domenica, gennaio 22, 2012
La prossimitá della follia
L'incapacità di riconoscere la follia, non ha proprio nulla di singolare, e oserei dire, che è piuttosto prossima a essere la norma, non si tratta di un fenomeno relativo a individui isolati, ma a intere nazioni che, come la storia ben lo insegna, spesso, a causa di tale influenza (...), si lasciarono condurre verso l'abisso dalla strana capacità di persuasione che possiede la logica apparentemente senza difetti del delirio, sebbene in essa tutto sia in sé contraddizione.
Juan José Saer
da "Le nubi"
trad. genseki
venerdì, gennaio 20, 2012
La posizione della finitudine
In che cosa consiste situarsi in modo corretto nella coscienza compiutamente posseduta della propria finitudine?
In primo luogo va detto qualche cosa a proposito di questa finitudine in relazione con il noi o con l'io di cui costituisce il limite.
La finitudine non è esattamente la morte. Perché anche in una prospettiva cristiana o induista i resurrezione o di reincarnazione quello che risulta cancellata è la morte ma non la finitudine, posto che sia la reincarnazione sia la resurrezione sono innegabilmente discontinuità che si articolano in fine e principio.
Pensare la propria finitudine è un esercizio ben arduo posto che, in realtà quello che siamo stati educati a fare è cercare in tutti i modi di considerarla superata, di stabilirci nel terreno sicuro della durata, sul suolo stabile dell'eternità.
Siamo stati educati a credere in valori che non periscono, a lottare per fini eterni, a stabilire principi immutabili. A pregare Dio.
Tutte cose, queste, assolutamente incompatibili con la nostra lamentevole finitezza.
Questo vale per coloro che hanno ricevuto un'educazione religiosa come per coloro che sono stati tirati su nell'ateismo, nell'agnosticismo, nell'epicureismo o nell'indifferenza.
Pensare la propria finitudine a partire dalla propria finitudine significa inevitabilmente pensare a partire da un dove che ha da essere un quivi e che non può essere mai uno dei tanti altrove. Un quivi definito nel senso strettissimo della sua infima spazialità, mettiamo che sia non più di un tatami, non può certo essere un quivi maggiore di un tatami!
Vi sono due modi principali di stare nel quivi, due tra molti. Uno è quello di radicarsi nel quivi come se si dovesse resistere ai venti pugnaci dell'altrove e come se il quivi fosse superiore all'altrove; l'altro è quello di considerare il quivi uno dei possibili altrove, cioè un caso particolare dell'altrove che per la coscienza della finitudine ci contiene come un quivi e non come un ovunque.
La coscienza finita è coscienza di stare sempre qui. Non perché quivi siano contenuti tutti gli altrove ma perché quivi è il solo altrove possibile per una coscienza finita.
Bisogna che il quivi della coscienza finita non è la negazione dell'altrove, è la forma dell'altrove dal punto di vista della finitudine. Insomma un tatami. La vita quotidiana nelle condizioni attuali, quasi ci obbliga a situarci nell'altrove.
genseki
lunedì, novembre 28, 2011
Heirich Heine
Crepuscolo
Sulla pallida riva del mare
Sedevo solo coi miei pensieri cupi.
Il sole calava all'orizzonte spargendo
Raggi rossi, roventi sull'acqua,
Bianche ampissime onde
Spinte dalla mareggiata
Spumeggiando rompevano con intenso fragore -
Un raro brontolio, sibili, sussurri,
Risa, mormori, sospiri e ronzi
Si confondevano con una ninna nanna.
Mi pareva di udire l'eco delle antiche saghe
Delle care favole arcaiche
Che da bambino
Udivo dai figli dei vicini
Quando nelle sere d'estate
Sugli scalini di pietra del portone
Quieti in circolo accoccolati
Ascoltavamo
Con piccoli creduli cuori
Ed occhi furbi e curiosi,
Mentre le ragazzine,
Accanto ai vasi di fiori profumati
Sedevano di fronte alla finestra,
Con volti di rosa,
Sorridendo alla luce della luna.
trad. genseki
Sulla pallida riva del mare
Sedevo solo coi miei pensieri cupi.
Il sole calava all'orizzonte spargendo
Raggi rossi, roventi sull'acqua,
Bianche ampissime onde
Spinte dalla mareggiata
Spumeggiando rompevano con intenso fragore -
Un raro brontolio, sibili, sussurri,
Risa, mormori, sospiri e ronzi
Si confondevano con una ninna nanna.
Mi pareva di udire l'eco delle antiche saghe
Delle care favole arcaiche
Che da bambino
Udivo dai figli dei vicini
Quando nelle sere d'estate
Sugli scalini di pietra del portone
Quieti in circolo accoccolati
Ascoltavamo
Con piccoli creduli cuori
Ed occhi furbi e curiosi,
Mentre le ragazzine,
Accanto ai vasi di fiori profumati
Sedevano di fronte alla finestra,
Con volti di rosa,
Sorridendo alla luce della luna.
trad. genseki
Ritratto di Lisi che conserva in uno scrigno
In picciol carcer tengo imprigionato
Con la famiglia intera d'oro ardente
Il cerchio della luce risplendente,
L'impero grande dell'amor serrato.
E meco porto il pascolo stellato
Dell'alte fiere dal pelo rilucente
E ben celato al cielo de all'Oriente.
Dì luminoso parto migliorato
Porto le Indie tutte nella mano,
Perle che, in un diamante, quai rubini,
Pronunciano con sdegno vocal gelo;
Van ragionando poi fuoco tiranno
Lampi d'un bel sorriso di carmino
Aurore e gale che son pompa al cielo.
*
Quevedo
Trad. genseki
Con la famiglia intera d'oro ardente
Il cerchio della luce risplendente,
L'impero grande dell'amor serrato.
E meco porto il pascolo stellato
Dell'alte fiere dal pelo rilucente
E ben celato al cielo de all'Oriente.
Dì luminoso parto migliorato
Porto le Indie tutte nella mano,
Perle che, in un diamante, quai rubini,
Pronunciano con sdegno vocal gelo;
Van ragionando poi fuoco tiranno
Lampi d'un bel sorriso di carmino
Aurore e gale che son pompa al cielo.
*
Quevedo
Trad. genseki
Quevedo
Conto ormai cinquantadue anni e in essi conto altrettanti funerali di me stesso. Irrevocabilmente morì la mia infanzia, la mia adolescenza, la mia gioventù, e anche la pienezza della mia matura etá. Allora come posso chiamare vita questa vechiezza che è sepolcro nel quale io stesso sono la salma di cinque defunti che ho vissuto?
Lettera a Miguel Serrano del Castillo del 16 Agosto 1653
Trad genseki
**
.
venerdì, novembre 25, 2011
José Bergamín
Il pensamento in sogno trasmutai.
Dante
Mi persi in un bosco oscuro
Sulla riva del mare
E non tornai a incontrare
Nessun cammino sicuro.
Come impossibile muro
Che non si può varcare
Sentii delle stelle il brillare
Nella notte così puro.
Come se il sentimento
Di verità si illuminasse
Simile al firmamento;
Come se si tramutasse
In sogno il mio pensamento
E il cielo lo rispecchiasse.
*
Sonetto inverso
Non so perché sto pensando
Che pur mi tocca morire
Ignorando come e quando.
Inorando come e quando
E dove, mi metto a vivere
Come se stessi aspettando.
Come se stessi aspettando
Di potermi addormentare
Ché non posso continuare
A senir che sto sognando.
A sentir che sto sognando
Per smettere di sentire
Che mi toccherà morire
Ignorando come e quando.
*
Trad genseki
Dussel
L'Altro non lo vedo come libero, come esteriorità; non lo posso pensare, è impensabile, perché l'Altro, lui si rivela a partire da sé, in modo che si trova oltre il logos; è quello che cercava Feuerbach, quello che cercava Heidegger. “Oltre la totalità si trova l'Altro nella sua lbertà, nella sua parola che irrompe sempre come ciò che interpella, perché sorge da oltre la totalità, come ciò che ancora non ha senso, perché appunto si trova oltre ogni senso. Se parla come ciò che già ha un senso vuol dire che è ontico, mondano.
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L'Altro parla e la sua parola trova in me, non un occhio, bensì un orecchio. Per i greci e i moderni, il mondo è l'ambito della luce, lumen, “l'intelletto agente” è luce che illumina. L'intellegibile è l'illuminato, La parola dell'Altro, tuttavia, si trova oltre, nell'oscurità; in modo che la sua parola irrompe da oltre la luce.
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Nell'esperienza del faccia-a-faccia riconosco l'Altro come ciò che si trova oltre il mio mondo. Per questo, sto esplrando il limite del mio mondo; mi sto riconoscendo come non unico, bensì finito.
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Nell'esperienza del faccia-a-faccia riconosco l'Altro come ciò che si trova oltre il mio mondo. Per questo, sto esplrando il limite del mio mondo; mi sto riconoscendo come non unico, bensì finito.
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Il codice di Hamurabi, antico (una piccola lapide nera del Louvre) dice: “Ho fatto giutizia alla vedova, all'orfano e al povero”, queste paroel non le avrebbe mai scritte un greco e nemmeno un moderno. Vediamo che cosa significano. La vedova non è una donna qualsiai, è la donna senza casa e la donna senza casa nel mondo mesopotamico è l'Altro perché è colei che resta esposta alle intemperie. L'orfano non è come tutti i bambini è il bambino senza casa, quello che sta alle intemperie. Il povero, in questo caso è il nulla, senza città, senza città. La vedova, l'orfano e il povero, tutti e tre, sono l'esteriorità della totalità, chi sa far loro giustizia si apre all'esteriorità e ha una nuova esperienza dell'essere. Hamurabi era semita. Aristotele non disse mai nulla di simile nella Nicomachea, disse, invece: “l'amore è tra eguali” e quindi amore per quanti stanno nella totalità.
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Solo morendo alla quotidianità del mondo è come accade il pensiero filosofico, Chi non rinuncia mai alla quotidianità non può essere filosofo, chi si protegge nella sicurezza della totalità è morto
Solo morendo alla quotidianità del mondo è come accade il pensiero filosofico, Chi non rinuncia mai alla quotidianità non può essere filosofo, chi si protegge nella sicurezza della totalità è morto
e non può pensare.
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La cosa più reale di tutto quanto è esteriore al mondo è proprio l'altro uomo in quanto è libertà.
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L'altro che si rivela sorge oltre quello che per me è l'essere.
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Un grande pensatore antihegeliano dice giustamente: “dall'ascoltare silenzioso sorge la comunià”. Chi è capace di ascoltare l'altro in quanto altro è capace di costituire una comunità e non una società totalizzata.
Abramo
Abramo
Ritorno ad Abramo. Era tanto tempo che non mi ricordavo di lui. Eppure improvvisamente ho sentito tutta la nostalgia di non appartenere più alla sua discendenza, di non fare parte dei suoi eredi. Sarebbe bello, quando sarà giunto il momento, sentire di reclinare il capo tra le braccia di Abramo.
Trovare la pace nell'essere parte della sua famiglia, nel sapere di essere foglia che si separa da quel vecchio albero che sempre rinnova in freschi polloni.
Ho spesso lasciato tutto quello che avevo per ricominciare altrove seguendo la voce del dio vanitoso del mio capriccio. Forse la voce, l'intenzione, la chiamata erano il frutto di superficialità, ma la partenza, l'abbandono stavano su di un altro piano, Nel movimento, non nelle se ragioni si nascondeva una qualche verità.
genseki
In fondo alla valle di latte
In fondo alla valle oscuro come un ragno
Il borgo aveva assassinato i suoi torrenti
I fiumiciattoli e i rigagnoli
Sibilando sgangherato da mille sirene
Chiamava all'appello dell'assenzio
Le biciclette sconquassate
Mentre gli assi e i fanti di coppe
Si accomodavano in terza classe.
L'erba si faceva amara e fredda
Il latte sceglieva di scorrere
Ora per le vene piú profonde della terra-
**
Il borgo aveva assassinato i suoi torrenti
I fiumiciattoli e i rigagnoli
Sibilando sgangherato da mille sirene
Chiamava all'appello dell'assenzio
Le biciclette sconquassate
Mentre gli assi e i fanti di coppe
Si accomodavano in terza classe.
L'erba si faceva amara e fredda
Il latte sceglieva di scorrere
Ora per le vene piú profonde della terra-
**
Barnagasso
Barnagasso soleva sedere di fronte al mare,
con il suo fascio di notizie fresche
Con il cartoccio di mitili stanchi
E il fez
I grossi piedi ben piantati nella sabbia
Respirava la frescura salina
Di ogni infrangersi di tutto quello che era schiuma
Signore dell'onda estrema, Barnagasso,
Dal gesto lento e unto
Conosceva per nome le alghe
Che si abbracciavano alle sue caviglie
Dietro il capo una corona di palme
Oscillava al ritmo di un salmo copto
Barnagasso era là quando le colonne del mare
Furono piegate dal firmamento
Ora traeva melodia dalla curva delle onde
Morte sulla rena bianca
A pochi millimetri dal suo alluce
Il fez macchiato di sudore.
con il suo fascio di notizie fresche
Con il cartoccio di mitili stanchi
E il fez
I grossi piedi ben piantati nella sabbia
Respirava la frescura salina
Di ogni infrangersi di tutto quello che era schiuma
Signore dell'onda estrema, Barnagasso,
Dal gesto lento e unto
Conosceva per nome le alghe
Che si abbracciavano alle sue caviglie
Dietro il capo una corona di palme
Oscillava al ritmo di un salmo copto
Barnagasso era là quando le colonne del mare
Furono piegate dal firmamento
Ora traeva melodia dalla curva delle onde
Morte sulla rena bianca
A pochi millimetri dal suo alluce
Il fez macchiato di sudore.
venerdì, novembre 18, 2011
Reincarnazioni
Le chiese nere come ceppi carbonizzati
In tutto quel gemere d'oro crepuscolare
Nello scricchiolare senile delle roveri
E gli sbadigli sarcastici dei lupi
Ci chiamavamo ad una festa di campanili
Ad un'aurora di colombe tra i coppi e gli abbaini
Allora fu lo strepito degli zoccoli sul selciato
Che bruciò quella possibile reincarnazione
A farci restare da questo lato dello specchio
A contare le banconote del riscatto
Sull'erba troppo verde di un campo di golf
In saldo.
*
Non era possibile svegliarsi
Nella notte di bronzo dello specchio
Per vomitare tutto quello zinco
Sulle felci lavate dalla luna.
*
In tutto quel gemere d'oro crepuscolare
Nello scricchiolare senile delle roveri
E gli sbadigli sarcastici dei lupi
Ci chiamavamo ad una festa di campanili
Ad un'aurora di colombe tra i coppi e gli abbaini
Allora fu lo strepito degli zoccoli sul selciato
Che bruciò quella possibile reincarnazione
A farci restare da questo lato dello specchio
A contare le banconote del riscatto
Sull'erba troppo verde di un campo di golf
In saldo.
*
Non era possibile svegliarsi
Nella notte di bronzo dello specchio
Per vomitare tutto quello zinco
Sulle felci lavate dalla luna.
*
Leggende
Tutte quelle monete quei dobloni
Il mantello grigio del pellegrino cucito con steli di verbena
Il rovescio cupo della sorgente
E il sorriso di lucertola della vergine
Accoccolata sotto il frassino
Mentre non cessava di sgocciolare
dalle cortecce ricamate di lichene
Come stole del tempo d'avvento.
D'un avvento infatti restavamo in attesa
Ignari di misteri e di soteriologia
Consci come rospi della soffocante
Fecondità di tutta quella vita nell'estremità dell'autunno
Erano pozzi tra muschio e grandine
Gli occhi delle nostre anime
Bevevamo l'elisir di ortica
Con le mani nel tesoro del pellegrino
Il suo rosario sgranato nella tosse della sorgente
Ci rammemorava il prezzo del sangue versato.
*
Il mantello grigio del pellegrino cucito con steli di verbena
Il rovescio cupo della sorgente
E il sorriso di lucertola della vergine
Accoccolata sotto il frassino
Mentre non cessava di sgocciolare
dalle cortecce ricamate di lichene
Come stole del tempo d'avvento.
D'un avvento infatti restavamo in attesa
Ignari di misteri e di soteriologia
Consci come rospi della soffocante
Fecondità di tutta quella vita nell'estremità dell'autunno
Erano pozzi tra muschio e grandine
Gli occhi delle nostre anime
Bevevamo l'elisir di ortica
Con le mani nel tesoro del pellegrino
Il suo rosario sgranato nella tosse della sorgente
Ci rammemorava il prezzo del sangue versato.
*
giovedì, novembre 03, 2011
sabato, ottobre 29, 2011
Xavier Zubiri
Sulla realtà
Non è sufficiente che le cose siano reali perché costituiscano un problema per noi, bisogna che si presentino in una certa forma perché si possa parlare di un problema. I vero problema consiste nel fatto che l'oggetto presente, cioè la realtà in quanto tale, non è un elemento su cui ricade liberamente il mio atto intellettivo. …
L'oggetto su cui ricade la domanda sulla realtà in quanto tale non è meramente estrinseco quanto piuttosto qualche cosa che, in una o in altra forma, mi si presenta a partire da me stesso. Ho un modo particolare di riferirmi alle cose in virtù del quale, inesorabilmente, la realtà in quanto tale mi si presenta come qualche cosa di intrinseco al mio atto di riferirmi alle cose e non semplicemente come qualche cosa di estrinseco, come qualche cosa che è un apporto delle cose.
**
(L'impressione di realtà) è qualche cosa che ci presenta il carattere di realtà come qualcosa che l'oggetto possiede in sé, che rinvia a ciò che è suo proprio.
**
L'intelligenza umana, in quanto intelligenza, è intrinsecamente volta alla sensibilità in quanto sensibilità, e reciprocamente, nel caso dell'uomo, … , al livello in cui sorgono nella coscienza le impressioni della sensibilità umana si trovano intrinsecamente assorbite in un atto intellettivo.
**
Intorno all'essenza.
La funzione formale dell'intelligenza, non è quella di concepire, quanto piuttosto quella di percepire le cose reali proprio in quanto reali. Quella di formare concetti è una funzione ulteriore che riposa su questa funzione primaria e che da essa deriva. E questo vale tanto per l'intelligenza umana quanto per quella divina.
Dio non concepisce primariamente le cose reali in quanto reali in concetti obiettivi in quanto concetti, bensì in una visione di esse in quanto reali o realizzabili. L'intellegibile una volta fattp oggetto dell'intelletto è il reale in quanto reale.Per questo la relazione primaria e radicale delle cose con l'intelligenza non è relazione concettuale ma un essere afferrate in essa come reali. Pertanto prima di una verità ontologica (che io chiamerei del concetto) vi è una “verità reale” che ne è il fondamento.
Trad genseki
Eidos
Da quanto tempo era steso sul divano
Pensando all'albero del pepe
Al suo modo di ritagliare la luce
Sullo sfondo viola di un temporale
All'evidenza della contingenza
Di questo corpo disteso che si sfrangia
Nelle direzioni che definiscono il suo spazio
E quelle piccole bacche rosa che devono
Essere acide acide e forse senza ossicini
Con un cuore come un astragalo
E che sembrano attrarre le gazze
Qui sul divano disteso lascio
Che la percezione della sua quiete
Disgreghi al vento della casualità
Il mio corpo e ecco l'albero dello pseudo pepe
O pseudo albero del pepe
Muovere le foglioline come unghie di cera
Come torvi rimasugli di pinne
Sullo sfondo di un incendio di garofani
Di zingarelle e di agrumi.
*
La poesia è un territorio rubato al sonno
Esteso tra la notte e l'alba
Ove le parole cercano a tastoni di diventare corpo
E il corpo di sentirsi finalmente reale
Nel formicolio silenzioso del suo farsi
E disfarsi sempre restando sulla sponda
Tra il sogno e il discorso.
gesneki
Pensando all'albero del pepe
Al suo modo di ritagliare la luce
Sullo sfondo viola di un temporale
All'evidenza della contingenza
Di questo corpo disteso che si sfrangia
Nelle direzioni che definiscono il suo spazio
E quelle piccole bacche rosa che devono
Essere acide acide e forse senza ossicini
Con un cuore come un astragalo
E che sembrano attrarre le gazze
Qui sul divano disteso lascio
Che la percezione della sua quiete
Disgreghi al vento della casualità
Il mio corpo e ecco l'albero dello pseudo pepe
O pseudo albero del pepe
Muovere le foglioline come unghie di cera
Come torvi rimasugli di pinne
Sullo sfondo di un incendio di garofani
Di zingarelle e di agrumi.
*
La poesia è un territorio rubato al sonno
Esteso tra la notte e l'alba
Ove le parole cercano a tastoni di diventare corpo
E il corpo di sentirsi finalmente reale
Nel formicolio silenzioso del suo farsi
E disfarsi sempre restando sulla sponda
Tra il sogno e il discorso.
gesneki
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