sabato, giugno 18, 2011

José Bergamín

In patria fui pellegrino
Fin dal giorno che vi nacqui
E lo fui tutte le volte
Che a viverci son tornato.

Ora che vi dimoro
Non cesso di rimanere
Pellegrino di una Spagna
Che in me piú non si trova.

Per questo non voglio morire
Adesso in questo luogo
Per non dare alle mie ossa
Riposo in terra spagnola.

*

Tremore di foglie non è,
D'albero che, nel vento
Quando scuote le sue fronde
Sembra che stia ridendo:

È musica senza parole
D'aria luminoso abbaglio
È rumore e mormorío
Di sfolgorante sussurro.

*

Chiunque meglio di me
Sa bene che sto morendo.

Io no

Lo sanno, quanti lo sanno
Come se fosse un segreto.
Lo sa se mi guarda un bimbo
Lo sa il cane che mi latra.

Io no

Lo sa nella notte scura
La fiammella tremolante.
Lo sa il fumo nel cielo
E la cenere ne fuoco.

Io no

Lo sa l'albero, l'uccello
L'acqua quieta che si increspa
Lo sa chi a me si avvicina
E se ne va sorridendo.

Io no

Anche il tuo cuore lo sa
Perché non vuole saperlo
E quando si rompa il mio
Lo sapranno tutti i morti.

Io no

trad genseki

venerdì, giugno 17, 2011

José Bergamín



José Bergamín

Lo scheletro di un uomo
Non è l'ombra del suo corpo
Solo è balocco della mente
Perché alla fine lo rompa.

La mia mente era ben viva
Come rideva tra le ossa
Adesso che è proprio morta
Ha spezzato anche lo scheletro.

Come il balocco di un bimbo
È lo scheletro di un vecchio
Non fantasma di una mente
Soltanto ombra di un sogno.

***

Io sto dicendo parole
Che voce non hanno né eco
Parole che non so nemmeno
Perché mai vado dicendole

Parole che non hanno suono
Parole senza pensiero
Parole che non capite
E che io neppure intendo.

Parole mute che sono
Messaggere del silenzio
Parole che ode soltanto
Chi sa ascoltare la morte.

***

Mai ho avuto nella vita
Ove distendermi stanco morto
Perché mai dovrei volerlo
Quando infine saró morto?

Avello non voglio né tomba
Non cassa di marcimento.
Trovate una fossa comune
Buttateci il corpo dentro:

o in mare, o nel mezzo del campo
Disteso sulla nuda terra
Perché lo consuma il sole
O se lo mangino i corvi.

***

Tutto è maschera di silenzio
Unamuno


Tutto quello che mi dici
E tutto quello che taci
Lo dice il rumor del vento
E l'acqua chiara scorrendo

Nella notte silenziosa
Nella stanza ove riposi,
Lo dice nel focolare
Il crepitar della fiamma.

Sottile in tanto silenzio
Oscuro che la confonde
Lo dice una campanella
Perduta nella mattina.

***

Tutte le porte del sogno
Per me si sono serrate:
A tutte vado bussando,
Ahimé nessuna si apre.

Che faró la notte intera
Notte che non ha mai fine
Sentendo che anche da morto
Non mi riuscirá di dormire?

Trad genseki
trad genseki

Rubén Darío

Ama il tuo ritmo

Ama il tuo ritmo e ritma le tue azioni
Secondo la sua legge, come i versi,
Tu sei un universo di universi,
La tua anima fonte di canzoni.

La celeste unitá che presupponi
Fará sbocciare in te mondi diversi,
E l'eco dei tuoi numeri dispersi
Pitagorizza le tue costellazioni.

Ascolta la retorica divina
Dell'uccello dell'aria e la notturna
Irradiazione geometrica indovina;

Uccidi l'indifferenza taciturna
E unisci perla e perla cristallina
Dove la veritá rovescia l'urna.

trad. genseki

Da "Prosas profanas y otros poemas"

sabato, giugno 11, 2011

Metempsicosi

Fui quel soldato che dormí nel letto
Di Cleopatra divina. Che bianchezza!
Ed il suo sguardo astrale, onnipotente.
Questo fu tutto

O sguardo! O corpo bianco! O letto
In cui stava radiante di bianchezza!
Quale rosa marmorea onnipotente!
Questo fu tutto

Tra le mie braccia scricchioló il suo collo;
E io, liberto, feci obliare Antonio.
(Il letto, quello sguardo, la bianchezza!)
Questo fu tutto

Io, Rufo Gallo fui soldato e sangue
Ebbi di Gallia, la giovenca imperiale
Un minuto mi dié del suo capriccio.
Questo fu tutto

Perché nell'istante spasmodico tenaglie
Non furono le mie dita di bronzo
Al collo bianco della reina in foia?
Questo fu tutto

Fui portato in Egitto. Ferrea catena
Mi pesó sulla nuca. Fui pasto un giorno
Della muta dei cani. Rufo Gallo il mio nome.
Questo fu tutto


Rubén Darío
Da: El canto errante
trad genseki

Véretz



Paul Louis Courier De Méré


Petizione alla Camera dei Deputati per dei paesani ai quali si impedisce di ballare
Parte II




Il disappunto fu grande per tutta la gioventú, grande per i commercianti delle botteghe, e per quelli tra di loro che avevano venduto qualche cosaa credito. Che cosa avvenne? La festa ebbe luogo triste, senza brio, senza forza; si tenne l¡assemblea poco numerosa, a gruppetti. A dispetto dell'ordinanza si balló lo stesso fuori dal villaggio, sulla riva del Cher, sull'erbetta, sotto le fronde dei noccioli; certo tutto questo è molto piú arcadico che i banchi del mercato, sta meglio in una egloga, è piú poetico, insomma. Noi lavoratori, peró non siamo interessati all'Arcadia, a noi fa piacere, dopo il ballo una frittata con lardo nell'osteria piú vicina che il lieto mormorio dell'onda e lo smalto dei prati.

Le nostre domeniche ad Azai, da allora, non si trengono piú. Pochi vengono da fuori e nessuno si ferma.Si va tutti a Veretz, ove il concorso è grande perché nessuna ordinanza ha ancora impedito il ballo: il parroco di Veretz, infatti, è un uomo di buon senso, istruito, di quasi ottantanni, amico dei giovani, troppo ragionevole per volerli cambiare prendendo a modello quelli del passato, e per guidarli con le bolle di Bonifacio e di Ildebrando. È davanti alla sua porta che si balla, e spesso in sua presenza. Lungi dal biasimare questi svaghi che in sé son ben innocenti, vi assiste, convinto di fare bene, aggiungendo con la sua presenza e grazie al rispetto che tutti gli portano, un piú altro grado di decenza e di onestá. Saggio pastore, davvero devoto, che Dio volgia conservarlo con noi, per il sollievo del povero, l'edificazione del prossimo e la tranquilitá dei questo comune, in cui la sua prudenza garantisce la pace, la calma, l'unione e la concordia!

Il parroco di Azai, invece, è un giovanotto ardente di zelo, appena uscito dal seminario, recluta della Chiesa militante, impaziente di distinguersi. Dal momento in cui prese possesso della parrocchia attaccó il ballo, sembra che abbia promesso a Dio di farlo sparire dalla sua parrocchia, e per far questo dispone di molti mezzi di cui il piú efficace fino ad oggi è stata l'autoritá del prefetto. Ch ha fatto vietare di ballare dal prefetto e presto ci impedirá anche di cantare e di ridere. Presto! Ma che dico? Alcuni dei nostri giovani sono giá stati, fatti chiamare, minacciati, ammoniti per aver cantato, per aver riso. Non è cosa di oggi, come si sa, che i ministri della chiesa abbiano pensato di usare il braccio secolare per convertire i peccatori, mentre gli apostoli si servivano soltanto dell'esempio e della parola, seguendo il precetto del lor maestro. Gesú, infatti, aveva detto: “Andate e insegnate!”, non aveva detto: “Andate con i gendarmi e insegnate con il prefetto!”; in seguito il dottor Angelico, San Tommaso, dichiaró chiaramente che non si puó costringere nessuno a fare del bene. Non ci obbligano, è ben vero; ci impediscono di ballare. Ê solo il principio, peró; con gli stessi mezzi che vanno bene per allontanarci dal peccato, possono servire e serviranno par convincerci a fare opere buone. Digiuneremo per un ordinanza, non del medico, del prefetto.

Quello che sto dicendo non capita solo da noi. Succede lo stesso, negli altri comuni di questo dipartimento n cui i parroci sono giovani. A qualche lega da qui, per eempio a Fondettes, oltre i fiumi Loira e Cher, una zona ricca, industriosa, ove si ama il lavoro e la gioia proprio come da queste parti, il ballo è ugulamente proibito per un decreto del prefetto. Voglio dire ogni ballo in piazza, dove le feste attiravano alcune migliaia di persone dai paesi vicini e da Tours, che dista appena due leghe. I sobborghi di Parigi, i bastioni di Marsiglia, secondo quanto dicono i viaggiatori sono piú frequentati ma non altrettanto piacevoli per rustica gaiezza. Cessate la gelosia, balli campestri di Sceaux e di Pré Saint-Gervais: queste feste sono finite, perché il parroco di Fondettes, è anche lui un giovanotto appena uscito dal seminario di Tours, i cui alunni, una volta al lavoro nella vigna del Signore vogliono per prima cosa estirpare ogni piacere, ogni svago, e fare di un ridente paesello un cupo monastero trappista. Questo si spiega: oggi come oggi tutto si spiega; mai come oggi si è discusso tanto di cause e di effetti: Si dice che questi pretini, in seminario, siano educati da un monaco di Picpus, Fra Isidoro è il suo nome; inviato dal firmamento della monarchia, per formare i nostri dottori, istruire i maestri che devono riformare i nostri costumi. Il monaco fa i parroci, i parroci, i parroci faranno di noi dei monaci. Cosí l'orrore di questo giovanotti per gli svaghi piú innocenti è trasmesso loro dal triste Picpus, che, dal canto suo ha una morale selvaggia. Ecco come risalendo di causa in causa si arriva a Dio, causa di tutto, Dio ci abbandona nelle mani del Picpus. Sia fatta la tua volontá, Signore! Chi l'avrebbe mai detto a Austerlitz?

Un altro strumento che usano i nostri giovani seminaristi nella guerra al ballo è la confesione. Confessano le fanciulle, senza che nessuno vi veda niente di male, e le assolvono soltanto se promettono di rinunciare al ballo; poche consentono, qualunque sia l'ascendente che devono avere su di loro, per sesso e per etá, questi confessori di venticinque anni cui le confessioni con il segreto e l'intimitá che en deriva mettono a disposizione tanti mezzi di persuasione: le penitenti, tuttavia amano il ballo. Anzi, nella maggior parte dei casi amano un ballerino che, dopo qualche mese di corteggiammento e di amore, diviene il loro marito: tutto questo accade in pubblico: tutto questo è bene, de è molto piú decente che gli incontri particolari con dei giovanotti vestiti di nero. Stupisce che l'affetto vinca sull'assoluzione e che il numero di fanciulle che fanno la comunione sia diminuito, in un anno, di tre quarti a quanto dicono? La colpa è tutta del pastore, che le mette nella situzaione di dover scegliere tra i doveri della religione e gli affetti piú cari della vita quotidiana, dimostrando che lo zelo, anche se unito alla caritá, non basta per guidare le anime. Ci vuole anche la discrezione, dice San Paolo, necessaria oggi, come ai tempi dell'Apostolo in questo mistero della devozione.

Il popolo, effettivamente, è saggio, come ho giá detto, molto piú saggio e felice di quanto lo fosse prima della Rivoluzione; bisogna peró ammettere che è molto meno devoto. Noi andiamo a messa la domenica in parrocchia per le nostre commissioni, per incontrare gli amici o i debitori; certo ci andiamo: quanti peró ritornano (ho vergogna a dirlo) senza averla ascoltata, se en vanno una volta fatte le loro commissioni senza nemmeno entrare in chiesa! Il parroco di Azai, che aveva bisogno, l'anno passato a Pasqua, di quattro uomini che avessero fatto la comunione per portare il baldacchino, non poté trovarli in paese e dovette andare a cercarli fuori, tanto rara e ridotta è da noi la devozione.
E questa è la causa, da poco il popolo è proprietario, ebbro ancora, innamorato della sua proprietá, non vede che quella, non pensa ad altro, en è posseduto e da poco libero anche relativamente all'artigianato, si getta nel lavoro, si dimenticsa il resto e la religione. Un tempo, schiavo, se la prendeva comoda, poteva ascoltare e meditare la parola di Dio, pensare al cielo, ove metteva ogni sua speranza, ogni consolazione, Oggi pensa alla terra che possiede e che lommantiene, il suo presente e il suo futuro è un campo, la casa che possiede o che vuol comprare, per la quale lavora, risparmia, senza riposo, senza mangiare. Ha solo questo in testa; e si perde il tempo se si vuole distoglierlo parlando d'altro. Ecco da dove viene l'indifferenza in materia di religione che Lamennais ci rimprovera giustamente. Lo dice bene: noi no siamo quei tiepidi che Dio vomita di cui parla San Paolo; noi siamo freddi, che è la cosa peggiore. È il vero male del secolo. Per rimediare e ricondurci al fervore che si desidera, bisogna andarci cauti, usare abili mezzi, dolci e attrattivi, se non si ottiene l'effetto opposto. Ci vuol prudenza, e questo non lo capiscono i giovani preti il cui zelo non è accompagnato dall'esperienza. L'etá loro non lo consente.
Per dire tutto il mio pensiero, io non presto orecchio alle decalamzioni contro i giovani di oggi, e sospetto delle critiche che fanno alcun che mi ricordano il detto: “vendicarsi calunniando” (e non si limitano alla calunnia!), tuttavia qualche cosa di vero ci debe pur essere e comincio a credere che i giovani di oggi anche se non meritano le cariche dei Dragoni o la fucilazione, certo non valgono molto se persino i giovani preti, nelle loro funzioni si comportano in modo cosí lontano dalla seggezza e dal contegno dei vecchi. Ho gia citato, Signori, il nostro buon parroco di Véretz che è come un padre per noi; ma anche quello di Azai, sostituito dal seminarista, non era meno moderato e considerava i parrocchiani come una famiglia di cui condivideva gioe e dolori e anche gli svaghi in cui non vi era niente diu riprovevole: e prendeva piacere nel veder ballare le fanciulle e i giovanotti proprio sulla piazza, perché diceva che in pubblico è difficile comportarsi male. Pensava che era una cosa molto buona che gli appuntamenti tra le fanciulle e i giovanotti fossero in piazza piuttosto che nella macchia o nel campo, lontano dagli sguardi come succederá quando le nostre feste saranno vietate. Non avrebbe mai immaginato di chiedere che fossero proibite, non avrebbe mai considerato il ballo un peccato mortale, non avrebbe mai chiamato i gendarmi per impedire uno svago innocente. Perché, insomma, i giovani devono ben potersi conoscere e frequentare prima di sposarsi; e dove meglio ch sotto gli occhi dei loro amici, dei genitori della gente che giudica quello che è conveniente e onesto?

Cosí ragionava il buon parroco, rimpianto da tutti, uomo probo se ve en furono mai, di costumi impeccabili come, d'altra parte, a dire il vero, anche questi giovani preti che vanno sostituendo i vecchi e che menano una vita delle piú esemplari. Il clero ormai non vive come prima, ma mostra in tutto una temperanza degna dei tempi degli Apostoli. Fortunata conseguenza della povertá! Beati frutti delle persecuzioni sofferte durante quella grande epoca nella quale Dio visitó la sua chiesa! È un lascito positivo importante della riivoluzione che si possano vedere non solo parroci, che sempre sono stati rispettabilie, ma persino vescovi condurre una vita morigerate.

Tuttavia, si debe temere che esempi di tale eccellenza, che contribuscono a stabilire la religione, non risultino alla fine inutili, per l'imprudenza dei nuovi preti, che la rendono invisa al popolo, facendola apparire nemica dello svago, triste, cupe, severa, piena di penitenze da fare e di meritati castighi, invece di predicare su testi che oggi sono piú adeguati come: “Il mio giogo è leggero”; o “Sono mite e umile di cuore”, ritornerebbero allora le pecorelle smarrite che troppa severitá rende scontrose. Per quanto grandi siano i nostri peccati, ora non abbiamo tempo per fare penitenza: dobbiamo seminare e arare. Non sappiamo vivere come monaci o devoti di professione rivolgendo tutti i nostri pensieri al cielo. Le regole che vamgono per loro, separati dal mondo, “che tutto considerano come letame”, non vanno bene per noi che abbiamo famiglia e roba, come diceva quel tale, e ci teniamo. Che facciamo di male quando non facciamo del bene, quando non lavoriamo? I nostri svaghi, i giochi dei dì festivi non sono in modo alcuno biasimevoli in sé, in nessuna circostanza. Ci dicono a proposito della piazza di Azai, per proibirci di ballare; la piazza è davanti alla chiesa; ballarvi è ballare davanti a Dio, è offenderlo; da quando? I nostri padri che erano piú devoti di noi, ci ballavano a quanto ci dicono: e noi dopo di loro. Il santo Re Davide balló davanti all'Arca del Signore, il Signore lo trovó una cosa buona, di suo gusto, dice la Scrittura; e noi che non siamo santi né re, ma comunque brava gente, non possiamo danzare davanti alla nostra chiesa che non è l'Arca ma la sua figura, secondo i teologi! Qullo che Dio ama nei santi lo offende in noi; lo stesso gestó che santificó l'Arca e il tempio di Gerusalemme profanerá la chiesa di Azai! I nostri parroci fino ad oggi erano miscredenti de eretici, empi o piuttosto preti cattolici, tanto saggi per lo meno come seminaristi? Hanno approvato tali svaghi e preso parte a divertimenti che potevano scandalizzare soltanto gli alunni del Picpus. Queste sono le ragioni che opponiamo all'ecesso di zelo dei nostri giovani riformatori.

Pertanto, deciderete Voi, Signori, se non sia meglio che ci permettiate di ballare come prima sulla piazza di Azai, la domenica e le feste comandate; potrete cosí ponderare se sia oggi il tempo di obbedire ai monaci e apprendere delle orazioni, mentre ci prendono di mira a bruciapelo; mentre tutta l'Europa in armi si esercita nel tiro, nell'artiglieria, e accende le micce.

Véretz, 13 Luglio 1822.

trad genseki

martedì, giugno 07, 2011

Paul Louis Courier De Méré

Petizione alla Camera dei Deputati per dei paesani ai quali si impediscedi ballare

I parte

L'oggetto della mia petizione è piú importante di quello che sembra; posto che, pur trattandosi effettivamente solo di ballo e di divertimento, da una parte queto divertimento è del polpolo, e nulla di ció che lo riguarda puó esserVi indifferente; dall'altra la religione è coinvolta, o compromessa, per dirla megli, a causa di uno zelo malinteso, penso, nonostante le divergenze che possono esserci tra di noi, che Voi tutti considerete la mia richiesta degna di attenzione.

Chiedo che sia permesso, come nel passsato, agli abitanti di Azai di ballare la domenica sulla piazza del loro comune, e che ogni divieto, fatto, in questo sesno, dal prefetto sia annullato.

Noi, abitanti di Veretz siamo interessati alla questione, perché andiamo alle feste di Azai, cosí come quelli di Azai vengono alle nostre. La distanza dei due campanili è piú o meno una mezza lega: noi non abbiamo vicini migliori. Loro a casa nostra, noi a casa loro, ci si invita a turno, ci si diverte la domenica, si balla sulla piazza, dopo mezzogiorno, d'estate..
Dopo mezzogiorno giungono il violini e i gendarmi contemporaneamente; a questo proposito devo fare due osservazioni.

Noi danziamo al suono del violino, ma questo a datare da una certa epoca. Il violino era riservato, un tempo, ai balli delle classi elevate; in Francia si trovavano pochi violini, Il gran Re li fece venire dall'Italia e formó un'orchestra perché la corte ballasse con gravitá, i cavalieri in parrucca nera le dame col guardinfante, Il popolo pagava i violini ma non poteva servirsene: ballava poco, a volte al suono della piva o cornamusa come indica il ritornello: “Arriva il pellegrino che suona la cornamusa: balla Guillot, salta Perrette.” Noi nipoti di Gullot e Perrette abbiamo abbandonato i modi dei nostri padri e balliamo al suono dei violini come la corte di Luigi il Grande. Quando dico come dico per dire. Infatti noi non andiamo al ballo con le nostre mogli, le amanti e i nostri bastardi. Questa è la prima osservazione; la seconda eccola qua:

I gendarmi si sono moltiplicati in Francia, piú ancora dei violini, anche se sono meno utili al ballo. Noi en faremmo volentieri a meno nelle feste del paese, e a dire il vero nopn siamo noi che li mandiamo a chiamare: il governo è dovunque oggi e questa ubiquitá arriva anche ai nostri balli, ove non si fa un passo senza che il prefetto voglia esserne informato per renderne conto al ministro.
Sapere chi trova simili attenzioni piú spiacevoli e maggiormente fastidiose, chi en soffre di piú, se i sorvegliati o il governpo, è una questione ben curiosa e difficile, che tuttavia mi vedo costretto a trascurare, per paura di complicarmi la vita con le classi elevate o di dire qualche parola che possa essere considerata tendenziosa.

Oltre i balli ordinari della domenica e dei giorni festivi, vi è quella che è chiamata l'assemblea, una volta all'anno, in ogni comune che riceve tutti gli altri a turno. Grande è l'affluenza e grande la gioia dei giovani. I violini non mancano, come potete immaginare. Al primo colpo d'archetto ci si mette in posizione e ognuno conduce la sua promessa. Altrove si gioca a bocce o a birilli o al paletto. Molti sono coloro che, invece, discutono di affari; si concludono atti di compravendita, varie vacche passano di mano in mano tra quelle che non si erano potute vendere alla fiera, insomma queste assemblee non sono soltanto appuntamenti di svago ma anche di interesse per il popolo e per i singoli e il luogo in cui si tengono non puó essere indifferente. La piazza di Azai sembra essere fatta apposta per questo situata al centro del comune, in terra battuta, senza pavé, è adatta a ogni sorta di gioco e di esercizio; circondata da negozi, prossima alle locande, alle osterie, dato che pochi sono gli affari che si negoziano senza bere, poche contraddanze finiscono senza vuotare qualche boccale di birra; nessun disordine, mai nemmeno l'ombra di una rissa. È oggetto d'ammirazione per gli Inglesi, che ogni tanto ci vengono a vedere e quasi non possono capire che le nostre feste popolari trascorrano con tanta tranquillitá, senza pugilato come da loro, senza assassinii come in Italia, senza sbronze come in Germania.

Il popolo è saggio, malgrado i rapporti segreti. Lavoriamo troppo per avere tempo di pensare a fare il male, e, se è vero questo antico proverbio: pigrizia madre di ogni vizio, occupati come siamo, sei giorni alla settimana senza tregua e buona parte del settimo, cosa che taluni criticano e a ragione. Io vorrei che in quel giorno ogni fatica cessasse; la domenica e nei giorni di festa, in tutti i paesi del contado si dovrebbe fare esercizio di tiro, di maneggio delle armi, pensando alle potenze straniere che pensano a noi tutti i santi giorni. Cosí fanno gli Svizzeri, nostri vicini, e cosí dovremmo fare noi per essere atti a difenderci nel caso che i forti volessero attacar briga. Infatti è meglio imparare la carica in dodici tempi e sapersi sbarazzare di un cosacco piuttosto che raccomandarsi al cielo e confidare nel proprio buon diritto. Lo dico e lo ripeto: arare, seminare a tempo debito, stare nel campo fin dal mattino, non basta, bisogna difendere il raccolto. Cura le tue viti, vendemmierai l'anno prossimo e un giorno, se Dio vuole, farai del buon vino, ma chi se lo berrá? Rotopshin, se non sei pronto a difenderlo. Signori, pensateci un po' su, e vedete un po' voi se non sarebbe il caso, considerate le presenti circostanze e le imminnenti, di darsi, nel santo giorno della domenica, dopo la messa, naturalmente, a quegli esercizi tanto graditi al Signore degli eserciti qualli sono il passo di carica e il fuoco di battaglione. Sarebbe una profittevole maniera di impiegare, con grande vantaggio per lo stato, il tempo che si perde ballando.

Ma i nostri devoti la vedono in un altro modo. Loro vorrebbero che la domenica non si facesse niente altro che pregare e recitare le Ore, Certo la salvezza eterna è l'interesse principale. Ecco peró l'esattore; bisogna pagar e lavorare anche per quelli che non lavorano. E quanti credete che siano quelli che pesano sulle nostre braccia? Bambini, vecchi, mendicanti, frati, lacché, cortigiani; quanta gente da mantenere! E lussuosamente in certi casi! E poi c'è il lustro del trono, poi la Santa alleanza; che costi, che spese! E per far fronte, avanza ancora tempo libero? Voi lo sapete e lo vedete bene, Signori; coloro che odiano tanto il lavoro domenicale vogliono emolumenti, mandano le pittime, aumentano il budget. Secondo loro, noi dovremmo lavorare meno e pagare di piú ogni anno.

Come spiegarlo? La lettera uccide e lo spirito vivica, quando la Chiesa diede il precetto di astenersi dal lavoro servile in certi giorni, vi erano servi della gleba, fu per loro, in loro favore che fu istituito il riposo. Allora non vi era santo che i braccianti non festeggiassero con entusiasmo, a perderci era solo il padrone; doveva nutrirli, e senza i santi li avrebbe massacrati di lavoro. Saggio fu il precetto, salutare la legge nei tempi dell'oppressione. Ora, peró, non vi sono piú feudi, non si veste piú la cotta di maglia; siamo liberati dall'antica servitú e, una volta pagate le tasse, lavoriamo per noi stessi e se non lavorassimo, sarebbe a nostre spese; obbligarci a riposare è peggio che la decima, perché almeno la decima serve ai cortigiani, il nostro ozio non serve a nessuno. Il lavoro che ci viene sottratto, il cibo e i vestiti che ci sono totli non lo sono a vantaggio di nessuno, non producono emoluementi, benefici, pensioni. E nuocere in per nuocere.

Gli Inglesi che vengono alle nostre feste si stupiscono tutti alla stessa maniera, pensano tutti la stessa cosa; ma tra loro alcuni si stupiscono un po' di piú: sono i piú anziani, che venuti in Francaia in tempi anteriori, si ricordano ancora come fosse la vecchia Turenna e il popoli dei buoni sovrani. Anch'io me en sovvengo: giovane allora, vidi, prima della grande epoca, in cui soldato volontario della Rivoluzione abbandonai i luoghi tanto cari della mia infanzia, vidi i contadini affamati, cenciosi, tendere ovunque la mano alle porte e sulle strade, nei viali delle cittá, presso i conventi, i castelli, ove la loro inevitavile apparizione era il tormento proprio di coloro che la comune prosperitá rende oggi indignati e desolati. Rinasce la mendicitá, lo so bene, e fará, se è vero quel che si dice, rapidi progressi, ma per molto tempo ancora non raggiungerá quel grado di miseria. La descrizione che potrei darne sarebbe debole per quelli che lo hanno conosciuto, come me, e per gli altri sembrerebbe inventata: ascoltate allora un testimone, un uomo del Grand Siècle, osservatore esatto e disinteressato; il suo discorso non puó essere sospetto, si tratta di La Bruyère.

“Si vedono, dice, certi animali selvatici, maschi e femmine, sparsi per le campagne, neri, lividi, arsi dal sole, legati alla terra che frugano e rimuovono con una invincibile testardaggine. Possiedono una sorta di voce articolata, e quando si drizzano in piedi mostrano fattezze umane, e, infatti, sono proprio uomini; di notte si ricoverano in una sorta di tane dove vivono di pane nero, acqua e radici. Essi risparmiano agli altri uomini lo sforzo di seminare, di arare e di raccogliere per vivere emaeritano che non manchi loro quel pane che hanno seminato”.

Ecco le sue autentiche parole; parla di quelli fortunati, di quelli che avevano pane e lavoro; erano una minoranza, allora.

Se La Bruyère potesse tornare sulla terra, come soleva accadere nel passato, e presentarsi a una delle nostre assemblee vi troverebbe non solo volti umani, ma visetti femminili di fanciulle piú belle e soprattutto piú modeste di quelle della sua corte tanto vantata, sono vestite con piú gusto, non vi é dubbio, agghindate con piú grazia, con decenza; che ballano meglio, che parlano la stessa lingua (propria del paese) ma con una voce tanto graziosamente e dolcemente articolata che credo en sarebbe soddisfatto. Le vedrebbe rientrare la sera, non nelle loro tane ma in case ben costruite e ammobiliate. Se si mettesse a cercare gli animali di cui aveva parlato non li troverebbe da nessuna parte e forse benedirebbe la causa, qualunque fosse, d'un tanto grande e felice cambiamento.

La festa di Azai era celebre tra tutte quelle dei nostri borghi, attirava il concorso di una folla dai campi e dai comuni dei dintorni. In effetti, da quando i giovanotti fanno ballare le fanciulle, cioè da quando noi contadini delle sponde del Cher siamo padroni di noi stessi, la piazza di Azai fu sempre il nostro punto di incontro preferito per il ballo e per gli affari. Vi ballavamo come vi avevano ballato i nostri padri e le nostre madri, senza che mai scoppiasse uno scandalo, senza che vi fossero denunce, per quanto si ricordi, e non pensavamo essendo cosí tranquilli, non avendo mai causato molestia alcuna, di poter essere, noi, molestati nell'esercizio di questo diritto antico, fondato sulle primitive leggi della ragione e del buon senso; è chiaro che ognuno ha diritto di ballare a casa sua e il pubblico dove starebbe di casa se non sulla pubblica piazza? Eppure ci cacciano via. Una nota firmata de prefetto che egli chiama ordinanza, recentemente pubblicata, proclamata al suono del tamburo, “Considerando, etc” vieta di ballare nel futuro, di giocare a bocce o ai birilli su detta piazza e questo con la minaccia di castigo. Dove andremo a ballare? Da nessuna parte; non si debe ballare e punto. Questo non sta scritto nellordinanza del Signor Prefetto ma è un articolo tra lui e altri poteri, come poi si è visto. Ci comunicarono questo divieto pochi giorni prima della nostra festa, la nostra assemblea di San Giovanni.

trad genseki

mercoledì, giugno 01, 2011

Joseph Joubert



Joseph Joubert

Joseph Joubert, il saggio di Villeneuve sur Yonne, fu defininto da qualcuno: autore senza opera, scrittore senza scritti.

Chateubriand pubblicó postumi i pensieri e le note raccolte nei suoi quaderni.


Il capitalismo non sfamerá mai l'uomo (Bordiga)


La naura ci ha dato un muso per frugare nella terra o piuttosto mani per ararla? Seminare e raccogliere ecco la relazione essenziale che intercorre tra questo globo e noi.


*


Il capitalismo come puro spirito


L'orologio. Idea che se ne fa un selvaggio. Il suo errore non è completo, Effettivamente ogni macchina è stata messa in moto da uno spirito che poi si è ritirato.


*


Internet come protesi


La mente è per la'nima una specie di organo, una sorta di occhio, di lingua, di udito, di vista e persino di cervello, una specie di portavoce, di telescopio, di compasso. A volte tale organo agisce da solo. BISOGNA AVERE UN'ANIMA POETICA E UNA MENTE GEOMETRICA.


*


L'educazione non consiste soltanto nell'adornare la memoria e illustrare l'intelletto: deve occuparsi soprattutto di illuminare la volontá.


*


Sessi


Uno sembra una ferita, l'altro uno scorticato.


*


Il velo?


Solo per il volto siamo noi stessi, il corpo nudo di una donna mostra il suo sesso piuttosto che la sua persona. Non si pensa al volto della donna di cui si vede il corpo nudo. Per questo il vestito mette in mostra il volto. La persona è tutta nel volto, solo la specie nel resto.


*


Strauss Kahn


Alle donne piacciono le avventure, gli incontri, il sesso, proprio perché a loro piace concedersi e non essere concesse. Per questo sesso fare un dolce uso del proprio corpo significa disporre liberamente di esso. Una volta compiuto questo atto di libertá dipende solo dagli uomini che siano costanti. A parte questo lo sono solo in un caso, quando sono state prese di forza; e parlo di forza fisica e non sociale.

Tale violenza fa loro sperare di poter esercitare un grande potere su quell'uomo che hanno dominato fino a farlo uscire di senno. Cosí come sperano una grande condiscendenza dall'uomo al quale hanno sacrificato tutto.

N.B. Bisogna che si tratti della violenza di un uomo non di un uomo brutale.


*


Chi non è mai stato ingannato non è mai stato amico.


*


Ogni anima è un occhio, proprio come il corpo è interamente tatto, l'uno percepisce molte veritá di cui non puó impadronirsi, l'altra raggiunge molte cose che non puó maneggiare.


trad genseki

martedì, maggio 31, 2011

Dreiser Cazzaniga e la Bibbia

Il primo risvegliarsi in Dreiser Cazzaniga dell'amara coscienza dell'ingiustizia che pervade le nostre societá umane e dell'ingenua volontá di porvi riparo per quanto dipendesse dalle sue povere forze coincise con la sua lettura della Bibbia. Fu precisamente il testo del profeta Amos che gli rivelò tutto un universo di pensieri, di pene, angustia e sdegno e lo gettó cosí come era, privo di discermnimento e avvolto da nebbiosa passione, nello stato in cui si mantenne per tutta la vita di scorticata ribellione. Certo la societá che le parole del profeta tanto violentemente denunciavano, minacciavano in nome del Signore e invitavano al ravvedimento era una societá sconosciuta nelle sue forme al giovane Dreiser Cazzaniga. Una societá agro pastorale, arcaica e di pura sussistenza in cui l'orfano e la vedova sprovvisti di protezione rischiavano presto la morte per fame o per malattia. Dreiser Cazzaniga aveva si conosciuto gli ultimi abitanti delle grandi cascine della Sierra, che scendevano al barrio profumando di stalla sui carri cigolanto trainati dai buoi pazienti, aveva giocato con l'acqua che si raccoglie nei solchi che le loro ruote marcavano sulla strada, aveva spiato i fanciulli e le fantine che menavano al pascolo le greggi sparute nel grigio novembrino dei colli.asi Ma il mondo dei pastori e dei contadini era estraneo alla sua vita quotidiana. Egli conosceva, invece, molto e bene il mondo operaio, la sua vita e i suoi giochi erano regolati dalle sirene degli opifici, il cui prolungato lamento lo richiamava a casa per il pranzo o per la cena e il sonno nel vespero. Avanzava nella folla mesta al ritmo del passo grave degli operai tutti vestiti di blu che profumavano di grasso, e e vino, e viveva solo in virtú di questa comunione quotidiana di passante il loro orgoglio, le loro umiliazioni la determinazione della loro lotta per l'esistenza. Così fu, che senza riflettere, quando leggeva di vedove e orfani e di ingiustizia pensava ai padri dei suoi condiscepoli del barrio, al freddo delle loro case, alla brutalitá del loro alcolismo, alla condizione di ingiustizia sotto la quale dovevano piegare il capo. Il Profeta poco a poco venne nella sua mente assumendo insensibilmente i tratti del rivoluzionario, del mestatore, del rubello, dell'insorto, del giacobino, ma sotto i suoi nuovi panni era sempre il Profeta che esercitava la sua influenza sul piccolo Dreiser Cazzaniga. Gli è che il Profeta era uomo oscuro, semplice, che viveva in silente solitudine e solo dopo dura lotta con Dio accettava di essere lo strumento dell'annuncio della sua giustizia. Il Profeta non avrebbe parlato, non avrebbe potuto parlare, era stato separato, isolato, mondato, e per essere un semplice efficace strumento del verbo di giustizia. In questo scontroso isolamento, in questa appassionata austera solitudine, nella timidezza, nele senso di inadeguatezza che lo faceva sentire inferiore e superiore al contempo a chiunque, in questa ridda di confusi sentimenti, il giovane Dreiser Cazzaniga si identificava col Profeta nel piú intimo della sua anima e sognava. Poi la lettura del Magnificat gli si squadernó davanti come una gloriosa indomita rivendicazione di giustizia facendo della Vergine una madre paterna occulta.
Negli anni della sua militanza giacobina, duri e violenti vennero poco a poco cancellandosi dai suoi ricordi coscienti, la figura del Profeta e quella della Vergine, ma in realtá dall'occulta profonditá dell'anima sua mai non cessarone di guidare i suoi passi. Nel giacobinismo ahimé egli si spense non volle essere accolto dalle braccia di Abramo.

a cura di genseki

giovedì, maggio 26, 2011

Giovanni Giudici: Le mie radici

Giovanni Giudici

Mi chiedi cosa vuol dire

Mi cheide cosa vuol dire
la parola alienazione:
da quando nasci è morire
per vivere in un padrone

che ti vende ─è consegnare
ciò che porti─ forza, amore,
odio intero ─per trovare
sesso, vino, crepacuore.

Vuol dire fuori di te
già essere mentre credi
in te abitare perché
ti scalza il vento a cui cedi.

Puoi resistere, ma un giorno
è un secolo a consumarti:
ciò che dài non fa ritorno
a te stesso da cui parte.


Alla beatrice


Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra
arrampicato su una scala di corda
affacciato dal fuori in posizione precaria
dentro i tuoi occhi celeste vetro
dentro i tuoi vizi capitali
dentro i tuoi tremori e mali


Beatrice sui tuoi seni io ci sto a spiare
ciò che fanno seduti intorno a un tavolo
i tuoi pensieri su sedie di paglia
ospiti appena arrivati o sul punto di partire
raccolti sotto la lampada gialla
uno che ride uno che ascolta e uno che parla


Beatrice dai tuoi seni io guardo dentro la casa
Dalla notte esteriore superstite luce
Nella selva selvaggia che a te conduce
Dalla padella alla brace
Estrema escursione termica che mi resta
Più fuoco per me tua minestra


Beatrice – costruttrice
Della mia beatitudine infelice


Beatrice dai tuoi seni io vengo a esplorare com’è
La stanza dove abitare
Se convenienti vi siano i servizi
E sufficiente l’ordine prima di entrare
Se il letto sia di giusta misura
Per l’amore secondo natura.
Beatrice dunque di essi non devi andare superba
Più che dell’erba il prato su cui ci sdraiamo
Potrebbero essere stracci non ostentarli
Per tesori da schiudere a viste meravigliate
I tuoi semplici beni di utilità strumentale
Mi servono da davanzale

Beatrice – dal verbo beare
nome comune singolare.

Giovanni Giudici

Giudici sui tuoi versi io ci sto alla finestra
Come fosse tutta una Provenza dopo tanta onesta Milano
Quella che trovavo in fondo al tunnel di Mignanego.
Ed era solo basilico
Camion scordati e fumo nero
Sul cassone appollaiati tanti giovani stranieri

Giudici sui tuoi versi salivo da corsia dei servi
In cerca di due stanze ed un giocondo tinello
In fondo al bicchiere leggevo la pubblicitá sella SITA

Giovanni tra i pini e l'arida luce del mare
Sul tuo sorriso sto a guardare
Il volo che dal canto appare.

genseki

mercoledì, maggio 25, 2011

La pioggia


Vi è, mentre dura la pioggia, una certa oscuritá che allunga tutti gli oggetti. Causa, inoltre, per la disposizione che il nostro corpo è obbligato ad assumere, una sorta di raccogllimento, che rende l'anima infinitamente piú sensibile. Anche il suo rumore, che i latini esprimevano chiamandola "densissimus imber", occupando costantemente l'udito risveglia l'attenzione e la mantiene perennemente vigile. Il color grigio che l'umiditá conferisce ai muri, agli alberi, alle rocce contribuisce a rendere piú intensa ancora l'impressione che tali oggetti producono. La solitudine e il silenzio che si estende intorno al viandante, obbligando gli uomini e gli animali a tacere e a restare al coperto, finsce per rendere la sua percezione ancora piú netta. Avvolto nel suo mantello, con il capo coperto, camminando per sentieri deserti, tutto lo colpisce, tutto appare piú grande alla sua immaginazione o al suo sguardo. I ruscelli si gonfiano, l'erba s'addensa, i minerali si fanno piú visibili, il cielo si approssima alla terra e tutti gli oggetti, racchiusi in un orizzonte ristretto, occupano piú spazio e si appaiono piú importanti.

J. Joubert
trad genseki

martedì, maggio 24, 2011

Bella

Eri bella
Come quello che resta dell'uscio
Dopo il mare, dopo il silenzio,
Bella
Come l'assalto verticale delle chiocciole alla verbena
Come l'arco delle ciglia dello stupore
Come la soglia varcata dalla statua dell'arcere
Come la caduta a ventaglio di un mazzo di carte
Sul pavimento
Come il gesto di aprire
Ció che già fu spalancato
Come l'evidenza del vuoto
Le ossa cave
La corrosione del cranio
Il silicio
La demenza vegetale del carrubo
L'impudicizia della sua fibra rosa
Il tuo ombrello gettato su una stufa spenta
Una sigaretta
Il latte avizzito delle tue unghie
Il tuo passo azzurro tra i serpenti
Lo smalto spezzato
Il bicchiere nella mano di un altro
Il sonno che ti leviga il corpo
Come un ciottolo nel torrente
Come l'affannarsi della tua stanchezza
La mia pochezza
Il nostro incontro
L'irrompere di te nel mio ricordo
Come il vento tra i capelli in un armadio.

Hurt

Ferito

Mi sono ferito da solo
Per sapere se provavo dolore
Nel dolore ho posto il mio centro
Soltanto il dolore è reale.

Un foro prodotto dall'ago
La vecchia ben nota iniezione
Ucciderla era quello che volevo
Eppure continuai a ricordare.

Che cosa sono ormai diventato?
Dolcissimo amico
Coloro che ebbi vicino
La fine con sé li trascina
Eppure lo avrei posseduto
Il mio impero di spazzatura.

Saró pe te delusione
Ti faró molto male

Io porto corona di spine
Sul mio trono di bugiardo.
Rotti sono tutti i miei pensieri
Nessuno li puó riparare.
Le macchie del tempo
Cancellano brame.
Non sei diversa dagli altri
E io resto qui.

Che cosa sono ormai diventato?
Dolcissimo amico
Coloro che ebbi vicino
La fine con sé li trascina
Eppure lo avrei posseduto
Il mio impero di spazzatura.

Saró pe te delusione
Ti faró molto male.

Se di nuovo potessi cominciare
Lontano, lontano da qui,
Mi prenderei cura di me,
Sicuro ce la pòtrei fare.

genseki

Johnny Cash Hurt