martedì, maggio 11, 2010
Gaetano Mezzasomá
Gaetano Mezzasomà
Tra le straordinarie scoperte di chiavi linguistiche segrete cui Gaetano Mezzasomà dedicó la vita ho scovato questi antichi versi, un richiamo, uno scongiuro forse che sa ancora di bosco, di fornace, di strette di mano tra carbonai nel folto piú profondo del faggeto, con un pizzico di salcitá in sagace aggiunta:
Slarga, slarga la fonda grulla
Sborda carola la tofana bronda
Trascritto da G Mezzasomá
“Sciré” p 233
Tra le straordinarie scoperte di chiavi linguistiche segrete cui Gaetano Mezzasomà dedicó la vita ho scovato questi antichi versi, un richiamo, uno scongiuro forse che sa ancora di bosco, di fornace, di strette di mano tra carbonai nel folto piú profondo del faggeto, con un pizzico di salcitá in sagace aggiunta:
Slarga, slarga la fonda grulla
Sborda carola la tofana bronda
Trascritto da G Mezzasomá
“Sciré” p 233
Venti
Ancora un altro vento, nuovo, soffiando
Refoli di rosmarino traeva dalla forgia delle pietre
Del granito, dai camminamenti ove inghiottito
Soffocava fino al suono, quello strozzato
Al gorgogliare stentato al sibilo che non era liberazione
Ancora un altro vento ci soffiava trasparenti
Precipitoso fino alle froge delle valli
Al caldo del fieno, fermentava in brividi, sbuffi
Sollevava manciate di mosche dalle buse di vacca
Tanfo di mosche leziose, brusio viola di mosche nerissime
Vento del passato riempiva la milza, tra calze sudate
Di lana grezza, stesa al sole su un filo rosso
Da acero a acero, da ontano al fiume argenteo
Ci riempiva altro vento che non potevamo contenere
Che ci irrompeva molto piú in lá del nostro corpo
Di quello immaginato, di quello fatto di polveri
Diamantine ci irrompeva, spandeva, diffondeva
Alito, dissoluzione anima colchico o in prati interi
Accarezzavamo velenosi poi vorticose precipitate corse
Sui ghiacciai che frammentavano il bianco in angoli
Impossibili da percepire in raggi spinosi intorno al capo
Reclinato di un antico sole crocifisso prima prima ancora
Ma no, non era il vento a rivelarsi, a rivelarci da dentro
A mutarci nella topografia nitida di noi stessi
Con l'alfabeto delle isobare e le curve di livello delle identitá possibili
O vento di nostalgia, mulinava foglie di platano
Su quella grigia pozza d'europa dove saltavano da soli
Stivali rossi staffile cunetta, o quanti odori
Prima di sparire nella non percezione, quanti odori, quanti!
O vento di Ezechiele, vento di Ezechiele il flautista
Ballano le nostre osse come foglie la danza del fracasso
Intorno allo scheletro del suono del tuo flauto
Tritate furono, fummo come grani di miglio
Come grani di miglio tra il trifoglio.
Genseki
Refoli di rosmarino traeva dalla forgia delle pietre
Del granito, dai camminamenti ove inghiottito
Soffocava fino al suono, quello strozzato
Al gorgogliare stentato al sibilo che non era liberazione
Ancora un altro vento ci soffiava trasparenti
Precipitoso fino alle froge delle valli
Al caldo del fieno, fermentava in brividi, sbuffi
Sollevava manciate di mosche dalle buse di vacca
Tanfo di mosche leziose, brusio viola di mosche nerissime
Vento del passato riempiva la milza, tra calze sudate
Di lana grezza, stesa al sole su un filo rosso
Da acero a acero, da ontano al fiume argenteo
Ci riempiva altro vento che non potevamo contenere
Che ci irrompeva molto piú in lá del nostro corpo
Di quello immaginato, di quello fatto di polveri
Diamantine ci irrompeva, spandeva, diffondeva
Alito, dissoluzione anima colchico o in prati interi
Accarezzavamo velenosi poi vorticose precipitate corse
Sui ghiacciai che frammentavano il bianco in angoli
Impossibili da percepire in raggi spinosi intorno al capo
Reclinato di un antico sole crocifisso prima prima ancora
Ma no, non era il vento a rivelarsi, a rivelarci da dentro
A mutarci nella topografia nitida di noi stessi
Con l'alfabeto delle isobare e le curve di livello delle identitá possibili
O vento di nostalgia, mulinava foglie di platano
Su quella grigia pozza d'europa dove saltavano da soli
Stivali rossi staffile cunetta, o quanti odori
Prima di sparire nella non percezione, quanti odori, quanti!
O vento di Ezechiele, vento di Ezechiele il flautista
Ballano le nostre osse come foglie la danza del fracasso
Intorno allo scheletro del suono del tuo flauto
Tritate furono, fummo come grani di miglio
Come grani di miglio tra il trifoglio.
Genseki
giovedì, maggio 06, 2010
Steli
Victor Ségalen
Steli
L'abisso
Di fronte alla profonditá,
L'uomo, china la fronte, in raccoglimento.
Che vede in fondo al buco cavernoso? La notte
Sotto la terra, l'Impero dell'ombra.
*
Io, inchinato su di me contemplando il mio proprio
Abisso, - oh io – rabbrividisco,
Ecco, mi sento cadere, mi risveglio e voglio vedere
Soltanto la notte.
*
Nuvole
Sono i pensieri visibili dell'alto, del puro Signore, il Cielo.
Alcune sono compasionevoli, gonfie di pioggia,
Altre trascinano le loro preoccupazioni, il loro corruccio
Le cupe giustificazioni.
*
Che l'uomo che ha goduto della mia generositá
O colui che i miei colpi hanno piegato conosca
Steli
L'abisso
Di fronte alla profonditá,
L'uomo, china la fronte, in raccoglimento.
Che vede in fondo al buco cavernoso? La notte
Sotto la terra, l'Impero dell'ombra.
*
Io, inchinato su di me contemplando il mio proprio
Abisso, - oh io – rabbrividisco,
Ecco, mi sento cadere, mi risveglio e voglio vedere
Soltanto la notte.
*
Nuvole
Sono i pensieri visibili dell'alto, del puro Signore, il Cielo.
Alcune sono compasionevoli, gonfie di pioggia,
Altre trascinano le loro preoccupazioni, il loro corruccio
Le cupe giustificazioni.
*
Che l'uomo che ha goduto della mia generositá
O colui che i miei colpi hanno piegato conosca
Memorie di Dreiser Cazzaniga
Il matrimonio di Lydia Rosino
Dreiser Cazzaniga si sposó diverse volte, alcune in pubblico altre in segreto, alcune tanto in segreto che non lo sapeva nemmeno la moglie, ma nella sua vita ci fu un solo vero matrimonio, cioè qualche cosa che riempiva la vita di forza, di rabbia e di schifo. Una trappola esistenziale apparentemente senza uscita: le sue nozze con Lydia Rosino. Lidya Rosino Dreiser Cazzaniga la conobbe nella cittá di Valva dove entrambi allora lavoravano come precettori interini. Ella in una poszione ancora piú servile della sua. La cittá di Valva adagiata in una conca collinare circondata da fecondi vigneti pareva viva quasi soltanto in autunno. Era una cittá immobile, racchiusa in un conservatorismo meschino e pretenzioso. Una cittá di provincia dal'aspetto medioevale, dalle vetrine incorniciate di legno, con le strade selciate e un perenne odore di funghi macerati e di nocciolato. Era la sede della famosa industria Herreros Und Sohn produttrice dell'agalma vacio, il preferito dai mocciosi di tutto il mondo. Gli abitanto di Valva passeggiavano per la cittá come se fossero sempre i protagonisti di una sfilata di moda esclusiva, i caballeros con le loro perfette canne di avorio, las dueñas y las ladyes avvolte nelle pieghe capricciose dei loro vestiti facevano oscillare gloriosamente i loro grandi cappelli dalle architetture elaborate come piccoli teatri ove si rappresentava ora un presepe, ora una scena di caccia, ora una di corteggiamento. Dreiser Cazzaniga soleva allora vestire una giaccona gialla piena di macchie, pantalonacci di fustagno, scarpe da tennis, portava lunghissimi capelli sempre un po' unti di treno e legati sulle spalle con una lunga treccia. I Valvesi lo disprezzavano con un brivino di orrore come se lo fiutassero senza vederlo. Dreiser Cazzaniga dormiva in una cameretta economica in una posada proprio di fronte agli stabilimenti Herrero und Sohn e bastava che aprisse la finestra per essere soffocato dall'odore del nocciolato agalma vacio e da quello dell'altro prodotto di questa manifattura la crema Cornella. La bella Lidya Rosino era una brunetta dalle forme graziose e dal colorito grigiastro, si vestiva sempre di blu e appunto di grigio con un cattivo gusto bizzarro e sottile. Il suo abbigliamento era concepito per passare inosservato ma nel suo sforzo di adeguarsi al piú assoluto conformismo perbenista vestimentario tutto era leggermente sfasato, appena appena fuori posto, le labbra coloratissime formavano un contrasto singolare con il volto pallidissimo. Soleva portare un impermeabile azzurro, un tailleur grigio, scarpe e calze blu e un fiocco blu su una camicia bianca. Quando incontrava Dreiser Cazzaniga lo salutava con un forzato sorriso stirato e se prendevano un caffé insieme lo intratteneva sulle difficoltá e gli stenti della sua vita di precettrice interina vagabonda, della sporcizia dei treni, delle sordide posade, del freddo e della nebbia, del mangiare ingiustizia e bere sopraffazione. Dreiser Cazzaniga usciva dal caffé profondamente intenerito e commosso da un vita tanto austera affrontata con tanto dolente coraggio. Lydia Rosino era allora fidanzata con un torturatore professionale della scuola di boia di Cairuan dove ella insegnava cultura generale dell'espiazione del reo, posto che aveva ottenuto promettendosi senza mai concedersi al generale che la dirigeva e che si accontentava di tanto in tanto di godere stritolandole i pollici sulla superficie della scrivania. Questo a Dreiser Cazzaniga faceva un po' schifo, egli vedeva, nelle rare occasioni in cui andava a Cairuan i giovani apprendisti torturatori alla fine delle lezioni sciamare per la cittá con le smorfie scimmiesche e azzannare le loro pizza quattro formaggi nei locali dal pesante odore di fritto. Poi si sarebbero ritirati a masturbarsi davanti agli spogliarelli del gruppo “Panto” trasmessi dalle televisioni locali apposta per loro e per i rari precettori interini vaganti maschi. Cosí stavano le cose quando cominció la commedia.
Dreiser Cazzaniga si sposó diverse volte, alcune in pubblico altre in segreto, alcune tanto in segreto che non lo sapeva nemmeno la moglie, ma nella sua vita ci fu un solo vero matrimonio, cioè qualche cosa che riempiva la vita di forza, di rabbia e di schifo. Una trappola esistenziale apparentemente senza uscita: le sue nozze con Lydia Rosino. Lidya Rosino Dreiser Cazzaniga la conobbe nella cittá di Valva dove entrambi allora lavoravano come precettori interini. Ella in una poszione ancora piú servile della sua. La cittá di Valva adagiata in una conca collinare circondata da fecondi vigneti pareva viva quasi soltanto in autunno. Era una cittá immobile, racchiusa in un conservatorismo meschino e pretenzioso. Una cittá di provincia dal'aspetto medioevale, dalle vetrine incorniciate di legno, con le strade selciate e un perenne odore di funghi macerati e di nocciolato. Era la sede della famosa industria Herreros Und Sohn produttrice dell'agalma vacio, il preferito dai mocciosi di tutto il mondo. Gli abitanto di Valva passeggiavano per la cittá come se fossero sempre i protagonisti di una sfilata di moda esclusiva, i caballeros con le loro perfette canne di avorio, las dueñas y las ladyes avvolte nelle pieghe capricciose dei loro vestiti facevano oscillare gloriosamente i loro grandi cappelli dalle architetture elaborate come piccoli teatri ove si rappresentava ora un presepe, ora una scena di caccia, ora una di corteggiamento. Dreiser Cazzaniga soleva allora vestire una giaccona gialla piena di macchie, pantalonacci di fustagno, scarpe da tennis, portava lunghissimi capelli sempre un po' unti di treno e legati sulle spalle con una lunga treccia. I Valvesi lo disprezzavano con un brivino di orrore come se lo fiutassero senza vederlo. Dreiser Cazzaniga dormiva in una cameretta economica in una posada proprio di fronte agli stabilimenti Herrero und Sohn e bastava che aprisse la finestra per essere soffocato dall'odore del nocciolato agalma vacio e da quello dell'altro prodotto di questa manifattura la crema Cornella. La bella Lidya Rosino era una brunetta dalle forme graziose e dal colorito grigiastro, si vestiva sempre di blu e appunto di grigio con un cattivo gusto bizzarro e sottile. Il suo abbigliamento era concepito per passare inosservato ma nel suo sforzo di adeguarsi al piú assoluto conformismo perbenista vestimentario tutto era leggermente sfasato, appena appena fuori posto, le labbra coloratissime formavano un contrasto singolare con il volto pallidissimo. Soleva portare un impermeabile azzurro, un tailleur grigio, scarpe e calze blu e un fiocco blu su una camicia bianca. Quando incontrava Dreiser Cazzaniga lo salutava con un forzato sorriso stirato e se prendevano un caffé insieme lo intratteneva sulle difficoltá e gli stenti della sua vita di precettrice interina vagabonda, della sporcizia dei treni, delle sordide posade, del freddo e della nebbia, del mangiare ingiustizia e bere sopraffazione. Dreiser Cazzaniga usciva dal caffé profondamente intenerito e commosso da un vita tanto austera affrontata con tanto dolente coraggio. Lydia Rosino era allora fidanzata con un torturatore professionale della scuola di boia di Cairuan dove ella insegnava cultura generale dell'espiazione del reo, posto che aveva ottenuto promettendosi senza mai concedersi al generale che la dirigeva e che si accontentava di tanto in tanto di godere stritolandole i pollici sulla superficie della scrivania. Questo a Dreiser Cazzaniga faceva un po' schifo, egli vedeva, nelle rare occasioni in cui andava a Cairuan i giovani apprendisti torturatori alla fine delle lezioni sciamare per la cittá con le smorfie scimmiesche e azzannare le loro pizza quattro formaggi nei locali dal pesante odore di fritto. Poi si sarebbero ritirati a masturbarsi davanti agli spogliarelli del gruppo “Panto” trasmessi dalle televisioni locali apposta per loro e per i rari precettori interini vaganti maschi. Cosí stavano le cose quando cominció la commedia.
a cura di genseki
lunedì, maggio 03, 2010
Filosofia
Scienziato, artista, militante e amante, questi sono i ruoli che la filosofia esige dal suo soggetto. Queste sono quelle che ho chiamato le quattro condizioni della filosofia
Alain Badiou
Alain Badiou
venerdì, aprile 30, 2010
Il desiderio di Dreiser Cazzaniga
"Il desiderio, ció che si chiama desiderio basta per fare si che la vita non abbia senso se produce un codardo".
Lacan
è alla luce di questa frase di Jacques Lacan, pescata letteralmente a caso nel mare dell'incomprensibilitá dei suoi scritti, che Dreiser Cazzaniga si accinse all'impresa di giustificara la propria vita, anche se essa era ancora un processo e non un cristallo. Per farlo si collocó al suo estremo, costruì un tempo preterito, o almeno cercó di costruirlo, totalmente alieno alla lingua impoverita e ipocrita in cui era stato gettato come scrivente. Un tempo preterito che isolasse il passato come, un arcipelago, di cui peró egli potesse variare in una certa misura le geografia. Ma solo un tempo verbale non bastava; dovette forzarne altri, forzare il lessico e deviare dalla morfologia. Dovette cioè rinchiudersi nella solitudine, negare la sua impresa come qualche cosa che fosse comunicabile, costruire una lingua impossibile dalle regole variabile e contradditorie come la geometria di Escher e poi dovette evocare il suo interprete, il suo giudice e curatore, genseki, il diamante dalle mille e mille sfacettature. Quando fu afferrato dal movimento di questa frase, Dreiser Cazzaniga non sapeva nulla di Lacan, a tratti detestava la psicanalisi, si entusiasmava per gli aspetti piú alchemici dell'opera di Jung, persino era giunto all'estremo di scegliere come guida al suo inferno infermo quotidiano un personaggio cosí assolutamente ripugnante come Simone Weil cui non si sarebbe mai abbastanza pentito di aver tributato un vero e proprio culto, celebrato attraverso la compilazione di stupidi quadernini la cui lettura egli soleva infiggere agli amici incolpevoli e soprattutto a Doña Tejada de las Silvas che non mostrava per essi nessun interesse. Eppure quella frase lo conteneva tutto intero nel fuoco della sua irradiazione spiraliforme.
a cura di genseki
Lacan
è alla luce di questa frase di Jacques Lacan, pescata letteralmente a caso nel mare dell'incomprensibilitá dei suoi scritti, che Dreiser Cazzaniga si accinse all'impresa di giustificara la propria vita, anche se essa era ancora un processo e non un cristallo. Per farlo si collocó al suo estremo, costruì un tempo preterito, o almeno cercó di costruirlo, totalmente alieno alla lingua impoverita e ipocrita in cui era stato gettato come scrivente. Un tempo preterito che isolasse il passato come, un arcipelago, di cui peró egli potesse variare in una certa misura le geografia. Ma solo un tempo verbale non bastava; dovette forzarne altri, forzare il lessico e deviare dalla morfologia. Dovette cioè rinchiudersi nella solitudine, negare la sua impresa come qualche cosa che fosse comunicabile, costruire una lingua impossibile dalle regole variabile e contradditorie come la geometria di Escher e poi dovette evocare il suo interprete, il suo giudice e curatore, genseki, il diamante dalle mille e mille sfacettature. Quando fu afferrato dal movimento di questa frase, Dreiser Cazzaniga non sapeva nulla di Lacan, a tratti detestava la psicanalisi, si entusiasmava per gli aspetti piú alchemici dell'opera di Jung, persino era giunto all'estremo di scegliere come guida al suo inferno infermo quotidiano un personaggio cosí assolutamente ripugnante come Simone Weil cui non si sarebbe mai abbastanza pentito di aver tributato un vero e proprio culto, celebrato attraverso la compilazione di stupidi quadernini la cui lettura egli soleva infiggere agli amici incolpevoli e soprattutto a Doña Tejada de las Silvas che non mostrava per essi nessun interesse. Eppure quella frase lo conteneva tutto intero nel fuoco della sua irradiazione spiraliforme.
a cura di genseki
Il punto su questo blog
La veritá su questo blog è che sa morendo. Genseki scompare poco a poco, con i suoi tic, le sue rigide posture idiosincratiche, il suo io così animale, cosí animalescamente cavalleresco e “culto”, scompare vampirizzato da Dreiser Cazzaniga, Quel Dreiser Cazzaniga con cui ha condiviso un cosí largo cammino nel passato, con cui ha scoperto il passato, che lo ha spinto a cartografare il passato come una america recentemente scoperta, a redigerne l'inventario, ad essere il ramusio del proprio passato. I loro reciproci passati sono andati cosí poco a poco confluendo, confonedendosi, fondendosi. Il rischio, ancora evitabile? - è che finiscano per diventare un solo passato: un solo paese preterito percorso da due ricordi gemelli.
Dreiser Cazzaniga e genseki sono i due soli lettori di questo blog che sdegna di avere lettori, si leggono e si scrivono ormai l'un l'altro in una specie di folie è deux. Ma uno è giá morto, l'altro, forse, genseki, non ha mai davvero avuto una vita virtuale. La sola che avrebbe potuto avere. Ci ha provato a nascere. Ha sbagliato i tempi. Ha vissuto un tempo in cui è cosí difficile nascere!
genseki
Dreiser Cazzaniga e genseki sono i due soli lettori di questo blog che sdegna di avere lettori, si leggono e si scrivono ormai l'un l'altro in una specie di folie è deux. Ma uno è giá morto, l'altro, forse, genseki, non ha mai davvero avuto una vita virtuale. La sola che avrebbe potuto avere. Ci ha provato a nascere. Ha sbagliato i tempi. Ha vissuto un tempo in cui è cosí difficile nascere!
genseki
Sete
Scavare la propria casa è scavare la propria morte
Scavarla con le unghie secche, con le nocche
Con le piaghe, con il ricordo di tutti quegli aghi
Come è arida la morte, con che sete muore l'animale
Con che nera sete anela alla cervogia nera
Alla tisana colore dell'ebano, a quella colore del rame
L'animale che ha sete nella morte, che ha sete che non disseta
Nessuna parola fuori del verbo, dalle sue sponde dalle sponde
Che l'onda del verbo elastica rinfresca, allora scava, scava
la tua casa nel cielo, scava tra le nubi
Scava la tua casa di nebbia in vari strati di azzurro
Scava nel duro cielo delle ascensioni la tua casa verticale
Fino a che le tue unghie le tue nocche nodose
Germoglino in virgulti di palma, in osanna scoscesi
Fragranti come uragani viola tra colonne vulcaniche
Di incensi dimenticati.
genseki
Scavarla con le unghie secche, con le nocche
Con le piaghe, con il ricordo di tutti quegli aghi
Come è arida la morte, con che sete muore l'animale
Con che nera sete anela alla cervogia nera
Alla tisana colore dell'ebano, a quella colore del rame
L'animale che ha sete nella morte, che ha sete che non disseta
Nessuna parola fuori del verbo, dalle sue sponde dalle sponde
Che l'onda del verbo elastica rinfresca, allora scava, scava
la tua casa nel cielo, scava tra le nubi
Scava la tua casa di nebbia in vari strati di azzurro
Scava nel duro cielo delle ascensioni la tua casa verticale
Fino a che le tue unghie le tue nocche nodose
Germoglino in virgulti di palma, in osanna scoscesi
Fragranti come uragani viola tra colonne vulcaniche
Di incensi dimenticati.
genseki
Georg Trakl
Georg Trakl
La poesia di Georg Trakl è costituita da una serie di variazioni su pochissimi temi. Un teatro chiuso in una stanza, che crea per un istante l'illusione dello spazio aperto e della natura, l'illusione del paesaggio. Non c'è natura nella poesia di Trakl, non vi è nessun paesaggio. La poesia di Trakl è una cerimonia privata, un rito conchiuso in un chiostro umido e scuro. Una processione di ricordi in un piccolissimo giardino abbandonato. Un giardino in cui non ci furono mai boccioli né cuccioli.
genseki
La poesia di Georg Trakl è costituita da una serie di variazioni su pochissimi temi. Un teatro chiuso in una stanza, che crea per un istante l'illusione dello spazio aperto e della natura, l'illusione del paesaggio. Non c'è natura nella poesia di Trakl, non vi è nessun paesaggio. La poesia di Trakl è una cerimonia privata, un rito conchiuso in un chiostro umido e scuro. Una processione di ricordi in un piccolissimo giardino abbandonato. Un giardino in cui non ci furono mai boccioli né cuccioli.
genseki
Dreiser Cazzaniga e il Joseph Losey
Vi sono nelle nostre vite influenze determinanti e segrete che hanno il potere di orientarne il corso apparentemente casuale in un direzione che finisce per dotarle di un significato che si fa di giorno in giorno sempre meno provvisorio. Tali influenze sono veri e propri avvenimenti di veritá a cui finiamo per aderire con tanta profonditá da dimenticarli. Una di queste influenze nella vita specifica di Dreiser Cazzaniga fu il film, ormai quasi dimenticato di Joseph Losey, “Il ragazzo dai capelli verdi”. Questo film agí profondamente nella sua incoscienza definendo le regole di decodificazione delle sue esperienze successive fino all'epilogo, fino alla sottile giustificazione della propria radicale inadeguatezza. Fu Dreiser Cazzaniga stesso, attraverso la costante autoanalisi che ritrovó le tracce cancellate che lo ricondussero a questa pellicola o, per dirlo in modo piú preciso a questo avvenimento, al quale restó testardamente fedele, rigorosamente fedele, forse persino brutalmente fedele proprio perché la sua fedeltá poté essere protetta dalla dimenticanza, dall'oblio. Una delle veritá di Dreiser Cazzaniga, una delle veritá che lo costituirono come uomo, come umano e quindi come signore della sua stessa morte fu l'avvenimento di questo film. L'avvenimento della chiamata che lo interpellava direttamente da questo film, che lo interpellava chiamandolo con il suo vero nome con il suo nome autenticamente suo, quello che non poteva essere di un altro e che marcava la sua alteritá e separazione definiva dagli altri, dai suoi compagni di scuola, dai suoi professori, dai fratellini, dalla famiglia. Dreiser Cazzaniga visse il resto della sua vita come se i suoi capelli fossero verdi. Visse le sue relazioni con gli altri come se egli fosse portatore di un particolaritá sospetta, una lebbra, un segno, una marca che era al tempo stesso la testimonianza di una ardua, ripida veritá e la causa del sospetto, dell'escluzione, di una certa ostilitá e paura da parte degli altri.
La fedeltá a questa separatezza, a questa esclusione Dreiser Cazzaniga non la seppe accettare in modo naturale. No, La sua prima e ricorrente tentazione fu di fare il furbo con essa, di mediarla, di negoziarla, di addomesticarla. Era lui il ragazzo dai capelli verdi. Era lui che doveva rigorosamente testimoniare dell'intolerabilitá della vita in questa societá, ma proprio per questo egli aveva anche il diritto a odiare e a mentire. Odiare coloro che lo rifiutavano per il colore dei suoi capelli, mentire per preservare questo odio, fu questa la via maestra per rendere “mostruosa” la propria anima che Dreiser scelse finalmente e che seguí per molti anni in una spessa nebbia e a tratti nella piú completa oscuritá.
Si risveglió, per fortuna, anche da questo sogno, riconobbe il colore dei suoi capelli, verdissimi, come le giovani felci e fu allora in grado di germogliare al calore di qualche cosa di simile all'amore.
a cura di genseki
La fedeltá a questa separatezza, a questa esclusione Dreiser Cazzaniga non la seppe accettare in modo naturale. No, La sua prima e ricorrente tentazione fu di fare il furbo con essa, di mediarla, di negoziarla, di addomesticarla. Era lui il ragazzo dai capelli verdi. Era lui che doveva rigorosamente testimoniare dell'intolerabilitá della vita in questa societá, ma proprio per questo egli aveva anche il diritto a odiare e a mentire. Odiare coloro che lo rifiutavano per il colore dei suoi capelli, mentire per preservare questo odio, fu questa la via maestra per rendere “mostruosa” la propria anima che Dreiser scelse finalmente e che seguí per molti anni in una spessa nebbia e a tratti nella piú completa oscuritá.
Si risveglió, per fortuna, anche da questo sogno, riconobbe il colore dei suoi capelli, verdissimi, come le giovani felci e fu allora in grado di germogliare al calore di qualche cosa di simile all'amore.
a cura di genseki
giovedì, aprile 29, 2010
Dreiser Cazzaniga e il linguaggio
Che il linguaggio fosse qualche cosa oltre il quale si dovesse cercare di sollevare gli occhi, le orecchie e il resto della testa per non annegare alla fine nel significato era una cosa che Dreiser Cazzaniga non ebbe mai ben chiara. En discutemmo a lungo negli ultimi tempi. Egli aveva tendenza a considerare le nostre povere parole sclerotizzate e ridotte a supporto dello scambio coatto come strumenti adeguati ad esprimere la bellezza e a esplorare l'essere. Non era solo quasi quasi convinto che con il liguaggio si possa comunicare qualche cosa che non sia attinente alla sequenza di comando e sfruttamento, era pure convinto, fino a un certo punto, che servisse per conoscere. Il linguaggio, invece, si imputridisce nei blog e nei libri di facce. Anche le facce sono un segno. Ci sono solo facce, ormai, i volti tendono a scomparire cosí come le maschere. I volti sono la presenza, le maschere la possibilitá vuota che permette il fiammeggiare di questa presenza o, per attenersi in modo piú rigoroso all'etimologia della parola, la sua risonanza. Entrambi sono stati sostituiti dalle facce che sono soltanto il pietrificarsi dell'assoluta mancanza di interioritá, dello spazio interiore che la maschera garantisce al volto. Le facce annullano le maschere, Dove ci sono facce non ci sono piú maschere. Le facce non si distinguono dalle maschere e viceversa. Su questo tema Dreiser Cazzaniga non mostrava una sensibilitá apprezzabile. Certo egli era ossessionato dai volti come prodotto della cultura e della storia. Era affascinato dai volti dei film di Pasolini e di Paradjanov. Tuttavia continuó a considerare volti le facce che incontrava sui sudici treni pendolari dove trascorse tante ore della sua vita come volti e i loro occhi come fornaci capaci di sviluppare il calore di intere galassie.
A cura di genseki
A cura di genseki
Deporre
Appena l'avessi deposto
Allora l'avrei visto sfumare, prender forma di incenso
Di volo di mosche, di ombra sullo stagno
Di cullarsi leggero delle felci
Se l'avessi deposto, se solo avessi potuto deporlo
Ma come staccarlo? Come?
Era incastonato come uno scarabeo il cuore nero
Il cuore nero era come l'uva
Come la grandine, cosí caldo dentro di me
Mi accarezzava dal basso
Era nero, come l'erba, come le fragole
Come tutte le cose che sono davvero nere
Per esempio i suoi baci, le sue labbra
Il mio desiderio il nostro abbraccio
Il vento e il grano
Tira un'altra carta, dai, vediamo cosa esce
Picche e fiori: domani neve! Allora...
*
Il pastore Thorvaldsen usciva da una poesia
Solo per entrare in un'altra
Con i suoi cani rossi, tra i ciottoli di lavagna
Tra le gandi marmitte di bronzo e i filari di pioppi
Con la sua lingua staffile
Era cosí palesemente virile
Era Sarastro
Era il sole che illuminava la teca antica
Che conteneva bambini in formalina.
Che dorava con i suoi raggi
Un braccio di Pitagora.
*
Sequenze rotazioni, altre movimenti ossei
Trascorsero prima che mettessero a punto
La scarica adeguata, la strategia l'irradiazione
Marzo nel frattempo continuava a benedire gli olivi
Con la sua pioggerelinna leggera
La sua voce da basso un poco infreddolita
Cantava anche altre lodi oltre lo spazio piú vocale
Sterminate spighe sonore covoni di accordi
Tutto stava in una sola voce che non fu mai incerta
Anche se era sempre marzo, se la nebbia sostava
Sui fianchi del monte che straziavano ancora i pini
E cantare l'estate era un esercizio per voci arcaiche
Mentre cristalli scoppiavano in mille striduli estremi
Il lamento degli ultimi merli all'avvento
Dell'onda di granito.
Genseki
Allora l'avrei visto sfumare, prender forma di incenso
Di volo di mosche, di ombra sullo stagno
Di cullarsi leggero delle felci
Se l'avessi deposto, se solo avessi potuto deporlo
Ma come staccarlo? Come?
Era incastonato come uno scarabeo il cuore nero
Il cuore nero era come l'uva
Come la grandine, cosí caldo dentro di me
Mi accarezzava dal basso
Era nero, come l'erba, come le fragole
Come tutte le cose che sono davvero nere
Per esempio i suoi baci, le sue labbra
Il mio desiderio il nostro abbraccio
Il vento e il grano
Tira un'altra carta, dai, vediamo cosa esce
Picche e fiori: domani neve! Allora...
*
Il pastore Thorvaldsen usciva da una poesia
Solo per entrare in un'altra
Con i suoi cani rossi, tra i ciottoli di lavagna
Tra le gandi marmitte di bronzo e i filari di pioppi
Con la sua lingua staffile
Era cosí palesemente virile
Era Sarastro
Era il sole che illuminava la teca antica
Che conteneva bambini in formalina.
Che dorava con i suoi raggi
Un braccio di Pitagora.
*
Sequenze rotazioni, altre movimenti ossei
Trascorsero prima che mettessero a punto
La scarica adeguata, la strategia l'irradiazione
Marzo nel frattempo continuava a benedire gli olivi
Con la sua pioggerelinna leggera
La sua voce da basso un poco infreddolita
Cantava anche altre lodi oltre lo spazio piú vocale
Sterminate spighe sonore covoni di accordi
Tutto stava in una sola voce che non fu mai incerta
Anche se era sempre marzo, se la nebbia sostava
Sui fianchi del monte che straziavano ancora i pini
E cantare l'estate era un esercizio per voci arcaiche
Mentre cristalli scoppiavano in mille striduli estremi
Il lamento degli ultimi merli all'avvento
Dell'onda di granito.
Genseki
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