mercoledì, maggio 30, 2007

Pico della Mirandola


La vita
Da Walter Pater

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Quando un giovane non dissimile dall’arcangelo Raffaele, quale i fiorentini lo dipinsero nella sua meravigliosa passeggiata con Tobia o Mercurio, come può essere apparso in un dipinto del Botticelli, o di Pietro di Cosimo, entrò nella sua stanza, forse Ficino pensò che si trattava di una forma non del tutto terrena e che non era senza il volere degli astri che lo straniero fosse giunto proprio quel giorno. Per questo la loro conversazione fu di gran lunga più intima e più profonda di quanto sia abituale per un primo incontro. Nel corso di questa conversazione Ficino concepì il progetto di dedicare gli ultimi anni della sua vita alla traduzione di Plotino, questo nuovo Platone, nel quale gli elementi mistici della filosofia platonica sono stati elaborati fino al limite ultimo della visione e dell’estasi.

Fu dopo molti vagabondaggi, intellettuali e concreti, che Pico giunse a Firenze. Nato nel 1463, egli aveva allora vent’anni. Si chiamava Giovanni e Pico come i suoi antenati, da Picus, nipote dell’Imperatore Costantino dal quale essi affermavano di discendere, e Mirandola dal nome della sua città natale, una piccola città che in seguito venne inglobata nel ducato di Modena, di cui la sua famiglia tenne a lungo la signoria feudale. Pico era il più giovane della famiglia, e la madre affascinata dalla sua memoria, lo inviò, all’età di quattordici anni alla famosa scuola di legge di Bologna. Fin dall’inizio ella sembrò avere presentimento della sua futura fama, credeva che una strana circostanza fosse accaduta al momento della nascita di Pico – l’apparizione di una fiamma circolare che era svanita improvvisamente, su muro della camera ove ella giaceva. Egli rimase tre anni a Bologna, e poi con una sete inesauribile e inarrivabile di sapere passò per le principali scuole d’Italia e di Francia, penetrando, come pensava, nei segreti di tutte le filososfie antiche e di molte lingue orientali. E con questo flusso di erudizione venne la speranza generosa, così spesso delusa, di riconciliare i filosofi tra di loro e con la Chiesa. Giunse infine a Roma e colà, come un cavaliere errante della filosofia si offrì di difendere 900 audaci paradossi, tratti dalle fonti più disparate, contro chiunque lo volesse. La corte pontificia, tuttavia, sospettava dell’ortodossia di alcune di queste proposizioni e il libro che le conteneva fu proibito dal Papa. Solo nel 1493 Pico fu assolto con un breve di papa Alessandro VI. Dieci anni prima egli era giunto a Firenze.

A noi resta l’orazione composta da Pico per inaugurare il suo torneo filosofico; il suo soggetto è la dignità della natura umana, la grandezza dell’uomo. Questo tema è comune alla speculazione del Medioevo e anche la teoria di Pico si fonda su una falsa concezione del posto nella natura della terra e dell’uomo. Per Pico la terra è il centro dell’universo: attorno ad essa, come punto fisso e immoto ruotanoola luna, il sole e le stelle, come servitori e ministri diligenti: E nel centro di tutto ciò si trova l’uomo, “nodus et vinculum mundi” e “l’interprete della natura”: questa famosa espressione di bacone appartiene davvero a Pico. “Tritum est in scholis, esse hominem minorem mundum, in quo mixtum ex elementis corpus et spiritus coelestis et plantarum anima vegetalis et brutorum sensus et ratio et angelica mens et Dei similitudo conspicitur”. Un luogo comune delle scuole! Ma certo esso acquisisce nuova forza e autorità, se lo si ode come Pico lo ripete, e per quanto falsa ne sia la base, la teoria ha la sua utilità. Quindi questa sublime dignità dell’uomo, eleva la polvere da lui calpestata fino a una comunione sensibile con gli angeli, con i loro pensieri e con i loro sentimenti e si lega ad essi non perché resa nuova dall’adesione ad un sistema religioso, ma per suo proprio diritto naturale. Questo proclama contraddice la tendenza cospicua della religione medioevale a disprezzare l’uomo, a sacrififcare in lui questo o quell’elemento, a farlo vergognare di se stesso, a mettere in rilievo la sua degradazione o gli accidenti dolorosi. Esso aiutò l’uomo a riaffermare se stesso, a riabilitare l’umana natura, il corpo, i sensi, il cuore, l’intelligenza, che fecondarono il Rinascimento. Leggere una pagina di uno dei dimenticati libri di Pico è come dare uno sguardo in uno di quegli antichi sepolcri in cui di frequente si imbatte chi viaggia nelle terre classiche con gli antichi oramenti e arredi disusati, propri di un mondo completamente diverso dal nostro ma in quel momento ancora nuovi.. L’intera concezione della natura è completamente diversa dalla nostra. Per Pico il mondo è uno spazio limitato, circondato da muri di cristallo, da un firmamento materiale; una sorta di giocattolo dipinto, questa mappa o sistema del mondo come un grande bersaglio o uno scudo nelle mani del Logos creatore, attraverso il quale il Padre crea tutte le cose quale lo vediamo in uno degli antichi affreschi del Campo Santo di Pisa. Com’è differente questa concezione infantile dalla nostra visione della natura, spazio illimitato di innumerevoli soli e la terra come un granello in un raggio; com’è differente questo strano timore, questa superstizione del quale essa riempie le nostre menti. “Le silence éternel des espaces infinis m’effraie” disse Pascal contemplando una notte stellata. Doveva essere piuttosto stanco, quando giunse a Firenze: Aveva molto amato e molto era stato amato, “vagabondo sulle colline illusorie del delizioso piacere”, ma il regno delle donne su di lui era giunto al termine, e molto prima del famoso rogo delle vanità di Savonarola egli aveva distrutto le proprie poesie d’amore in lingua volgare, che avranno un così garnde rilievo presso di noi, dopo la prolissità scolastica dei suoi scritti latini. Era con un altro spirito che egli compose un commentario platonico, la sola sua opera in italiano giunta fino a noi, sul “canto del Divino Amore” secondo la mente e l’opinione dei platonici cari al suo amico Geronimo Beniveni, nel quale presentando un’ ambiziosa serie di insegnamenti di ogni sorta e con una profusione di immagini tratte indifferentemente dagli astrologi, dalla Cabala, da Omero, dalla Scrittura, da Dionigi l’Areopagita, egli cercò di definire gli stadi attraverso i quali l’anima passa dalla bellezza terrena a quella invisibile. Un cambiamento era avvenuto in lui, come se il tocco della bellezza astratta e disincarnata venerata dai platonici fosse sceso su di lui.. Qualche barlume di ciò, giunto alla luminosità che nell’immaginazione popolare sempre risplende sulla morte precoce, fece dichiarare a Camilla Rucellai, una di quelle donne profetiche che la predicazione di Savonarola aveva infiammato in Firenze, quando lo vide per la prima volta, che egli sarebbe partito al tempo dei gigli, prematuramente, cioè, come i fiori di campo che appassiconoo per l’ardore del sole non appena sbocciati. Egli scrisse allora quei pensieri sulla vita religiosa che Thomas More tradusse in inglese, e che un altro traduttore inglse pensò di aggiungere al libro “dell’Imitazione di Cristo”. “Non è difficile conoscere Dio a condizione di non volerlo definire”: è un grande detto di Joubert. Scrive Pico ad Angelo Poliziano: “Noi possiamo amare Dio più di quanto possiamo conoscerlo o parlare di Lui. E finché si cerca con la conoscenza, non si trova mai quello che si cerca, mentre si possiede con l’amore ciò che senza amore si cercò in vano”. Nonostante questa fine sensibilità spirituale egli non potè mai – e in questo è il persistente interesse della sua storia – anche dopo la conversione, dimenticare gli antichi dei. Egli è uno degli ultimi che cercò seriamente e sinceramente di rivendicare la fede delle religioni pagane, ansioso di accertare il vero significato delle più oscure leggende, la più luminosa tradizione riguardo ad esse. Con molte idee e molta energia perseverò in questa direzione. Non divenne monaco, conservò “qualche cosa dell’antico fasto, le delicate vivande in piatti d’argento”, ma diede la maggior parte delle proprie ricchezze all’amico, il poeta mistico Beniveni, per utilizzarle in opere di carità, soprattutto la dolce carità di provvedere al matrimonio delle contadinelle di Firenze. La fine giunse nel 1494, quando, nel mezzo delle prediche e dei sacramenti di Savonarola, morì di febbre, il giorno stesso in cui Carlo VIII entrava a Firenze, il 17 di Novembre, nel tempo dei gigli – i gigli dello stemma di Francia, come disse il popolo, ricordando la profezia di Camilla. Fu seppelito nella chiesa conventuale di San Marco con il cappuccio e il bianco saio dei domenicani.

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