mercoledì, giugno 08, 2011
martedì, giugno 07, 2011
Paul Louis Courier De Méré
Petizione alla Camera dei Deputati per dei paesani ai quali si impediscedi ballare
I parte
L'oggetto della mia petizione è piú importante di quello che sembra; posto che, pur trattandosi effettivamente solo di ballo e di divertimento, da una parte queto divertimento è del polpolo, e nulla di ció che lo riguarda puó esserVi indifferente; dall'altra la religione è coinvolta, o compromessa, per dirla megli, a causa di uno zelo malinteso, penso, nonostante le divergenze che possono esserci tra di noi, che Voi tutti considerete la mia richiesta degna di attenzione.
Chiedo che sia permesso, come nel passsato, agli abitanti di Azai di ballare la domenica sulla piazza del loro comune, e che ogni divieto, fatto, in questo sesno, dal prefetto sia annullato.
Noi, abitanti di Veretz siamo interessati alla questione, perché andiamo alle feste di Azai, cosí come quelli di Azai vengono alle nostre. La distanza dei due campanili è piú o meno una mezza lega: noi non abbiamo vicini migliori. Loro a casa nostra, noi a casa loro, ci si invita a turno, ci si diverte la domenica, si balla sulla piazza, dopo mezzogiorno, d'estate..
Dopo mezzogiorno giungono il violini e i gendarmi contemporaneamente; a questo proposito devo fare due osservazioni.
Noi danziamo al suono del violino, ma questo a datare da una certa epoca. Il violino era riservato, un tempo, ai balli delle classi elevate; in Francia si trovavano pochi violini, Il gran Re li fece venire dall'Italia e formó un'orchestra perché la corte ballasse con gravitá, i cavalieri in parrucca nera le dame col guardinfante, Il popolo pagava i violini ma non poteva servirsene: ballava poco, a volte al suono della piva o cornamusa come indica il ritornello: “Arriva il pellegrino che suona la cornamusa: balla Guillot, salta Perrette.” Noi nipoti di Gullot e Perrette abbiamo abbandonato i modi dei nostri padri e balliamo al suono dei violini come la corte di Luigi il Grande. Quando dico come dico per dire. Infatti noi non andiamo al ballo con le nostre mogli, le amanti e i nostri bastardi. Questa è la prima osservazione; la seconda eccola qua:
I gendarmi si sono moltiplicati in Francia, piú ancora dei violini, anche se sono meno utili al ballo. Noi en faremmo volentieri a meno nelle feste del paese, e a dire il vero nopn siamo noi che li mandiamo a chiamare: il governo è dovunque oggi e questa ubiquitá arriva anche ai nostri balli, ove non si fa un passo senza che il prefetto voglia esserne informato per renderne conto al ministro.
Sapere chi trova simili attenzioni piú spiacevoli e maggiormente fastidiose, chi en soffre di piú, se i sorvegliati o il governpo, è una questione ben curiosa e difficile, che tuttavia mi vedo costretto a trascurare, per paura di complicarmi la vita con le classi elevate o di dire qualche parola che possa essere considerata tendenziosa.
Oltre i balli ordinari della domenica e dei giorni festivi, vi è quella che è chiamata l'assemblea, una volta all'anno, in ogni comune che riceve tutti gli altri a turno. Grande è l'affluenza e grande la gioia dei giovani. I violini non mancano, come potete immaginare. Al primo colpo d'archetto ci si mette in posizione e ognuno conduce la sua promessa. Altrove si gioca a bocce o a birilli o al paletto. Molti sono coloro che, invece, discutono di affari; si concludono atti di compravendita, varie vacche passano di mano in mano tra quelle che non si erano potute vendere alla fiera, insomma queste assemblee non sono soltanto appuntamenti di svago ma anche di interesse per il popolo e per i singoli e il luogo in cui si tengono non puó essere indifferente. La piazza di Azai sembra essere fatta apposta per questo situata al centro del comune, in terra battuta, senza pavé, è adatta a ogni sorta di gioco e di esercizio; circondata da negozi, prossima alle locande, alle osterie, dato che pochi sono gli affari che si negoziano senza bere, poche contraddanze finiscono senza vuotare qualche boccale di birra; nessun disordine, mai nemmeno l'ombra di una rissa. È oggetto d'ammirazione per gli Inglesi, che ogni tanto ci vengono a vedere e quasi non possono capire che le nostre feste popolari trascorrano con tanta tranquillitá, senza pugilato come da loro, senza assassinii come in Italia, senza sbronze come in Germania.
Il popolo è saggio, malgrado i rapporti segreti. Lavoriamo troppo per avere tempo di pensare a fare il male, e, se è vero questo antico proverbio: pigrizia madre di ogni vizio, occupati come siamo, sei giorni alla settimana senza tregua e buona parte del settimo, cosa che taluni criticano e a ragione. Io vorrei che in quel giorno ogni fatica cessasse; la domenica e nei giorni di festa, in tutti i paesi del contado si dovrebbe fare esercizio di tiro, di maneggio delle armi, pensando alle potenze straniere che pensano a noi tutti i santi giorni. Cosí fanno gli Svizzeri, nostri vicini, e cosí dovremmo fare noi per essere atti a difenderci nel caso che i forti volessero attacar briga. Infatti è meglio imparare la carica in dodici tempi e sapersi sbarazzare di un cosacco piuttosto che raccomandarsi al cielo e confidare nel proprio buon diritto. Lo dico e lo ripeto: arare, seminare a tempo debito, stare nel campo fin dal mattino, non basta, bisogna difendere il raccolto. Cura le tue viti, vendemmierai l'anno prossimo e un giorno, se Dio vuole, farai del buon vino, ma chi se lo berrá? Rotopshin, se non sei pronto a difenderlo. Signori, pensateci un po' su, e vedete un po' voi se non sarebbe il caso, considerate le presenti circostanze e le imminnenti, di darsi, nel santo giorno della domenica, dopo la messa, naturalmente, a quegli esercizi tanto graditi al Signore degli eserciti qualli sono il passo di carica e il fuoco di battaglione. Sarebbe una profittevole maniera di impiegare, con grande vantaggio per lo stato, il tempo che si perde ballando.
Ma i nostri devoti la vedono in un altro modo. Loro vorrebbero che la domenica non si facesse niente altro che pregare e recitare le Ore, Certo la salvezza eterna è l'interesse principale. Ecco peró l'esattore; bisogna pagar e lavorare anche per quelli che non lavorano. E quanti credete che siano quelli che pesano sulle nostre braccia? Bambini, vecchi, mendicanti, frati, lacché, cortigiani; quanta gente da mantenere! E lussuosamente in certi casi! E poi c'è il lustro del trono, poi la Santa alleanza; che costi, che spese! E per far fronte, avanza ancora tempo libero? Voi lo sapete e lo vedete bene, Signori; coloro che odiano tanto il lavoro domenicale vogliono emolumenti, mandano le pittime, aumentano il budget. Secondo loro, noi dovremmo lavorare meno e pagare di piú ogni anno.
Come spiegarlo? La lettera uccide e lo spirito vivica, quando la Chiesa diede il precetto di astenersi dal lavoro servile in certi giorni, vi erano servi della gleba, fu per loro, in loro favore che fu istituito il riposo. Allora non vi era santo che i braccianti non festeggiassero con entusiasmo, a perderci era solo il padrone; doveva nutrirli, e senza i santi li avrebbe massacrati di lavoro. Saggio fu il precetto, salutare la legge nei tempi dell'oppressione. Ora, peró, non vi sono piú feudi, non si veste piú la cotta di maglia; siamo liberati dall'antica servitú e, una volta pagate le tasse, lavoriamo per noi stessi e se non lavorassimo, sarebbe a nostre spese; obbligarci a riposare è peggio che la decima, perché almeno la decima serve ai cortigiani, il nostro ozio non serve a nessuno. Il lavoro che ci viene sottratto, il cibo e i vestiti che ci sono totli non lo sono a vantaggio di nessuno, non producono emoluementi, benefici, pensioni. E nuocere in per nuocere.
Gli Inglesi che vengono alle nostre feste si stupiscono tutti alla stessa maniera, pensano tutti la stessa cosa; ma tra loro alcuni si stupiscono un po' di piú: sono i piú anziani, che venuti in Francaia in tempi anteriori, si ricordano ancora come fosse la vecchia Turenna e il popoli dei buoni sovrani. Anch'io me en sovvengo: giovane allora, vidi, prima della grande epoca, in cui soldato volontario della Rivoluzione abbandonai i luoghi tanto cari della mia infanzia, vidi i contadini affamati, cenciosi, tendere ovunque la mano alle porte e sulle strade, nei viali delle cittá, presso i conventi, i castelli, ove la loro inevitavile apparizione era il tormento proprio di coloro che la comune prosperitá rende oggi indignati e desolati. Rinasce la mendicitá, lo so bene, e fará, se è vero quel che si dice, rapidi progressi, ma per molto tempo ancora non raggiungerá quel grado di miseria. La descrizione che potrei darne sarebbe debole per quelli che lo hanno conosciuto, come me, e per gli altri sembrerebbe inventata: ascoltate allora un testimone, un uomo del Grand Siècle, osservatore esatto e disinteressato; il suo discorso non puó essere sospetto, si tratta di La Bruyère.
“Si vedono, dice, certi animali selvatici, maschi e femmine, sparsi per le campagne, neri, lividi, arsi dal sole, legati alla terra che frugano e rimuovono con una invincibile testardaggine. Possiedono una sorta di voce articolata, e quando si drizzano in piedi mostrano fattezze umane, e, infatti, sono proprio uomini; di notte si ricoverano in una sorta di tane dove vivono di pane nero, acqua e radici. Essi risparmiano agli altri uomini lo sforzo di seminare, di arare e di raccogliere per vivere emaeritano che non manchi loro quel pane che hanno seminato”.
Ecco le sue autentiche parole; parla di quelli fortunati, di quelli che avevano pane e lavoro; erano una minoranza, allora.
Se La Bruyère potesse tornare sulla terra, come soleva accadere nel passato, e presentarsi a una delle nostre assemblee vi troverebbe non solo volti umani, ma visetti femminili di fanciulle piú belle e soprattutto piú modeste di quelle della sua corte tanto vantata, sono vestite con piú gusto, non vi é dubbio, agghindate con piú grazia, con decenza; che ballano meglio, che parlano la stessa lingua (propria del paese) ma con una voce tanto graziosamente e dolcemente articolata che credo en sarebbe soddisfatto. Le vedrebbe rientrare la sera, non nelle loro tane ma in case ben costruite e ammobiliate. Se si mettesse a cercare gli animali di cui aveva parlato non li troverebbe da nessuna parte e forse benedirebbe la causa, qualunque fosse, d'un tanto grande e felice cambiamento.
La festa di Azai era celebre tra tutte quelle dei nostri borghi, attirava il concorso di una folla dai campi e dai comuni dei dintorni. In effetti, da quando i giovanotti fanno ballare le fanciulle, cioè da quando noi contadini delle sponde del Cher siamo padroni di noi stessi, la piazza di Azai fu sempre il nostro punto di incontro preferito per il ballo e per gli affari. Vi ballavamo come vi avevano ballato i nostri padri e le nostre madri, senza che mai scoppiasse uno scandalo, senza che vi fossero denunce, per quanto si ricordi, e non pensavamo essendo cosí tranquilli, non avendo mai causato molestia alcuna, di poter essere, noi, molestati nell'esercizio di questo diritto antico, fondato sulle primitive leggi della ragione e del buon senso; è chiaro che ognuno ha diritto di ballare a casa sua e il pubblico dove starebbe di casa se non sulla pubblica piazza? Eppure ci cacciano via. Una nota firmata de prefetto che egli chiama ordinanza, recentemente pubblicata, proclamata al suono del tamburo, “Considerando, etc” vieta di ballare nel futuro, di giocare a bocce o ai birilli su detta piazza e questo con la minaccia di castigo. Dove andremo a ballare? Da nessuna parte; non si debe ballare e punto. Questo non sta scritto nellordinanza del Signor Prefetto ma è un articolo tra lui e altri poteri, come poi si è visto. Ci comunicarono questo divieto pochi giorni prima della nostra festa, la nostra assemblea di San Giovanni.
Chiedo che sia permesso, come nel passsato, agli abitanti di Azai di ballare la domenica sulla piazza del loro comune, e che ogni divieto, fatto, in questo sesno, dal prefetto sia annullato.
Noi, abitanti di Veretz siamo interessati alla questione, perché andiamo alle feste di Azai, cosí come quelli di Azai vengono alle nostre. La distanza dei due campanili è piú o meno una mezza lega: noi non abbiamo vicini migliori. Loro a casa nostra, noi a casa loro, ci si invita a turno, ci si diverte la domenica, si balla sulla piazza, dopo mezzogiorno, d'estate..
Dopo mezzogiorno giungono il violini e i gendarmi contemporaneamente; a questo proposito devo fare due osservazioni.
Noi danziamo al suono del violino, ma questo a datare da una certa epoca. Il violino era riservato, un tempo, ai balli delle classi elevate; in Francia si trovavano pochi violini, Il gran Re li fece venire dall'Italia e formó un'orchestra perché la corte ballasse con gravitá, i cavalieri in parrucca nera le dame col guardinfante, Il popolo pagava i violini ma non poteva servirsene: ballava poco, a volte al suono della piva o cornamusa come indica il ritornello: “Arriva il pellegrino che suona la cornamusa: balla Guillot, salta Perrette.” Noi nipoti di Gullot e Perrette abbiamo abbandonato i modi dei nostri padri e balliamo al suono dei violini come la corte di Luigi il Grande. Quando dico come dico per dire. Infatti noi non andiamo al ballo con le nostre mogli, le amanti e i nostri bastardi. Questa è la prima osservazione; la seconda eccola qua:
I gendarmi si sono moltiplicati in Francia, piú ancora dei violini, anche se sono meno utili al ballo. Noi en faremmo volentieri a meno nelle feste del paese, e a dire il vero nopn siamo noi che li mandiamo a chiamare: il governo è dovunque oggi e questa ubiquitá arriva anche ai nostri balli, ove non si fa un passo senza che il prefetto voglia esserne informato per renderne conto al ministro.
Sapere chi trova simili attenzioni piú spiacevoli e maggiormente fastidiose, chi en soffre di piú, se i sorvegliati o il governpo, è una questione ben curiosa e difficile, che tuttavia mi vedo costretto a trascurare, per paura di complicarmi la vita con le classi elevate o di dire qualche parola che possa essere considerata tendenziosa.
Oltre i balli ordinari della domenica e dei giorni festivi, vi è quella che è chiamata l'assemblea, una volta all'anno, in ogni comune che riceve tutti gli altri a turno. Grande è l'affluenza e grande la gioia dei giovani. I violini non mancano, come potete immaginare. Al primo colpo d'archetto ci si mette in posizione e ognuno conduce la sua promessa. Altrove si gioca a bocce o a birilli o al paletto. Molti sono coloro che, invece, discutono di affari; si concludono atti di compravendita, varie vacche passano di mano in mano tra quelle che non si erano potute vendere alla fiera, insomma queste assemblee non sono soltanto appuntamenti di svago ma anche di interesse per il popolo e per i singoli e il luogo in cui si tengono non puó essere indifferente. La piazza di Azai sembra essere fatta apposta per questo situata al centro del comune, in terra battuta, senza pavé, è adatta a ogni sorta di gioco e di esercizio; circondata da negozi, prossima alle locande, alle osterie, dato che pochi sono gli affari che si negoziano senza bere, poche contraddanze finiscono senza vuotare qualche boccale di birra; nessun disordine, mai nemmeno l'ombra di una rissa. È oggetto d'ammirazione per gli Inglesi, che ogni tanto ci vengono a vedere e quasi non possono capire che le nostre feste popolari trascorrano con tanta tranquillitá, senza pugilato come da loro, senza assassinii come in Italia, senza sbronze come in Germania.
Il popolo è saggio, malgrado i rapporti segreti. Lavoriamo troppo per avere tempo di pensare a fare il male, e, se è vero questo antico proverbio: pigrizia madre di ogni vizio, occupati come siamo, sei giorni alla settimana senza tregua e buona parte del settimo, cosa che taluni criticano e a ragione. Io vorrei che in quel giorno ogni fatica cessasse; la domenica e nei giorni di festa, in tutti i paesi del contado si dovrebbe fare esercizio di tiro, di maneggio delle armi, pensando alle potenze straniere che pensano a noi tutti i santi giorni. Cosí fanno gli Svizzeri, nostri vicini, e cosí dovremmo fare noi per essere atti a difenderci nel caso che i forti volessero attacar briga. Infatti è meglio imparare la carica in dodici tempi e sapersi sbarazzare di un cosacco piuttosto che raccomandarsi al cielo e confidare nel proprio buon diritto. Lo dico e lo ripeto: arare, seminare a tempo debito, stare nel campo fin dal mattino, non basta, bisogna difendere il raccolto. Cura le tue viti, vendemmierai l'anno prossimo e un giorno, se Dio vuole, farai del buon vino, ma chi se lo berrá? Rotopshin, se non sei pronto a difenderlo. Signori, pensateci un po' su, e vedete un po' voi se non sarebbe il caso, considerate le presenti circostanze e le imminnenti, di darsi, nel santo giorno della domenica, dopo la messa, naturalmente, a quegli esercizi tanto graditi al Signore degli eserciti qualli sono il passo di carica e il fuoco di battaglione. Sarebbe una profittevole maniera di impiegare, con grande vantaggio per lo stato, il tempo che si perde ballando.
Ma i nostri devoti la vedono in un altro modo. Loro vorrebbero che la domenica non si facesse niente altro che pregare e recitare le Ore, Certo la salvezza eterna è l'interesse principale. Ecco peró l'esattore; bisogna pagar e lavorare anche per quelli che non lavorano. E quanti credete che siano quelli che pesano sulle nostre braccia? Bambini, vecchi, mendicanti, frati, lacché, cortigiani; quanta gente da mantenere! E lussuosamente in certi casi! E poi c'è il lustro del trono, poi la Santa alleanza; che costi, che spese! E per far fronte, avanza ancora tempo libero? Voi lo sapete e lo vedete bene, Signori; coloro che odiano tanto il lavoro domenicale vogliono emolumenti, mandano le pittime, aumentano il budget. Secondo loro, noi dovremmo lavorare meno e pagare di piú ogni anno.
Come spiegarlo? La lettera uccide e lo spirito vivica, quando la Chiesa diede il precetto di astenersi dal lavoro servile in certi giorni, vi erano servi della gleba, fu per loro, in loro favore che fu istituito il riposo. Allora non vi era santo che i braccianti non festeggiassero con entusiasmo, a perderci era solo il padrone; doveva nutrirli, e senza i santi li avrebbe massacrati di lavoro. Saggio fu il precetto, salutare la legge nei tempi dell'oppressione. Ora, peró, non vi sono piú feudi, non si veste piú la cotta di maglia; siamo liberati dall'antica servitú e, una volta pagate le tasse, lavoriamo per noi stessi e se non lavorassimo, sarebbe a nostre spese; obbligarci a riposare è peggio che la decima, perché almeno la decima serve ai cortigiani, il nostro ozio non serve a nessuno. Il lavoro che ci viene sottratto, il cibo e i vestiti che ci sono totli non lo sono a vantaggio di nessuno, non producono emoluementi, benefici, pensioni. E nuocere in per nuocere.
Gli Inglesi che vengono alle nostre feste si stupiscono tutti alla stessa maniera, pensano tutti la stessa cosa; ma tra loro alcuni si stupiscono un po' di piú: sono i piú anziani, che venuti in Francaia in tempi anteriori, si ricordano ancora come fosse la vecchia Turenna e il popoli dei buoni sovrani. Anch'io me en sovvengo: giovane allora, vidi, prima della grande epoca, in cui soldato volontario della Rivoluzione abbandonai i luoghi tanto cari della mia infanzia, vidi i contadini affamati, cenciosi, tendere ovunque la mano alle porte e sulle strade, nei viali delle cittá, presso i conventi, i castelli, ove la loro inevitavile apparizione era il tormento proprio di coloro che la comune prosperitá rende oggi indignati e desolati. Rinasce la mendicitá, lo so bene, e fará, se è vero quel che si dice, rapidi progressi, ma per molto tempo ancora non raggiungerá quel grado di miseria. La descrizione che potrei darne sarebbe debole per quelli che lo hanno conosciuto, come me, e per gli altri sembrerebbe inventata: ascoltate allora un testimone, un uomo del Grand Siècle, osservatore esatto e disinteressato; il suo discorso non puó essere sospetto, si tratta di La Bruyère.
“Si vedono, dice, certi animali selvatici, maschi e femmine, sparsi per le campagne, neri, lividi, arsi dal sole, legati alla terra che frugano e rimuovono con una invincibile testardaggine. Possiedono una sorta di voce articolata, e quando si drizzano in piedi mostrano fattezze umane, e, infatti, sono proprio uomini; di notte si ricoverano in una sorta di tane dove vivono di pane nero, acqua e radici. Essi risparmiano agli altri uomini lo sforzo di seminare, di arare e di raccogliere per vivere emaeritano che non manchi loro quel pane che hanno seminato”.
Ecco le sue autentiche parole; parla di quelli fortunati, di quelli che avevano pane e lavoro; erano una minoranza, allora.
Se La Bruyère potesse tornare sulla terra, come soleva accadere nel passato, e presentarsi a una delle nostre assemblee vi troverebbe non solo volti umani, ma visetti femminili di fanciulle piú belle e soprattutto piú modeste di quelle della sua corte tanto vantata, sono vestite con piú gusto, non vi é dubbio, agghindate con piú grazia, con decenza; che ballano meglio, che parlano la stessa lingua (propria del paese) ma con una voce tanto graziosamente e dolcemente articolata che credo en sarebbe soddisfatto. Le vedrebbe rientrare la sera, non nelle loro tane ma in case ben costruite e ammobiliate. Se si mettesse a cercare gli animali di cui aveva parlato non li troverebbe da nessuna parte e forse benedirebbe la causa, qualunque fosse, d'un tanto grande e felice cambiamento.
La festa di Azai era celebre tra tutte quelle dei nostri borghi, attirava il concorso di una folla dai campi e dai comuni dei dintorni. In effetti, da quando i giovanotti fanno ballare le fanciulle, cioè da quando noi contadini delle sponde del Cher siamo padroni di noi stessi, la piazza di Azai fu sempre il nostro punto di incontro preferito per il ballo e per gli affari. Vi ballavamo come vi avevano ballato i nostri padri e le nostre madri, senza che mai scoppiasse uno scandalo, senza che vi fossero denunce, per quanto si ricordi, e non pensavamo essendo cosí tranquilli, non avendo mai causato molestia alcuna, di poter essere, noi, molestati nell'esercizio di questo diritto antico, fondato sulle primitive leggi della ragione e del buon senso; è chiaro che ognuno ha diritto di ballare a casa sua e il pubblico dove starebbe di casa se non sulla pubblica piazza? Eppure ci cacciano via. Una nota firmata de prefetto che egli chiama ordinanza, recentemente pubblicata, proclamata al suono del tamburo, “Considerando, etc” vieta di ballare nel futuro, di giocare a bocce o ai birilli su detta piazza e questo con la minaccia di castigo. Dove andremo a ballare? Da nessuna parte; non si debe ballare e punto. Questo non sta scritto nellordinanza del Signor Prefetto ma è un articolo tra lui e altri poteri, come poi si è visto. Ci comunicarono questo divieto pochi giorni prima della nostra festa, la nostra assemblea di San Giovanni.
trad genseki
mercoledì, giugno 01, 2011
Joseph Joubert
Joseph Joubert, il saggio di Villeneuve sur Yonne, fu defininto da qualcuno: autore senza opera, scrittore senza scritti.
Chateubriand pubblicó postumi i pensieri e le note raccolte nei suoi quaderni.
Il capitalismo non sfamerá mai l'uomo (Bordiga)
La naura ci ha dato un muso per frugare nella terra o piuttosto mani per ararla? Seminare e raccogliere ecco la relazione essenziale che intercorre tra questo globo e noi.
*
Il capitalismo come puro spirito
L'orologio. Idea che se ne fa un selvaggio. Il suo errore non è completo, Effettivamente ogni macchina è stata messa in moto da uno spirito che poi si è ritirato.
*
Internet come protesi
La mente è per la'nima una specie di organo, una sorta di occhio, di lingua, di udito, di vista e persino di cervello, una specie di portavoce, di telescopio, di compasso. A volte tale organo agisce da solo. BISOGNA AVERE UN'ANIMA POETICA E UNA MENTE GEOMETRICA.
*
L'educazione non consiste soltanto nell'adornare la memoria e illustrare l'intelletto: deve occuparsi soprattutto di illuminare la volontá.
*
Sessi
Uno sembra una ferita, l'altro uno scorticato.
*
Il velo?
Solo per il volto siamo noi stessi, il corpo nudo di una donna mostra il suo sesso piuttosto che la sua persona. Non si pensa al volto della donna di cui si vede il corpo nudo. Per questo il vestito mette in mostra il volto. La persona è tutta nel volto, solo la specie nel resto.
*
Strauss Kahn
Alle donne piacciono le avventure, gli incontri, il sesso, proprio perché a loro piace concedersi e non essere concesse. Per questo sesso fare un dolce uso del proprio corpo significa disporre liberamente di esso. Una volta compiuto questo atto di libertá dipende solo dagli uomini che siano costanti. A parte questo lo sono solo in un caso, quando sono state prese di forza; e parlo di forza fisica e non sociale.
Tale violenza fa loro sperare di poter esercitare un grande potere su quell'uomo che hanno dominato fino a farlo uscire di senno. Cosí come sperano una grande condiscendenza dall'uomo al quale hanno sacrificato tutto.
N.B. Bisogna che si tratti della violenza di un uomo non di un uomo brutale.
*
Chi non è mai stato ingannato non è mai stato amico.
*
Ogni anima è un occhio, proprio come il corpo è interamente tatto, l'uno percepisce molte veritá di cui non puó impadronirsi, l'altra raggiunge molte cose che non puó maneggiare.
trad genseki
martedì, maggio 31, 2011
Dreiser Cazzaniga e la Bibbia
Il primo risvegliarsi in Dreiser Cazzaniga dell'amara coscienza dell'ingiustizia che pervade le nostre societá umane e dell'ingenua volontá di porvi riparo per quanto dipendesse dalle sue povere forze coincise con la sua lettura della Bibbia. Fu precisamente il testo del profeta Amos che gli rivelò tutto un universo di pensieri, di pene, angustia e sdegno e lo gettó cosí come era, privo di discermnimento e avvolto da nebbiosa passione, nello stato in cui si mantenne per tutta la vita di scorticata ribellione. Certo la societá che le parole del profeta tanto violentemente denunciavano, minacciavano in nome del Signore e invitavano al ravvedimento era una societá sconosciuta nelle sue forme al giovane Dreiser Cazzaniga. Una societá agro pastorale, arcaica e di pura sussistenza in cui l'orfano e la vedova sprovvisti di protezione rischiavano presto la morte per fame o per malattia. Dreiser Cazzaniga aveva si conosciuto gli ultimi abitanti delle grandi cascine della Sierra, che scendevano al barrio profumando di stalla sui carri cigolanto trainati dai buoi pazienti, aveva giocato con l'acqua che si raccoglie nei solchi che le loro ruote marcavano sulla strada, aveva spiato i fanciulli e le fantine che menavano al pascolo le greggi sparute nel grigio novembrino dei colli.asi Ma il mondo dei pastori e dei contadini era estraneo alla sua vita quotidiana. Egli conosceva, invece, molto e bene il mondo operaio, la sua vita e i suoi giochi erano regolati dalle sirene degli opifici, il cui prolungato lamento lo richiamava a casa per il pranzo o per la cena e il sonno nel vespero. Avanzava nella folla mesta al ritmo del passo grave degli operai tutti vestiti di blu che profumavano di grasso, e e vino, e viveva solo in virtú di questa comunione quotidiana di passante il loro orgoglio, le loro umiliazioni la determinazione della loro lotta per l'esistenza. Così fu, che senza riflettere, quando leggeva di vedove e orfani e di ingiustizia pensava ai padri dei suoi condiscepoli del barrio, al freddo delle loro case, alla brutalitá del loro alcolismo, alla condizione di ingiustizia sotto la quale dovevano piegare il capo. Il Profeta poco a poco venne nella sua mente assumendo insensibilmente i tratti del rivoluzionario, del mestatore, del rubello, dell'insorto, del giacobino, ma sotto i suoi nuovi panni era sempre il Profeta che esercitava la sua influenza sul piccolo Dreiser Cazzaniga. Gli è che il Profeta era uomo oscuro, semplice, che viveva in silente solitudine e solo dopo dura lotta con Dio accettava di essere lo strumento dell'annuncio della sua giustizia. Il Profeta non avrebbe parlato, non avrebbe potuto parlare, era stato separato, isolato, mondato, e per essere un semplice efficace strumento del verbo di giustizia. In questo scontroso isolamento, in questa appassionata austera solitudine, nella timidezza, nele senso di inadeguatezza che lo faceva sentire inferiore e superiore al contempo a chiunque, in questa ridda di confusi sentimenti, il giovane Dreiser Cazzaniga si identificava col Profeta nel piú intimo della sua anima e sognava. Poi la lettura del Magnificat gli si squadernó davanti come una gloriosa indomita rivendicazione di giustizia facendo della Vergine una madre paterna occulta.
Negli anni della sua militanza giacobina, duri e violenti vennero poco a poco cancellandosi dai suoi ricordi coscienti, la figura del Profeta e quella della Vergine, ma in realtá dall'occulta profonditá dell'anima sua mai non cessarone di guidare i suoi passi. Nel giacobinismo ahimé egli si spense non volle essere accolto dalle braccia di Abramo.
a cura di genseki
Negli anni della sua militanza giacobina, duri e violenti vennero poco a poco cancellandosi dai suoi ricordi coscienti, la figura del Profeta e quella della Vergine, ma in realtá dall'occulta profonditá dell'anima sua mai non cessarone di guidare i suoi passi. Nel giacobinismo ahimé egli si spense non volle essere accolto dalle braccia di Abramo.
a cura di genseki
giovedì, maggio 26, 2011
Giovanni Giudici
Mi chiedi cosa vuol dire
Mi cheide cosa vuol dire
la parola alienazione:
da quando nasci è morire
per vivere in un padrone
che ti vende ─è consegnare
ciò che porti─ forza, amore,
odio intero ─per trovare
sesso, vino, crepacuore.
Vuol dire fuori di te
già essere mentre credi
in te abitare perché
ti scalza il vento a cui cedi.
Puoi resistere, ma un giorno
è un secolo a consumarti:
ciò che dài non fa ritorno
a te stesso da cui parte.
Alla beatrice
Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra
arrampicato su una scala di corda
affacciato dal fuori in posizione precaria
dentro i tuoi occhi celeste vetro
dentro i tuoi vizi capitali
dentro i tuoi tremori e mali
Beatrice sui tuoi seni io ci sto a spiare
ciò che fanno seduti intorno a un tavolo
i tuoi pensieri su sedie di paglia
ospiti appena arrivati o sul punto di partire
raccolti sotto la lampada gialla
uno che ride uno che ascolta e uno che parla
Beatrice dai tuoi seni io guardo dentro la casa
Dalla notte esteriore superstite luce
Nella selva selvaggia che a te conduce
Dalla padella alla brace
Estrema escursione termica che mi resta
Più fuoco per me tua minestra
Beatrice – costruttrice
Della mia beatitudine infelice
Beatrice dai tuoi seni io vengo a esplorare com’è
La stanza dove abitare
Se convenienti vi siano i servizi
E sufficiente l’ordine prima di entrare
Se il letto sia di giusta misura
Per l’amore secondo natura.
Beatrice dunque di essi non devi andare superba
Più che dell’erba il prato su cui ci sdraiamo
Potrebbero essere stracci non ostentarli
Per tesori da schiudere a viste meravigliate
I tuoi semplici beni di utilità strumentale
Mi servono da davanzale
Beatrice – dal verbo beare
nome comune singolare.
Mi cheide cosa vuol dire
la parola alienazione:
da quando nasci è morire
per vivere in un padrone
che ti vende ─è consegnare
ciò che porti─ forza, amore,
odio intero ─per trovare
sesso, vino, crepacuore.
Vuol dire fuori di te
già essere mentre credi
in te abitare perché
ti scalza il vento a cui cedi.
Puoi resistere, ma un giorno
è un secolo a consumarti:
ciò che dài non fa ritorno
a te stesso da cui parte.
Alla beatrice
Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra
arrampicato su una scala di corda
affacciato dal fuori in posizione precaria
dentro i tuoi occhi celeste vetro
dentro i tuoi vizi capitali
dentro i tuoi tremori e mali
Beatrice sui tuoi seni io ci sto a spiare
ciò che fanno seduti intorno a un tavolo
i tuoi pensieri su sedie di paglia
ospiti appena arrivati o sul punto di partire
raccolti sotto la lampada gialla
uno che ride uno che ascolta e uno che parla
Beatrice dai tuoi seni io guardo dentro la casa
Dalla notte esteriore superstite luce
Nella selva selvaggia che a te conduce
Dalla padella alla brace
Estrema escursione termica che mi resta
Più fuoco per me tua minestra
Beatrice – costruttrice
Della mia beatitudine infelice
Beatrice dai tuoi seni io vengo a esplorare com’è
La stanza dove abitare
Se convenienti vi siano i servizi
E sufficiente l’ordine prima di entrare
Se il letto sia di giusta misura
Per l’amore secondo natura.
Beatrice dunque di essi non devi andare superba
Più che dell’erba il prato su cui ci sdraiamo
Potrebbero essere stracci non ostentarli
Per tesori da schiudere a viste meravigliate
I tuoi semplici beni di utilità strumentale
Mi servono da davanzale
Beatrice – dal verbo beare
nome comune singolare.
Giovanni Giudici
Giudici sui tuoi versi io ci sto alla finestra
Come fosse tutta una Provenza dopo tanta onesta Milano
Quella che trovavo in fondo al tunnel di Mignanego.
Ed era solo basilico
Camion scordati e fumo nero
Sul cassone appollaiati tanti giovani stranieri
Giudici sui tuoi versi salivo da corsia dei servi
In cerca di due stanze ed un giocondo tinello
In fondo al bicchiere leggevo la pubblicitá sella SITA
Giovanni tra i pini e l'arida luce del mare
Sul tuo sorriso sto a guardare
Il volo che dal canto appare.
genseki
Come fosse tutta una Provenza dopo tanta onesta Milano
Quella che trovavo in fondo al tunnel di Mignanego.
Ed era solo basilico
Camion scordati e fumo nero
Sul cassone appollaiati tanti giovani stranieri
Giudici sui tuoi versi salivo da corsia dei servi
In cerca di due stanze ed un giocondo tinello
In fondo al bicchiere leggevo la pubblicitá sella SITA
Giovanni tra i pini e l'arida luce del mare
Sul tuo sorriso sto a guardare
Il volo che dal canto appare.
genseki
mercoledì, maggio 25, 2011
La pioggia
Vi è, mentre dura la pioggia, una certa oscuritá che allunga tutti gli oggetti. Causa, inoltre, per la disposizione che il nostro corpo è obbligato ad assumere, una sorta di raccogllimento, che rende l'anima infinitamente piú sensibile. Anche il suo rumore, che i latini esprimevano chiamandola "densissimus imber", occupando costantemente l'udito risveglia l'attenzione e la mantiene perennemente vigile. Il color grigio che l'umiditá conferisce ai muri, agli alberi, alle rocce contribuisce a rendere piú intensa ancora l'impressione che tali oggetti producono. La solitudine e il silenzio che si estende intorno al viandante, obbligando gli uomini e gli animali a tacere e a restare al coperto, finsce per rendere la sua percezione ancora piú netta. Avvolto nel suo mantello, con il capo coperto, camminando per sentieri deserti, tutto lo colpisce, tutto appare piú grande alla sua immaginazione o al suo sguardo. I ruscelli si gonfiano, l'erba s'addensa, i minerali si fanno piú visibili, il cielo si approssima alla terra e tutti gli oggetti, racchiusi in un orizzonte ristretto, occupano piú spazio e si appaiono piú importanti.
J. Joubert
trad genseki
martedì, maggio 24, 2011
Bella
Eri bella
Come quello che resta dell'uscio
Dopo il mare, dopo il silenzio,
Bella
Come l'assalto verticale delle chiocciole alla verbena
Come l'arco delle ciglia dello stupore
Come la soglia varcata dalla statua dell'arcere
Come la caduta a ventaglio di un mazzo di carte
Sul pavimento
Come il gesto di aprire
Ció che già fu spalancato
Come l'evidenza del vuoto
Le ossa cave
La corrosione del cranio
Il silicio
La demenza vegetale del carrubo
L'impudicizia della sua fibra rosa
Il tuo ombrello gettato su una stufa spenta
Una sigaretta
Il latte avizzito delle tue unghie
Il tuo passo azzurro tra i serpenti
Lo smalto spezzato
Il bicchiere nella mano di un altro
Il sonno che ti leviga il corpo
Come un ciottolo nel torrente
Come l'affannarsi della tua stanchezza
La mia pochezza
Il nostro incontro
L'irrompere di te nel mio ricordo
Come il vento tra i capelli in un armadio.
Come quello che resta dell'uscio
Dopo il mare, dopo il silenzio,
Bella
Come l'assalto verticale delle chiocciole alla verbena
Come l'arco delle ciglia dello stupore
Come la soglia varcata dalla statua dell'arcere
Come la caduta a ventaglio di un mazzo di carte
Sul pavimento
Come il gesto di aprire
Ció che già fu spalancato
Come l'evidenza del vuoto
Le ossa cave
La corrosione del cranio
Il silicio
La demenza vegetale del carrubo
L'impudicizia della sua fibra rosa
Il tuo ombrello gettato su una stufa spenta
Una sigaretta
Il latte avizzito delle tue unghie
Il tuo passo azzurro tra i serpenti
Lo smalto spezzato
Il bicchiere nella mano di un altro
Il sonno che ti leviga il corpo
Come un ciottolo nel torrente
Come l'affannarsi della tua stanchezza
La mia pochezza
Il nostro incontro
L'irrompere di te nel mio ricordo
Come il vento tra i capelli in un armadio.
Hurt
Ferito
Mi sono ferito da solo
Per sapere se provavo dolore
Nel dolore ho posto il mio centro
Soltanto il dolore è reale.
Un foro prodotto dall'ago
La vecchia ben nota iniezione
Ucciderla era quello che volevo
Eppure continuai a ricordare.
Che cosa sono ormai diventato?
Dolcissimo amico
Coloro che ebbi vicino
La fine con sé li trascina
Eppure lo avrei posseduto
Il mio impero di spazzatura.
Saró pe te delusione
Ti faró molto male
Io porto corona di spine
Sul mio trono di bugiardo.
Rotti sono tutti i miei pensieri
Nessuno li puó riparare.
Le macchie del tempo
Cancellano brame.
Non sei diversa dagli altri
E io resto qui.
Che cosa sono ormai diventato?
Dolcissimo amico
Coloro che ebbi vicino
La fine con sé li trascina
Eppure lo avrei posseduto
Il mio impero di spazzatura.
Saró pe te delusione
Ti faró molto male.
Se di nuovo potessi cominciare
Lontano, lontano da qui,
Mi prenderei cura di me,
Sicuro ce la pòtrei fare.
genseki
Mi sono ferito da solo
Per sapere se provavo dolore
Nel dolore ho posto il mio centro
Soltanto il dolore è reale.
Un foro prodotto dall'ago
La vecchia ben nota iniezione
Ucciderla era quello che volevo
Eppure continuai a ricordare.
Che cosa sono ormai diventato?
Dolcissimo amico
Coloro che ebbi vicino
La fine con sé li trascina
Eppure lo avrei posseduto
Il mio impero di spazzatura.
Saró pe te delusione
Ti faró molto male
Io porto corona di spine
Sul mio trono di bugiardo.
Rotti sono tutti i miei pensieri
Nessuno li puó riparare.
Le macchie del tempo
Cancellano brame.
Non sei diversa dagli altri
E io resto qui.
Che cosa sono ormai diventato?
Dolcissimo amico
Coloro che ebbi vicino
La fine con sé li trascina
Eppure lo avrei posseduto
Il mio impero di spazzatura.
Saró pe te delusione
Ti faró molto male.
Se di nuovo potessi cominciare
Lontano, lontano da qui,
Mi prenderei cura di me,
Sicuro ce la pòtrei fare.
genseki
L'aceto
Furono le gocce d'aceto
A calmare il ronzio, a sedare
Il bruciore di tutti quei fiori
Che fiorivano di piaghe il petto il dorso
Le spalle il volto
A fior d'ascella appena rispondeva
Un'assenza di petali e cascate
Di riccioli biondi come anelli
Insanguinati
(La pioggia era un lontano ricordo)
A volte si ricordave persino del ricordo:
Quello dei rottweiler per esempio, del filo spinato
Del pane azzimo, la bellezza mattutina
Dei dirigibili, il panneggio delle orecchie
Sbrindellate degli elefanti
Stracci grigi dai riflessi opachi,
Poi era ricacciato nel presente dei chiodi
Della ruggine delle tenaglie
Del sudore verde
Degli occhi celesti nella loro cornice di sangue
Dei bubboni
Dell'ombra degli olmi
Come una pozza di frescura
Tra le vampate del frumento
L'aceto era il fiore
Sbocciato sulla cuspide della lingua
Le piaghe stelle al margine
Dei capezzoli, sulle scapole
Moriva per i corvi, per i rospi
Moriva
E il vento disperdeva sui campi di cotone
Le borse di plastica a milioni
Le lattine vuote, le bottiglie,
Moriva per i merli e per le chiocciole
Le tigri da tempo si erano estinte
La morte gli fioriva in petto
Nel sudore violaceo annegava
Nella rapida intermittenza dei ricordi di tutti.
genseki
A calmare il ronzio, a sedare
Il bruciore di tutti quei fiori
Che fiorivano di piaghe il petto il dorso
Le spalle il volto
A fior d'ascella appena rispondeva
Un'assenza di petali e cascate
Di riccioli biondi come anelli
Insanguinati
(La pioggia era un lontano ricordo)
A volte si ricordave persino del ricordo:
Quello dei rottweiler per esempio, del filo spinato
Del pane azzimo, la bellezza mattutina
Dei dirigibili, il panneggio delle orecchie
Sbrindellate degli elefanti
Stracci grigi dai riflessi opachi,
Poi era ricacciato nel presente dei chiodi
Della ruggine delle tenaglie
Del sudore verde
Degli occhi celesti nella loro cornice di sangue
Dei bubboni
Dell'ombra degli olmi
Come una pozza di frescura
Tra le vampate del frumento
L'aceto era il fiore
Sbocciato sulla cuspide della lingua
Le piaghe stelle al margine
Dei capezzoli, sulle scapole
Moriva per i corvi, per i rospi
Moriva
E il vento disperdeva sui campi di cotone
Le borse di plastica a milioni
Le lattine vuote, le bottiglie,
Moriva per i merli e per le chiocciole
Le tigri da tempo si erano estinte
La morte gli fioriva in petto
Nel sudore violaceo annegava
Nella rapida intermittenza dei ricordi di tutti.
genseki
venerdì, maggio 06, 2011
Monti lontani
Lontani, monti fraterni,
Il ricordo in frammenti ignora
Come volti, dita, coralli
Fiori d'avvento, articolazioni
Gattici di spavento
Nella primavera che odora
Di biancospino
Gli ultimi stracci del freddo
Si sfilacciano sul languore del rovo
Anche il ricordo è rosa
Come la pietra piú sorda.
genseki
Il ricordo in frammenti ignora
Come volti, dita, coralli
Fiori d'avvento, articolazioni
Gattici di spavento
Nella primavera che odora
Di biancospino
Gli ultimi stracci del freddo
Si sfilacciano sul languore del rovo
Anche il ricordo è rosa
Come la pietra piú sorda.
genseki
Nel raccolto dei suoni
Nel raccolto dei suoni, raro
Trasformava, la sua sistole
In qualche cosa di pú intimo
Un abbraccio forse, sale di datura,
Cristallo di un altro cielo
Di altre ore, screziato come il fiore
Della campana, il suo pistillo
Feroce,
Insidiava la volta, il croco, limitrofo
Alla paura.
Sarebbe toccato anche a lui:
Di non svegliarsi, di rabbrividire
Avvolto nel candore abbagliante
Di tutta quella vita che rintoccava
Di cristallo in cristallo fiammeggiando
Sull'impalcature cosmica
Come una cascata coagulata di beatitudine
Come il sale che ci rende immemori
La pellicola opaca delle parole
Che profumano di ali come il prezzemolo
E occultano la morte, la contraddicono
Fino all'ennesima nota oscura
Sul pentagramma dell'agonia.
genseki
Trasformava, la sua sistole
In qualche cosa di pú intimo
Un abbraccio forse, sale di datura,
Cristallo di un altro cielo
Di altre ore, screziato come il fiore
Della campana, il suo pistillo
Feroce,
Insidiava la volta, il croco, limitrofo
Alla paura.
Sarebbe toccato anche a lui:
Di non svegliarsi, di rabbrividire
Avvolto nel candore abbagliante
Di tutta quella vita che rintoccava
Di cristallo in cristallo fiammeggiando
Sull'impalcature cosmica
Come una cascata coagulata di beatitudine
Come il sale che ci rende immemori
La pellicola opaca delle parole
Che profumano di ali come il prezzemolo
E occultano la morte, la contraddicono
Fino all'ennesima nota oscura
Sul pentagramma dell'agonia.
genseki
giovedì, maggio 05, 2011
Coscienza, immediatezza, realtá
Nel testo seguente Kierkegaard commenta, nei panni di Johannes Climacus, le prime pagine della Fenomenologia Hegeliana. Il suo scopo è quello di porre il linguaggio, il Verbo, come motore della dialettica e della formazione della coscienza La coscienza è per kiergaard l'in sé per sé dell'immediatezza e dell'idealitá: sintesi, insomma. La sintesi che è data anche qui come relazione. Nella forma della particolare dialettica hegeliana la sintesi è relazione e la negazione presupposto. La negazione nega il suo oggetto presupponendolo, la mediazione presuppone l'immediatezza, il modo piú semplice di negarka. Se l'immediatezza è la realtá ecco che allora la mediazione deve situarsi su un altro piano. Questo piano è quello simbolico, che K, chiama idealitá. Il linguaggio è ció che rende possaibile la negazione. Il linguaggio é negazione. Ed è negazione nel momento in cui esprime quello che nega. L'immediato è quello che è atteso, sperato.
"La coscienza puó permanere nell'immediatezza? Ecco una domanda senza senso, perché se potesse, allora non vi sarebbe nessuna coscienza. Allora come è tolta l'immediatezza? Attraverso la mediazione che abolisce l'immediatezza presupponendola.Che cos'è allora l'immediatezza? La realtá. CHe cos'è la mediazione? La parola. In che modo questa abolisce quella? Esprimendola. Perché ciò che si esprime sempre è presupposto.
L'immediatezza è la realtá, il linguaggio l'idealitá; la coscienza è la contraddizione.Nel momento in cui si esprime la realtá si ha la contraddizione, perché ciò che dico è l'idealitá.
"La coscienza puó permanere nell'immediatezza? Ecco una domanda senza senso, perché se potesse, allora non vi sarebbe nessuna coscienza. Allora come è tolta l'immediatezza? Attraverso la mediazione che abolisce l'immediatezza presupponendola.Che cos'è allora l'immediatezza? La realtá. CHe cos'è la mediazione? La parola. In che modo questa abolisce quella? Esprimendola. Perché ciò che si esprime sempre è presupposto.
L'immediatezza è la realtá, il linguaggio l'idealitá; la coscienza è la contraddizione.Nel momento in cui si esprime la realtá si ha la contraddizione, perché ciò che dico è l'idealitá.
trad. genseki
Vallejo-Kandinsky
martedì, maggio 03, 2011
Abbandono
Venire a patti
Non ci restava ormai nessun'altra via d'uscita
Che non fosse quella di venire a patti con la morte
La nostra morte quella che ha sempre due facce
Perchè con noi muoiono gli altri e
E con gli altri moriamo anche noi
A questa morte non ci ribelliamo
Accettiamo di essere nella sua messe
Nel suo raccolto come frutta inutile
A questa morte infine ci abbandoniamo
Che ci tritura come strame fetido
In nulla secco e cenere per tutti i secoli
Nella morte fraterna ci abbandoniamo
Nelle sue braccia recliniamo l'orgoglio
L'io ritorna al suo nido all'albero nero
Di cui ogni foglia è specchio di silenzio.
genseki
Non ci restava ormai nessun'altra via d'uscita
Che non fosse quella di venire a patti con la morte
La nostra morte quella che ha sempre due facce
Perchè con noi muoiono gli altri e
E con gli altri moriamo anche noi
A questa morte non ci ribelliamo
Accettiamo di essere nella sua messe
Nel suo raccolto come frutta inutile
A questa morte infine ci abbandoniamo
Che ci tritura come strame fetido
In nulla secco e cenere per tutti i secoli
Nella morte fraterna ci abbandoniamo
Nelle sue braccia recliniamo l'orgoglio
L'io ritorna al suo nido all'albero nero
Di cui ogni foglia è specchio di silenzio.
genseki
Il dolore
Tuttavia c'è anche il dolore
Il dolore sarà richiamo costante
Alla bellezza di ogni istante
Al dolente solo bellezza è data
Senza consolazione alcuna
Egli l'accetta come pura fragrante
Perchè non vi è passato nell'abbandono
Chi dice si non conosce futuro
Bellezza solo nel dolore è dono
Quando l'anima non può essere
Rifrancata dall'arsura che la consuma.
genseki
Il dolore sarà richiamo costante
Alla bellezza di ogni istante
Al dolente solo bellezza è data
Senza consolazione alcuna
Egli l'accetta come pura fragrante
Perchè non vi è passato nell'abbandono
Chi dice si non conosce futuro
Bellezza solo nel dolore è dono
Quando l'anima non può essere
Rifrancata dall'arsura che la consuma.
genseki
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