lunedì, febbraio 28, 2011
Juan Larrea
Nel paese del riso la cenere precede il fuoco
La neve precede gli uccelli
Le lacrime i loro troni
Quello che all'inizio è speranza camminando si fa orma
Quello che accade lascia separati i colori
Ma soggetti a un qualche oscuro inganno
Per perdere la vita non vi èe che un motivo il cielo
Le bocche hanno l'odore del desiderio di scoprire un bel delitto
Un caffé non è mai lontano
Uniti da una medesima tendenza
Quando l'alba paga le sue nubi con la vita
Uniti come monete nel prezzo di una donna nuda
Le membra di un uomo non vi lasciano niente da desiderare
Come eclissi parziali
Assoli d'arpa
Come spari nel vento
Come fiammifferi
III
Tanto progresso introdotto nella
Nostra pallida nevralgia miseria di stufa
Senza dolore senza domatore senza
Nulla di simile al ventre materno
A occulti tesori
Vecchi lupi di speranza fumando
All'origine delle lacrime lontano dalle
Montagne che sanguinano dal naso dei fiori
Amarezza rimpiazza le ulcere di ceralacca
I granchi nelle notti di pioggia
Le donne perdute in ogni
Imboscata di freddo che
Si sporge ancora dai rami mascherati di statura
Merci luminose delle sue ginocchia
Disposte a cadere al bordo del'ombra in fiamme
Come gru di impulsi sinceri
Catena degli incompresi sempre
Da “Oscuro Dominio”
trad. genseki
Per Il volo possibile
Ma non vi arrise il sorriso
No, sfuggente alla piena libertà del dolore,
Si stancava per tutti noi
Per le foglie caduche
Per i gattici novelli
Per le piume smarrite – solo per sé non aveva rimpianti -
Ora il tuo sguardo è rame e fragore
La tua voce stridula richiama
Il germano che vola sul greto tra la nebbia
All'altro capo di nessun telefono
Ti distendo le mie parole
Come tante mancanze vuoti intermittenze
Sei pioggia di campane ora
Nubifragio di rintocchi misericordiosa
A tutti i viventi alle loro lacrime grata
Tu che amarezza piegasti a tenerezza
Ora consoli
L'arida disperazione che si screpola in lamenti
Sei pioggia e mormorio e carezza – ora -
E riva di un mare dolcemente violetto
Come la luna che fu
A te non culla
Ma falce
genseki
giovedì, febbraio 24, 2011
Alla mamma
Novellamente foglie d'olivo
Altro vento si disfa anche più chiaro
Ancora appena appena più chiaro
In questo sospiro dorato, di tromba o zampogna
E tutte quelle pelli che pendono dai pali
Con macchie di sangue rappreso,
Pelli di coniglio, pelli di lepre, di fauno, di leprecauno
Pelli di lucciola e di bisonte, e pelli conciate
Con il minio, con la cenere
Con succo di felci, con calce, con caolino
Aspettando un vento che apra la porta
La porta del monte, quella dell'arcobaleno
In una pioggia fitta di aghi, in un mulinello di conifere
L'osteria dove ci eravamo fermati a bere
Sporgeva pericolosamente inclinata
Sul burrone accanto al cedro, sul lago
E non vi era maniera di fermare il tempo
Lanciato giù per i foschi tornanti
Anche se era evidente che ogni gesto
Era infinito immobile nel sempre;
Ora sei tu nella libertà cava della foresta
Nello spazio incalcolabile del nulla
Noi qui i prigionieri delle posate,
Della teiera, delle briciole sul capodimonte
Noi qui strettamente contenuti nei limiti opachi
Dell'essere
Della vita
Non possiamo più conoscerti
Non possiamo udire il graffiare delle tue unghi sottili
Sulla pellicola sferica dell'esistenza come cinque lune d'argento
Affilate
Come dieci lune pallide sottili svelate alla fine in un sibilo solo
Avresti voluto tu abbandonarti nel grembo fresco di Kannon
Udire con le sue mille e mille orecchie
La solitudine e il dolore del mondo
E mutarti, rivelata a te stessa compassione universale che non godesti
Il vento risveglia lo splendore dell'erba
mescola rosmarino e mimosa in un solo abbaglio
A una svolta si sciolgono i capelli
Come grandine battono sull'eternit le perle di Proserpina
Da un angolo hai visto il mondo
Dal tuo angolo senza pretendere più di uno sguardo
Dal mondo e sul mondo
Scontrosamente certa di non poter pretendere altro che quella insicurezza
Di bambina amara per sempre
In un bosco di mandorli su prati di prezzemolo, sfogliando la fredda
acidità
Del croco
Grano a grano, magra, tu ferita dalla nebbia
Lui averbbe dovuto essere li lei con il suo cappotto blu
Lui biondo e con la febbre, lei con le bende virginali
Ritta sulla luna, sul serpente con la tua valigia nella mano
Piena di foto, adesso, di cioccolato e di speranza.
Dove si erano smarriti?
Le dita delicate delle fave escono dalla terra
A liberare le anime dei morti recenti
de è tutta una festa di nebbia che tintinna, che trilla
Sbronza d'api come fibbie sul broccato delle crucifere
Avresti dovuto essere per un momento la mia bambina
Cercare la mia mano con gli occhi spalancati
Avrei asciugato le tue lacrime se cadendo ti ferivi le ginocchia.
Avrei asciugato le tue lacrime, sai?
Morendo mi sveli alla morte mi spalanchi la sua porta
C'è vento
I tuoi occhi non li riconosco
Sono di rame i tuoi occhi adesso
Il vecchio barbuto getta i remi sul fondo del suo palustre barcone
I fiori qui sono acidi come il gelo della primavera
La tua moneta la stringi contro il petto
Nelle manine la serri per non dargliela
Cerchi le tue lacrime che fuggono su su per le funi di pioggia come insetti opachi
Gli occhi del vento hanno pupille come ali di bronzo
Che si aprono e si serrano con fragore.
Adesso posso percorrere tutti i sentieri
Nella febbre incipiente del disgelo
Sono un seme, lo sai? piantato dalla tua morte.
Trilce XVIII
César Vallejo
Da Trilce
XXVIII
Ho fatto colazione da solo, senza
Madre, senza supplica, senza serviti, senz'acqua,
Senza padre che, nel facondo offertorio
Delle pannocchie chieda del suo ritardo
Di immagine, per le maggiori fibbie del suono.
Ma come avrei potuto far colazione. Come servirmi
Da piatti tanto lontani tali cose,
Ora che si è spezzato il focolare stesso
Quando madre neppur s'affaccia alle labbra
Come avrei mai potuto mangiare nonniente.
A casa di un buon amico ho fatto colazione,
Con suo padre appena tornanto dal mondo,
Con le sue zie canute che parlano
Con piccoli rintocchi di porcellana,
Bisbigliando da tutti i loro vedovi alveoli;
E con franche posate d'allegro tirritero
Che sono a casa loro. E allora grazie!
Che male mi dolsero i coltelli
Di questa mensa fin su nel palato.
Abbuffarsi è così a queste mense ove si gusta
Amor alieno e non il prorip amore
Ecco che si fa di nuovo terra la brocca che MADRE non porge
Colpo sferra la dura deglutizione; il dolce,
Fiele; olio o funebre caffé.
Quando spezzato giace il focolare
E dalla tomba non esce l'invito materno
Scura, scura la cucina, la miseria d'ampre.
Trad. genseki
Trilce XVIII
César Vallejo
Da Trilce
XXVIII
Ho fatto colazione da solo, senza
Madre, senza supplica, senza serviti, senz'acqua,
Senza padre che, nel facondo offertorio
Delle pannocchie chieda del suo ritardo
Di immagine, per le maggiori fibbie del suono.
Ma come avrei potuto far colazione. Come servirmi
Da piatti tanto lontani tali cose,
Ora che si è spezzato il focolare stesso
Quando madre neppur s'affaccia alle labbra
Come avrei mai potuto mangiare nonniente.
A casa di un buon amico ho fatto colazione,
Con suo padre appena tornanto dal mondo,
Con le sue zie canute che parlano
Con piccoli rintocchi di porcellana,
Bisbigliando da tutti i loro vedovi alveoli;
E con franche posate d'allegro tirritero
Che sono a casa loro. E allora grazie!
Che male mi dolsero i coltelli
Di questa mensa fin su nel palato.
Abbuffarsi è così a queste mense ove si gusta
Amor alieno e non il prorip amore
Ecco che si fa di nuovo terra la brocca che MADRE non porge
Colpo sferra la dura deglutizione; il dolce,
Fiele; olio o funebre caffé.
Quando spezzato giace il focolare
E dalla tomba non esce l'invito materno
Scura, scura la cucina, la miseria d'ampre.
Trad. genseki
Gerardo Diego
Vorrer esser convesso
Per la tua mano concava.
E come un tronco vuoto
Per accoglerti in grembo
E darti ombra e sogno.
Soave orizzontale interminabile
Per l'orma alterna e ansiosa
Del tuo piede sinistro
E del destro.
Essere d'ogni forma
Come acqua adeguata ad ogni coppa
E poterti abbracciar sempre da dentro.
E poi essere coppa
Per abbracciar da fuori al tempo stesso.
Acqua fattasi coppa
Il tuo confine – dentro e fuori – sempre esatto
Da: “Versos humanos
Trad genseki
Juan José Saer
Da: "La pesquisa"
Trad genseki
martedì, febbraio 22, 2011
José Emilio Pacheco
Pensare che nei suoi oggetti quadrangolari
Giace un istante del 1959
Volti che non sono piú,
Aria inesistente
Perché il tempo si vendica
Di quanti rompono l'ordine naturale congelandolo,
Le foto si screpolano, ingialliscono,
Non sono la musica del passato;
Sono il boato
Del crollo d'interne rovine
Non sono il verso, son lo scricchiolio
Della nostra irrimediabile cacofonia.
José Emilio Pacheco
Trad. genseki
José Emilio Pacheco
(Vallejo e Cernuda si incontrano a Lima)
E come in un poema di Cisneros,
Albatri, pellicani e cormorani
Muoiono di fama a Lima, in pieno centro;
Sono torturati baudelariamente.
In questi vicoli miserabili
(Tanto simili a Messico)
César Vallejo passeggió, fece l'amore, deliró
Scrisse versi.
Giá! Ora lo imitano, lo venerano
"È un orgoglio per il continente",
In vita lo presero a calci, a sputi,
Lo ammazzarono di fame e di tristezza.
Disse Cernuda che nessun paese
Ha mai tollerato vivi i suoi poeti.
Va bene cosí.
Sarebbe forse meglio
Essere il Poeta Nazionale
lunedì, febbraio 14, 2011
A sua madre
Che l'autunno frullava nel fondo delle mie pupille
E le foglie più pesanti ancora del loro lutto
Non cessavano di balenare come monete
Senza una faccia senza una luna
Perduto il tuo volto nel suo occaso incessante
Anche il mio nome era un altro
La mia vicenda entrava nel porto
Le mie ultime lettere le scrivevo sulla carta da imballaggio
Dove potevo ormai appendere il cappello?
Sedermi al tavolo da gioco?
Accoccolarmi nell'orto sapendo che non mi amavi?
Che non mi amavi?
E le ali le scolpiva lo scalpello del volo
Nel marmo di quel pezzetto di cielo
Non fosti il mio battello
I tuoi occhi non mi furono lago
Sulla tua altra sponda aspettavo
Il mio traghetto, ora ora soltanto
So che avrai una mano per accarrezzare
I capelli stessi della luce
genseki
L'anima e la memoria
da: “Il cavallo greco”
Dopo la morte l'anima non si sente nuda. L'anima si veste della sua memoria, si limita con essa, illuminandola da dentro con la propria intelligenza e la propria volontà in modo che nulla di quanto visse resti occulto. L'anima resta avvolta dal paesaggio del suo comportamento, dei suoi pensieri, delle sue emozioni. La memoria, che in vita ci abbandona con tanta frequenza, nella morte ci presta il suo mantello, ci conforta e ci salva.
**
Se non in me, dove sta la mia vita? L'idea che possa essere registrata in un'intelligenza superiore mi riempie di speranza.
**
Rientriamo in noi solo con la morte. In tal modo ci incorporiamo con la forma totale della nostra storia, che, siccome il nostro corpo non è sufficiente per tante e tali attitudini, muore nell'attesa del giorno in cui sarà ancora convocato dallo spirito.
Morire è essere pianura, un grande volto impassibile, uno specchio di tutta l'anima nel quale si può leggere tutta una vita. Dove restò il tempo? Nell'oblio o nella disperazione. Nulla di tutto questo si trova in quel volto la cui presenza è un riflesso della divina sapienza che lo sta giudicando.
Le nostre vite sono come fiumi che sboccano in uno specchio. Quando tale specchio rifletta in un sol colpo e per sempre tutto quello che fummo, è perché finalmente siamo arrivati al momento della morte.
**
Nessun campo tanto vasto come la nostra memoria, percorrerlo è cercare se stessi. Ma questa ombra che cerca di conoscersi a forza di camminare su e giù per la propria vita non sono interamente io. Nemmeno questi che riceve a poco a poco strane impressioni e si mostra insensibile alla maggior parte di esse sono io, anche se nel mio sogno gli conferisco consistenza. Solo mi riconosco negli altri. Essi sono la mia riva e io l'ombra, è la loro luce che confondendosi con i miei primi grigi, forma le aurore, e se io sono d'acqua e loro di roccia, al nostro urto si formeranno piagge e litorali; se sono calore e loro neve, nel nostro incontro la primavera darà i suoi fiori e l'autunno maturarà i suoi frutti.
trad. genseki
Regola grammaticale
La grammatica, come norma colettiva in poesia, non ha ragion d'essere. Ogni poeta forgia la propria grammatica personale e che non puo' essere trasferita, la propria sintassi, ortografia, analogia, prosodia, semantica. Basta che non esca dalle consuetudini di base dell'idioma. Il poeta può persino cambiare, in certo modo la struttura letterale e fonetica di una stessa parola, secondo i casi. E questo, lungi dal restringere la portata socialista e uniersale della poesia, come si potrebbe credere, la dilata all'infinito. Si sa che quanto più personale (ripeto, non dico individuale) è la sensibilità dell'artista, tanto la sua opera è più universale e collettiva.
César Vallejo
Il nome
Elsa. Il mio nome.
All'Osteria del Gozzo tra una toma
E un gotto di Carcairone
Ti avvicinavi al mio ginocchio
Come la volpe alle uova del pavone
Ma nemmeno il mio ginocchio
Sapeva il mio nome,
Poi passeggiando ti indicavo
I gattici fioriti, gli arbusti della fusaria
E i fori delle mine fluviali
Profumavi di alga il mio nome
Lo chiedevi sulle unghie
Nel sorriso, nella curva del collo
Nella profondità del tuo tepore
Il mio nome pero' non lo conoscevo
Lo avevo perduto forse una volta in stazione
Mi era caduto di tasca mente cercavo
Di obliterare il biglietto nella fessura
Di quella macchina troppo gialla
La geografia delle tue mani non era
Mappa sufficiente per indovinare nemmeno la mia origine
Ritornammo passando per il lago
In Nissan
Come un grande cigno bianco
genseki
Il crepitare altissimo d'incendi
lassù sull'altipiano dove le nuvole di marmo
Ci oscuravano il respiro
Il vento delle lacrime ti scuoteva
Come i rami dell'abete
Il fumo si faceva più solido
Tu dipingevi quel melo dalla finestra del bagno
Ti osservavo dalla siepe
Tra gli altri alberi da frutto
Al congedarti odore di verderame
Poi fu sera, tramonto, oltre la curva fiamme
Come sfrigolavano cervi e miniature
Un istante di cenere il nostro
Con un occhio ai tuoi collant
Fissavo il rogo della cordigliera
Come un'immenso coniglio rosso
Scuotere sfrenato le orecchie
Davanti al parabrezza.
genseki