quella tromba,
E le stelle si gettavano da parte,
Con un palpito all'urto delle larghe ali.

...

trad. V. Strada

martedì, gennaio 26, 2010

Assente

Quando ti abbraccio stringo la tua assenza
Come tra i denti si asciuga lunga fame
Quando gli abeti si sfasciano a sciami
Mentre mi sfuggi respiro il tuo tepore
Viva presenza del tuo corpo in viaggio
Nelle contrade di granito e ghiaccio
Dove l'alloro è un sogno di metallo
E si stinge tra gli urti delle piume
La catastrofe oscura delle ciglia
Ti stringo assente come fossi pane
Per saziare la fame dei torrenti
Dorso d'anguilla lucida ti sciolgo
Perche mi sfugga all'orlo della bocca
Tutta la fresca estraneitá di un corpo
Che guizza e slitta dal mio deisderio.


genseki


lunedì, gennaio 25, 2010

Oltre

Cercavi di fissare il punto, l'istante
In cui l'animale alla soglia di se stesso
Sgorgava infine nel suo atto, nella negazione
Come sgorga il guanto dalle tua mano
E assume la casualitá della sua forma
Custodia del balenare tagliente
Delle tue unghie vere:
Il gatto dal nespolo transitava nel balzo
Per ricadere poi oltre se stesso
Con un cuore sanguinante e brandelli
Tra le fauci di un altro,
Mentre le tue unghie fredde
Azzurre ghigliottine delle pupille
Sorgevano incontro alla luna di settembre.

genseki

André Breton

domenica, gennaio 24, 2010

La Bandiera Rossa

Per la bandiera rossa, pura di qualsiasi contrassegno o distintivo, io ritroveró sempre lo sguardo che ebbi per essa, a 17 anni, quando nel corso di una manifestazione popolare, mentre si avvicinava l'altra guerra, l'ho vista dispiegarsi innumerevole nel cielo basso del Pré Saint-Gervais. E tuttavia - sento che la mia ragione non puó farci nulla, io continueró a fremer ancor di piú ricordando il momento in cui su quel mare fiammeggiante in alcuni punti non numerosi e ben circoscritti, apparve lo sventolío delle bandiere nere. Allora non avevo una grande coscienza politica e devo proprio dire che resto perplesso quand mi viene in mente di giudicare ció che me ne è venuto. Ma oggi piú che mai mi sembra che le correnti della simpatia e della antipatia siano dotate di una forza tale che permette loro di sottomettere le ideee, e io so che il mio cuore ha palpitato all'unisono con il movimento di quella giornata.
Nelle gallerie piú profonde del mio cuore ritroveró sempre l'andirivieni di quele innumerevoli lngue di fuoco alcune delle quali s attardavano a lambire uno stupendo fiore carbonizzato. Le nuove generazioni stentano a raffigurarsi uno spettacolo come quello di allora. In seno al proletariato non si erano ancora manifestati i dissidi di ogni tipo che hanno finito per lacerarlo.
La fiaccola della Comune di Parigi ancora non era stata spenta, vi erano tra quelle mani molte che l'avevano portata, ed essa unificava ogni cosa con la sua grande luce, che sarebbe stata meno bella e meno densa senza qualche voluta di fumo denso. Su quei volti si leggeva tanta fede individualmente disinteressata, tanta risoluzione e ardore, e tanta nobiltá anche sui volti dei vecchi.
Certo attorno alle bandiere nere le devastazioni fisiche erano piú sensibili, ma la passione aveva veramente traforato certi occhi lasciandovi dei punti indimenticabili di incandescenza, ra come se la fiamma fosse passata su tutti quegli uomini bruciandoli un po' di piú o un po' di meno...

André Breton
Da. "Arcano 17"

Antonio Porta

Dentro la poesia c'è quello che solo dentro di essa puó esserci. Futile è la vita del poeta. Disperata è la sua vita. Felice è la sua vita. Dipende dai giorni. Ma dove si gioca la sua pelle è nel linguaggio delle sue poesie, dove si chiude o si apre, anche alla vita.

Lettera a Nina Lorenzini
21.12.1977

sabato, gennaio 23, 2010

Era un aprirsi

Era un aprirsi e chiudersi improvviso
Di grandi foglie al fendere la ghiglia
L'impassibile palude della stanchezza
Soltanto un movimento di ventaglio
Negava il tempo e ne faceva perle
Una o due perle per ciascuna coppa
Da adesso a poi quindi da poi a prima
Era qualcosa come un dispiegarsi
Frullare forse schioccare da calice a calice
Dove il rumore si fondeva in luce
Liquida nelle bolle momentanee
Sfilare il tempo dalla guaina del desiderio
Era soltanto schiudersi di petali
Neri come campane di Bretagna
Quando il temporale gettava gli anni e i mesi
A manciate come stracci consunti
Sulle scogliere dove finiva il mondo
In un ansito asmatico di sputi.

genseki

Un circolo di circoli

Ciascuna delle parti della filosofia è un tutto filosofico, un circolo che si chiude su se stesso, ma l'idea filosofica vi è dentro in una particolare determinazione o elemento. Ogni singolo circolo essendo in sé totalitá rompe anche i limiti del suo elemento e fonda una piú ampia sfera: il tutto si pone perció come un circolo di circoli, di cui ciascuno è un momento necessario, cosiccé il sistema dei suoi peculiari elementi adempie l'intera idea che appare in ciascuno di essi

Enciclopedia delle scienze filosofiche
Introduzione
Paragrafo 15
trad. B. Croce

venerdì, gennaio 22, 2010

Giocavamo alla luna

Giocavamo alla luna sulla lama delle colline
La luna che non c'era già piú la luna era nera
Scorreva la luna sulla tua schiena come scorre la luce
La luna al palmo della mia mano non osavi succhiarla
Eppure fu proprio la luna che ti accese lo sguardo
Quando ardeva la malaria come altre costellazioni
E ti consumava il mio fuoco come una perla
Sbucata da un vecchio guanto nell'armadio di nonna
Fino a rotolare tra i riccioli di formaggio
Le capriole delle scintille nel vecchio camino di Ippolito
Il paiolo della polenta che un poeta dialettale
Avrebbe invocato come la luna che si disfa nel feltro
Che tarme e falene sfarinano luna di febbraio
Luna spenta come paraffina con l'impronta

Dei nostri pollici unti.

genseki



giovedì, gennaio 21, 2010

Neve

Fu per la neve che nacqui alla scrittura
Dalle orme dai voli spezzati nervature semi
Prima che tutte le ali fossero pietre
Lassú dove infine capovolto
Il cielo lasciava cadere i suoi corvi
Nel pozzo di strati infiniti del grigio
Corvi come stracci sbattuti qua e lá dal loro grido
Dal gracchiare che invano si sforzava
Di aprirsi in un segno rosso inesploso
O almeno di spezzarsi dolorosamente
In un cielo dai riflessi di cobalto
Il cobalto dell'avvento no! Il rosso
Non sgocciolava dalle colonne scistose
Che sorreggevano le volte vertiginosamente immobili
Dei grigi sovrapposti e la pioggia ancora non cadeva
A unire con i suoi fili i colori al loro significato
No! Non c'erano colori. C'era neve
Non c'erano significati negli schiocchi nelle orme
Dei passeri nelle righe delle ghiande come note
Sul pentagramma della radura
Un rintocco di rame sarebbe stato gelo
A rendere allora tutto piú giallo
Come occhio nell'uovo come uovo sognando
L'occhio pupilla di tuorlo
Le campane invece cigolarono grige
Come il bronzo nere come le aste dei campanili
Mentre il bianco pallido del sole
Soffiava sulla neve il suo alito di forfora
Sollevando in turbine spettrale
Frammenti di ali di farfalle screpolate dal gelo
Piume di albatros scacciate dalle antiche poesie
Caratteri dell'Olivetti lettera 32
Polvere di pneumatici fiori secchi d'ontano
Che furono dita delicatamente rose dal primo gelo
Di novembre
La neve fu il lenzuolo della scrittura
Il sudario del significato
La criniera gloriosa della terra
Ogni orma ogni traccia fu prova d'amore

genseki

Arabeskebi Pirosmanis Temaze 2/2 (A Short film by Sergei Parajanov, 1985)

Arabeskebi Pirosmanis Temaze 1/2 (A Short film by Sergei Parajanov, 1985)

mercoledì, gennaio 20, 2010

Haiti dans tous mes reves


Toussaint Louverture

Jacmel

Quando era adolescente
Viveva in una città
Che era una leggenda
Sulle coste del Mar dei Caraibi.
Chi lo voleva poteva
Trasformarsi in qualsiasi cosa
Un albero, per esempio,
Che cammina e beve del Rum,
Oppure un bue che suona l’organo
In chiesa alla domenica,
Un leone che fa becchi
Tutti i notai della città.
Lui, una sera della sua adolescenza,
Divenne un cavallo da corsa
Lo videro attraversare al galoppo Jacmel
Nitriva e invitava la gente
A venire a correre con lui nella strada.
Le porte e le finestre, però, restavano ben chiuse.
Poi, all’improvviso una ragazza è corsa fuori
Da una casa di Piazza d’Armi:
Era una delle più belle della città.
In camicia da notte
e sorrideva all’equadolescente
Quando egli venne accanto a lei
La ragazza si tolse la camicia
E balzò sullla sua schiena: lui prese a galoppare
Andò al galoppo senza fine nella notte
Facendo molte volte il giro di Jacmel.
Sentiva Adriana tutta nuda sulla sua schiena
Come il cielo notturno profuma di stoffa
Come la terra profuma dell’erba del mattino
Fiutava il suo sapore di ragazza.
Al galoppo, al galoppo nella notte
Sulla schiena l’astro di Jacmel
Sulla schiena tutta la gioia
Tutto il dolore di quella città.
E la paura e l’odio
sulla schiena
Al galoppo al galoppo nella notte
Coi baci
E tutti i sogni di Jacmel sulla schiena.
Al mattino andarono al mare
Dove si rinfrescarono a lungo,
Poi fu la volta del fiume
Per lavarsi il corpo dal sale.
Più tardi la fece scendere davanti a casa
Sotto gli alberi sbalorditi della piazza.
Quando riprese la sua forma di ragazzo
Aveva i fianchi coperti di sangue,
Delle fitte atroci alla spalle,
E tanto male al cuoio capelluto,
Restò a letto per due settimane
A guardare la sua adolescenza fuggire
Con la più bella ragazza della sua vita.

René Depestre
trad. genseki

Ateliers di Poesia

Da: Il Trionfo della Rivoluzione
di Ernesto Cardenal

"Il Trionfo della rivoluzione è il trionfo della poesia" il critico nordamericano David Craven racconta di aver visto questa scritta su di un muro della cittá di León. Ció che questa scritta voleva dire era che il trionfo della rivoluzione era il trionfo della cultura in generale considerando la poesia come la forma piú caratteristica della cultura.

*

Per quanto riguarda la poesia, mi sembra, che l'esperienza piú importante che si verificó fu quella degli ateliers di poesia.

*

Negli Stati Uniti esistevano ateliers di poesia; - poetry work-shops, tuttavia si svolgevano nelle universitá che sono molto care e alle quali possono accedere poche persone. In Nicaragua erano organizzati per tutto il popolo, come tutte le altre attivitá della rivoluzione.

*

Io stesso scrissi alcune regole per coloro che partecipavano agli ateliers:

1. Non cercare d scrivere con ritmi regolari o con rime;
2. Preferisci le parole piú concrete alle piú astratte;
3. Inserire nomi propri di persone e di luoghi
4. Preferire le immagini che penetrano attraverso i sensi;
5. Usare il linguaggio parlato e non quello lettario;
6. Abbreviare al massimo.

Ernesto Cardenal

Muro

La parola

André Breton
1942

Il Novecento apparirá in avvenire come una specie di incubo verbale, di cacofonia delirante. Epoca in cui le parole si logoravano piú rapidamente che in qualsiasi altro secolo della storia, epoca della grande protituzione della parola, di quella parola che avrebbe dovuto essere la misura del vero.

domenica, gennaio 10, 2010

Coltelli

Ciascuno di loro aveva un coltello
Ciascuno parlava soltanto con il suo coltello
Ciascuno parlava con un solo coltello
Barba Germano ne aveva uno frabosano
Zita la maremmana si masturbava
Con un coltello di pattada
Entrambi cavalcavano i loro coltelli
Come fossero cavalli con un coltello
Tra i denti
Non c'erano fratelli, solo coltelli
Michelaccio manteneva sei coltelli
Mangiavano con i coltelli
Dormivano sul filo del coltello
Si rasavano a punto a coltello
L'amore lo facevano a coltellate
Le loro biciclette erano coltelli
A coltellate fendevano le curve
I raggi delle ruote erano coltelli
Che accoltelavano la luce delle strade
Pedalavano con piedi a coltello
Spingendo sui coltelli dei pedali
Ci lanciavano occhiatacce da coltello
Ma Io e Rosaria continuavamo
A spezzare il nostro pane con le dita
E a mangiarlo inzuppato nel latte
Poi ci rendemmo conto che non avremmo
Più potuto continuare a vivere nella Valle
Che il fiume divideva come un coltello
Il clima si faceva troppo teso, tagliente, da coltello
Lasciammo il Borgo allora
Con le nostre quattro cose nello zaino
Al crepuscolo partimmo
Poco prima che cominciasse a grandinare a coltelli

genseki

Morsi

Ci arrampicavamo tra quelle grandi pietre
Pietre solari tatuate di lichene
Antiche come i tuoi occhi tatuati dalla ritrosia
Tra la barba dei pini piú vecchi
Si scorgevano giá i primi segni dei morsi
Le tracce dolorose dei denti:
Erano passati di qua: e mordevano
Mordevano il bosco come fosse anguria
Nel vento soffocante dell'estate
Si, mordevano il bosco con denti taglienti
E bacche mordevano e sassi sentieri palmizi
Vi entravano con lo zainetto e il mangiadischi
Li occhiali dell'azione cattolica, il fazzoletto al collo
Il maglione annodato alle anche
E cominciavano a mordere la corteccia
Le impronte dei denti si imprimevano nitide
Nella polpa pastosa delle betulle
Mordevano le sorgenti, i rigagnoli
I piú sottili fili d'acqua
Lasciando tracce, fili di bava sanguinosa
Che leccavano i ciottoli e le radici
Come tante linguette lascive
Nelle morsicature lasciate sulle pietre
Gia crescevano i figli del sole
I luminosi licheni
E mordevano, mordevano i raggi di luce
Che a fatica penetravano le grandi chiome
Fino a conciarli simili a fusilli
Noi, continuavamo a salire
E ora udivamo distintamente il suono dei morsi
Forse erano li proprio sulla vetta morsicando
Morsi secchi o glutinosi di saliva
Schiocchi, scoppi, trilli di morsi
Cigolii di morsi, fremiti frulli di morsi
Proprio alle radici delle orecchie
Poi un corvo si levó in volo
Con un grido prontamente morso
E li intravedemmo
Mordevano
Mordevano
Mordevano
Da morsi erano nati a morsi cresciuti
Educati a mordere crudelmente petto
E capezzoli morsi furono da morditori
piú rabbiosi mordevano con tanta
Assoluta dedizione
Che anche in me si sveglió brama di mordere
Il tuo sguardo che mi accarezzava
Forse anche tu volevi mordere la mia voce?
Volevamo morderci l'un l'altra i nostri baci?
No!
Noi non sapevamo mordere. Oddio!
Si, forse rosicchiare, di certo leccare e baciare
Ma loro continuavano a mordere
Incitandosi l'uno con l'altro si accingevano
A mordere il vento del temporale
E l'ultimo lembo d'azzurro.

genseki

sabato, gennaio 09, 2010

Hegel e l'Islam

Nel Maomettanismo questo principio limitato del giudaismo è esteso fino all'universalitá. Qui, Dio non è piú, come il Diio asiatico contemplato come ciò che esiste in modo immediatamente sensibile ma è concepito come il Potere infinito e sublime oltre la molteplicitá del mondo. Il Maomettanismo è, quindi nel senso piú esatto della parola, la religione del sublime.

Hegel
Filosofia dello Spirito

Trad genseki