mercoledì, giugno 05, 2013

La maschera

Il jacarandà insinua
Il muso fiorito alla finestra
Ma la voce che ferisce
È quella del merlo sull'acacia
Se almeno mi fossi perso
Ora si! Potrei pregare
Di ritrovare la traccia
Dei chicchi di riso sulla sabbia
Delle gocce di latte sul muschio
Fino all'uscio del perdono
Fino alla soglia dell'abbandono
Di questa maschera codarda.

L'ampolla

Se non ti avessi conosciuto
La mia vita sarebbe stata
L'ampolla di un filtro obliato
La radura di un bosco dopo l'incendio
Un pugno di cenere nel calice
Da cui bevvi l'indecenza
L'avvilimento spaurito
Che mi rese fosco e contrito
Tra le unghie del peccato.

*

Le donne sul ponte

Le donne salutavano dal ponte
Con i fazzoletti intrecciati
Col bel vento tra i capelli
E le rime di labbra e denti
Ma tutta l'acqua del mare
Non avrebbe potuto lavare
L'amarezza del nostro cuore
I colpi secchi delle vele
Che si tendevano al maestrale
Ci ammonivano che il peccato
È nostalgia del dolore
Che non abbiamo accettato.

In questa lingua

In questa lingua giaccio
Come fosse la mia tomba
Senza lacrime, senza rimpianti
Solo l'erba cresce lenta
E la carezza dei fiumi
Rende lieve anche la terra.

*

la falce della luna

La falce della luna
Decapita i serpenti
ma quella del tuo sguardo
Recide anche i papaveri
Lascia che le tue unghie
Mi siano come stelle
Nel fondo dell'abbandono
Un alfabeto difforme.

La tigre va a caccia di scimmie

La tigre va a caccia di scimmie
Come s'è fatto amaro questo esilio
Le lacrime non hanno più sale
Sono così lunghe e ripide
Queste scale.
La tigre va a caccia di scimmie
Quando cadono foglie e pietre
Abbiamo nostalgia della vergogna
Un frutto di sangue ancora
Ci potrá forse salvare?
La tigre va a caccia di scimmie
Quanto mi manca quel male
Il peccato livido del temporale
Su panni stesi ad asciugare
Piú amaro dell'esilio
Ê mancare l'incontro con il perdono
Con il vento che ci abbandona
alla fissitá del fuoco.

genseki

Canción erronea

Chiami la luce e la luce viene a e come
Un animale trasparente. Tu
La accarezzi, essa ti lecca le mani. Si
Adagia nei tuoi occhi e
Nei tuoi occhi si incendiano
I numeri dispersi.

Davanti a te, la purezza e i suoi rettangoli:
Un abisso creato da domande bianche
In apparenza immobili.

Appariranno volti che forse hai amato.
Si, appaiono volti abitati e esatti
Ti possiede una passione: ora è
Visibile l'invisibile.

Altre volte, succede
Che la luce si congeda dalle tue mani e
Cerca la sua libertà e si converte in
Pulsazioni, in
Colori prigionieri che non hanno nome.

                                                             Si:
Procedono dall'abisso. Sono
Frutti incandescenti, consegnati
Da te alla libertà.

Dipingi ciò che non esistette mai: hai visto l'inesistenza e la incorpori e
L'inesistenza è reale e libera
Persino da se stessa.

*

Hai attraversato lentamente la città.
Per una volta non vai a lavorare
Né a comprare una medicina e neppure a consegnare una lettera:
Sei uscito solo per stare nella notte.

Questa volta sei stato fortunato:
Tutta la notte è tua e ti avvolge
E tu ti senti come e dovessi riunirti con tua madre e pensi
Che forse è buona cosa esistere sotto le stelle

Vai avanti nell'oscurità e poco a poco impari che anche
Camminare per strada e ascoltare i tuoi passi è una cosa buona
E sentire la notte di quelli che dormono
E capire che sono un essere solo,
Che riposa di una stessa fatica
Nello stesso sogno

Vai avanti, però.

Ora vedi
La povertà insonne, vedi il freddo
Bianco e carnale, e, finalmente, senti
Che pesa molto, troppo,
Il tuo cuore.

Così ritorni.

*

Uno sconosciuto abita in me. Agonizza e, per agonizzare utilizza il mio cuore.

Penso a mio padre impazzito per la visione di frutta molto fresca, penso all'amore e alla morfina. No non è
Mio padre, ma chi è allora che
Agonizza in me?

È possibile che sia proprio io quello sconosciuto e che il il mio cuore non sia il mio anche se ci metto i miei battiti. È possibile.

Davvero non è un problema. In ogni caso io sarò, e già lo sono,
Orfano di me stesso.

*

...
Io vivevo in una creatura e il suo sangue confluiva nel mio sangue e la musica mi avvolgeva e io stesso ero la musica.

                                                                                        Ora,

Chi è cieco nei miei occhi?

*

I tuoi capelli scendono come ala d'ombra ma splende il tuo corpo come luce dentro la neve.

Ruoti in te come un pianeta doloroso.

Nuda: arde
In te la bellezza e
La sua negazione. Pronunci
Come un'arpa discorde
L'ultimo gemito.

Sei tagliente e fredda come il frutto del sandalo, segreta e bianca come alabastro assiro.
Una rosa di fuoco sorge dal tuo ventre e
Clamorosa si apre
Nell'inguinale ombra. Poi mi entra negli occhi. Dove
Si calcinano i suoi petali.

Gamoneda

Trad. genseki

martedì, giugno 04, 2013

Manifesto per gli studi umanistici

C’è mai stato un momento nella storia americana in cui gli studi umanistici siano stati ritenuti meno preziosi, e c’è mai stato un momento nella storia americana nel quale gli studi umanistici siano stati più necessari? Sono onorato di potervi parlare stamattina, dato che negli ultimi anni sono arrivato a concepire l’impegno negli studi umanistici come un atto di ribellione intellettuale, o di dissidenza culturale.
Da decenni in America assistiamo a una denigrazione costante e nauseante della conoscenza umanistica e del metodo umanistico. Viviamo in una società inebriata dalla tecnologia, felicemente, addirittura inconsciamente, governata dai valori di utilità, velocità, efficienza e convenienza. La mentalità tecnologica – la lente attraverso la quale l’America guarda il mondo – ci addestra a preferire questioni pratiche a questioni di significato – ci si chiede non se le cose sono vere o false, se sono buone o cattive, ma come funzionano. La nostra ragione è diventata una ragione strumentale, non è più la ragione dei filosofi, con la sua antica magnitudo di ambizione intellettuale, la sua convinzione che i temi propri al pensiero umano siano i temi più vasti, e che la mente, in un modo o in un altro, possa penetrare i princìpi più autentici della vita naturale e della vita umana. La filosofia stessa è ripiegata sotto il peso della nostra debolezza nei confronti dell’utilitarismo – la filosofia moderna americana è stata in realtà una delle cause di tale debolezza – e generalmente anch’essa preferisce aggiustare e ritoccare.
Le macchine di cui siamo divenuti schiavi, tutte abbastanza stupefacenti, rappresentano il più grande attacco all’attenzione umana mai concepito: sono motori di dispersione mentale e spirituale, che ci rendono più grandi soltanto perché meno profondi. Ci sono pensatori, e anche rispettabili se riuscite a crederci, che proclamano che la crescita esponenziale dell’abilità computazionale ci porterà presto ben oltre la limitatezza dei nostri corpi e delle nostre menti in modo che, come uno di loro dice, non ci sarà più alcuna differenza fra uomo e macchina. La Mettrie vive nella Silicon Valley. Questa, ovviamente, non è un’apoteosi dell’umano, ma l’abolizione dell’umano; ma Google ne è particolarmente felice.
Nell’universo digitale, la conoscenza è ridotta allo status di informazione. Chi ricorderà più che la conoscenza sta all’informazione come l’arte sta al kitsch – che l’informazione è il tipo più infimo di conoscenza, dato che è il più esteriore? Un grande pensatore ebreo del Medioevo si chiedeva perché Dio, se davvero avesse voluto che conoscessimo la verità su tutto, non ci avesse semplicemente detto la verità su tutto. La sua saggia risposta fu che se ci avesse semplicemente detto quello che avevamo bisogno di sapere, noi non lo avremmo, a rigor di termini, conosciuto. La conoscenza si può acquisire soltanto nel tempo e solamente con metodo. E i dispositivi che ci portiamo in giro come se ne fossimo dipendenti stanno deturpando le nostre vite mentali anche in altri modi: ad esempio, generano un numero finora inimmaginabile di numeri, numeri su tutto quello che esiste, e ci trasformano in una cultura di dati, in un culto dei dati, nel quale nessuna attività umana e nessuna espressione umana è immune dalla quantificazione, nel quale la felicità è un soggetto adatto agli economisti, nel quale le traversie del cuore umano sono inappropriatamente traslate in espressioni matematiche, lasciandoci con nuove illusioni di chiarezza e nuove illusioni di controllo.
La sfavillante èra del tecnologismo è anche una sfavillante èra dello scientismo. Lo scientismo non è la stessa cosa rispetto alla scienza. La scienza è una benedizione, lo scientismo è una maledizione. La scienza – intendo quella che gli scienziati veri praticano – è ammirevolmente conscia dei suoi limiti, umilmente ammette il carattere provvisorio delle sue conclusioni; ma lo scientismo è dogmatico, e spaccia certezze. E’ sempre pronto a fornire soluzioni a ogni problema, dato che crede che la soluzione a ogni problema sia scientifica, e quindi fornisce risposte scientifiche a domande non scientifiche. Ma persino la questione del posto della scienza nell’esistenza umana non è una questione scientifica. E’ una domanda filosofica, cioè umanistica.
A causa della propensione alla spiegazione totalitaristica, lo scientismo trasforma la scienza in un’ideologia, il che è ovviamente il tradimento del suo spirito sperimentale ed empirico. Non esiste alcuna perplessità dell’umana emozione o dell’umano agire che non venga accreditata alla genetica o spiegata nei presuntuosi termini della biologia evoluzionistica. E’ vero che il gene egoista è stato recentemente rimpiazzato dal gene altruistico, più carino certamente, ma è comunque il gene che domina. Lo scientismo liberal non dovrebbe essere per noi più filosoficamente attraente dello scientismo conservatore, dato che anch’esso riduce con arroganza tutte le aree che abitiamo in una singola area, e ci fa cadere nella tentazione di credere che l’eschaton epistemologico sia finalmente arrivato, che finalmente conosciamo quello che abbiamo bisogno di sapere per gestire saggiamente gli affari umani. Questo credo è invariabilmente falso, e occasionalmente disastroso. Stiamo diventando ignoranti dell’ignoranza.
Non esiste quindi alcun compito più urgente nella vita intellettuale americana in questo periodo che offrire resistenza all’imperialismo combinato di scienza e tecnologia, e di ricostituire l’antica distinzione – una volta contestata duramente, poi generalmente accettata, ora quasi completamente dimenticata – tra lo studio della natura e lo studio dell’uomo. Come Bernard Williams una volta ha rimarcato, “‘umanità’ è un nome non solo per una specie ma anche per una qualità”. Voi che avete scelto di votarvi allo studio della letteratura e delle lingue e dell’arte e della musica e della filosofia e della religione e della storia – voi siete i rappresentanti di tale qualità. Voi siete la resistenza. Avete avuto la sfrontatezza di scegliere l’interpretazione rispetto al calcolo, e di riconoscere che il calcolo non può fornire un quadro accurato, o un quadro approfondito, o un quadro completo, di esseri che si autointerpretano quali noi siamo; e io vi elogio per questo.
Non credete alle voci che dicono che il vostro percorso è obsoleto. Se Proust fosse stato un neuroscienziato, allora non avreste alcun bisogno della neuroscienza, avendo Proust. Se Jane Austen fosse stata una studiosa della teoria dei giochi, allora non avreste alcuna ragione di dedicarvi alla teoria dei giochi, avendo Austen. Per opporsi all’accelerazione ciarliera della consapevolezza americana non vi è baluardo più grande dell’incontro con un’opera d’arte, e dell’esperienza di un testo o di un’immagine. Siete i rappresentanti, i residui salvifici di tale incontro e di tale esperienza, e del serio studio di tale incontro e tale esperienza – cioè, voi siete la controcultura. Forse ora la cultura è la controcultura.
Quindi non perdete la testa. Non esitate. Siate molto orgogliosi. Usate nuove tecnologie per vecchi scopi. Non fatevi innervosire dai numeri, che non saranno mai germogli di saggezza. Nel sostenere gli studi umanistici, onorate una civiltà che è stata fondata sulla ricerca del vero, del bene, del bello. Perché fino a che saremo creature senzienti, creature che amano e immaginano e soffrono e muoiono, gli studi umanistici non saranno mai superflui. Da oggi in poi agite come se foste indispensabili alla vostra società, perché – che essa ne sia consapevole o no – lo siete.

di Leon Wieseltier
è il capo della cultura del magazine The New Republic. Questo è il discorso che l’intellettuale liberal ha tenuto alla cerimonia della consegna dei diplomi alla Brandeis University, il 19 maggio scorso.
    (traduzione di Sarah Marion Tuggey)

domenica, giugno 02, 2013

Nunca, nada, nadie

Una trentina di bagnanti,dispersi sulla spiaggia  o in acqua, riempiono di grida e di voci l'aria calcinata. Restano immobili o si agitano, o passeggiano nella luce che declina. Quelli che restano nel fiume fanno risuonare, con bracciate e scalciando, l'acqua, creando sulla superficie tumulti bianchi. I corpi tagliano,con il loro andirivieni, lo spazio che si apre,  la casa e l'isola. Il fiume,  di un viola scialbo, corre tra la sabbia giallognola e il verde ora stinto dell'isola. Tutti i bagnanti si mantengono presso questa riva. Tuttavia, uno di loro, che si è spinto fino all'altra riva e che si è mosso sott'acqua, emerge improvvisamente presso l'isola. Il suo corpo abbronzato esce completo dall'acqua e comincia a salire, inclinato, posando i piedi con cautela, lo scoscendimento. Si ferma rigido sul bordo, le mani sui fianchi e guarda verso la spiaggia, Alza le braccia ora, fa  grandi segnali incomprensibili, ora porta le mani alla bocca per farne una sorta di amplificatore, e gridare verso la spiaggia.

Quando chiudo la porta, odo ancora quelle grida e quelle di una donna, da questo lato del fiume, che risponde. Stanno nell'abitazione bianca, nell'appartamento dalle piastrelle colorate, dietro di me, di fronte a me, dall'altro lato della stanza, porte nere. Il ronzio che viene su dalla spiaggia, sul quale zampillano, a tratti grida acute, è continuo. Attraverso lentamente la stanza: la gamba sinistra, la destra, la sinistra, la destra, la sinistra ora, la destra un'altra volta, apro la porta nera adesso e entro nella seconda stanza. La prima stanza resta indietro. Adesso chiudo dietro di me la porta nera.

Dietro di me resta la porta nera, e alla mia destra, nella parete laterale, un'altra porta nera. Poi c'è una porta anch'essa nera, nella parete bianca, oltre lo spazio vuoto e dell'appartamento coperto di piastrelle colorate. Girando verso la porta laterale, sinistra, destra, adesso sinistra, adesso destra, apro la porta nera che lascio, dietro di me, dopo aver varcato la soglia, socchiusa. Il rumore della spiaggia continua, adesso più soffocato: nessun grido si eleva sul volume uniforme.

Sono nudo. La maglietta bianca riposa, come un mucchietto umido, al suolo: trascorrono alcuni secondi in cui non faccio nulla.

Adesso la pioggia tiepida, scorre, con un mormorio monotono, sul mio corpo, spazza via, poco a poco il sapone: Resto con gli occhi chiusi, senza pensare in nulla, senza ricordare niente, nella pioggia tiepida, aiutando, con le mani, a togliere il sapone con l'acqua: senza pensare niente e senza ricordare niente, in una oscurità che solo riempie il rumore dell'acqua.
 
Juan José Saer
Trad. genseki

Pavel Florenskij

“La mia casa è piccola, la mia vita è breve, la e la mia misura è quella dell’uomo. Senza amarezza e senza ira, ubbidendo semplicemente alle esigenze della vita e della mia responsabilità verso la vita, io volto le spalle alla vita intesa come puro divertimento e vivo come ritengo giusto”. 
Pavel A. Florenskij

¿Qué es fenomenología? Edith Stein

venerdì, maggio 31, 2013

La regola del trionfo tramite il fallimento

«Il trionfalismo nella Chiesa, ferma la Chiesa. Il trionfalismo nei cristiani, ferma i cristiani. E’ una Chiesa trionfalista, è una Chiesa a metà cammino, una Chiesa che è felice così, ben sistemata – ben sistemata! - con tutti gli uffici, tutto a posto, tutto bello, eh? Efficiente. Ma una Chiesa che rinnega i martiri, perché non sa che i martiri sono necessari alla Chiesa per il cammino di Croce. Una Chiesa che soltanto pensa ai trionfi, ai successi, che non sa quella regola di Gesù: la regola del trionfo tramite il fallimento, il fallimento umano, il fallimento della Croce. E questa è una tentazione che tutti noi abbiamo».
 Francesco I

giovedì, maggio 30, 2013

Le chiavi errate

Nel suo commento al Salterio il grande maestro alessandrino Origene (III sec.) racconta che un dotto ebreo, probabilmente un membro dell'accademia rabbinica di Cesarea, gli aveva paragonato le Sacre Scritture ad un grande palazzo con molte, moltissime stanze. Davanti ad ogni stanza c'è una chiave, ma non è quella giusta. Le chiavi di tutte le stanze sono scambiate: trovare le chiavi giuste che aprono le porte è compito di chi spiega la Bibbia.

Ravasi

Roger Scruton

L’unione eterosessuale è pervasa dal senso che la natura sessuale del partner ci sia estranea, un territorio nel quale si entra senza una conoscenza a priori e dove l’altro, e non il Sé, è l’unica guida attendibile. Questa esperienza ha ripercussioni profonde sul nostro senso del pericolo e del mistero dell’unione sessuale, e tali ripercussioni fanno sicuramente parte di ciò che la gente aveva in mente quando ha dato al matrimonio la sua veste di sacramento e attribuito alla cerimonia il ruolo di rito di passaggio da una forma di sicurezza a un’altra. Il matrimonio tradizionale non era solo un rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, né l’unico modo di approvare e garantire l’allevamento dei figli. Era anche una drammatizzazione della differenza sessuale: la distanza che il matrimonio manteneva tra i sessi era tale che il loro congiungersi diventava un balzo esistenziale più che un esperimento transitorio. L’intenzionalità del desiderio ne era plasmata e anche se questo modellamento era – a qualche livello profondo – un universale culturale e non umano, donava al desiderio la sua nuzialità intrinseca e al matrimonio il suo fine di passaggio da uno status a un altro. Considerare il matrimonio gay semplicemente come un’altra opzione all’interno dell’istituzione significa ignorare che è proprio l’istituzione a dare forma alla motivazione per entrarvi. Il matrimonio si è sviluppato sull’idea della differenza sessuale e su tutto ciò che essa significa: rendere questa caratteristica incidentale invece che essenziale significa cambiare il matrimonio fino a non riconoscerlo più. I gay vogliono il matrimonio perché vogliono l’avallo sociale che comporta; ma se accettiamo questo tipo di unione, lo priviamo del suo significato sociale, come la benedizione conferita ai vivi da chi non è ancora nato. Pertanto, la pressione esercitata per l’accettazione dei matrimoni gay è, in una certa misura, controproducente. Assomiglia a ciò che ha fatto Enrico VIII per ottenere l’approvazione ecclesiastica al suo divorzio, nominandosi capo della Chiesa: la Chiesa che ha accettato il suo divorzio non era più la Chiesa di cui egli cercava l’avallo.
Questo non altera il fatto che il matrimonio gay alimenti la propensione occulta dello Stato postmoderno a riscrivere tutti i vincoli come fossero contratti tra i vivi. È praticamente una certezza che lo Stato americano, agendo attraverso la Corte Suprema, “scoprirà” un diritto legale per il matrimonio gay, esattamente come ha scoperto diritti costituzionali per l’aborto e la pornografia, e come – quando gli sarà chiesto – scoprirà il diritto a un divorzio “senza colpevoli” così da non avere, in pratica, alcuna motivazione.
Chi si angustia per tutto ciò e vuole esprimere la sua protesta dovrà lottare contro potenti forme di censura. La gente che dissente da ciò che sta rapidamente diventando un’ortodossia nella questione dei “diritti dei gay” è regolarmente accusata di “omofobia”. In tutta l’America ci sono comitati, preposti alle nomine di candidati, che li esaminano attentamente per sospetta omofobia, e certuni vengono sommariamente liquidati una volta che sia stata formulata l’accusa: “No, non si può accettare la richiesta di quella donna di fare parte di una giuria in un processo, è una cristiana fondamentalista e omofobica”; “No, anche se è un’autorità mondiale in materia di geroglifici della 11 Dinastia, non si può farlo entrare di ruolo all’università dopo quella sua filippica omofobica di venerdì scorso”. Questa censura promuoverà la causa di chi si è impegnato a “normalizzare” l’idea dell’unione omosessuale: non sarà possibile opporsi, non più di quanto sia stato possibile opporsi alla censura femminista sulla verità della differenza sessuale. Forse, fra adulti consenzienti, solo in privato, sarà possibile coltivare il pensiero che il matrimonio omosessuale non sia affatto un matrimonio.

mercoledì, maggio 29, 2013

Se te ne vai

Si tu t'en vas
Si tu t'en vas un jour
Tu m'oublieras
Les paroles d'amour
ne voyag' pas
Si tu t'en vas
La mer viendra toujours vers le rivage
Les fleurs sauvages
Dans les blés lourds viendront toujours...

Si tu t'en vas
Si tu t'en vas un jour
Tu m'oublieras les blessures d'amour
Ne s'ouvrent pas
Si tu t'en vas
La source ira toujours grossir le fleuve
Les amours neuves
Vers les beaux jours Iront toujours...

Si tu t'en vas
Si tu t'en vas un jour
Tout finira
Les choses de l'amour
Ne vivent pas
Si tu t'en vas
La mort vaincra toujours la fleur de l'âge
C'est son ouvrage
Malgré l'amour
Qui meurt toujours...

Si tu t'en vas
Si tu t'en vas un jour
Rappelle-toi
Les paroles d'amour
Ne s'envol'nt pas
Si tu t'en vas
Au-delà de la vie vers la lumière
O? les prières
N'arrivent plus
Ell's sont perdues...

Si tu t'en vas
Si tu t'en vas un jour
Dans ces coins-là
Nous parlerons d'amour
Comme autrefois...
Si c'est possible!


Léo Ferré


*

Léo Ferré

Se te ne andrai
Se un giorno te ne andrai
Mi scorderai

Detti d'amore
Viaggiar non sanno

Se te andrai
Non cesserà giammai
L'onda del mare
Di tornare alla riva
E tra le spighe gonfie
Di spuntare il papavero

Se te ne andrai
Se un giorno te ne andrai
Mi scorderai

Dolor d'amore
Non apre ferite

Se te ne andrai
Se un giorno te ne andrai
Non cesserà la fonte
Di diventar torrente

E agli amori novelli
Saranno lieti i giorni

Se te ne andrai
Se un giorno te ne andrai
Sarà la fine

Gioia d'amore
Non sopravvive

Se te andrai
La morte vincerà
La giovinezza
Ligia alla legge
Che fa che amore
Debba sempre morire...

Se te ne andrai
Se un giorno te ne andrai
Ricorderai
I bei detti d'amore
Non volan via
Se te ne andrai
Da questa vita verso la luce
Ove la voce delle preghiere
Più non risuona
Sono perdute...

Se te andrai
Se un giorno te ne andrai
In quel cantuccio
Non cesserai
Di ragionare con me d'amore...
Sarà possibile?

Trad genseki



Juan José Saer

Le vecchine di Parigi

Juan José Saer

...perché a Parigi abbondano le vecchiette  nobili, borghesi, piccolo-borghesi o proletarie, zitellone amareggiate o donne libere ostinandosi a non perdere la propria orgogliosa indipendenza, vedove di notai o di medici, di commercianti o di autisti del metro, ex bottegaie o professoresse di canto o disegno in pensione, scrittrici di romanzi nel pieno della loro  attività, russe emigrate, californiane, vecchie ebree scampate alla deportazione e, persino, antiche "cocottes", obbligate a ritirarsi da un censore più severo che i buoni costumi, cioè il tempo: la luce del giorno le vede riapparire ogni mattina, impeccabili o quasi straccione, secondo la loro condizione, mentre studiano dubbiose gli scaffali multicolori dei supermercati, o, se il tempo è bello,, sulle panchine verde scuro della piazza e dei viali, sedute da sole e tese o in animata conversazione con qualche altro esemplare della propria specie, o i intente a distribuire briciole ai colombi con gesti che già sono stati immortalati dalle cartoline; alla mattina, in primavera, si possono scorgere, in déshabillé, protese verso il vuoto della finestra di un quinto o sesto piano mentre annaffiano con attenzione gerani fioriti. All'interno dei palazzi, le si vede scendere o salire le cale, lente e prudenti, con una borsa di provviste o un cagnetto nervoso, puerile e un po' ridicolo che portano in braccio e di cui parlano a volte con qualche vicino usando un gergo di analisi psicologico che nessuno psicologo oserebbe mai applicare a un essere umano. Quando sono troppo vecchie l'ospizio o la morte le diradano, senza che, tuttavia, il loro numero diminuisca, poiché nuove leve di vedove, divorziate, zitellone, dopo il lasso di tempo irreale e troppo lungo che si suole chiamare vita attiva, vengono a sostituirle, avendo ormai sepolto tutti i parenti e i conoscenti, incoscienti e rassegnate.
L'ostinazione a perdurare, ancor più misteriosa che il concorso di circostanze che mise in moto il mondo e poi anche loro - e noi con loro - le va depositando nei loro esigui appartamenti, pieni di carabattole, ricami, tovaglie ricamate prima della guerra e tappeti consumati, mobili di famiglia e bauli, cassetti pieni di medicine, di servizi di posate del secolo scorso di foto ingiallite sul marmo dei comodini. Alcune vivono ancora in famiglia, la maggioranza, però, già non ha più nessuno o preferisce vivere da sola; le statistiche - voglio che reti ben chiaro dal principio che questa narrazione è vera - hanno dimostrato che a qualunque, età, in generale le donne sopportano meglio la solitudine e sono più indipendenti degli uomini. Comunque, il fato è che sono numerose, e sebbene le statistiche hanno dimostrato che in generale i ricchi vivono più a lungo dei poveri, ve ne sono di tutte le classi sociali, e sebbene dai vestiti e dai luoghi dove vivono si possono intuire le loro origini e i mezzi di cui dispongono, tutte hanno i tratti comuni propri del loro sesso e della loro età: il passo lento, le mani rugose e piene di macchioline scure, la dignità leggermente artritica dei gesti, la malinconia evidente degli inconcepibili ultimi giorni, gli organi parsimoniosi e i riflessi indecisi e senili, per non parlare delle molteplici operazioni cesaree, estrazioni di denti e calcoli, asportazioni di seni, eliminazioni di citi e tumori, deformazioni reumatiche, disturbi neurologici, la cecità progressiva o la sordità totale, i seni che si sgonfiano e si seccano e la natiche che s disfano, infine, la leggendaria fenditura che espelle letteralmente non sol l'uomo ma il mondo, la ferita rosa che si secca, si fa spiraglio e si addormenta.
Tuttavia, se la notte le inghiotte, con lo spuntar del giorno, eccole, come dicevo, ricomparire, e quelle che non si sono lasciate corrodere dalla disperazione, dalla miseria, dalle illusioni perdute, la tristezza, fioriscono al mattino con i cappellini fuori moda, i cappottini seri, il maquillage discreto, trottando come i loro botoli o scendendo cinque o sei piani di scale per andare a comprare il mangime ai gatti o ai canarini, oppure la rivista dei programmi TV, o, perché no, talvolta al ristorante da usciranno nel primo pomeriggio per andare a visitare un conoscente all'ospedale o, molto più probabilmente, per andare al cimitero a rassettare la  tomba di qualche parente, fatte quasi, da materia che furono, simbolo, idea, metafora o principio.
Certo è che sono un elemento topico di questa città, un dettaglio di colore locale, come il Louvre, L'Arco di Trionfo o i vasi di gerani alle finestre, della cui esistenza, bisogna riconoscerlo, contribuivano più di chiunque altro con gli innaffiatoi di plastica e le piccole anfore di acqua mattutina. Come premio, forse del loro lavoro volto a preservare e persino a moltiplicare uomo e mondo nella rete delle loro viscere tanto concupite, o per pura casualità, in virtù di un ordine aleatorio di tessuti, di sangue e di cartilagini, fu concesso a molte di loro di persistere un pochino di più degli altri, ai margini del tempo, come quelle "piare" del fiume ove l'acqua pare trattenersi e allisciarsi secondando una fora invisibile che frena la corrente orizzontale, ma trascina inesorabilmente e verticalmente fin sul fondo.
Benché in apparenza siano inoffensive, a volte possono risultare irritanti, oppure come se la coscienza della loro fragilità, che paradossalmente le induce a credersi invulnerabili, conferisce una certa sicurezza alle loro opinioni e convertirle in portavoce della loro epoca di modo che, in un certo senso le loro severe osservazioni sulla porta di una panetteria, le loro analisi sociologiche all'ora del te, i  commenti meccanici fatti da sole ad alta voce, davanti ala televisione, rivelano di più sul presente che i discorsi dei cosiddetti politici, specialisti in scienze umane e giornalisti, la conversazione quotidiana di una anziana con il suo canarino, mentre pulisce la gabbietta, è, forse l'unico dibattito serio dei tempi moderni, e non quelli che hanno luogo nelle camere, nei tribunali o alla Sorbona.

Da: "La Pesquisa"

Trad. genseki

venerdì, maggio 24, 2013

Merleau-Ponty

"...impariamo a veder nuovamente il mondo attorno a noi da cui ci eravamo distolti nella convinzione che i nostri sensi non potessero insegnarci nulla di valido e che solo un sapere rigorosamente oggettivo meritasse di esser preso in considerazione...In un mondo così trasformato non siamo soli, e non siamo soltanto tra uomini. Questo mondo si offre anche agli animali, ai bambini, ai primitivi, ai pazzi, che lo abitano a modo loro e che coesistono con esso" (Maurice Merleau-Ponty)

giovedì, maggio 23, 2013

Logica e simbolica

“Oggi muore una società fondata sul primato del ‘logico’... Ecco perché è venuto il momento ... non già, come si dice spesso oggi, di ‘cambiare paradigma’, ma di introdurre un altro paradigma e di integrarvi i nostri. L’ipotesi, condivisa da molti e che faccio mia, è che l’epoca attuale ci inviti a reintrodurre il simbolico, vale a dire il primato del legame nella struttura e nella vita del reale, nel desiderio e nel sapere umani”.

                              Gh. Lafont, Che cosa possiamo sperare?, Bologna , EDB, 2011, 10-11

Essere ribelli

Esistere, significa combattere ciò che mi nega. Essere ribelli non è collezionare libri empi, sognare fantasmagorici complotti o la resistenza partigiana nelle Cevenne. Significa essere norma per se stessi. E attenervisi, a qualunque costo. Badare a non guarire mai dalla propria giovinezza. Preferire inimicarsi il mondo intero, piuttosto che strisciare. Praticare anche, come un corsaro e senza vergogna, il diritto di preda. Saccheggiare nell’epoca tutto ciò che è possibile convertire alla propria norma, senza fermarsi alle apparenze. Nella sconfitta, non porsi mai il problema dell’inutilità di un combattimento perduto. Si pensi a Padrig Pearse.

Dominique Venner

Da "eléments" via Barbadillo