venerdì, maggio 01, 2009

Ardenter amat amantem

Rapit ille prae ceteris quem amat ardentius. Ardenter amat amantes. Non vult benignissumus ille raptor abs te aliud, quae feliciter rapiaris ab ipso, nisi ut vel mediocriter velis rapi: sed hoc numquam velles, nisi ille ante vouluisset. Quemadmodum Luna non refulget in Solem nisi a Sole prius non accensa, sic illum non amas amorem, nisi amore ipso te amante atque efficiente fueris inflammatus. Hunc rursus non invocas, nisi prius te vocantem, non apprehendis eum sicuti nec locum nis comprehendentem. Finita quidem ut plurimum capere potes etiam si ab illi non capiaris; infinito vero capere nihil aliud est quam capi. Et quemadmodum imago in speculo non respicit vultum videtur aspicere, nihil hoc aliud est quam aspici hanc a vultu; rursus quemadmodum actio motusque non metiuntur nobis tempus nisi tempus revera haec ipsa dimetiatur; sic anima neque respicit Dum nisi prius ipsam aspicientem nisi diiudicantem.

Marsilius Ficinus
De raptu paoli

martedì, aprile 28, 2009

Congiura egli spagnoli contro Venezia II

Siccome non ci sono petesti tnanto plausibili come la guerra per gravare il popolo, quella degli Uscocchi dava ai nobili che la conducevano un bella occasione per arrichirsi. Questa guerra costava troppo: non c'era solo il denaro che andava al Piemonte, si dovette anche mantenere una terza armata in Lombardia contro il governatore di Milano che minacciava sempre di fare qualche diversione a favore del'arciduca. La giustizia della causa della Repubblica rendeva i comandanti sempre piú arditi nell'inventare nuove vessazioni, e non rendeva affatto il popolo piú paziente nel sopportarle. Le cose giunsero a un punto che il marchese di Bedmar poté ragionevolmente pensare che il rivolgimento che egli meditava sarebbe stato tanto gradito al popolo quanto funesto ai grandi. E persino tra i grandi vi era chi non amava il governo. Erano i partigiani della corte romana. Gli uni, ed erano la maggioranza, ambiziosi e vendicativi, erano irritati del fatto che la Repubblica era stata governata contro il loro parere durante il conflitto con Roma. Erano disposti a tutto per deporre l'autoritá; e avrebbero contemplato con gioia le sventure dello stato come consegienze di una condotta che essi non avevno approvato. Altri, semplici e rozzi, volevano essere piú cattolici del papa, come questo avava ammorbidito e sue pretese nel compromesso, avevan immaginato che fosse stato obbligato a farlo per politica; e che se fosse restata qualche rstrizione mentale si poteva temere che la scomunica restasse nella testa di sua santitá. Tra questi vi erano alcuni senatori tanto poveri di beni come di spirito, che servirono molto in seguito ai piani del marchese di Bedmar, dopo che egli li ebbe persuasi, a forza di benefici che dopo questo fatti non si poteva piú essere veneziani a posto con la coscienza.
Per quanto fose strettamente proibito ai nobili di frequico di entare gli stranieri, aveva trovato il modo di stringere forti vincoli con i piú disagiato e con i piú scontenti. Se essi avevano qualche parente prossimo in convento, qualche cortigiana, o qualche ecclesiastico di fiducia, comprava la conoscenza di queste persone a qualsiasi prezzo e faceva loro regali che erano di grande valore pur essendo curiositá di paesi esotici. queste liberalitá fatte snza necessitá apparente fecero pensare a quelli che le ricevevano che potevano attirarsene altre pi'considerevoli. Con questo obiettivo, essi soddisfecero completamente la sua curiosit'su tutto quello di cui egli volle informarsi ed ebbero cura di informarsi su quelle cosedi cui non erano direttamente a conoscenza; siccome la sua riconoscenza superava le loro speranze, non ebbero riposo prima di aver introdotto i loro padroni inquesto affare.. Bisogna creder che la necessitá ne fu causa, e che questi nobili non poterono vedere senza invidia persone, del tutto dipendenti da loro, diventate piú riche di loro per dei regali che erano fatti per onorare proprio loro.
Saint-Réal
trad. genseki

lunedì, aprile 27, 2009

Filosofia della Natura

Che cosa resta di vivo nella filosofia della natura di Hegel?
Certamente la forza del linguaggio, la sorpresa esatta di un'immagine:

"Le stelle possiedono la puntualitá di permanere nell'astratta identitá della luce"

Hegel Werke t VII

Settima elegia

Opzione per il reale

Vivo nel nome delle foglie, possiedo nervature
Passo dal verde al giallo e
Mi lascio morire nell'autunno.
Nel nome della pietra vivo e permetto
Che mi si colpisca cubicamente sulle strade
percorse da automobili veloci.
Vivo nel nome delle mele, possiedo
Sei piccoli semi sputati tra i denti
Dalla fanciulla che ha perduto la ragione
Tra pigre danze di ebonite
Nel nome del mattone io vivo
Con polsini di calce, rigidi
Ad ogni mano, abbracciando
Un possibile tuorlo di esistenza
Sacro non lo saró mai. Molta
Troppa è la mia immaginazione
Di altre forme concrete
Per questo ho così poco tempo per pensare
Alla mia stessa vita.
Eccomi. Vivo in nome dei cavalli
Nitrisco, sotto gli alberi potati.
Vivo nel nome degli uccelli,
Ma soprattutto del volo.
Credo di avere le ali, però
Nessuno le vede. Tutto per il volo
Tutto
Non appoggiare ció che c'è giá
su ciò che ci sará.

Allungo una mano che per dita
Ha altre cinque mani, che
Per dita hanno cinque altre mani, che
Per dita
Hanno cinque mani.

Tutto per abbracciare
Minuziosamente, tutto,
Per palpare paesaggi non nati
Per graffiarli a sangue
Con una presenza.

Nichita Stanescu
trad. genseki

giovedì, aprile 23, 2009

Stilmous

Vecchia talpa

A volte questo Spirito non si manifesta, piuttosto si muove "sous-terre", come dicono i francesi. Amleto dice allo spettro che lo chiama repentinamente prima da un lato e poi dall'altro: "mi sembri una talpa molto vispa". Effetivamnte, lo Spirito scava sotto terra, molte volte, come una talpa, completando cosí la sua opera.. Tuttavia laddove il principio della libertá alza la testa, si manifesta una inquietudine, una agitazione verso l'esterno, una creaione dell'oggetto, e in essa o spirito deve consumare la sua forza.
Hegel Opera Filosofia della storia.

Eccola, finalmente, la vecchia talpa di cui tanto si è detto, letto e scritto fare capolino proprio nel suo momento originario, Questo passo della Filosofia della Storia conserva chiaramente ancora il suo carattere orale, il sapore di una conversazione tra il professore e gli alunni con un tono disteso e elegante cui accenna Gramci in una nota dei quaderni che ora mi è difficile rintracciare. La citazione di Shakespeare in un ambiente in cui il romanticismo è senso comune è piegata attarverso un gioco di parole ad un senso speculativo. La vecchia talpa avrebbe potuto forse aspirare ad assurgere al rango di una delle grandi figure del pensiero hegeliano, come che so: Servo padrone o Antigone? Forse no.Tuttavia questo passo è una buon spaccato del processo con cui Hegel elaborava le sue figure, le scolpiva traendole da dove capitava e impastandole di dialettica Chi ne fece una figura speculativ di grane successo fu invece Marx che proruppe nella fragorosa esclamazione: "ben scavato, vecchia talpa!". anche la frase di mar tradisce, senza dubbio la sua natura colloquiale e testimonia della esca dimestichezza sua col pensiero e la personalitá di Hegel che ancora nn era materiale per eruditi e professori.
Attraverso la vecchia talpa il comunismo riconsce come in uno specchio il suo volto in quello dello Spirito Assoluto. Il movimento necessario oscilla tra lo sviluppo delle forze produttive e la dialettica dell'alienazione e del disvelamento. Certo con questa figura Marx dimostra di essere piú prossimo al panlogicismo che al messianismo giudaico che da molti incauti gli si è voluto caricare sulle robuste spalle.
genseki

mercoledì, aprile 22, 2009

Sull'amore coniugale

Hic tecum, hic, coniunx, vita fruenda mihi est,
Otia si capian animum quid mollius umbra,
Fundit quam multa populus alba coma,
Quam platanus platanoque decens intersita laurus
Et quae tan raro citrus honore viret?
Sin labor, ut teneras hortis diponere plantas;
Ut iuva virentes carpere mane rosas
Aut tenuem e foliis Laribus pinxisse coronam
Et suae tritilicae serta parare deae,
Nunc legere arbuteos fetus montanaque fraga
Aureaque in calathis mala referre novis
Nunc agere incautas in retia carca volucre
Mille moos placidi rura laboris habent!
...
Hic tecum, coniunx, vita frunda mihi est:
Ista semana nos fata manent. Mors usque vagatur
Improba, vis mortem fallere? Vive tibi

Pontanus

De amore coniugali

mercoledì, aprile 08, 2009

Pasqua 2009

Ció che noi oggi chiamiamo la religione di Cristo, giá esisteva tra gli antichi e non è mai venuta a mancare dall'origine del genere umano fino al momento n cui Cristo si incarnó, epoca a partire dalla quale, la vera religione che giá esisteva cominció a essere chiamata Religione Cristiana.

Agostino
Confesiones I, 13
trad. genseki

Nikita Stanescu

Dice No solo chi comprende il Si

Prima elegia

Dedicata a Ddedalo
Della famosa stirpe degli artigiani
Dei dedaliani


Comincia e finisce in se stesso
Nessun'aura lo annuncia, nessuna
Cometa lo segue.

Nulla spunta fuori da esso
Per questo non ha volto
Non ha forma
Simile a sfera
Un grande corpo
Avvolto da una pelle sottile.

Ha ancora meno pelle, tuttavia,
Di una sfera.
È la perfezione dell'interiore,
Non ha margine
Pur essendo ben delimitato.

Non lo segna la storia
Dei suoi movimenti
Come le orme dei ferri seguono
I cavalli.

Non ha presente
ma è difficile immaginare
In che modo non lo abbia

Completamente interno
Dentro il punto stesso
Piú concentrato ancora che in un punto.

Non urta nulla
Nulla lo ostacola
Non ha parti esteriori
Con cui urtare.

Avvolto in esso,
Qui, io dormo.

Tutto l'opposto d tutto
Non si oppone
Non nega
Dice No solo colui
Che comprende il Si
Chi tutto conosce
Nel No e nel Si ha le foglie strappate.

Eppure non dormo solo io qui
Con me dorme la serie di coloro
Il cui nome io porto,
La serie degli uomini mi abita
una spalla. La serie delle donne l'altra.

Ma non possono nemmeno penetrarvi. Soo
Piume invisibili

Agita le ali - qui -
Nella perfezione dell'interiore
Che in sé comincia e
In sé finisce.

Da nulla annunziato
Nessuna cometa lo segue.

*

Seconda Elegia

Getica

Nella cavitádi ogni tronco viveva un Dio

Se in qualche pietra si apriva una crepa
Ecco che subito vi collocavano un Dio.

Bastava che un ponte crollasse
Perché al suo posto mettessero un Dio

O che nella strade apparisse un fosso
Per collocarvi un Dio.

Non farti tagli alle mani o ai piedi
Per nessuna ragione,
Ci metterebbeo dentro un Dio
Come ovunque,
Un Dio da rispettare che protegga
Tutto quanto da noi si separa.


Lottatore, attento a non perdere un occhio
Porteranno un Dio e lo inseriranno nel'orbita
E le nostre anime rabbrividendo lo glorificheranno
E anche tu obbligherai la tua anima
A rendergli gloria.

Trad genseki

giovedì, aprile 02, 2009

C'è un paradosso nel marxismo

Da "considerazioni su alcuni filosofi" di Alain

Marx

C'è un paradosso nel marxismo, cioè che questa dottrina che si presenta come un materialismo è in realtá l'idealismo piú ardito. Finché non si sa superare la contradizione, ovvero farla passare all'antitesi che è correlazione non si puó andare avanti. Gli innumervoli lettori di Lucrezio sanno che cosa vuol dire salvare lo spirito negandolo e io ho spesso notato il contrasto tra i materialisti che sono spiriti risoluti e gli spiritualisti che sono spiriti stanchi. Ma bisogna vederci chiaro e ogni difficoltá è risolta in questa formula ben conosciuta di Bacon: "l'uomo trionfa sulla natura obbedendola", di cui il piú insignificante uomo di mare conosce bene ogni applicazione pratica. Il nostromo non è quel tipo di uomo che nega la potenza del mare e nemmeno è disposto a pregare perché l'onda lo colga a prua e non sul fianco; al contrario davanti alla forza impietosa, che egli sa fedele e senza malizia, agisce, cioè passa appoggiandosi a ció che offre resistenza.
Tutti i mestieri conoscono questa tecnica.
Chi non ha pesato come su una bilancia l'universo inflessibile, così ben coeso, e corrispondente a se stesso in tutti i suoi movimenti, senza nessun pensiero, questi non è un uomo. Lo stato di infanzia consiste proprio nel credere che pregando e sperando si vivranno giorni migliori. L'audace cerca soltanto una fenditura su cui poggiare il piede, sicuro, nel modo piú assoluto che l'universo non bara.
Questa posizione severa è quella di Descartes, che anche dal corpo vivo, dal suo proprio corpo, avendo ritirato ogni pensiero e non vedendovi altro che particelle che spingono o sono spinte, pensó che si poteva vivere a lungo se si giocava con tenacia. Ma davanti al corpo politico, il piú complicato di tutti non aveva progetti, qui confidava nella natura, cioé nelle abitudini, nelle passioni, nell'amicizia. Viveva come un Leviatano, come un selvaggio nel bel mezzo della natura delle cose, ossequiandole tutte per precauzione.
Ora, chi vuol agire così è come il pilota sul mare. Dapprima deve cogliere le leggi meccaniche, ció che resiste, che offre un appiglio, ció che on inganna. Cioé leggere la politica come un vortice piú complicato a senza spirito. Non appena vi si suppone uno spirito si è obblligati a pregare. Quindi, in questo mondo umano, cercare ció che non cede mai alla preghiera, cioè ritrovarvi la necessitá naturale attraverso i bisogni, i lavori, le risorse. Come il muschio non spunta che nei luoghi umidi, cosí l'uomo si espande come un vegetale. Negozi, officine, banche, trasporti e depositi, tutto ció è disegnato sulla terra con la stessa necessitá d una macchia di umidita sul soffitto. Chi vuol dimenticare questa necessitá muore. Tutti i pensieri che hanno vissuto dipendono da queste necessitá inferiori. Ecco distrute tutte le nostre ambizioni, ma anche le ambizini del chirurgo sono distrutte nel chirurgo; questa riflessione virile che contempla finalmente la necessitá esteriore, non uccide l'azione, anzi le apre un varco.
Nel momento in cui l'acqua e il vento sono forze cieche ecco che io posso navigare. Da qui questa altra navigazione politica che guarda ai bisogni, agli utensili, ai lavori, elementi ciechi, senza capricci, che non barano e contemporaneamente con questa separazione dello spirito dal corpo la volontá trova le sue armi e testa la sua potenza.
Uno dei termini illumina l'altro come si dice e come si dimostra ma astrattamente, mentre in ogni momento, nell'azione bisogna trovare lo spirito puro se si vuol trovare lo spirito puro. da qui si comprende che i nostri sociologhi mistici sono al livello dei maghi della pioggia. Invece ogni minimo cambiamento nelle condizioni inferiori è come un colpo di remo nell'acqua.;puó essere dato bene o male, ma una buona traversata o un naufragio dipendono dalle stesse leggi, e la sola differenza, per quanto riguarda l'azione dell'uomo, consiste in movimenti minimi, in minimi lavori, tutti orientati da uno spirito previdente e senza paura.

Alain
trad genseki

mercoledì, aprile 01, 2009

Kenneth Patchet

Di Kenneth Patchet non so granché, ho trovato una scelta di sue poesie su una vecchia rivista, e una foto con la faccia da operaio fotogenico. Testardo.Non so cogliere il ritmo dei suoi versi. Non lo sento. per questo, credo le traduzioni suoneranno afone.
Eppure questa poesia la ho vissuta, la vivo da tempo. Quando il dulice sonno ci riporta alla tenerezza animale che non sa della morte, e la mente per contrasto trema della consapevolezza del nulla nel tepore di pelle e lenzuola.

Religiome è che ti amo

Il tempo avrá disteso i nostri corpi
In un unico sogno, saziata la fame, spezzato il cuore
Come una bottiglia bevuta dai ladri.

Amata, lontano si incotrano le nostre bocche
Prossimi i capelle, stretti gli occhi
Fuori

Fuori dalla finestra rami agitati
Da mite vento, muovono gli uccelli rapide ali

Amore, in quest'aria sfinita moriamo.

Lascia che guardiamo il sonno,
Che infiliamo le dita nel respiro che cade su di noi.

Vivi possiamo amare, anche se s'approssima la morte
Non dobbiamo ascoltare il suo canto senza speranza.

Ora, stringiamoci forte, non moriremo uno accanto all'altro.

*

Ereditá

Ti lascio i piaceri della terra:
L'erba bruciata dal sole; corpi
D'acqua, amabili nella vastitá degli anni
Senza avere ali per noi;
La vasta meraviglia del firmamento, tutto l'arredamento
Sfasciato dello spazio cardiaco interiore;
La cinica immagine dl fumo che sale a spirale
Dalle case che non abbiamo mai avuto.

Ti lascio i mari sulle spiagge secche
La treccia d'oro della pergola
Sulle nostre tombe: il tenero suono
Del silenzio su tutte le cose.
Ritorno del corpo ribelle: qui;
La cruda quesione dell'erba;
Il volto cisposo dello spirito
senza splendore. Basta.
Ti lascio.

*

Argomento dell'allodola

Di primo matino venne il gigante
Raggiunse l'albero dei piccoli.
Le loro facce erano come mele candide
E i freddi rami oscuri
E i loro vestititini
Gesticolavano nel vento.
Non si udirono i passi
Dei suoi piedi pesanti. Subito si mise all'opera
Tirandoli giú dolcemente
In un grosso canestro
Che con una cinghia d'oro
Pendeva dalle sue spalle.
Uno solo sfugggí - un dolce grazioso piccino
Dai capelli color latte anacquato.
Cadde nell'erba alta
E non lo poté trovare
Pur avendo frugato con le dita
Fino a che sanguinarono e sorse il giorno,

Agitò i pugni verso il cielo
E chiamò Dio
con un nome brutto.

Ma non ci fu risposta e il gigante
Si inginocchió davanti all'albero
Abbracció il tronco con le mani
E lo scosse
Fino a che caddero tutti i piccini
Nell'erba. E lui li pestò fino a frne gelatina.
Ma non si fermó qui
Diede fuoco al suo canestro mezzo pieno
Tenendolo Tenendolo con le mani finché
Non fu tutto bruciato. Egli vide poi
Due uomini che si avvicinavano su cavalli fumanti
Dalla parte del mondo.
Trasse un piccolo flauto d'argento
Dalla tasca e suonó un motivo
Dopo l'altro
Fino a che essi lo raggiunsero.


Trad. genseki

sabato, marzo 28, 2009

Hegel e Dogen

ll sapere che è in primo luoo o immediatamente il nostro oggetto non puó essere che quello che è esso stesso sapere inmediato, sapere del'immediato o dell'ente. Dobbiamo quindi metterci in relazione in modo inmediato e accogliente, senza modificare niente in esso tal quale si presenta e allontanando il concetto dalla percezione.

Il contenuto concreto della certezza sensibile fa che questa si manifesti come la conoscenza più ricca, ossia come una conoscenza infinitamente ricca tale che – anche movendosi nello spazio e nel tempo come nl mezzo in cui essa si espande oltre se stessa, oppure prendendo un frammento di questa pienezza e entrando per suddivisione, dentro quel frammento medesimo – non sapremmo trovarne il limite.


Hegel

Fenomenologia dello Spirito
Cap. I

trad genseki


La prima frase della fenomenologia, il punto di partenza dell'avventura della Bildung univesale è anche il punto di arrivo, ovviamente, quello del sapere piú ricco.

La certezza sensibile è quel genere di immediatezza che corrisponde al pensiero hishiryo del Maestro Dogen: “non pensare con il pensiero, pensare con il non pensiero. Come si pensa con il non pensiero? Col pensiero hishiryo”.

Cioè saltando inmediatamente, oltre ogni mediazione nella certezza sensibile,

Cioè raggiungere la meta al principio del cammino

Ieri fui sogno

Ieri fui sogno; domani saró terra!

Appena prima, nulla; dopo, fumo!

Eppur nutro ambizioni, eppur presumo

E punto son del cerchio che mi serra.


Breve battaglia d'importuna guerra

In mia difesa son periglio estremo

Con le mie mani il mio essere scemo

Meno m'alberga il corpo che m'interra.


Ier non é pú, domani non ancora

L'oggi trascorre, è fu giá con movimento

Che mi getta di morte nella gora.


E vanga è l'ora che per le mie ossa

Con mercé della pena che m'accora

Scava nella mia vita la mia fossa.


trad genseki


venerdì, marzo 27, 2009

Lo spirito e la nazione

In ciascuna delle sue forme, lo spirito del mondo ha raggiunto la sua propria autocoscienza, piú o meno sviluppata, peró sempre assoluta; ogni nazione, sotto qualsiasi sistema di leggi e di costumi ha saputo incarnarlo e godere della sua presenza.

Hegel

Legge naturale
Werke II
Pagg. 496-97
trad genseki

mercoledì, marzo 18, 2009

Orologi

Orologio da sabbi

Che vuoi contare tu
Orologio molesto
In un soffio di vita sfortunata
che passa tanto presto
Fornito il suo cammin d'una giornata
Breve e costretta dall'uno all'altro polo
Essendo tal giornata un passo solo?
Se contassi il travaglio, il duol, la pena
Del viver mio, non potresti serrare
Tanti grani d'arena
Che il mar istesso potrebbero colmare.
Lascia passar le ore, non segnarle
Non voglio misurarle
Non m'aggrada conoscere la sorte
Del termine obbligato della morte.
Deh non mi far piú guerra
Il nome di pietoso infin accetta
Poco tempo mi spetta
Pria di dormir nel grembo della terra.

Ma se è tuo dovere
Contar i giorni della vita mia
Presto riposerai poiché le cure
E le tante premure
Che nutre lacrimoso
Il cor mio doloroso
L'ardente fiamma ria
Ch'amor attizza nelle vene oscure
(men che di sangue son di fuoco piene)
Mi spinge con gran possa
Nel grembo della morte, e mi accorcia il cammino
Ché con pie doloroso
Misero pellegrino
Vo`dando giri presso la nera fossa.

Ben so che sono fiato fuggitivo
Giá so, già temo, già son fatto accorto
Che polvere saró, quale tu, da morto
E vetro son, quale tu sei, da vivo.

Quevedo

Poesie Morali

Trad. genseki

mercoledì, marzo 11, 2009

Il Risveglio

Attraverso il Risveglio si attualizza la vacuitá, la quidditá, il limite della realtá, il regno dello spirito e l'essenza.
Queste, peró sono solo parole, nomi che servono per intendersi provvisoriamente.
Il Risveglio in se stesso è l'ultima veritá e l'ultima realtá, È la norma immutabile, indistruttibile, oltre la disriminazione, è l'autentica pura conocenza che tutto penetra e che tutti i Buddha possiedono; è la perfezione fondamentale attraverso la quale i Buddha ottengono la penetrazine nella natura di qualsiai realtá, di ogni forma; sta oltre ogni definizione, di ogni struttura, di ogni pensiero.

Prajnaparamita Sutra
a cura di genseki

L'Atalante

La congiura degli spagnoli contro Venezia

Questa e l prima parte della traduzione di quest'opera, per molti versi avvolta di mistero di Saint-Réal, cui si ispiró Simone Weil per la sua bella Tragedia: "Venise Sauvée".
L'epoca della nascente riflessione scientifica sulla politica, del farsi autonoma della politica rispetto ad altre pratiche e ad altri saperi è l'epoca dell'analisi delle congiure e dei complotti.
La legge è sottesa ai femnomeni naturali, il complotto a quell politici. Dal gran secolo francese e da Botero e Gracián giú giú fino ai bassifondi di internet la spiegazione della politic in termini di complotto ha percorso un lungo cammino.
In Saint-Réal ha ancora la forma della meraviglia e dell'avventura.

Il protagonista di questi primi paragrafi è il Marchese di Bedmar. Egli è il congiurato ideale, che unisce la determnazione e la segretezza a una specie di onniscienza. Profondo umanista trae i suoi metodi di azione e i suoi convincimenti dalla frequentazione assidua dei classici. Nn è ineressato ai vantaggi che la sua azione puó portargli personalmente quanto piutosto alla forma che esa riveste, quasi come fosse un'opera d'arte. Bedmar é l'artista della congiura, il dandy del complotto.
La Repubblica di Venezia è il suo destino in quanto sistema di governo assolutamente razionale. Il governo di Venezia è ermeticamente chiuso in uno scrigno di procedure che vanificano il potere del complotto in quanto ne assumono i modi e la logica come forme proprie e quotidiane dell'azione di governo. Il senato di Venezia è la isituzionalizzazione del complotto come forma permanente di dominio e di controllo.

La sfida tra Venezia e Bedmar è inevitabile:

Il marchese di Bedmar

Quando i francesi ebbero posto fine al conflitto ch che opponeva la Repubblica di Venezia al papa Paolo V, in modo tale che l'onore dovuto al Santo Soglio restasse intetto e la gloria che i veneziano meritavano non venisse negata, solo gli spagnoli si ritrovavano in una condizione per la quale avrebbero potuto lamentarsi. Siccome si erano schierati direttamente con il papa e si erano offerti di sottomettere Venezia con le armi, furono irritati dall'aver questi intrapreso trattative quasi senza una loro partecipazione: quando peró ebbero avuto maggior contezza dei segreti dell'accordo, seppero che non avevano motivo di lamentarsi di lui e che il disprezzo d cui erano stati fati oggetto in quell'occasione proveniva dalla Repubblica. Era il Senato che aveva voluto in qualche modo escluderli dalla mediazione. Pretendeva che non potessero essere arbitri dopo aver dimostrato tanta parzialitá.
Per quanto il loro risentimento fosse grande per questa ingiuria essi non lo vollero manifestare fino a che visse Enrico IV: il debito che questo principe aveva con i veneziani era troppo conosciuto, cosí come l'attenzione con cui si era preso cur dei loro intresi nel conflitto con la corte pontificia. La sua morte lasciava mano libera agli spagnoli ch avevano soltanto bisogno di un pretesto.
Una banda di pirate, detto Uscocchi si era stabilita nelle terre adriatiche della casa d'Austria. Questi delinquenti avevano commesso un numero infinio di violenze contro i suditi della Repubblica, e godevano della protezione dell'Arciduca ferdinando di Graz, sovrano del paese e che in seguito sarebbe divenuto imperatore. Era un principe molto religioso, ma i suoi ministri dividevano il bottino con gli Uscocchi.
L'Imperatore Mattia, commosso dalle giuste lamentele della Repubblica, stipuló un accordo in Vienna nel mese di febbraio del 1612; tuttavia questo accordo fu cosí mal asservato da parte dell'arciduca, che si giunse a una guerra aperta, in cui egli non ottenne tutti i vantaggi che gli Spagnoli si aspettavano. I veneziano poterono facilmente rivalersi delle perdite che subirono in alcuni piccoli combattimenti: Siccome non avevano niente da temere da parte dei Turchi, potevano sopportare la guerra in migliori condizioni che l'arciduca. Questo principe era spinto alla pace dall'imperatore, perché il Turco minacciava l'Ungheria; e aveva bicogno di grandi somme per favorire la sua ascesa al trono di Boemia che si verificó in seguito molto presto. Gli spagnoli avrebbero voluto fornirgli i mezzi per continuare la guerra; ma Carlo Emanuele, duca di Savoia contro il quale erano in guerra alllo steso tempo, non permetteva loro di raccogliere le forze, e siccome questo duca riceveva molto denaro dalla Repubblica non ebbero modo, mai, di separarlo da essa.
Il consiglio di Spagna era molto indignato di verificare come i veneziani fossero in vantaggio ovunqu. Il genio dolc e pacifico di Filippo III e del suo favorito il duca di lerma, non sapeva trovare un mezzo per tirarsi fuori da una situazione tanto pericolosa; ma un ministro che esi avevano in Italia e che non era altrettanto moderato, prese su di se di risolvere il problema.
Si trattava di don Alfonso de la Cueva, marchee di Bedmar, ambasciatore ordinario a Venezia, uno dei geni piú poderosi e degli spiriti piú pericolosi che la Spagna avesse mai prodotto. Si vede, dagli scritti che ci ha lasciato, che possdeva tutto ció che secondo la storia antica e moderrna serve alla formazione di un uomo straordinario. Egli comparava le cose che vi si trovano narrate con quelle che accadevano al tempo suo, Osservava esattamente differenze e somiglianze delle quistioni e come quello che le differenzia modifica quella che le rende simili. Egli giudicava del successo di una impresa non appena en conosceva il piano e le basi. Se poi gli avvenimenti provavano che non aveva indovinato, egli risaliva alla fonte del suo errore e cercava di scoprire ció che l'aveva ingannato. In questo modo, aveva egli compreso quali fossero le vie sicure, i mezzi utili e le circostanze capitali che fanno presagire un buon successo dei grandi progetti e che fanno si che essi finiscano quasi sempre per riuscire. Questa continua pratica della lettura, della riflessione dell'osservazione delle cose del mondo, l'avevano innalzato a un punto tale di sagacitá che nel consiglio di Spagna le su congetture sull'avvenire erano prese come profezie.
A questa profonda conoscenza della natura delle grandi questioni, egli univa talenti singolari per la manipolazione, una facilitá di parlare e di scrivere in modo straordinariamente gradevole, un meraviglioso istinto per conoscere gli uomini, un aspetto sempre gaio e aperto, un umor libero e compiacente tanto piú impenetrabile quanto piú tutti quanti credevano poter penetrarlo; modi dolci, insinuanti e lusighieri, che attiravano il segreto dei cuori piú difficili ad aprirsi; tutto l'aspetto della piú completa libertá di spirito nelle convulsioni piú atroci. Gli ambasciatori di Spagna erano allora in condizione di governare e corti presso le quali erano inviati e il marchese di bedmar era stato scelto per Venezia nell'anno 1607 dal momento che questo era considerato il piú difficile egli incarichi all'estero, e in cui non ci si poteva avvaler di donne, di monaci e neppure di favoriiti. Il consiglio di Spagna era cosí contento di lui, che, nonostante sorgessero ncessitá altorve, per sei interi anni non si risolse a richiamarlo. Un si lungo soggiorno diedegli agio di studiare i principi di quel governo, di dipanarne i piú segreti ingranaggi, di scoprirne i punti forti e quelli deboli, i vantaggi e i difetti. Quando si rese conto che l'Ariduca sarebbe stato costreto alla pace e che questa sarebbe stato vergognosa per la casa d'Austria dal momnento che aveva torto, risolse di tentare qualche cosa per prevenire tale eventualitá.
Cnsider'che nello stato in cui Venezia si trovava non era impossibile impadronirsene con le conoscenze che aveva e con le forze sulle quali poteva fare affidamento.
Gli eserciti l'avevano privato delle armi e ancor peggio di uomini capaci di portarle.
Siccome la flotta non era mai stata tanto bella, il senato non si era mai considerato cosí temibile e mai aveva temuto meno. Tuttavia questa flotta invincibile quasi non poteva allontanarsi dalla costa istriana dove si combatteva quella guerra. L¡esercito di terra, anch'esso era lontano; e non vi era nulla a Venezia che potesse opporsi a un attacco della marina spagnola. Per rendere piú sicuro questo attacco il marchese di Bedmar volle impadrronirsi dei posti principali, come Piazza S. Marco e l'arsenale; e, siccome sarebbe stato difficile farlo se la cittá fosse stata perfettamente tranquilla, pensó bene di far incendiare contemporanemente tutti i luoghi che erano piú adatti e che fosse piú importante soccorerre.
Non volle scrivere subito in Spagna: sapeva che i principi non amano essere messi al corrente di questo tip di imprese che quando sono giunte ad un punto tale di esecuzione che solo manca un loro cenno di approvazione. Si accontentó di far notare al marchese di Useda, principale segretario di stato che la casa d'Austria era svergognata dall'insolenza dei veneziano nella guerra del Friuli e che tutti i negoziato che si svolgevano a Vienna e altrove erano pieni di ignominia e che egli credeva che fosse giunto il mmento in cui la natura e la politica obbligano un suddito fedele a ricorrere a mezzi straordinari per preservare il proprio principe e il proprio paese da una infamia altrimenti inevitabile; che questa preoccupazione lo concerneva particolarmente, a cusa del suo incarico, in cui aveva sempre davanti agli occhi le fonti del male cui si doveva porre rimedio, che e che egli avrebbe cercato di condurre a termine questo suo compito in un modo degno dello zelo che lo animava per l'onore del suo signore.
Il duca di Useda, che lo conosceva per quello che, comprese subito che questo discorso nascondeva qualche progetto pericoloso e importante in parti eguali: ma, come coloro che sono saggi non vogliono sapere niente di questo genere di cose se non obbligati, non comunicó il suo pensiero al Primo Ministro e rispose al marchese di Bedmar in termini generali, lodando il suo zelo e rimetendosi per il resto alla sua ben conosciuta prudenza. Il marchese che si attendeva una risposta del genere non fu sorpreso dalla sua freddezza; si dispose a metterei atto il suo piano per assicurarsi di essere approvato.
Mai vi fu nel mondo una monarchia assoluta come il dominio che il senato di Venezia esercitava nel governo della Repubblica. Infinita è la differenza tra i nobili e quelli che non lo sono. Solo la nobiltá puó comandare nei paesi che en dipendono.

Saint-Réal
traduzione genseki

giovedì, marzo 05, 2009

Parajanov

Gramscismi

Nell'articolo: “Antichi monasteri benedettini in Albania nella tradizione e nelle leggende popolari” del pade gesuita Fulvio Cordignana pubblicato nella “Civiltá Cattolica” del 7 Dicembre 1929 si legge:


Il “Vakúf”, - Ció che è rovina di chiesa o bene che gli appartenga – nell'idea del popolo ha in se stesso una forza misteriosa, quasi magica. Guai a chi tocca quella pianta o introduce tra quella rovine il gregge, le capre divoratrici di ogni fronda; sará colto all'improvviso da un malanno; rimarrá storpio, paralitico, mentecatto, come se si fosse imbattuto, in mezzo agli ardori meridiani o durante la notte oscura e piena di perigli in qualche “Ora” o “Zana” laddove queste fate invisibili e in perfetto silenzio stanno sedute a una tavola rotonda o in mezzo al sentiero.”


C'è ancora qualche altro accenno nel corso dell'articolo.


Questa nota di Gramsci cosi estranea al corso delle sue preccupazioni intellettuali quali esse ci appaiono nei Quaderni, cosí apparentemente divagatoria nella ci permette forse, per un istante di entrare nell'intimo della sua mente, di intravedere una fazione infinitesima del gomitolo di pensieri e desideri che continuamente si srotola nel suo e nel nostro cevello e che come un ronzio ci assicura che esistiamo. È questo ronzio quello che abbiamo di piú nostro, di piú personale, di piú simile ad una Io permanenente.

In queste poche righe di annotazione possiamo cogliere la tenerezza infantile del desiderio di un mondo di favole e di leggende, forse un appena un bagliore della strana convinzione di Gramsci di essere di origine albanese, la nostalgia della Sardegna arcaica, proprio quando anche la sua infanzia si fa per lui aracaica e il passato della terra leggendaria e della biografia perduta il solo orizzonte possibile.


L'isolamento delle rovine delle vecchie chiese è il correlativo simbolico dell'isolamento carcerario del suo corpo, anch'esso appunto segregato e in rovina.

Gramsci sente il suo corpo come il tempio, come il recinto del sacro nella sola forma in cui a lui è dato sentirlo.


Tutto questo nellinfinita noia dolente, nell'agonia ovattata di un pomeriggio carcerario.


genseki

mercoledì, marzo 04, 2009

Fantasia - Night on Bald Mountain

Gaspard de la Nuit

Con questo paragrafo termina la traduzione del primo libro di Gaspard de la Nuit di Louis Bertrand.


Partenza per il Sabba

Ella si alzó in piena notte, e, accesa una candela, prese un scatola e si unse, poi, per mezzo di qualche formula magica fu trasportata al Sabba.

Jean Bodin
De la démonomanie des sorcières.

Ce n'era una dozzina che mangiavano la minestra alla bara, ciascuna usando per cucchiaio l'avambraccio di uno scheletro.

Il camino era rosso di bragia, le candele come funghi tra il fumo,i piatti avevano l'odore di una fossa primaverile.

Quando Maribas rideva o piangeva, si udiva come il gemere di un archetto sfregato sulle tre corde di un violino fracassato.

Purtuttavia il Rodomente sbatté diabolicamente sulla tavola, alla luce del sego, un grimorio ove finì per abbattersi una mosca carbonizzata.

Ronzava ancora la mosca quando un ragno dal ventre enorme e peloso scaló i bordi del magico volume.

Ormai peró strege e stregoni giá se en erano volati via attraverso il camino a cavallo delle loro scope e attizzatoi, Maribas sul manico di una padella.

trad genseki

La vergogna e la pietá

Questo è un testo abbasanza noto di Pietro Colletta, dalla “Storia del reame di Napoli”

di esso parla Cesare Abba nel suo memoriale garibaldino pare che lo leggesse il Padre Canata nel Liceo Scolopico di Carcare.

Il contrasto tra l'abiezione, l'indifferenza e lo spettacolo è qui rapresentata con una precisione geometrica che ne fa qualche cosa di piú e di diverso da un testo di propaganda o di battaglia culturale anticlericale, ne fa una riflessione lucida su come la violenza e il dolore inflitto distruggano e le vittime e i carnefici, spoglino entrambi di qualsiasi dignitá. Gli inquisitori e gli eretici sono ridotti a grige comparse dementi bloccate nella confabulazione piú viscosa, triturate dalla tautologia, sfigurate dala perversione sistematica di ogni parola.

Tutti sono macchine che producono non senso. Passa nella mente di chi legge l'alito cinerino e morbido della demenza. Quello che resta è vergogna una vergogna piú profonda di ogni possibile pietá.

genseki


In dieci anni, dal 1720 al 30, non avvennero in Napoli cose memorabili, fuorché tremuoti, eruzioni volcaniche, diluvi ed altre meteore distruggitrici. Ma nella vicina Sicilia; l' anno 1724,fatto atroce apportò tanto spavento al regno, che io credo mio debito narrarlo a fine che resti saldo nella memoria di chi leggerà; e i Napoletani si confermino nell'odio giusto alla In- quisizione, oggidì che, per l'alleanza dell'imperio assoluto al sacerdozio, la superstizione, l'ipocrisia, la falsa venerazione del- l'antichità spingono verso tempi e costumi abborriti, e vedesi quel tremendo Uffizio, chiamato Santo, risorgere, in non pochi luoghi d'Italia, tacito, ancora discreto, ma per tornare, se for- tuna lo aiuta, sanguinario e crudele quanto ne' tristi secoli di universale ignoranza.
ndarono soggetti al Santo Uffizio, l'anno 1699, fra' Romualdo laico agostiniano e suora Geltrude bizzoca di san Benedetto: quegli per “quietismo, molinismo, eresia”; questa per orgoglio, vanità, temerarietà, ipocrisia”.
Ambo folli, però che il frate, con molte sentenze contraria a' dogmi o alle pratiche del cristianesimo, diceva ricever angeli messaggeri da Dio, parlar con essi, esser egli profeta, essere infallibile: e la Geltrude, tener commercio di spirito e corporale con Dio, essere pura e santa, aver inteso dalla Vergine Maria non far peccato godendo in oscenità col confessore; ed altri assai sconvolgimenti di ragione. I santi inquisitori ed i teologi del Santo Uffizio avevano disputato più volte con quei miseri, che ostinati, come mentecatti, ripetevano deliri ed eresie.
Chiusi nelle prigioni, la donna per venticinque anni, il frate per diciotto, (attesoché gli altri sette li passò a penitenza ne' conventi di san Domenico) tollerarono i martori più acerbi, la tortura, il flagello, il digiuno, la sete; e alla fine giunse il sospirato mamento del supplicio.
Avvegnaché gli inquisitori condannarono entrambo alla morte, per sentenze confermate dal vescovo di Albarracìn, stanziato a Vienna, e dal grande inquisitore delle Spagna; dopo di che il devoto imperatore Carlo VI comandò che quelle condanne fossero eseguite con la pompa dell' Atto-di-fede.
Le quali sentenze amplificavano il santissimo tribunale, la “dolcezza”, la “mansuetudine”, la “benignità” de' santi inquisitori: e incontro a sensi tanto umani e pietosi la malvagità, la irreligione, la ostinatezza de' due colpevoli. Poi dicevano la necessità di mantenere le discipline della sacrosanta cattolica religione, spegnere lo scandalo, e vendicare lo sdegno de' cristiani.
Il dì 6 di aprile di quell'anno 1724, nella piazza di Sant'Erasmo, la maggiore della città di Palermo, fu preparato il supplizio. Vedevi nel mezzo croce altissima di color bianco e da' lati due roghi chiusi, alto ciascuno dieci braccia, coperti da macchina di legno a forma di palco, alla quale ascendevasi per gradinata; un tronco sporgeva dal coperchio di ogni rogo: altari da luogo in luogo e tribune riccamente ornate stavano disposte ad anfiteatro dirimpetto alla croce; e nel mezzo, edificio più alto, più vasto, ricchissimo di ornamenti per velluti, nastri dorati ed emblemi di religione. Questo era per gli inquisitori; le altre logge per il vicerè, l'arcivescovo, il senato: e per i nobili, il clero, i magistrati, le dame della città: il terreno per il popolo.
A' primi albori le campane suonavano a penitenza: poi si mossero le processioni di frati, di preti, di confraternite; che traversando la città, fatto il giro attorno alla croce, si schierarono all'assegnato luogo. Popolata la piazza si dalla prima luce, riempivano le tribune genti che, a corpi o spicciolate, con abiti di gala,venivano al sacrificio: era pieno lo spettacolo; si attendevano le vittime.
Già scorso di due ore il mezzo del giorno, mense innumerevoli ed abbondanti coprirono le tribune, così che la scena preparata e mestizia mutò in allegrezza. Fra' quali tripudi giunse prima la misera Geltrude legata sopra un carro, con vesti luride, chiome sparse e gran berretto di carta che diceva il nome, scritto con dipinte fiamme d'inferno.
Convoiavano il carro,tirato da bovi neri e preceduto da lunga processione di frati,molti principi e duchi sopra cavalli superbi; e dietro cavalcati a mule bianche, seguivano i tre padri inquisitori. Giunto il corteggio, e consegnata la donna ad altri frati domenicani e teologi per le ultime e finte pratiche di conversione, ricomparve corteggio simile al primo per frate Romualdo: ed allora gli inquisitori nella magnifica ordinata tribuna.

Compiute le formalità, bandito ad alta voce l'ostinato proponimento d' colpevoli, lette le sentenze in latino, prima la donna salì sul palco; e due frati manigoldi la legarono al tronco, e diedero fuoco alle chiome, imbiotate innanzi di unguenti resinosi acciò le fiamme durassero vive attorno al capo: indi bruciarono le vesti, anch'esse intrise nel catrame, e partirono.
La misera rimasta sola sul palco, mentre gemeva e le ardevano intorno e sotto i piedi le fiamme, cadde col coperchio del rogo; scomparso il corpo, rimasero ai sensi degli spettatori i gemiti di lei; le fiamme, il fumo, che andavano ad oscurare l'alta croce di Cristo svergognata.
Così fra' Romualdo morì nell'altro rogo, dopo aver visto il martirio della compagna.
Tra gli spettatori notatasi un drappello sordido, mesto, di ventisei prigioni del Santo Uffizio, voluti presenti alla cerimonia: soli fra tutti che piangessero di quei casi, perciocché gli altri, sia per viltà, o ignoranza, o religion false, o empia superstizione, applaudivano l'infame olocausto……
…Descrisse quell'atto in grosso volume Antonio Mongitore……

venerdì, febbraio 27, 2009

La morte - Carmelo Bene - Unamuno

Io non diró che siano le dottrine piú o meno poetiche e non-filosofiche che esporró quelle che mi fanno vivere, oso tuttavia affermare che è il mio anelo di vivere e di vivere per sempre che me le ispira. E se grazie ad esse potró corroborare e sostenere questo stesso anelo che forse sta venendo a mancare in altri, avró fatto opera umana o perlomeno avró vissuto. In una parola: con la ragione, contro la ragione o senza la ragione, io non ho voglia di morire. E, quando alfin morró, se é per sempre, non mi saró ucciso io, cioé non mi saró lasciato morire, sará il destino umano che mi avrá ucciso.
Unamuno
Del Sentimento Tragico della Vita
trad. genseki

giovedì, febbraio 26, 2009

Trilce XV

Quella che segue è ancora una poesia di quello che potremmo chiamare il “ciclo della madre” in Trilce.

La rielaborazione della perdita e del lutto comporta l'assunzione dell'infanzia, un viaggio nel proprio passato, nel vuoto, negli inferi della personalitá che va formandosi e deformandosi. da questa discesa nell'abisso della terra la madre va mergendo come l'asse portante, che permette la coerenza el ricordo e la continuitá dell'io. La madre è colonna e colonnato e arco: asse e protezione. L'icona della madre è quella della Vergine, madre di dio padre. Nella mitologia familiare di Vallejo, oltre ogni etnicismo e senza tirare in ballo la psicanalisi, il padre è fratello e in parte anche figlio.

Se la madre assume la forma icona della Vergine Maria, il padre è il Padre e il Cristo contemporanemente.

L'immortalitá è propria della madre, affermata e riaffermata nelle forma di una immanenza e di una quiddità assolute: “cosí...così” che ritmano il rifiuto di qualsiasi orizzonte di trascendenza. L'immortalitá della madre è assolutamente carnale, corporale e architettonica.

genseki


Trilce XV


Madre, domani verró a Santiago

Per bagnarmi nel tuo pianto benedetto

Ora che vado riordinando piaghe e delusioni

Di false faccende.


Mi aspetterá il tuo arco di stupore,

Le tue colonne d'ansie tonsurate

Che finiscono con la vita e col cortile

Il corridoio tutto stucchi e gale;

Mi aspetterá il seggiolone aio

Quell'affare a ganasce di dinastico cuoio

Che con cinghie e laccetti stringe stretto

Natiche pronipoti.


Sto setacciando i miei piú puri affetti

Sto trivellando, non odi la sonda?

Non odi le campane strepitanti?


La tua formula d'amore sto plasmando

Per ciascuno dei vuoti del suolo

Per tutte le cinture piú distanti

E per le citazioni piú distinte.


Cosí morta immortale, cosí

Sotto l'arcata doppia del tuo sangue

Ove passar si debe con riguardo

Con un riguardo tale che mio padre

Persino lui si fece mezzo uomo

Fino ad essere il primo dei tuoi figli.


Cosí morta immortale,

Nel colonnato delle tue ossa

Che non cadrebbe neppure per le lacrime

E nel cui fianco non poté insinuare

Il destino nessuna delle dita

Così, madre immortale, cosí.


trad genseki

mercoledì, febbraio 25, 2009

Gilles de Rais

Tutte le teorie moderne dei vari Lombroso e Maudsely non sono sufficienti a spiegare i crimini innumerevoli e i singolari abusi del Maresciallo. Classificarlo nel gruppo dei monomaniaci sarebbe stato giusto, se con questa parola si classificano tutti coloro che hanno una idea fissa. Infatti, ognuno di noi è monomaniaco, a partire dal commeciante che pensa solo al suo interesse, fino all'artista assorbito nella concezione di un'opera, Perché, tuttavia. il Maresciallo fu momomane, come lo divenne? Ecco ció che tutti i Lombroso della terra ignorano. Le lesioni dell'encefalo non significano assolutamente niente in queste faccende. Si tratta semplicemente di coneguenze, di effetti derivati di una causa che dovrebbe essere spiegata e che nessun materialista sa spiegare. È davvero un po' troppo facile affermare che una perturbazione dei lobi crebrali produce assassini o sacrileghi; gli alienisti famosi dei nostri giorni pretendono che l'analisi del cervello di una folle riveli una lesione o una alterazione della materia grigia, e se così fosse? Resterebba da spiegare, per una donna affetta da demonomania, se la lesione si è prodotta perché ella è demonome o al contrario ...


Nel quindicesimo secolo le due tendenze estreme dell'anima furono rappresentate da Giovanna d'Arco e dal Maresciallo de Rais. Non vi é alcuna ragione per affermare che Gilles fosse piú folle della Pulzella i cui meravigliosi eccessi non hanno relazione alcuna con manie e deliri.


Quando gli esperimenti alchemici e le evocazioni diaboliche falliscono Prelati, Blanchet e tutti i maghi e stregoni che circondano il Maresciallo ammettono che per agganciare Satana, Gilles avrebbe dovuto cedergli o l'anima o la vita o commettere crimini.

Gilles rifiuta di alienare la sua esistenza e di abbandonare l'anima, ma pensa senza orrore agli assassinii. Quest'uomo, tanto valoroso sui campi di battaglia, tanto coraggioso quando difende e accompagna Giovanna d'Arco, trema davanti al iavolo, ha paura quando pensa alla vita eterna, quando pensa a Cristo. E lo stesso vale per i suoi complici; per essere sicuro che essi non riveleranno i rivoltanti abomini che il castello nasconde, fa loro giurare il segreto sui santi evangeli, sicuro che nessuno di loro romperá il giuramento, perché, nl medio Evo , il piú impavido dei banditi non oserebbe assumere su di sé irremissibile misfatto di ingannare Dio!.

Comunque resta il fatto che mentre gli alchimisti abbandonano i loro fornelli impotenti, Gilles si abbandona a orge spaventevoli e la sua carne arsa dalle essenze disordinate delle bevute dei piatti, entra in eruzione, bolle e tumultua.

Non vi erano donne nel castello; Gilles sembra aver esecrato il sesso a Tiffauges. Dopo le bagasce degl accampamenti le prostitute della corte di carlo VII, sembra che lo abbia colto il disprezzo per le forme femminili. Come coloro il cui ideale di concupiscenza si altera e si svia, giunge a essere disgustato dalla delicatezza della pelle e dall'odore della donna che tutti i sodomiti detestano.

Egli conduce alla depravazione i ragazzi del coro della sua cappella, li aveva scelti “belli come angeli”. Furono i sol che egli amó e i soli che nei raptus omicidi risparmió.

Ma presto questa salsa di eiaculazioni infantili gli parve insipida. La legge del satanismo che vuole che l'eletto del male scenda fino all'ultimo scalino la spirale del peccato, era ancora una volta, in vigore. L'anima di Gilles doveva riempirsi di pus, perché in quel rosso tabernacolo decorato di ascessi potasse abitare compiaciuto l'Infimo!

Le litanie della foia si innalzarono nel vento salato dei macelli. la prima vittima di illes fu un bambinello il cui nome si ignora. Lo sgozzó, gli taglió le mani, gli estrasse il cuore, gli strappó gli occhi e li portó nella stanza di Prelati. Entrambi gli offrirono a con suppliche appassionate al diavolo che tacque. Gilles esasperato fuggí e Prelati avvolse i poveri resti in un lenzuolo e tremando fu, nella notte a seppellirli in terra consacrata accanto a una cappella dedicata a San Vincenzo.

Il sangue di quel fanciullo che Gilles aveva conservato per scrivere le su formule di evocazione e i suoi grimori, fu seme orribile e presto Gilles poté mietere e immagazinare la piú esorbitante messe di crimini che si conosca.

Dal 1432 al 1440, cioé negli otto anni che vanno dal ritiro del Maresciallo alla sua morte, gli abitanti dellAnjou, del Poitou, della Bretagna, errano singhiozzand sulle strade. Tutti i bambini scompaiono; i pastorelli sono rapiti nei campi, le bambine all'usicta da scuola, i ragazzetti che vanno a giocare a palla nelle stradine o si rincorrono all'orlo dei boschi, non tornano piú.

Nel corso di un'inchiesta ordinata dal Duca di Bretagna, gli scribi di Jean Touscheronde, commissario del Duca, redigono liste interminabili di bambini scomparsi.

Perduto, a ochebernart, il figlio di Donna Péronne “che andava a scuola e imparava molto bene” dice la madre.

Perduto a Sain-étienne de Monluc, il figlio di Guillaume Brice “poveretto che chiedeva l'elemosina”.

Perduto a Machecol, il figlio di Georget le Barbier “che fu visto, un certo giorno cogliere pere dietro il Palazzo Rondeau e che poi non fu piú visto”.

Perduto a Thonaye, il figlio di Mathelin Thouars “che si lamenta e piange e il figlio aveva dodici anni”.

A Machecoul ancora, il giorno di Pentecoste, i coniugi Sergent lasciano a casa il loro figliuolo di otto anni e al ritorno dai campi “non ritrovano piú il bambino di otto anni e molto se en meravigliano e soffrono”.


Huysmans

Là-bas

Trad e montaggio genseki

Credo Signore, aiuta la mia incredulitá

... allora il padre del'epilettico o indemoniato rispose con queste dense, eterne parole “Credo, Signore, aiuta la mia incredulitá!”. Credo, Signore, socorri la mia incredulitá! Potrebbe sembrare una contraddizione, se egli crede, se ha fiducia, perché dovrebbe chiedere al Signore che venga in suo soccorso, in soccorso della sua mancanza di fede? Tuttavia questa contraddizione è quella che da il suo valore umano piú profondo al grido che sale dalle viscere del padre dell'indemoniato. La sua fede è una fede a base di incertezza. Perché crede, cioè, perché vuole credere, perché ha bisogno che suo figlio si curi, chede al Signore che venga in aiuto della sua incredulitá, del suo dubbio che effettivamente tal cura possa darsi. Tal è la fede umana.

... Una fede assurda, senza ombra di incertezza, una fede da carbonai stupidi, si unuce all'incredulitá assurda, all'incredulitá senz'ombra di incertezza, all'incredulitá degli intellettuali afflitti da stupiditá affettiva ...

L'incertezza, il dubbio, la voce della ragione, era l'abisso, il “gouffre” terribile davanti al quale tremava Pascal. E fu questo a condurlo a formulare la sua terribile sentenza: “il faut s'abêtir” bisogna instupidire.

Per disperazione, si afferma, per disperazione si nega, e per essa ci si astiene dall'affermare e al negare...

Unamuno
Il Sentimento Tragico della Vita

trad genseki

martedì, febbraio 24, 2009

Unamuno II

Unamuno I

I sogni piú folli della fantasia contengono un fondamento razionale, chissá se tutto quello che un uomo non è giá accaduto, sta accadendo adesso, o accadrá fores, prima poi in un mondo o nell'altro. Le combinazioni, appunto, sono infinite. Solo resta da sapere se tutto quello che si puó immaginare è anche possibile.

Unamuno
Il Sentimento Tragico della vita
Trad. genseki



Sembra quasi che questa frase sia il nodo a partire dal quale si è sviluppata tutta l'opera del Borges. quanto Borges debe davvero a Unamuno. Moltissimo a giudicare da questo testo e dalla vicenda altalenante di giudizi ora radicalmente critici ora entusiasti che l'argentino disseminó sul conto del basco. Indizi o depistaggi o entrambe le cose. Borges pare intraprendere con Unamuno un gioco di riflessi e di paradossi che moltiplica il grande gioco di inganni che entrambi questi autori ingaggiano con l'anima dei loro lettori Una delle carte dei tarocchi puó riassumere questa relazione in una sola immagine: il bagatto e una figura dell'antropologia culturale classica: il “trickster”, lo psicocopompo ingannatore.


genseki

lunedì, febbraio 23, 2009

César vallejo come l'ho conosciuto

Prosegue la traduzione del testo di Ciro Allegria sul suo incontro con Vallejo. È poco versimile che queste righe corrispondano davvero ai suoi ricordi di bambino. Il ritratto di Vallejo pare piuttosto conformarsi a un'iconografia agiografica probabilmente già cosolidata: quella del dolorismo indigeno cosmico che probabilmente ha avuto soprattutto la funzione di dissinnescare le potenzialitá di un Vallejo ribelle, dialettico, tagliente e rivoluzionario che a me pare piú verosimile.
genseki

Parlava lentamente, come fischiando le esse, che così son soliti parlare i natuvi di Santiago de Chuco, tato che si distinguono proprio per questa caratteristica dagli altri abianti di quella regione.

Poi si alzó per diegnare la terra sulla lavagna e per tutta la durata della classe ci ripeté che era rotonda e che questa on era la sola cosa sorpendente ma che anche girava su se stessa. Come prova portó il sorgere e il tramontare del sole, il modo in cui appaiono e scompaiono le navi nel mare d altre ancora. Io senplicemente restavo stupefato che questo mond in cui viviamo fose rotondo e girasse su se stesso e anche di quante cose sapesse il mio maestro. Quando la campana suonó annunciando la ricreazione César Vallejo si pulì il gesso dalle mani, si pettinó con le dita della mano, e suscí. Si mise sulla porta come se conversasse con gli altri maestri. Dico questo percé aveva un aspetto molto distratto.

Di nuovo in aula per l'ora di studio, poi ci sarebbe stata quella di lettura. C'era da ripassare la lezione. Mi chiamó accanto a sé e aprí il libro nella sezione del paperottolo. Ebbi fiducia in quello che sapevo e dissi:

questa parte l'ho giá fatta da temp. Anche quella di Rosaria e Pepito. Io lo so tutto questo libro.

Vallejo mi guardó con curiositá.

Sai ancje scrivere?

Quando risposi di si mi chiese di scrivere il mio nome e poi anche il suo. Non sapevo se si scrivesse con V o con B mi decisi per la prima e per fortuna ci azzeccai. Mi fece provare cn altre parole e con una lunga frase.

Sembrava divertirsi. Poi mi chiese:

Sai giá leggere e scrivere, perché ti hanno meso in prima.

Perché non so nient'altro.

Allora mi disse di andare a sedermi. Cercai di fare un po' di conversazione con il mio compagno di banco ma questi mi sussurró che era proibito parlare durante l'ora di studio.

Guardai allora il mio maestro.

César Vallejo, e questa mi sembró sempre che fosse la prima volta che lo vidi – teneva le mani sul tavolo e volgeva il viso verso la porta. Sotto gl abbondanti capelli la sua faccia mostrava tratti duri e definiti. Il naso era energico e il mento, ancora piú energico, risaltava nella parte inferiore come una ghiglia. I suoi occhi oscuri, non ricordo se fossero grigi o neri brillavano come se fossero pieni di lacrime.
Il suo vestito era vecchio e liso. e stringendo la apertura molle del colletto una cravattina di cuoio pendeva annodata sommariamente. Si mise a fumare e continuava a guardare verso la porta da cui entrava la luce chiara di aprile. Pensava o sognava non si sa che cosa. Da tutto il suo essere emanava una grande tristezza, mai ho visto un uomo che sembrasse piú triste, il suo dolore era contemporanemaente una condizione segreta e manifesta che finí per contagiarmi. Una qualche pena strana e inesplicabile mi colse. Anche se a prima vista poteva sembrare tranquillo, in quell'uomo vi era qualche cosa di straziato che io con la mia pronta sensibilitá di bambino percepivo e intendevo in tutta pienezza. Di colpo pensai ai miei lari, alle montagne che avevo attraversato e alla vita che avevo lasciato alle spalle. Tornando a esaminare i tratti del mio maestro li trovai simili a quelli di Cayetano Oruna, peone della nostra fattoria che chiamavamo Cayo, Certo questi era piú alto e ben piantato ma il volto e l'aria tra solenne e triste di amendue avevano gran somiglianza.. L'uomo Vallejo venne a me come un messaggio della terra e continuai a osservarlo, Gettó via la sigaretta, si toccó la fronte, lisció ancora una volta la chioma scura e si rimise tranquillo. La sua bocca si contraeva in un rictus doloroso. Cayo e lui, La personalitá di vallejo, tuttavia inquietava al solo vederla, Ero definitivamente scosso e sopettai che tanto soffrire e irradiare tristezza aveva qualche cosa da fare con il mistero della poesia. Di colpo si voltó e mi guardó, poi guardó tutti i bambini che stavano leggendo nei loro libri, io lo aprii, il mio libro. Non riuscivo a vedere le lettere e volevo piangere

Fu cosí che incontrai César Vallejoj e cosí lo vidi, per la prima volta.

Ciro Allegria
trad. genseki

sabato, febbraio 21, 2009

Supplica

Alla poesia chiedo
Solo ancora uno sforzo
Lo sforzo di accompagnarmi
In questa solitudine
Lo sforzo di starmi accanto
Nel rapido – spero -
Spogliarmi dell'ultima
Veste dell'anima
Dell'anima stessa
Foglia diletta
Al vento, al deserto
Consacrata, al fuoco
Abbandonata
In questo denso
Perdermi dentro
Perdermi dentro
Allo Stesso.

genseki

venerdì, febbraio 20, 2009

Anno dopo anno

Anno dopo anno
L'amore
Diventa cosí grande
Che ci brucia
Incenerisce i sogni
Incenerisce i gesti
Ci lascia con tizzoni di speranza
Anno dopo anno
L'amore
Non è più un girasole
Ma una stella
Non possiamo fissarlo
Ma ci annienta.

29.07.2001

genseki

Essere pronti

La questione essenziale alla fine è questa: se dovesi venire a morire adesso, sarei pronto? La risposta a questa domanda rivela quanto davvero resta di serio nelle mie parole, nelle mie riflessioni, nella maniera di vivere giorno per giorno.

Quanto resta di me? Temo moltissimo. moltissimo di viscoso e iterativo, moltissimo di corrosivo e di torbido.

Tutto questo si cela dietro la pigrizia. La pigizia non è solo pigrizia, è, soprattutto sopravvalutazione di se stessi.

Eppure essere pronto a morire, lo vedo con chiarezza, significa essere pronto ad ogni istante a vivere per davvero senza il peso dell'istante precedente, senza il peso pesantissimo di tutti gli istanti precedenti che si sono susseguiti.

Essere pronto a morire. Ora. Deporre finalmente il fardello tanto gravoso degli istanti passati, con l'infinitá dei loro pensieri e delle volizioni. A questo si riduce tutto il resto: la pratica, la ragione, lo spirito, la fede.

Mi pare che praticare la disponibilitá alla morte, o alla vita sia soprattuto praticare la concentrazione.

Concentrarsi, diventare densi, impenetrabili, comprimere la propria massa nello spazio piú ristretto possibile. È forse questa una maniera di conseguire una tale meta?

Davvero non sono mai stato tanto intimo con la morte come spesso lo ho creduto, questa intimitá non si trova nella vorticosa coscienza dell'impermanenza e neppure nell'intuizione nullificante dell'infinito. Quell'intuizione insopportabile che suole visitarmi nei momenti del dormiveglia. No È tra un istante e l'altro, nella coscienza del loro tracorrere che si educa questa intimitá. Naturalmente anche nella scelta per la solitudine.

Finire probabilmente è piú facile di quello che sembra, è la fine che ci forma conformente ad essa. Succede da sola e quando succede siamo fatti, forse anche inmediatamente, adeguati allla sua modalitá.

O forse, essere pronti a morire, significa proprio accettare di non poter mai essere del tutto pronti, accettare che non si puó essere pronti a morire piuttosto che a vivere perché, appunto, si tratta di vivere. Vivere la propria morte. Vivere la morte. Vivere la morte come un momento della vita.


genseki

giovedì, febbraio 19, 2009

Schoenberg Pierrot lunaire no. 8 Nacht

La viola da gamba


Egli riconobbe con assoluta certezza, la pallida figura
del suo intimo amico Jean-Gaspard Debureau, il gran pagliaccio dei Funamboli, che lo guardava con un'espressione indefinibile di malizia mista a benignitá

Théophile Gautier

Onuphrius

Au clair de la lune
Mon am Pierrot
Prête-moi ta plume
Pour écrire un mot.

Ma chandelle est morte
Je n'ai plus de feu
Ouvre-moi la porte
Pour l'amour de Dieu

Il Maestro di cappella quasi non ebbe il tempo di interrogare l'archetto della viola che questa gli rispose con un gorgoglío buresco di lazzi e di tremoli come se avesse nella pancia un'indigestione di commedia italiana.


Era dapprima Donna barbara che rimproverava quelllo sciocco di Pierrot per aver lasciato cadere la scatola di parrucche di Madame Cassandra e sparso tutta la cipria sul pavimento.


Ecco, allora Madame Cassandra che raccoglie con devozione la sua parrucca E Arlecchino che stampa una pedata nelle natiche a quel belinone, e Colombina asciugrasi una lacrima dal tanto ridere e Pierrot distendere sul volto una smorfia tutta infarinata.


Subito dopo, peró, al chiar di luna, Arlecchino la cui candela era morta supplicava il suo amico Pierrot di aprire la porta per accenderla, mentre il fedifrago trafigava l scrigno del vegliardo e la bella.

*

- Al diavolo Job Hans il liutaio che mi ha venduto questa corda! - esclamó il Maestro di cappella riponendo la viola polverosa nel polveroso suo astuccio.

- La corda si era spezzata.

Trad. genseki


Ovunque il luogo stesso della via

Nulla vi è nella nostra buddhitá fondamentale che non sia vuoto aperto e tranquillo, chiarezza meravigliosa di felicitá piena ove spontaneamente immergesi la realizzazione profonda e spontanea.

Ivi tutto appare perfettamente compiuto, nulla manca. Se si praticasse con coraggio per tre incommensurabili kalpa, salendo tutti gli scalini dell'ascesa, nell'istante brevissimo del risveglio,si sarebbe testimoni della propria buddhitá originaria e spontanea e nulla piú. I meriti accumulati in interi kalpa son come le illusioni del sogno. Per questo il Tathagatha dichiara: “Nel risveglio supremo, effettivamente, non ho trovato nulla. Se vi avessi trovato qualche cosa, allora il Buddha Dipamkara non avrebbe profetizzato la mia venuta. E ancora: “questa realtá è pura eguaglianza senza alto né basso, Risveglio!”

Ecco il nostro spirito in primoridale purezza: nessuna differenza tra gli esseri viventi e i Buddha, tra le montagne e i fiumi del mondo, tra ció che ha forma e ció che forma non ha, e la totalità degli universi di tutti gli spazi vi forma eguaglianza perfetta sena i caratteri particolari di “stesso” e di “altro”.

Questo spirito primridalmente puro è sempre nella pienezza e la sua luminositá rende chiare tutte le cose. Siccome non lo hanno raggiunto le persone comuni lo confondono con la loro coscienza ordinaria. La loro coscienza ordinaria è oscura de essi non percepiscono la chiaritá fondamentale dl loro essere fondamentale. Perché quando si salta direttamente nel non spirito, l'essere fondamentale si manifesta da sé come la grande ruota del sole che sale nello spazio vuoto illuminando tutti gli orizzonti senza incontrare ostacoli. Così, l'adepto che conosce solo la sua coscienza la rifiuta, per praticare davvero, ma cosí si chiude il varco per entrare nello spirito e non lo puó piú cogliere. Riconoscete il vostro spirito fondamentale nella vostra coscienza ordinaria perché se esso non è la vostra coscienza ordinaria, nemmeno è da essa separato. Solo vi basta cessare di teorizzare sulla vostra coscienza ordinaria, di non pensare niente di essa, di non separarvene per cercare lo spirito e di non rifiuarla in nome di un metodo. Nulla di mediato e nulla di inmediato, nulla che resti o s'aggrappi, in ogni caso solo libertá, ovunque il luogo stesso della via.

mercoledì, febbraio 18, 2009

Léo Ferré - Requiem (1975)

Il paese del passato

Quella che si stende davanti a me, da ora in poi, non è piá la contrada del futuro, la contea dell'avvenire. Di qua in avanti, anche se potrebbe parere piú corretto scrivere, da qua indietro, si apre il vasto paese del passato. Anche quello che resta di futuro, in realtá assomiglia sempre di piú ad un angolo di passato. Magari una locanda con il muro esterno coperto di vite canadese e l'insegna “Al porvenir” o il punto di confluenza tra due fiumi, in mezzo a uno sterminato canneto, certamente non ad una autostrada.

A questo paese appartengo, adesso con soddisfatta convinzione. In fondo, sono io che lo ho fatto! È cosa mio. Sono opera mia le sue parti deserte e l'abiezione e anche le grandi pianure e i fianchi dei monti coperti di selve luminose. Senza rimorsi mi riprometto di ripercorrerlo minziosamente per cartografarne il senso e il destino.

martedì, febbraio 17, 2009

Sulla povertá

Sempre mi è piaciuto stare nel mondo senza molti schermi, con il minimo di protezione e di difesa necessarie per non mortificarsi. Mi piace provare il fredo quando fa freddo e il caldo quando fa caldo, affrontare la resistenza della materia nella forma di salita, di peso, di graffio, di declivio, anche di caduta, di punture di insetto che asume di volta in volta. non mi pare di aver viitato una cittá se non mi ci sono sfinito i piedi e consumate le suole. Godo di essere disponibile, direi aperto alle sensazioni tutte, piú che alle sensazioni al mondo stesso che è ciò che connette le sensazioni tra di loro e con il soggetto e permette appunto l'ogettivitá. Tutto questo credo di poter chiamarlo, riassumendo: “Amore per la povertá.

Il modo piú facile per essere vivi nel mondo è una certa forma di povertá, una forma che concide con disponibilitá e apertura, se si vuole anche con fiducia. Certamente nel campo di questo concetto di povertá non entra il tratto distintivo della mancanza.

La povertà scelta e non subita, la povertá non ascetica e non mortificante non coincide con la sobrietà e la temperanza,

Si tratta, piuttosto di una temperanza con disponibilitá con totale apertura.

La scomparsa della povertá dall'orizzonte del pensiero etico e religioso coincide con l'uscita dell'uomo dal mondo e con la sua entrata nell'universo della merce.

Bruckner Symphony No.8 - Finale (1/3), Giulini