martedì, settembre 18, 2007

Le Concentrazioni


Il testo che segue è tratto dal SUTRA del Loto, Capitolo XXIII “GADGADASVARA” e si colloca tra i capololavori del genere letterario definito da Borges: il Catalogo di cui si trattava qui esattamente un anno fa presentando un catalogo sublime come quello de veli di Ibn Arabi (12 settembre 2006.
In realtá il Sutra del Loto ci é giunto solo nella traduzione cinese e circola abbastanza sotto forma del pasticcio giapponese diffuso dalla neo-religione SOKA GAKKAI.
Il Testo che riporto qui contiene le parole sanscritte frutto di retrotraduzione perché non so poroprio come scrivere in cinese in questo blog.
Genseki

Questo è il catalogo delle concentrazioni:

La concentrazione Dvajagakeyvia : Braccialetto dello stendardo
La concentrazione Saddharmapundarika : Loto della Vera Dottrina
La concentrazione Vimaladatta : Dono di Vimala
La concentrazione Naksatrarajavikiridita: Divertimento del Re degli Astri
La concentrazione Anilambha: Senza Oggetto
La concentrazione Jnanamudra: Sigillo della conoscenza
La concentrazione Candrapradipa: Luce della luna
La concentrazione Sarvarutakausalya: abilità in tutti i suoni
La concentrazione Sarvapunyasamucaya: Raccolta di tutti i meriti
La concentrazione Prasadavati: Signora Gentile
La concentrazione Rdivikiridita: Divertimento dei poteri miracolosi
La concentrazione Jnanolka: Lampada della conoscenza
La concentrazioneVyuharaja: Monarca dei ragionamenti
La concentrazione Vimalaprabhasa: Luce immacolata
La concentrazione Vimalagarbha: Ventre immacolato
La concentrazione Apkrstna: Totalmente acquatica
La concentrazione Surynavarta: Volgersi del sole.
***

venerdì, agosto 03, 2007

Verano

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Gli Dei

Alain

Da cosa dipende l'assenza totale di Alain dlla cultura italiana? È un'assenza tanto piú stupefacente quando si consideri la presenza della sua discepola piú importante Simone Weil.
La lettura di Alain mostra quanto i "Quaderni" di Simone dipendano dal suo pensiero. Quanti fili legano questi due universi, in quanti punti essi si intersechino e quante forti siano i ponti che li pongono in comunicazione Senza Alain il percorso filosofico e poetico di Simone Weil appare come un notturno volo spettacolare e luminoso che si accende in un punto qualsiasi della notte e scompare tra le nebulose.
Quella che segue è una piccola antologia tratta dal ñibro: "Les Dieux" a cura di genseki.


Alain
Les Dieux
Gli Dei


Spinoza dit qu'il n'y a rien de positif dans l'erreur, ce qui signifie qu'en Dieu l'imagination de l'homme est toute vraie.

Spinoza dice che nell'errore non c'è nulla di positivo, il che significa che in Dio l'immaginazione dell'uomo è perfettamente vera
*

Si je pouvais penser les dieux en dieu et comme dieu, tous les dieux seraient vrais ; mais la condition humaine est d'interroger un dieu après l'autre et une apparence après l'autre, ou, pour mieux dire, une apparition après l'autre, toujours poursuivant le vrai de l'imagination, qui n'est pas la même chose que le vrai de l'apparence.

Se potessi pensare gli dei in dio e come dio, tutti gli dei sarebbero veri; ma la condizione umana è di interrogare un dio dopo l'altro e un'apparenza dopo l'altra, o, per meglio dire un'apparizione dopo l'altra, perseguendo sempre la verità dell'immaginazione, che non è la stessa cosa che la verità dell'apparenza.
*

L'imagination est toute dans le corps humain, et consiste seulement dans les mouvements du corps humain.

L'immaginazione sta tutta nel corpo umano, e consiste soltanto nei movimenti del corpo umano
*

L'homme fut condamné à travailler. Très vrai. Et très vrai aussi qu'il y comptait bien. Toutefois cette acceptation ne va jamais sans tricherie. C'est que jamais le travail ne fera exister tout l'Univers.

L'uomo fu condannato a lavorare. Verissimo. Ed altrettanto vero e che ci contava. Tuttavia questa accettazione comporta anche un inganno: il lavoro non farà mai esistere l'universo intero.
*

L'être de l'enfant n'est jamais sans travail ; seulement c'est la nécessité du travail qui ne lui apparaît pas.

L'essere del bambino non è mai senza lavoro; soltanto la necessità del lavoro si situa al di là del suo orizzonte.
*

L'idée de travailler seulement pour apprendre est l'utopie essentielle ; ce n'est que l'enfance continuée ; et ce qu'on nomme la curiosité, qui promet plus qu'elle ne tient, est la suite d'un travail musculaire qui ne mord point, et qui explore seulement. Dont le goût de la promenade, toujours décevant, est un reste pur. Il y a une rupture éton­nante entre la fatigue du promeneur et le repas qu'il trouve préparé.

L'idea di lavorare soltanto per apprendere è l'utopia essenziale; è soltanto infanzia protratta; ciò che chiamiamo curiosità, che promette più di quanto non mantenga è la conseguenza di un lavoro muscolare che non incide, che soltanto esplora. Il gusto della passeggiata, sempre deludente, ne è un puro residuo. C'è una cotraddizione stupefacente tra la fatica di chi passeggia e il pasto che egli trova pronto.
*

Il n'y a que le chasseur devenu cuisinier qui connaisse le chemin d'un oiseau qui s'envole au succulent rôti.

Soltanto il cacciatore che sia divenuto cuoco conosce il cammino che conduce dall'uccello in volo all'arrosto succulento.
*

Mais ce qui est surtout à remarquer, c'est une avance du discours sur la pensée ; ce qui serait peu croyable, si l'on ne comprenait pas que l'enfant parle naturellement avant de savoir ce qu'il dit. Analysez le dialogue entre la mère et l'enfant, vous verrez que l'enfant renvoie les mots comme des balles, et admire qu'il s'entende lui-même comme il entend l'autre ; cette sorte d'écho est le premier sens du langage, et le sera toujours. Cette résonance humaine se développe en musique ; mais d'autre part la musique des mots se développe en magie, par la nécessité de prier continuelle­ment tous les génies familiers maîtres des jouets, maîtres des fruits, seigneurs souverains des portes, fenêtres, et escaliers. Cette méthode d'obtenir, qui est d'abord la seule, et longtemps la principale, rend compte d'une fonction des mots que l'on oublie presque toujours, d'après cette idée que l'on forme d'abord la connaissance, et qu'on l'exprime ensuite. Or, si la connaissance d'un objet résulte toujours des essais par lesquels on l'atteint, on le manie, on le conquiert, il est clair, seulement par la faiblesse première de l'enfant, que le langage est la première manière de conquérir, et donc la première connais­sance. Les noms de personne, les politesses, les cris imitatifs, les noms com­muns, sont d'abord directement liés à nos besoins, à nos peurs, à nos affections, à nos désirs, et sont tous, à vrai dire, des « Sésame, ouvre-toi ». L'incantation, qui fait paraître ce qu'on nomme, seulement par l'exactitude, la répétition et l'obstination, est la première physique. Et cette position d'attente et d'espérance est ce qui conserve aux mots leur puissance d'exprimer.

Ma quello che bisogna notare soprattutto è un anticipo del discorso sul pensiero; cosa che sarebbe difficile da credere se non si capisse che il bambino parla naturalmente prima di capire quello che dice. Analizzate il dialogo tra la madre e il bambino, vedrete che il bambino rinvia le parole come delle palle, e si stupisce di coomprenderle anche lui, come l'altro le comprende; questa specie di eco è il primo significato del linguaggio, e sempre lo sarà. Questa risonanza umana si sviluppa nella musica; ma, d'altra parte, la musica delle parole si sviluppa nella magia, per la necessità di pregare continuamente i geni familiari signori dei giocattoli, dei frutti, sovrani delle porte, delle finestre, delle scale. Questo modo di ottenere che è il primo, resta a lungo il principale, esso spiega una funzione delle parole che si tende a dimenticare sempre, seguendo l'idea che prima si forma la conoscenza e poi la si esprime con le parole. Ora, se la conoscenza di un oggetto sempre deriva dai tentativi di raggiungerlo, di maneggiarlo, di conquistarlo, secondo l'idea, che si formi dapprima la conoscenza, e che la si esprima successivamente. Ora, se la conoscenza di un oggetto risulta sempre dai tentativi di raggiungerlo, di maneggiarlo, di conquistarlo, appare chiaro, già per la primaria debolezza del bambino, che il linguaggio è il primo modo di conquistare e quindi la prima conoscenza. I nomi delle persone, le formule gentili, le grida onomatopeiche, i nomi comuni, sono dapprima direttamentelegati ai nostri bisogni, alle nostre paure, ai nostri affetti, ai nostri desideri, e sono tutti, a dire il vero degli: "Apriti sesamo". L'incantesimo, che fa apprire la cosa nominata, solamente attraverso l'esattezza, la ripetizione, l'ostinazione, è la prima fisica. E questa posizione di attesa e di speranza è ciò che conserva alle parole la loro potenza di espressione.
*

Nos sens sont remués par le sang et les humeurs de façon à produire des commencements de fantômes, tels que bourdonnements, nappes de couleurs, mouches volantes, fourmillements, salivation, nausées, et autres effets de l'attente passionnée ; mais ces formes mouvantes, si nous y faisions attention, ne nous présenteraient jamais que la structure de notre propre corps, et encore en un mouvement de fleuve. Toutefois ce murmure du corps à lui-même est effacé par le discours qui est un objet réellement produit et réellement perçu. La conjuration par les paroles fait donc surgir premièrement les génies de la chair et du sang, mais aussitôt les disperse par la déclamation rituelle, solennelle, qui ouvre sur l'événement une porte de silence.

I nostri sensi sono commossi dal sangue e dagli altri umori in modo da produrre degli abbozzi di fantasmi, ovvero ronzii, macchie di colore, mosche volanti, formicolii, salivazione, nausee e altri effetti di un'attesa appassionata; ma queste forme mobili , se prestassimo loro attenzione, non ci presenterebbero altro mai che la medesima struttura del nostro proprio corpo, e per di più nella forma del movimento di un fiume. Questo movimento del corpo, tuttavia, è anch'esso cancellato dal discorso che è un oggetto realmente prodotto e realmente percepito. La congiura delle parole fa dunque sorgere in primo luogo i geni della carne e del sangue, ma subito li disperde per mezzo della declamazione rituale, solenne che apre sull'avvenimento una porta di silenzio.
*

L'enfant, de même que l'homme, ne voit jamais que le monde comme il se montre, et le monde se montre comme il doit, je dirais même comme il est. Mais le discours, qu'il soit récit, poésie ou prière, fait un autre monde, de choses, de bêtes, et d'hommes, et de tout ce qu'on peut nommer ; un monde qui n'apparaît jamais. La magie ne peut pas plus aisément évoquer un homme qu'une forêt. Le lien magique n'est pas d'un homme imaginaire aux choses qu'il nous donne et nous enlève ; il est du mot à la chose invisible et à l'homme invisible ; et cette présence que nous cherchons toujours derrière la présence résulte d'une impérieuse, disons même impériale, manière d'agir qui est la première pour tous.

Il bambino, così come l'uomo, non vede il mondo che come esso appare, e il mondo appare come deve, direi quasi come è. Ma il discorso, sia esso racconto, poesia o preghiera, crea un altro mondo, di cose, di bestie e di uomini, e di tutto ciò che può essere nominato; un mondo che non appare mai. La magia ha la stessa difficoltà a evocare un uomo piuttosto che una foresta. Il legame magico non è quello tra un uomo immaginario e le cose ch'egli ci da o ci toglie; è quello tra la parola e la cosa invisibile e l'uomo invisibile; e questa presenza che noi sempre cerchiamo dietro la presenza risulta da una maniera di agire imperiosa, persino imperiale, che è per tutti la prima.
*

On s'étonne du prodigieux effet des prières ; je ne pense pas qu'une prière soit jamais plus crue qu'un récit, et c'est déjà beaucoup. Au reste les contes sont des récits de prières exaucées ; la parole se confirme elle-même. Telle est la vertu des paroles.

Ci si stupisce dell'effetto prodigioso delle preghiere; io non penso che una preghiera sia mai più ddi un racconto, ed è già molto: Del resto i racconti sono racconti di preghiere esaudite; la parola conferma se stessa. Tale è la virtù delle parole.
*
Ce qui fait l'existence, ce n'est pas le paraître, c'est le paraître au commandement et sous la condition d'un travail.

Ciò che fa l'esistenza non è l'apparire, ma l'apparire a comando in dipendenza da un lavoro.
*

giovedì, agosto 02, 2007

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La Cattedrale III


La fortezza, l'armatura

La Cattedrale è paragonata a una fortezza e persino all'armatura i un cavaliere di quella crociata predicata da S. Bernardo proprio nella Cattedrale. Si tratta di una “Lorica” l'armatura magica fatta di orazioni e di scongiuri che avrebbe dovuto proteggere il cristiano che se en serviva. La cattedrale è una “Lorica” ma non una “Lorica” di parole o di altri segni verbali, quanto piuttosto di pietre e di segni architettonici:

“Ritornava a casa sua per mangiare qualche cosa e, abracciando, con un'ultimo sguardo, la chiesa ammirevole, ricapitolando i simulacri guerrieri così come apparivano: le forme di scudo dei rosoni, di lama di spade dei vetri , i contorni dei caschi e degli elmi delle ogive, la somiglianze di alcune vetrate in grisaglia filigranata di piombo con le tuniche di maglia di ferro dei combattenti, e, fuori, contmplando uno dei campanili intagliato a lamelle come una pigna, come una cotta di maglia, si diceva che pareva davvero che “gli ospiti del buon Dio” avessero preso in prestito i loro modelli ai bellicosi arnesi dei cavalieri; che avessero voluto perpetuare come per perpetuare il ricordo delle loro imprese, raffigurando dovunque l'immagine ingrandita di quelle armi di cui i Crociati si cinsero quando si imbarcarono per partire alla riconquista del Santo Sepolcro".

genseki

mercoledì, agosto 01, 2007

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Son così fresche le foglie d'acacia

Son così fresche le foglie d’acacia
Son così verdi che si fanno azzurre
Scorrono come l’acqua dentro di noi
Quando ti stringo e mi stringi
E siamo vene d’acqua celeste
Linfa d’autunno che si fa bagliore
Teneri e verdi
Scorriamo uno nell’altro
Fatti a vicenda alveo e corrente.
Son così verdi le foglie d’acacia
Son così fresche che si fanno azzurre
Quando corteccia avvolgi la mia linfa
Ed io son foglia delle tue pupille
E siamo luce che trascorre il fiume
Alto e sottile delle nostre vene.
Freschi esistiamo come foglie verdi
Tremo al tuo vento
Fremi alla mia brezza
Siamo fronde d’acacia nell’autunno
Gocce di linfa
Dei rami della pelle.
Son così freschi e verdi i nostri corpi
Son così freschi che si fanno azzurri
Se nella trasparenza ci mutiamo
Intrecciando le dita alle pupille
Attraversati di stupore azzurro:
Esserci
Nudi
Freschi come foglie.

genseki
1998

Pino negral

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Scienza della Logica


Quando delle cose diciamo che son finite, con ciò si intende che non solo hanno una determinatezza, che non solo hanno la qualità come realtà e determinazione, che è in sé, non solo son limitate, così da aver poi un esserci fuor del loro limite, ma che anzi la lor natura, il loro essere, è costituito dal non essere. Le cose finite sono, ma la loro relazione a se stesse e che si riferiscono a se stesse come negative, che appunto in questa relazione a sé si mandano al di là di se stesse, al di là del loro essere. Esse sono, ma la verità di questo essere è la loro fine. Il finito non solo si muta, come il qualcosa in generale, ma perisce; e non è già soltanto possibile che perisca, quasi che potesse essere senza perire, ma l’essere delle cose finite, come tale, sta nell’avere per loro essere dentro di sé il germe del perire: l’ora della nascita è l’ora della lor morte.

*

Il pensiero della finità delle cose porta con sé questa mestizia, perché una tale finità è la negazione qualitativa spinta al suo estremo, perché alle cose, nella semplicità di codesta determinazione, non è più lasciato un essere affermativo distinto dalla loro destinazione a perire.
*

La finità è la negazione come fissata in sé, epperò si erge rigida di contro al suo affermativo. Quindi è che il finito si lascia bensì portar nella corrente; esso consiste appunto in questo, nell’esser destinato alla sua fine, ma soltanto alla sua fine; - anzi è il rifiuto di lascairsi affermativamente portare al suo affermativo, all’infinito, di lasciarsi unire con quello. Il finito è dunque posto inseparabilmente dal suo nulla, ed ogni conciliazione col suo altro, coll’affermativo, è così impedita.
La destinazione delle cose finite non è nulla più che la lor fine.

*
Il finito si distrugge in sé ma risolve effettivamente la contraddizione, non già ch’esso sia soltanto caduco e che perisca, ma che il perire, il nulla, non è l’ultimo, ossia il definitivo, ma perisce.
Hegel
Da: La scienza della Logica

lunedì, luglio 30, 2007

Rivelazioni

Il Corano non è un libro che parla di Allah, bensì un libro che lo rivela, cioè che lo mostra, segnala la sua direzione e riconduce chi lo recita alle sue proprie origini, là dove tutto si incontra di nuovo.

La Rivelazione, però, non è solo il Corano, Il Corano è solo l'esterno della Rivelazione, una delle sue manifestazioni storiche, in realtá, tutto ció che è, è Rivelazione, Sura di un Corano non scritto.

Il Corano si dischiuse in Mohammad perchè incontrò un cuore vuoto.


Gonzalez e Haya
Islam para ateos
trad genseki

domenica, luglio 22, 2007

VIVIT

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VIVIT

Sopra ognuna delle figure in bassorilievo
È incisa la parola VIVIT
La si legge per tre volte
VIVIT VIVIT VIVIT
Come uno scongiuro
Eppure le forme limate dei volti
Nella pietra non sono nemmeno più umane
Non ci parlano piú di affetto o di attitudini
Ma di erosione, di disgregazione
del succedersi di temperatura e di umiditá,
Forse anche di reazioni chimiche e di batteri.
Quello che ci racconta la pietra
È un racconto appunto minerale,
Un racconto che non coincide
Con la dimensione dell'umano,
E quello che resta di volto, nelle pietre
È, proprio per questo, ancora piú morto.
La pretesa che la parola VIVIT
Grida ai nostri occhi
Rende la morte ancora piú ignobile
Anzi, è questa pretesa che la rende ignobile
Là dove quelli che furono volti
Si rivelano parti della storia minerale
Il loro essere scolpiti vicenda meccanica
Della materia
Il loro essere ricordo
Sfigurato dalla volontá di persistenza
Di separatezza dalla forza vitale
Delle pietre del vento, dell'acqua e dei batteri
Delle molecole e delle stelle
Delle crepe e degli insetti
Un dolore acuto ci rende liberi dalla paura
Dalla paura della vita giocosa delle pietre
Delle loro lente metamorfosi che piegano il tempo
Fino a farne la culla della vita.

venerdì, luglio 20, 2007

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Il Canto dell'Autunno

Il canto del nostro autunno
Era un canto terso d’attesa
Un canto di cristallo di speranza
Fresco come l’aria del mattino
Era un vetro venato di voli
Nel cielo di nuvole accartocciate
Dall’estinguersi ocraceo della luce
Un canto senza tamburi
Ma con vuoti di basso profondo
Come gesto d’intelletti senza forma
Intenti a rispecchiarsi negli stagni
Oh era un canto di spine
Un canto di rose di carta velina
Di corteccia svilita dalla pioggia
Perché noi sapevano cos’era il fango
Allora sapevamo che era reale
Che nel fango marciscono i frutti
E le piume dei voli defunti
Ed anche per questo cantavamo
Cantavamo un canto d’autunno
Un canto che abbiamo dimenticato
Latrando catarrosi dietro ai claxon
Delle vecchie berline giapponesi.

genseki
10/10/00 21.35

giovedì, luglio 19, 2007




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La Cattedrale II


Nel terzo capitolo la comparazione tra lo spazio naturale della foresta e lo spazio sacro della chiesa diventa sempre piú chiara, l'intuizione di Chateabriand sull'origine del gotico, è sviluppata in modo analitico e estetico minuzioso:

"Senza sminuire la teoria che consiste nel vedere in questo problema soltanto una questione materiale, tecnica, di stabilitá e di resistenza, una invenzione dei monaci che avevano scoperto un bel giorno che la soliditá delle loro volte sarebbe stata meglio assicurata dalla forma a mitra dell'ogiva che da quella mezza luna dell'arco pieno, non sembra che la dottrina romantica, la dottrina di Chateaubriand di cui ci si è fatto beffe sia la meno complicata di tutte, la piú naturale, insomma la piú evidente e la piú giusta?
Per me è quasi certo, proseguí Durtal, che l'uomo ha trovato nei boschi la forma tanto discussa della navata e dell'ogiva. La piú stupefacente cattedrale che la natura ha costruito, da se stessa, prodigandovi l'arco spezzato dei suoi rami, si trova a Jumièges. Là, accanto alle magnifiche rovine dell'abazzia che ha conservato intatte le sue due torri e la cui navata scoperchiata e ricoperta di fiori si collega ad un coro di fronde circondato da un'abside di alberi, tre immensi viali, bordati di tronchi secolari, si estendono in linea retta; uno, quello del mezzo, molto largo, gli altri due, che lo affiancano, piú stretti; essi disegnanono l'immagine astratta di una nave e delle sue fiancate, sostenute da pilastri neri e avvolte da fasci di foglie. L'ogiva vi è chiaramente riprodotta dai rami che si toccano, così come le colonne che la sostengono sono imitate dai grandi tronchi. Bisogna vederla d'inverno, con la volta ad arco spolverata di neve, i pilastri bianchi come tronchi di betulla, per comprendere l'dea originaria, il seme dell'arte che ha potuto far sorgere lo spettacolo di simili viali, nell'animo degli architetti che sgrossarono, poco a poco, il romanico e finirono per sostituire completamente l'arco acuto all'arco pieno.
E non vi sono parchi, piú o meno antichi dei boschi di Jumièges, che non riproducano con altrettanto esattezza gli stessi contorni; ma quello che la natura non poteva dare, era l'arte prodigioso, la scienza simbolica profonda, la mistica appassionata e placida dei credenti che edificaron le cattedrali. Senza di loro, la chiesa restata allo stato bruto, così come la natura l'aveva concepita, sarebbe rimasta un abbozzo senz'anima, un rudimento; essa era l'embrione di una basilica, cangiante secondo le stagioni e i giorni, inerte e viva al tempo stesso, animandosi al suono dell'organo del vento, che deformava il tetto mobile dei suoi rami, al suo solo spirare, era inconsistente e spesso taciturna, assolutamente sottomessa alle brezze, serva rassegnata dell piogge; non era stata illuminata, insomma, che da un sole che setacciavatra le losanghe e i cuori delle foglie, così come tra le maglie delle piastrelle verdi. L'uomo, con il suo genio, raccolse questi sparsi bagliori, li condensò in rosoni e in lame, li riversó nei viali di bianchi fusti; e persino con il tempo peggiore, le vetrate risplendettero, imprigionarono fino alla piú piccola luce del tramonto, rivestirono il Cristo e la Vergine degli splendori piú favolosi, quasi giunsero a realizzare su questa terra il solo abbigliamento che potesse convenire ai corpi gloriosi, vestiti diversi di fiamme!"

In questo testo non è solo la cattedrale che riproduce la foresta aggiungendo la profonditá simbolica e mistica che manca alla natura, ma è la natura stessa che cerca di riprodurre la Cattedrale. Si genera u movimento circolare che va dalla foresta alla cattedrale e dalla cattedrale alla foresta il cui asse mediano è costutuito dal simbolo.

martedì, luglio 17, 2007

Añoranzas

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Prossimitá

Ogni lacrima è un grappolo d’occhi.

*

Com’è lontano il ramo
Del melo spezzato
Il suono liquido dell’organo
L’alito acre della marmitta
Il tavolo di legno della trattoria!
Con un dito cancello
Il semicerchio rosa
Tracciato dal bicchiere di vino
Come siamo lontani
Seduti faccia a faccia
Come siamo vicini
In distinto tramonto!

*

Essere il bastone spezzato
Nel riflesso dell’acqua
Immerso in questo tempo
D’implacabile verde
Eppure dritto nell’attimo -
Emerso.

*

Mi parli della tua gatta
Ma a quale distanza
Sono le tue parole dalla gatta?
Più morte delle tegole rosse
Su cui danza con passo straniero
Le nostre parole
Più prossimo al suo riflesso
Sui vetri dell’abbaino
Il suo essere viva
Di morto istante a istante morto.

*

Le nostre parole
Son cerchi concentrici
Sul lago dell’essere prossime
Ogni cerchio si allontana
Nell’onda del successivo.

*

Da silenzio a silenzio
Gocciola la musica
Quasi immobile
Nel tempo dell’udito.

*

E le lacrime?
Riflettono gli occhi
In schegge ricurve
Di tempo.

genseki
12/07/04 23.50

mercoledì, luglio 11, 2007

Historia y naturaleza

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La fine della Storia


Schiller
Sul gioco
Dalle “Lettere sull'Educazione estetica dell'uomo”
Lettera 27



L'animale lavora quando la molla che produce la sua attività è una privazione, e gioca quando questa molla é l'abondanza di forze, quando la sovrabbondanza della vita lo sprona all'attivitá. E persino nella natura inanimata si manifestano il lusso della forza e la vaghezza della determinazione che si potrebbero chiamare gioco.
*
L'uomo dovrebbe giocare soltanto
con la bellezza.
*
L'uomo gioca soltanto quando è umano nel senso pieno della parola, e è completamente umano solo quando gioca.
*

Questi testi di Schiller sono, presumibilmente, il punto di origine della tesi, oggi tanto discussa della fine della storia.
Il lavoro dell'uomo, spinto dalla privazione: privazione dei mezzi di sussistenza e di riproduzione, privazione della serenitá, privazione del senso della vita, privazione della libertá è il fattore che genera la storia. In questo senso Schiller è stato letto e approfondito da Hegel e da Hegel trasmesso al XX secolo e a Kojève che lo ha divulgato.
La storia è il prodotto dell'attività umana e come tale assolutamente perspicua per la conoscenza umana. Non v'è nessuna difficoltá per l'uomo a conoscere quello che ha prodotto egli stesso, o almeno non dovrebbe esservene alcuna, in linea di principio.co
Tuttavia il processo storico non è infinito, dipende dalla privazione e trova il suo limite nell'abbondanza.
Quando la privazione dei mezzi di sussistenza, quella della libertá e con esse tutte le altre privazioni si sono trasformate nelle rispettive abbondanze e quindi il lavoro non é piú necessario, necessariamente viene a cessare anche la storia.
Secondo Hegel, poi, l'uomo producendo la storia come prodotto della propria attivitá produce anche se stesso in quanto uomo.
Allora, se la storia cessa, in qualche modo cessa anche l'uomo.
Tuttavia, che cosa sotituisce l'attivitá è il lavoro quando l'abbondanza sostituisce la privazione.
Secondo Schiller è il gioco.
E qui incontriamo una contraddizione: Schiller dice, infatti, che l'uomo gioca solo quando è umano, ma se il gioco corrisponde all'abbondanza e se l'abbondanza corrisponde alla fine della storia e quindi alla fine dell'uomo come è possibile che il gioco sia così profondamente umano come Schiller lo pretende?
La contraddizione è già in Schiller, palese, quando egli afferma che l'animale gioca per l'abbondanza di forze e persino la natura inanimata pare giocare nel lusso delle forze che la innervano.
No il gioco non è umano.
In questo senso Kojève intendeva l'animalizzazione americana della fine della storia.
L'idea di animalitá di Kojève non risale a Hegel ma a Schiller. E da Schiller è giunta fino a Fukuyama.
Vi è, però, una dimensione del gioco che pare situarsi oltre l'animalitá: la bellezza.
Schiller dice che l'uomo dovrebbe giocare soltanto con la bellezza e dicendo questo delimita due campi: l'animalitá e la postumanitá.
Kojève chiamava la postumanità snobismo e la considerava realizzata nel Giappone dei Tokugawa.
Marx chiamava la postumanitá comunismo.
Snobismo è una sprezzatura tipica dell'acida arroganza di Kojève: nel gioco, infatti l'animale, l'uomo e la natura inanimata si collocano in una relazione differente da quella storica, ridefiniscono, nella bellezza i reciproci rapporti. Il terrore dello tsunami è cieco come quello delle guere neoimperialiste. È il terrore del gioco. È il volto spietato della bellezza che resta una possibilitá.
Un altro gioco è il sesso che si relaziona con le forme animali, liberate dalla necessitá.
In esso, forse, l'animalitá realizza la sua perfezione dialettica, il suo fine.
Ma le nostre menti si muovono come le onde che giocano con la schiuma il gioco della dinamica di forza e di luce.

lunedì, luglio 09, 2007

Dialettiche

Omne enim quod intelligitur et sentitur
Nihil aliud est nisi non apparentis apparitio,
Occulti manifestatio,
Negati affirmatio,
Incomprehensibili comprehensio,
Inefabilis fatus,
Inacessibilis acessus,
Inintelligibilis intellectus,
Incorporalis corpus,
Superessentialis essentia,
Informis forma,
Incommensurabilis mensura,
Innumerabilis numerus,
Carentis pondere pondus,
Spiritualis incrassatio,
Invisibilis visibilitas,
Illocalis localitas,
Carentia temporis temporalitas,
Infiniti diffinitio,
Incircumscripti circumscriptio.

Eriugena
Periphyseon III, 4, p2 CXII

***

Ogni cosa che si può comprendere o percepire con i sensi
Altro non è che apparizione di ciò che non appare,
Manifestazione dell'occulto,
Affermazione di ció che è negato,
Comprensione dell'incomprensibile,
Voce dell'ineffabile,
Porta del'inaccesibile,
Intellezione dell'inintellegibile,
Corpo dell'incorporeo,
Essenza del superessenziale,
Forma dell'informe,
Misura dell'incommensurabile,
Numero dell'nnumerabile,
Peso di ciò che non ha peso,
Corporalitá dello Spirito,
Visibilitá dell'invisibile,
Sito del non localizzabile,
Temporalitá dell'intemporale,
Definizione dell'infinito,
Circonferenza di ció che non si puó circoscrivere.

*

Ecco un inno apofatico, in cui ogni termine di una coppia pare annullare l'altra, pare negarla, togliendo così alla definizione ogni senso possibile.

Questo è quello che si coglie ad una prima lettura e il testo assume le caratteristiche di un ieratico sacrificio del linguaggio nel suo approssimarsi all'assoluto. Il linguaggio al cospetto di Dio brucia come la farfalla del racconto sufico. Le ceneri dell'insignificanza restano le sole tracce dell'unione, appunto, ineffabile.
Un'altra lettura, però, è possibile perché se i termini di ogni coppia si annullano reciprocamente la loro contiguitá, invece, afferma.

Un termine afferma un altro nega quello che è affermato dal primo, il risultato non é nulla ma l'unione di affermazione e negazione rappresentata dal verbo est in un'unitá superiore.
I due termini, infatti si negano, o, almeno uno nega l'altro, ma il verbo est la copula che li unisce, non è negata.
L'essere (est) è il nesso tra affermazione e negazione e non si identifica nè con una nè con l'altra, è superiore ad entrambe.

Essere è passaggio dall'affermazione alla negazione e dalla negazione all'affermazione. Ecco che la teologia apofatica si rivela una teologia dialettica.
Una dialettica luminosa nata tra le favole e i boschi dell'Irlanda nella pioggia e nella nebbia ad opera di un monaco che sará ucciso dai suoi stessi studenti e le cui opere saranno maledette dalla Chiesa per lunghi secoli. Oggi non so.
È una dialettica romanica coincisa e squadrata che profuma della libertá della foresta che si divincola appena dallo scongiuro e dell'incantesimo come una lorica di luce e clorofilla.

domenica, luglio 08, 2007

Ventanas

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Poesie

Ora che il marmo
Si frammenta e scheggia
Chi contempla i talloni
Delicati
Quando si solidificano barbe
In bianchi biscotti
In chiocciole gelate?
Eppure è carne
Che diede la forma
È fiato che spirava
Da altre bocche
Lassú presso le nuvole
Dove si intrecciano
Le volte delle scale con le ogive
È clorofilla piú antica del ritmo
Della misura astratta
Del marmo, dei basalti
Del granito
Di porfido o argilla:
Colonne
Allineate come svelti pioppi
Ad affermare la concretezza
Dello spirito
La dimensione collettiva del ricordo.

*

È un tessuto rosso
Di sabbia fredda
Depositata sulle sponde del fiume
A ondate successive
Ondate che durano
Ciascuna almeno un secolo
Cela nicchie dorate
Icone di vetro
Fiammelle d'olio
Limpide nell'umiditá verde
Di grotta
Dove l'alito si fa ragnatela
E l'udito si disfa
In lontani, possenti
Possibili tuoni
Di bronzi o rame.
Le trombe scalano le nuvole lassú
Dove le ali di marmo
Sono piú agili
Dei patetici frulli dei colombi;
Qua sotto, nel cuore dell'argilla
Su sfondi dorati
I santi barbuti invocano
Leoni copti
Con voci che sono ghirigori di sillabe
Smunte, confuse coi licheni
Con le rughe dell'erosione
E le gocce si fanno piú pesanti
Più verdi
Più dense
Finché en tremano le terse fiammelle
Come a un richiamo
Di notte irredimibile.

*

Vanno sulle chiome dei pini
Come su una distesa di dune verdi
Vanno verso l'orizzonte dei rintocchi
Là dove i voli diventano spirali
E il cuore dei colombi
Una noce di carbone.

*

Vuelos

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mercoledì, maggio 30, 2007

Pico della Mirandola


La vita
Da Walter Pater

***


Quando un giovane non dissimile dall’arcangelo Raffaele, quale i fiorentini lo dipinsero nella sua meravigliosa passeggiata con Tobia o Mercurio, come può essere apparso in un dipinto del Botticelli, o di Pietro di Cosimo, entrò nella sua stanza, forse Ficino pensò che si trattava di una forma non del tutto terrena e che non era senza il volere degli astri che lo straniero fosse giunto proprio quel giorno. Per questo la loro conversazione fu di gran lunga più intima e più profonda di quanto sia abituale per un primo incontro. Nel corso di questa conversazione Ficino concepì il progetto di dedicare gli ultimi anni della sua vita alla traduzione di Plotino, questo nuovo Platone, nel quale gli elementi mistici della filosofia platonica sono stati elaborati fino al limite ultimo della visione e dell’estasi.

Fu dopo molti vagabondaggi, intellettuali e concreti, che Pico giunse a Firenze. Nato nel 1463, egli aveva allora vent’anni. Si chiamava Giovanni e Pico come i suoi antenati, da Picus, nipote dell’Imperatore Costantino dal quale essi affermavano di discendere, e Mirandola dal nome della sua città natale, una piccola città che in seguito venne inglobata nel ducato di Modena, di cui la sua famiglia tenne a lungo la signoria feudale. Pico era il più giovane della famiglia, e la madre affascinata dalla sua memoria, lo inviò, all’età di quattordici anni alla famosa scuola di legge di Bologna. Fin dall’inizio ella sembrò avere presentimento della sua futura fama, credeva che una strana circostanza fosse accaduta al momento della nascita di Pico – l’apparizione di una fiamma circolare che era svanita improvvisamente, su muro della camera ove ella giaceva. Egli rimase tre anni a Bologna, e poi con una sete inesauribile e inarrivabile di sapere passò per le principali scuole d’Italia e di Francia, penetrando, come pensava, nei segreti di tutte le filososfie antiche e di molte lingue orientali. E con questo flusso di erudizione venne la speranza generosa, così spesso delusa, di riconciliare i filosofi tra di loro e con la Chiesa. Giunse infine a Roma e colà, come un cavaliere errante della filosofia si offrì di difendere 900 audaci paradossi, tratti dalle fonti più disparate, contro chiunque lo volesse. La corte pontificia, tuttavia, sospettava dell’ortodossia di alcune di queste proposizioni e il libro che le conteneva fu proibito dal Papa. Solo nel 1493 Pico fu assolto con un breve di papa Alessandro VI. Dieci anni prima egli era giunto a Firenze.

A noi resta l’orazione composta da Pico per inaugurare il suo torneo filosofico; il suo soggetto è la dignità della natura umana, la grandezza dell’uomo. Questo tema è comune alla speculazione del Medioevo e anche la teoria di Pico si fonda su una falsa concezione del posto nella natura della terra e dell’uomo. Per Pico la terra è il centro dell’universo: attorno ad essa, come punto fisso e immoto ruotanoola luna, il sole e le stelle, come servitori e ministri diligenti: E nel centro di tutto ciò si trova l’uomo, “nodus et vinculum mundi” e “l’interprete della natura”: questa famosa espressione di bacone appartiene davvero a Pico. “Tritum est in scholis, esse hominem minorem mundum, in quo mixtum ex elementis corpus et spiritus coelestis et plantarum anima vegetalis et brutorum sensus et ratio et angelica mens et Dei similitudo conspicitur”. Un luogo comune delle scuole! Ma certo esso acquisisce nuova forza e autorità, se lo si ode come Pico lo ripete, e per quanto falsa ne sia la base, la teoria ha la sua utilità. Quindi questa sublime dignità dell’uomo, eleva la polvere da lui calpestata fino a una comunione sensibile con gli angeli, con i loro pensieri e con i loro sentimenti e si lega ad essi non perché resa nuova dall’adesione ad un sistema religioso, ma per suo proprio diritto naturale. Questo proclama contraddice la tendenza cospicua della religione medioevale a disprezzare l’uomo, a sacrififcare in lui questo o quell’elemento, a farlo vergognare di se stesso, a mettere in rilievo la sua degradazione o gli accidenti dolorosi. Esso aiutò l’uomo a riaffermare se stesso, a riabilitare l’umana natura, il corpo, i sensi, il cuore, l’intelligenza, che fecondarono il Rinascimento. Leggere una pagina di uno dei dimenticati libri di Pico è come dare uno sguardo in uno di quegli antichi sepolcri in cui di frequente si imbatte chi viaggia nelle terre classiche con gli antichi oramenti e arredi disusati, propri di un mondo completamente diverso dal nostro ma in quel momento ancora nuovi.. L’intera concezione della natura è completamente diversa dalla nostra. Per Pico il mondo è uno spazio limitato, circondato da muri di cristallo, da un firmamento materiale; una sorta di giocattolo dipinto, questa mappa o sistema del mondo come un grande bersaglio o uno scudo nelle mani del Logos creatore, attraverso il quale il Padre crea tutte le cose quale lo vediamo in uno degli antichi affreschi del Campo Santo di Pisa. Com’è differente questa concezione infantile dalla nostra visione della natura, spazio illimitato di innumerevoli soli e la terra come un granello in un raggio; com’è differente questo strano timore, questa superstizione del quale essa riempie le nostre menti. “Le silence éternel des espaces infinis m’effraie” disse Pascal contemplando una notte stellata. Doveva essere piuttosto stanco, quando giunse a Firenze: Aveva molto amato e molto era stato amato, “vagabondo sulle colline illusorie del delizioso piacere”, ma il regno delle donne su di lui era giunto al termine, e molto prima del famoso rogo delle vanità di Savonarola egli aveva distrutto le proprie poesie d’amore in lingua volgare, che avranno un così garnde rilievo presso di noi, dopo la prolissità scolastica dei suoi scritti latini. Era con un altro spirito che egli compose un commentario platonico, la sola sua opera in italiano giunta fino a noi, sul “canto del Divino Amore” secondo la mente e l’opinione dei platonici cari al suo amico Geronimo Beniveni, nel quale presentando un’ ambiziosa serie di insegnamenti di ogni sorta e con una profusione di immagini tratte indifferentemente dagli astrologi, dalla Cabala, da Omero, dalla Scrittura, da Dionigi l’Areopagita, egli cercò di definire gli stadi attraverso i quali l’anima passa dalla bellezza terrena a quella invisibile. Un cambiamento era avvenuto in lui, come se il tocco della bellezza astratta e disincarnata venerata dai platonici fosse sceso su di lui.. Qualche barlume di ciò, giunto alla luminosità che nell’immaginazione popolare sempre risplende sulla morte precoce, fece dichiarare a Camilla Rucellai, una di quelle donne profetiche che la predicazione di Savonarola aveva infiammato in Firenze, quando lo vide per la prima volta, che egli sarebbe partito al tempo dei gigli, prematuramente, cioè, come i fiori di campo che appassiconoo per l’ardore del sole non appena sbocciati. Egli scrisse allora quei pensieri sulla vita religiosa che Thomas More tradusse in inglese, e che un altro traduttore inglse pensò di aggiungere al libro “dell’Imitazione di Cristo”. “Non è difficile conoscere Dio a condizione di non volerlo definire”: è un grande detto di Joubert. Scrive Pico ad Angelo Poliziano: “Noi possiamo amare Dio più di quanto possiamo conoscerlo o parlare di Lui. E finché si cerca con la conoscenza, non si trova mai quello che si cerca, mentre si possiede con l’amore ciò che senza amore si cercò in vano”. Nonostante questa fine sensibilità spirituale egli non potè mai – e in questo è il persistente interesse della sua storia – anche dopo la conversione, dimenticare gli antichi dei. Egli è uno degli ultimi che cercò seriamente e sinceramente di rivendicare la fede delle religioni pagane, ansioso di accertare il vero significato delle più oscure leggende, la più luminosa tradizione riguardo ad esse. Con molte idee e molta energia perseverò in questa direzione. Non divenne monaco, conservò “qualche cosa dell’antico fasto, le delicate vivande in piatti d’argento”, ma diede la maggior parte delle proprie ricchezze all’amico, il poeta mistico Beniveni, per utilizzarle in opere di carità, soprattutto la dolce carità di provvedere al matrimonio delle contadinelle di Firenze. La fine giunse nel 1494, quando, nel mezzo delle prediche e dei sacramenti di Savonarola, morì di febbre, il giorno stesso in cui Carlo VIII entrava a Firenze, il 17 di Novembre, nel tempo dei gigli – i gigli dello stemma di Francia, come disse il popolo, ricordando la profezia di Camilla. Fu seppelito nella chiesa conventuale di San Marco con il cappuccio e il bianco saio dei domenicani.

lunedì, maggio 28, 2007

Mantello verde che di varchi azzurri

Mantello verde che di varchi azzurri
Disseminato copri questo mondo
Come dell’orso fulvo la pelliccia
Copre la calda densità del corpo

Copri la mente mia che verticale
Scorrere lascia tutti i sentimenti
Coprila col tuo freddo senza verbo
Estraneo nel tuo morbido lamento

Che si disgreghi infine in ogni foglia
Esperimenti in ogni cellula il morire
Del carbonio partecipi alle doglie
Che ricombinano alte leggi feconde

Gocciolo come pioggia dalla gronda
Sui sassi esplodo in mille gocce grigie
Che riflettono ognuna interamente
Le nervature che tessono il mondo

*

Si sbriciola la sfoglia della vista
Al vento verticale che la investe
E vede da ogni scheggia che si stacca
Tutta la verde vita che rinnova

*

È morbida la vita senza verbo
Zattera sono nella sua corrente
I secoli attraverso dolcemente
Tra i dorsi di testuggini e caimani

E guardo le mie mani che si formano
Mutando squame e piume in dita in unghie
I miei occhi che creano quella sfera
Che si screpola in rami di molecole

È una spugna pulsante non un frutto
Gonfio di sangue e di brividi elettrici
Il mio cervello che lento si aggomitola
In grotte di granito in cavi ceppi

È il grido di un varano che mi sveglia
All’umida coscienza del fluire
Madido d’ogni liquido del mondo
Che utero mi fu di muschio e stelle

*

Con luce in scoppi mi scorgo avvistato
Da un volto in cui mi accorgo del mio volto
Apre la bocca ed io odo il mio grido
Nel fiato suo m’accoccolo in me stesso

L’odio e mi creo in crepe di volere
Come distante dal viscoso abbraccio
Dell’indistinta unità di fame e caccia
Mi raddrizzo mi accorgo dei miei piedi

Eretto infine brandisco lampo e rabbia
Mi afferro a un ramo ed una lancia scaglio
Sento la pietra tra le dita il bronzo
Uccidendo mi intaglio sullo sfondo

Dell’essere screziato che trascorre

*

Se c’era Dio è piovuto questa notte
Se disfatto in rovesci e cataratte
Poi l’alba è giunta in un velo di gocce
A dissetare il mondo appena nato

La pozzanghera riflette le galassie
Tutte le cime son gonfie di latte
S’apre l’umida valle al caldo soffio
Del vento fresco carico di semi.

23/05/2006 22.26
genseki

martedì, maggio 15, 2007

Gramsci

GRAMSCI e L'ISLAM

L'Evoluzione dell'islam
E' conciliabile l'Islam con il progresso moderno?
Mi pare che il problema sia più semplice di quello che lo si voglia far apparire, per il fatto che implicitamente si considera il cristianesimo come inerente alla civiltà moderna, o almeno non si ha il coraggio di porre la quistione dei rapporti fra il cristianesimo e la civiltà moderna.
Perché l'Islam non potrebbe fare ciò che ha fatto il cristianesimo?
Mi pare anzi che l'assenza di una massiccia organizzazione ecclesiastica del tipo cristiano cattolico dovrebbe rendere più facile l'adattamento.
Se si ammette che la civiltà moderna nella sua manifestazione induindustriale-economica-politica finirà col trionfare in Oriente (e tutto prova che ciò avviene e che anzi queste discussioni sull'Islam avvengono perché cè una crisi determinata appunto da questa diffusione di elementi moderni) perché non bisogna concludere che necessariamente l'islam si evolverà? Potrà rimanere tal quale? No: già non è più quello di prima della guerra. Potrà cadere d'un colpo? Assurdo. Potrà esssere sostituito da una religione cristiana? Assurdo per le grandi masse...
In realtà la difficoltà più tragica per l'Islam è data dal fatto che una società intorpidita da secoli di isolamento e da un regime feudale imputridito (...) è troppo bruscament messa a contatto con una civiltà frenetica che è già nella sua fase di dissoluzione.
Il Cristianesimo ha impiegato 9 secoli a evolversi, a adattarsi, lo ha fatto a piccole tappe.
L'islam è costretto a agire vertiginosamente, ma in realtà esso reagisce proprio come il Cristianesimo: la grande eresia su cui si fonderanno le eresie propriamente dette è il "sentimento nazionale", contro il cosmopolitismo teocratico.
Appare poi il motivo del ritorno alle origini tale e quale come nel cristianesimo; alla purezza dei primi testi religiosi contrapposta alla corruzione ufficiale. I Wahabiti rappresentano proprio questo.

Quaderno I
p. 247

*

Cazorla

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giovedì, maggio 10, 2007

Fenomenologia dello Spirito II



In qualche punto dell'opera immensa di Agostino, Vescovo di Ippona, si trova una commovente prova dell'immortalitá dell'anima, che mi colpì, molto tempo fa, nel corso di una mia superficiale navigazione nel mare di quelle pagine.
La prova, che riferisco qui secondo quanto si è depositato nella mia memoria, è la seguente:

“Il sapere è infinito e non può essere conosciuto nella sua totalitá per mezzo di una vita mortale. Conoscere, tuttavia, è lo scopo per il quale l'uomo è stato creato. O forse, non ricordo bene, conoscere il Bene è lo scopo supremo della vita umana. Se le cose stanno così vi è una contraddizione che solo l'immortalitá puó sanare. Una contraddizione che da scacco alla morte e che parrebbe garantire all'anima in angoscia una speranza piú solida del grido del desiderio: uno scopo infinito non puó essere in ordine a una vita finita. La vita non potrebbe mai raggiungere il sapere. Come Achille non puó raggiungere la tartaruga”.

Piú o meno è questo, il pensiero di Agostino, come lo ricordo adesso.
Vorrei, invece, poterlo citare in latino, inciso nella bellezza marmorea di quella lingua, preciso e tagliente e nello stesso tempo impotente a consolare.

Purtroppo non mi ricordo nemmeno in quale opera lo avevo letto, anche se ora, scrivendo mi pare sin trattasse di un dialogo.

Mi é ritornato alla mente, ora, mentre leggevo il noto e terribile passo della Fenomenologia Hegeliana:

Se, infatti, la bellezza impotente odia l'intelletto, ció avviene perché si vede richiamata da questo a compiti che essa non è in grado di assolvere. La vita dello Spirito, invece, non è quella che si riempie di orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa. Lo Spirito conquista la propria veritá solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. Lo spirito è questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando ci sbarazziamo di qualche cosa dicendo che è o che non è falso, per passare subito a qualcos'altro. Lo Spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e si sofferma presso di esso. Tale soffermaris è il potere magico che converte il negativo nell'essere.
Hegel, Fenomenologia della Spirito

Qui il conoscere integra il nulla. O meglio il conoscere integra la nullificazione. Il soggetto che conosce conosce l'infinito solo facendo esperienza della sua finitezza. L'infinito senza la finitezza non sarebbe nemmeno definibile come infinito, non sarebbe infinito perchè per essere tale debe contrapporsi a qualche cosa che lo neghi come tale.
Questa cosa è il soggetto. Esso conoscendosi nella “disgregazione assoluta” permette all'assoluto di essere conoscibile in quanto tale.
Insomma, la prova di Agostino è la prova di qualcuno che si riempie di orrore davanti alla morte e si preserva integro dal disfacimento e dalla disgregazione. In questo modo, tuttavia, precludendo il cammino che porta dal sapere all'essere, che unisce l'essere con il conoscere.
Pare che tutte le prove dell'immortalitá dell'anima siano matrici di questa preclusione.
Così in poche righe vado trascorrendo dal luminoso riposo miniato della speranza del retore africano alla notte germanica.
La notte famelica dei lupi. La notte del gelo che corrode la carne e l'anima.
Eppure il cesto di frutta, mele e arance che fisso davanti a me, è un cesto di frutta solo per chi scompare, solo per chi accetta di non essere davanti al non essere la frutta è luminosa come il mondo, ed egli non necessitá altro nutrimento che il suo succo.
genseki

martedì, maggio 01, 2007

Corniglia


Fenomenologia dello Spirito


Sono linee molto conosciute, quelle che seguono, molto commentate, e che tuttavia, rilette ancora una volta, senza averle cercate, nelle note a pié di pagina di un libro negletto catturano, avvincono, avvolgono il pensiero in un movimento che lo porta di stupore in paura.
Qual è qui la relazione tra Spirito e coscienza? Perché ció che incontra la morte è la coscienza in quanto autocoscienza e non lo Spirito in quanto Spirito.
Lo Spirito che diventa chiaro e trasparente a se stesso, autoevidente nello svolgimento completo della sua vicenda è come tale anche autocoscienza, non solo coscienza, è soggetto Il nulla, la morte è solo della coscienza del soggetto, è essa che le va incontro e quindi è solo attraverso di essa che lo spirito conosce la negatività.
Perché v`è morte solo dove c'è coscienza. Tutto il resto è immune alla morte anche se non è libero dal nulla.
La morte è la forma che l'incontro con il nulla prende per la coscienza. Cosí la morte è sempre esperienza di un soggetto. È la possibilitá, la necessitá dell'incontro con il nulla che permette l'emergere del soggetto.
Il soggetto è lo spazio dell'attesa della morte. Il soggetto è il punto necessario in cui lo Spirito raggiunge la pienezza del contatto con il negativo.
Come vi si mantiene?

Se, infatti, la bellezza impotente odia l'intelletto, ció avviene perché si vede richiamata da questo a compiti che essa non è in grado di assolvere. La vita dello Spirito, invece, non è quella che si riempie di orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa. Lo Spirito conquista la propria veritá solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. Lo spirito è questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando ci sbarazziamo di qualche cosa dicendo che è o che non è falso, per passare subito a qualcos'altro. Lo Spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e si sofferma presso di esso. Tale soffermaris è il potere magico che converte il negativo nell'essere.
G.F. W. Hegel Fenomenologia dello Spirito, a cura di V. Cicero, Milano 1995 p. 87

genseki


venerdì, aprile 27, 2007


Maresa di Noto

L’albero secco riposa
oltre la coltre dei grigi e la neve
che lo ripara.
Non c’è fretta, pare,
nel nucleo intanto tutto risorge.

Kunming

Accanto a Dio é la bellezza del ritorno
Corano III, 12-14

*

A Kunming fioriscono i ciliegi
Senza interruzione
Per mesi e per distese
Dove dormono e lottano
Bufali e leopardi
Avvinti in corna e denti
Tra gli alberi del te
Superbe colonne vegetali
Arroganti come divinitá
Non credute
Non venerate
A Kunming fioriscono i ciliegi
In nuvole di rose accese
Fior di ciliegio
Foglia di te, torri di bambú
Son vecchi sogni congiunti
Esplorali!
A Kunming fiorsicono i ciliegi
I sogni nuovi
Sono leggeri
Li porta la Primavera
Che resta qui per sempre
Dove la storia é morta
Sono incubi sottili
Appena un po´nauseabondi
Tra gli alberi del te
Nella luce di Kunming

*

Fu da dentro una lacrima

Fu da dentro una lacrima
Che finii per vederla
Madida di primavera
Gocciolante di luce
La cittá che durava
Di pietra melancolica
Con le sue scalinate
Le cascate di fiori
Libera dal mio sguardo
Pura senza i miei passi
Ormai che io non c'ero
Esisteva davvero

*

Se mi distolgo
È il mondo che ritorna
Ad essere davvero
Luce per occhi morti
Frutto per mani vuote
E stillare di succhi
Dal cuore delle palme
Solo
Se mi distolgo
Mi sorge
Vero il Mondo

*

Perché le cose siano
Soltanto è necessario
Distogliere la vista
E rallentare il cuore

Per un istante
Allora
Saranno veri i pini
Che il calore del sole
Dissolve in luce verde

genseki

mercoledì, aprile 04, 2007

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La dialettica


Non è evidente che la tendenza a porre l'infinito nel finito e viceversa è dominante in tutte le indagini e in tutte le conversazioni filosofiche? Questo modo di pensare è eterno come l'essenza di ciò che in esso si esprime, non è cominciato ora, non terminerà mai. E', come dice Platone, l'immortale, immarcescibile caratteristica di ogni indagine. Il giovane che lo ha provato per la prima volta se ne rallegra come se avesse trovato un tesoro di saggezza, e reso ardito dalla propria gioia, intraprende con piacere qualunque indagine, ora riunendo tutto quello che capita nell'unità del concetto, ora scomponendolo e dividendo tutto di nuovo in una pluralità. Questa forma è un dono degli dei agli uomini che Prometeo trasse dal cielo alla terra con il fuoco.
Dal: Bruno

lunedì, aprile 02, 2007

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Il gelo le aveva serrate, strette

Il gelo le aveva serrate, strette
Nella sclerosi delle sue dita bianche
Le fonti
Tra il muschio fatto gioiello,
Come gioiello spento
E perfetto, immoto
Nel tempo.
Ora un lieve calore di febbre
Sale dalla terra sabbiosa
Si addensa sotto la coperta
Delle foglie morte.
E piano piano cominciano a stillare
Vorrebero scorrere
Le lacrime da occhi
Che più non vedono il cielo
Sul bosco fitto del pensiero.

genseki
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Peter Sloterdijk

Filosofia e tossicomania


I medici omeopati del XIX secolo pensavano che il praticante deve per prima cosa sperimentare su se stesso le medicine che prescrive poi alla sua clientela. Diciamo che un buon filosofo e’ una specie di tossicomane illuminato e che il suo sapere consiste precisamente in una polifonia dell’avvelenamento. Questo per me significa che il sapere filosofico non e’ soltando il risultato di una riflessione approfondita, e nemmeno un’espressione di se’ come soggetto, ma il risultato di una specie di suceso immunologico. La verita’ deve essere interpretata, secondo me, come un fenómeno immunitario che il discorso del filosofo contemporaneo genera alla fine di una serie di vaccinazioni o di autoavvelenamenti. Nelle reazioni del pensatore moderno emerge un nocciolo di verita’ che non e’ che la lotta del sistema che sopravvive in una serie di produzioni di anticorpi, logici come semantici, che fanno barriera all’invasione di virus ostili: questo modello e’ secondo me una buona risposta alla
domanda: che cos’e’ una saggezza contemporanea? Il pensatore cotemporaneo e’ il multitossicomane, forte di una lunga serie di piccole morti e di reazioni immunitarie, che sfugge alla definizione classica e universitaria di logico discursivo. Io avvicinerei questo alla poesia contemporanea che libera la capacita’ di allucinare del suo autore.

Shelling

L'universo dorme come in un germe infinitamente fertile, con la pletora delle sue forme, la ricchezza della sua vita, l'esuberanza delle sue manifestazioni, senza fine nel tempo, ma qui immediatamente presenti, in'unità eterna: passato e futuro, entrambi infiniti per il finito, uniti, qui sotto manto comune.

*

Unamuno

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Aquila

Aquila bianca che bevendo luce
Del sol eterno con lucide pupille
A noi la doni, pellicano, nel sangue
Delle tue stesse viscere mutata
Aquila bianca perché nei tuoi occhi
Veglia una nube nera, cupa chioma
Di nazareno? Ci fa luce, o torcia!
Il cuore tuo che ci illumina ardendo
Ci avezza a far del nostro sangue luce
Della tua luce, Tu che sei quell’Uomo
Che il mondo rischiara pei mortali.
Luce, Cristo Signor, la luce é vita!
Quando moriam nelle tue bianche braccia,
Le ali della Morte Imperatrice,
Ci sollevano su fino a quel sole
Ove si perdon gli occhi nostri e miran
Volto di Veritá quello che uccide
L’uomo perche’ rinasca, Aquila bianca
Che a gran sorsi bevendo viva luce
Del Sole Eterno con occhi divini
Ce la doni nel sangue che hai versato
Portaci a gustar del Sole eterno,
Con gli occhi nostri, qual ne sia la luce,
A contemplar la Verità nel viso.
Cerchi la nottola che la luce abbaglia
Nel buio la sua preda. Aquile sono
L’anime nostre che vivono morendo
Per contemplare il volto del Signore
Sguardo di pura fede che non pieghi
Al raggio di quegli occhi abbacinanti
Di Verità del Sol che non si estingue
D’Iddio dal volto che ci da la vita
Quando con il suo sguardo ce la toglie.!
***
Bianco lino il tuo corpo, frágil tela
Che dalla grigia terra Iddio filando
Tessé e tinse e ne vesti’ il Pensiero
D’un nudo ed invisibile vestito
Donando al mondo di che illuminarsi
Luce della Parola, eterna cappa
Ricamata di stelle innumerevoli.
Si tinse il lino di porpora regia
Estratta dall’abisso dell’oceano
- Ove giunti riposano coloro
Che furo e che saranno – e della Morte
Fu sudario d’amor nell’immolarla.
Con mano irata il popolo a strattoni
Denudo’ la Parola creatrice,
Ma Ella raccogliendo il suo vestito
Di nuovo se lo cinse come un manto
E lo tese qual volta al nostro cielo.
Il Fattor del paesaggio illimitato
Di greggi d’astri e soli pellpellegrini
Che l’orbe nostro – spenta scintilla traen –
Dalle ceneri sue ando’ tessendo
Con incorporee mani tenebrose
- Che son strumenti dell’onnipotenza -
Per nove lunghi mesi dentro il seno
Oscuro d’una vergine la tunica
Che rivestito al fine lo mostrasse
All’anime sgorgate dal suo senno.
Trad. genseki