lunedì, settembre 21, 2009

La torre e le vele

L'immagine riprodotta nel post precedente è un particolare di questo quadro di Claude Lorrain: “Veduta di porto nel tramonto”. Un particolare la cui forza di attrazione sul mio sguardo vorrei cercare, qui di giustificare. Almeno a me stesso.
Nel luce dorata del tramonto si stagliano i profili di alcune navi dalle vele ripiegate al lato di una torre massiccia una torre di avvistamento posta a guardia del porto, probabilmente, ma che sembra vagamente fuori posto per la sua forma architettonica piú consona, a mio parere a una pingue pianura di verdi praterie e di pacifiche vacche. Chissá dove puó averla copiata Lorrain!
Le navi nere sembrano stanche di molti viaggi, consumate da molti altri tramonti dall'aver assorbito nel fasciame e nelle carene il sale unto di molti altri porti, non parlano di partenze ma di arrivi.
Quello che unisce navi e torre è l'essere presenti insieme nello spazio dorato del tramonto.
Neppure questa cortina di luce ci parla di orizzonti aperti, è appunto cortina destinata a proteggere lo sguardo e non ad aprire lo spazio.
È un porto questo da cui non si parte, e un porto cui solo si giunge. È una meta. In realtá ogni porto è anche una meta. Questo è un porto rappresentato solo come meta.
La fagilitá della nave sta accanto alla mole massiccia della torre, la cui materialitá in parte sfuma sull'agonica luce dell'occaso. Gli alberi inclinati dai rollii, le bandiere rosse appena scosse dal vento si giustappongono all'immobilitá della torre tanto antica che sulla sua sommitá pare intravedersi come un bosco, o un giardino pensile. Sembra di udire i cigolii delle tavole usurate dei battelli delle corde e delle pulegge e il fremere di ali che sfiorano le pietra possenti della torre.
Dalla sommitá della torre antica si gode certamente di una vista amplia sul mare e sulla costa abitata che si intravede sulla destra; salire vuol dire ampiare il raggio dello sguardo, conoscere, proprio come viaggiare sui fragili gusci dei velieri. Viaggio e ascesa sono due forme di liberazione della mente, due modi di andare oltre il limite che noi stessi diventiamo per noi. Una forma orizzontale e una verticale. Una croce, insomma.
Nello spazio metaforico della luce vespertina la torre e i velieri appaiono ancora una volta come il simbolo della Croce che è il punto di arrivo il porto della pace.

genseki

Harbors

domenica, settembre 20, 2009

Hugo, Io, Dio

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Con una applicazione accurata delle funzioni di copia e incolla si puó creare un nuovo Hugo. Trasformare cioé il fluviale romanziere in un acuto, formidabile aforismatico visionario. Naturalmente quello che si otterrá cosí non è un Hugo verosimile, certamente, invece è un Hugo possibile. Uno dei tanti Hugo che avrebbero essere e che non furono nella oceanica molteplicità hugoliana.

La caratteristica principale dell'Hugo aforismatico e virtuale è la forza immaginativa che rompe la forma della razionalitá e dell'argomentazione.

Gli aforismi di Hugo non convincono, terrorizzano, trascinano al bordo di un abisso e spingono a guardarvi dentro.

Creano le condizioni all'apertra di un senso che va oltre il linguaggio, oltre il significato e la pura suggestone dei significanti.


«L'infinito esiste. È là. Se l'infinito non avesse un io, l'io sarebbe il suo limite; non sarebbe infinito; in altri termini, non esisterebbe. E invece esiste. Dunque ha un io. L'io dell'infinito è Dio”


La forza di queste righe, per esempio, consiste nella sorpresa continua che induce la forma della relazione introdotta successivamente tra i termini Infinio, Io e Dio. L'Io è qui il termine la cui esistenza permette all'infinito di essere tale. Un abisso si apre dentro dell'Io nel momento in cui scopre di essere la condizione di esistenza dell'Infinito, niente di meno! E dentro questo abisso ecco spalancarsene un altro, quando il medesimo Io si accorge di essere codizione dell'Infinito in quanto Dio. L'equazione Dio = Io è introdotta a bruciapelo! E ecccci precipitati nella spirale: Dio e l'infinito sono due cose diverse; Dio è una parte dell'Infinit ma en è una parte essenziale, necessaria per la sua esistenza, ma è tale in proprio in quanto Io.

L'aforismo di Hugo si regge perché trascina in questa vertiginosa prospettiva “en abîme” appunto. Una cosa alla Esher, insomma. E la porta che si spalanca di colpo su questo universo di angustia è proprio la parola Io.

Io sono io, si ha un bel metterci l'apostrofo, il mio io di lettore si sente ugualemte quell'Io che è condizione di esistenza dell'Infinito e che come tale si converte in Dio e per questo si afferra all'aforisma con tutte le forze di un naufrago disperato e da pedate alla logica perché affoghi una buona volta e gli permetta di deificarsi.

Il lettore molto malevolo, invece, puó divertirsi a considerare questo aforisma come la descrizione dell'autodeificazione di Hugo, che non puó fare a meno di considerarsi Dio.

Nelle foto Hugo ha sempre qualcosa che ricorda l'iconografia del Padre Sommo barbuto ma senza triangoli sulla testa.

Quello che resta è lo splendore di questa frase nascosta nell'oceano di parole di un romanzo immenso come una perla perduta.




sabato, settembre 19, 2009

Monumento funebre del cardinal Cusano

Nicola Cusano


Si tratta della traduzione della prima parte dell'opera "De Apice Theoriae del Cusano. Il Cardinale è ovviamente lo stesso Cusano, Pietro il suo fedele segretario Pietro di Erkelez.

Dell'apice della teoria
Parte I

Pietro

Mi sembra che tu sia stato rapito un profonda meditazione per alcuni giorni sicché temetti di esserti molesto se ti avessi domandato qualcosa su quello che ti succedeva. Ora, siccome ti vedo meno concentrato e quasi lieto come se avessi scoperto qualche cosa di importante, mi perdonerai, spero, se ti farò più domande del solito.

Il Cardinale

Ne sarò lieto. Infatti mi sono speso meravigliato del tuo silenzio, soprattutto perché mi hai udito parlare molto, in quattordici anni, sia in pubblico che in privato di quello che ho trovato con lo studio e hai raccolto in opuscoli le molte cose che scrissi.
E così ora che per dono di Dioe per il mio ministero sei giunto allo sato sacerdotale, è giunto il tempo per te di cominciare a parlare e ad interrogare.

Pietro

Mi vergogno della mia goffagine. Tuttavia chiedo alla tua pietà di essere edotto di che cosa di nuovo ti giunse in questa meditazione pasquale. Credevo che tu perfezionassi tutta tua speculazione ce hai illustrato in tanti diversi tuoi manoscritti.

Il Cardinale

Se l’apostolo Paolo nonostante sia stato rapito fino al terzo Cielo non comprese tuttavia l’incomprensibile, nessuno mai, neppure il più grande, sarà saziato di tutta la comprensione anche se sempre insista per meglio compredere.

Pietro

Che cosa cerchi?

Il Cardinale

Dici bene.

Pietro

Ti interrogo e tu mi deridi. Quando ti domando che cosa cerchi, tu dici “dici bene”, e io non dico niente, ma chiedo.

Il Cardinale

Quando hai detto “che cosa cerchi” hai detto bene, perché il che cosa io cerco. Chiunque cerca ciò che cerca. Se infatti non cercasse qualche cosa o ciò sarebbe come se non cercasse. Io dunque, come tutti gli studiosi, cerco ciò, perché ben voglio sapere che cosa sia ciò ovvero la quiddità che tanto è cercata.

Pietro

Pensi che si possa trovarla?

Il Cardinale

Senz’altro. Infatti lo sforzo che compete a tutti gli studiosi non è vano.

Pietro

Se fino ad ora nessuno ha trovato ciò, tu cercherai di superare tutti?

Il Cardinale


Ritengo che molti in qualche modo lo abbiano visto e descrtto in parole. Infatti la quiddità che sempre è cercata, è stata e sarà cercata, se fosse del tutto ignota, in che modo potrebbe essere conosciuta, se anche una volta trovata rimanesse sconosciuta? Infatti diceva un certo sapiente che essa è vista da tutti anche dai più lontani.

Quindi essendomi sembrato per molti anni che sia necessario cercarla oltre ogni potenza cognitiva, oltre ogni varietà e opposizione non considerai che la quiddità è in sé sussistente, sussistenza invariabile di tutte le sostanze; e perciò non moltiplicabile, moltilicabile e non altra e altra quiddità degli altri enti, ma la medesima ipostasi di tutti. Poi vidi che era necessario che dicessi che la stessa possa essere l’ipostasi o la sussistenza di tutte le cose. E poiché può essere senza lo stesso potere non potrebbe essere. Come potrebbe infatti senza potere? Quindi lo stesso potere, senza il quale nulla può essere qualche cosa è ciò di cui non può esservi nulla di più sussistente. Perciò è esso ciò che si cerca. Proprio a questa teoria mi sono dedicato in queste festività con grande diletto.

Pietro

Mi sembra, in verità, che tu dica che senza potere nulla possa essere, e che senza quiddità non vi è alcunché, quindi parmi che la quiddità sia il potere stesso. Ma mi meraviglio, poiché già prima hai detto molte cose del potere e le hai spiegate nel trialogo, che questo non basti.


Vedrai che al di sotto dello stesso potere, di cui nulla può essere più potente né prima né migliore, è di gran lunga meglio nominare quello, senza il quale nulla può essere, né vivere, ne comprendere piuttosto che qualche altro vocabolo. Se infatti può essere nominato in ogni modo il potere stesso, del quale nulla può essere più perfetto, esso stesso lo nominerà nel modo migliore. Infatti non credo che si possa dargli un nome più chiaro, più vero o più facile.

Pietro

Come puoi chiamarlo facile, quando credo che non vi sia nulla di più difficile di quello che sempre è cercato e mai trovato completamente?

Il Cardinale

La verità quanto più è chiara tanto più è facile. Io ritenevo che la si trovasse meglio in un poco di oscurità. Grande è la potenza della verità nella quale brilla intensamente lo stesso potere. Essa infatti grida nelle piazze, come hai letto nel libretto “De Idiota”. Certamente essa è ben facile da trovarsi.
Quale bambino o adolescente ignora lo stesso potere, quando dice che può mangiare, correre o parlare? E non vi è nessuno dotato di una mente che sia a tal punto ignaro da non sapere anche senza maestro che nulla e se non può essere e che senza potere nulla può essere, avere, fare o subire. Quale adolescente, interrogato se possa portare una pietra, avendo risposto che lo può, ulteriormente interrogato se lo potrebbe senza poterlo non risponderebbe giammai? Egli giudicherebbe assurda e superflua tale domanda, come se nessuno sano di mente potesse dubitare di aver fatto o di fare qualche cosa senza poterlo. Ogni potente presuppone il potere come necessario e nulla può essere senza che esso sia presupposto e che cosa diresti se ancora ti domandassi, essendo il potere di tutte queste origini quasi inesplicabile, da dove tale potere tragga la sua virtù? Non risponderesti forse, che le trae da quel potere assoluto e non contratto, quasi onnipotente, di cui nulla havvi che di più potente possa essere percepito o immaginato o compreso, essendo
Se infatti qualche cosa può essere nota nulla è più noto proprio del potere. Se qualche cosa può essere facile, nulla è più facile proprio del potere, se qualche cosa può essere certo nulla è più certo dello stesso potere. Così nulla è più primo, né glorioso, né forte, né solido né sostanziale e così di tutte le cose. Mancando infatti il potere stesso nulla vi può essere di buono né di qualunque altra cosa che possa essere.

Pietro

Nulla vedo di più sicuro e ritengo che nessuno possa ignorare la verità di queste.

Il Cardinale

C’è solo attenzione tra te e me. Infatti, se ti interrogassi su che cosa scorgi in tutti i posteri di Adamo che furono, che sono e che saranno, anche se fossero infiniti, non risponderesti forse subito che non vi scorgi altro che il potere paterno del primo genitore?

Pietro

E’ certamente così

Il Cardinale

E se vi aggiungessi, che cosa scorgi nei leoni, e aquile e ogni specie di animali, non risponderesti forse allo stesso modo?

Pietro

Di sicuro non in modo diverso.

Trad. genseki

giovedì, settembre 17, 2009

Mahakasyapa sorride

Non c'è nulla d trovare

Quella che segue è una nuova parte della traduzione dei "Dialoghi" di Huangpo a cura di genseki,
Le altre si possoni trovare cliccando su una delle etichette in fono al testo
genseki

A partire dal'istante in cui Buddha trasmise il metodo spirituale a Mahakasyapa, lo spirito ricevette il sigillo dello spirito senza piú nessuna differenza tra spirito e spirito. Questo sigillo si stampiglia nel vuoto, cioè non ha nulla a che vedere con i testi, perché se fosse stampigliato su qualche cosa di concreto allora non avrebbe piú niente a che fare con il metodo spirituale. Per questo quando lo spirito pone il sigillo allo spirito lo spirito che sigilla e quello che è sigillato non sono piú distinti. Sccome, peró il soggetto che sigilla e l'oggetto che è sigillato si incontrano con difficltá la loro coincidenza è estremamente rara. Tutttavia, dal momento che lo spirito equivale al non-spirito, trovarlo equivale a non trovare nulla.

Il Buddha ha tre corpi: il corpo assoluto insegna la vacuità e la libertá della nostra essenza; il corpo della fruizione insegna il metodo della purezza universale; il corpo di appaizione insegna le sei trascendenze e tutte le altre pratiche infinite.

Non si puó cercare il metodo insegnato dal corpo assoluto in linguaggio, suono, forma o testo: nulla è attestato.
La nostra essenza è aperta come lo spazio. Questo è tutto. In questo senso è stato detto: "Nel fatto che il vero metodo non puó essere insegnato si trova il vero metodo".
Il corpo di fruizione e quello di apparzione si fanno sentire e si manifestano secondo le circostanze.
I metodi che insegnano dipendono dalle circostanze e dalle situazioni. Per attirare e convertire impiegano un metodo che non è quello reale, si puó dire quindi che: "il corpo di fruizione e quello di apparizione non sono il Buddha reale
e non insegnano il metodo corretto".
Tutto ció si puó riassumere in una sola luminosa chiarezza sottile che si articola in sei tipi di relazioni armoniose.
I sei tipi di relazioni corispondono alle sei facoltá sensoriali. Ognuna di queste facoltá si unisce al suo oggetto: l'occhio alla forma, l'orecchio al suono, il naso agli odori, la lingua ai sapori, il tatto ai tangibili, l'intelletto agli intellegibili.
Nel mezo emergono le sei coscienze così che in tutto si hanno diciotto sfere. Comprendendo che queste diciotto sfere non hanno esistenza indipendente le sei relazioni sono concentrate in una sola chiara luminositá sottile che altro non è che lo spirito, I discepoli sanno tutto questo ma si sforzano di spiegare concettualmente l'unica chiara luminositá sottile e le sei relazioni, cosí che si ritovano legati dal metodo senza coincidere piú con il proprio spirito.

Huangpo
Dialoghi
Trad a cura di genseki

mercoledì, settembre 16, 2009

Aforismi

Quelle che seguono sono brevi citazione tratte da lunghi anni di escursioni, di viaggi forse, nel continente immenso, inevitabile dell'Hugo narratore. Viaggi che cominciai sistematicamente quando il primo attacco di artrite quasi mi parelizzzó e che continuai in febbrile quiete nei momenti piú lieti degli anni successivi.
Parmi che possano illustrare come la potenza immaginativa della parola hugoliana scavi nel pensiero cunicoli e camminamenti aforismatici che partendo da un punto di vista razionale sboccano in una allucinazione mitica. Mitologia bagnata dalla luce molle di una mattina marina della ragione. La sola mitologia consentita ai moderni,
Questo primo assaggio contiene brani dei miserabili. Il primo di essi non corrisponde che molto vagamente alle parole che ho scrito qui sopra, in parte ne è una fragrante negazione esemplare posa umilmente in limine.

genseki
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I MISERABILI

Si può considerare con indifferenza la pena di morte, si può non pronunciarsi, dire di sì e di no, finché non si è vista con i propri occhi una ghigliottina; ma quando se ne vede una, la scossa è violenta e bisogna decidersi a prender partito pro o contro. Alcuni ammirano, come il De Maistre, altri esecrano come il Beccaria. La ghigliottina è il concretizzarsi della legge; essa si chiama punizione, non è neutra e non vi permette di rimaner neutrali. Chi la scorge freme del più misterioso dei fremiti. Tutte le questioni sociali drizzano attorno alla mannaia i loro punti interrogativi. Il patibolo non è visione. Il patibolo non è un'impalcatura, non è una macchina, non è un meccanismo inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra che sia, in qualche modo, un essere dotato di chissà quali cupe iniziative. Si direbbe che quella impalcatura veda, che quella macchina intenda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria in cui getta l'anima con la sua presenza, il patibolo appare terribile e partecipe di quello che fa. Il patibolo è complice del carnefice: divora, mangia della carne, beve del sangue. Il patibolo è una specie di mostro, fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere d'una vita spaventosa, fatta di tutta la morte che ha procurato.

La morte appartiene solo a Dio. Con quale diritto gli uomini si servono di una cosa sconosciuta?».

«L'infinito esiste. È là. Se l'infinito non avesse un io, l'io sarebbe il suo limite; non sarebbe infinito; in altri termini, non esisterebbe. E invece esiste. Dunque ha un io. L'io dell'infinito è Dio».

Ma ciò che apprezziamo nei confronti di coloro che salgono, ci piace assai meno di fronte a coloro che cadono. Amiamo il combattimento fintanto che c'è pericolo; e, in ogni caso, sono soltanto gli oppositori della prima ora che hanno il diritto di essere gli sterminatori dell'ultima. Chi non è stato nei giorni della prosperità accusatore ostinato, al momento del crollo deve tacere. Solo il denunciatore del successo sarà il legittimo giustiziere della caduta.

Ogni zucchetto può sognare la tiara. Il prete, ai giorni nostri, è il solo uomo che possa di diritto diventare re; e che re! Il re supremo! Per questo il seminario è un semenzaio d'aspirazioni.

I geni, nelle inaudite profondità dell'astrazione e della speculazione pura, posti per così dire al di sopra dei dogmi, propongono a Dio le loro idee. La loro preghiera offre audacemente la discussione. La loro adorazione interroga. Questa è la religione diretta, piena d'ansietà e di responsabilità per chi ne tenta la scalata.

La meditazione umana non ha limiti. Ha i suoi pericoli, i suoi rischi, analizza e scava il proprio abbaglio. Si potrebbe quasi dire che, con una specie di splendida reazione, ella ne abbagli la natura; il mondo misterioso che ci circonda rende ciò che riceve; è probabile che i contemplatori siano a loro volta contemplati. Comunque, ci sono sulla terra uomini - ma sono uomini, poi? - che scorgono in fondo all'orizzonte del sogno le altezze dell'assoluto e che hanno la terribile visione della montagna infinita.


***

martedì, settembre 15, 2009

Tre mendichi

I Pitocchi

Ci fu un'epoca nella letteratura francese in cui fu possibile la poesia, prima del romanticismo e prima del poeticidio di Malherbe. Ua poesia lontana dal petrarchismo che profuma di muschio e osteria, di vecchie pietre e umida foresta. Una poesia da moschettieri, insomma all'avventura sulle scivolose strade di Francia. Saint Amant, Théophile e Viau, Tristan l'Hermite ne sono i maggiori rappresentanti prima che vincessero definitivamente i moschettieri del cardinale.
La traduzione è cosí cosí ma è quello che mi è riuscito di fare.
genseki

di Saint-Amant

Con un lenzuolo in tre senza luce né fuoco,
Nel piú profondo inverno, dormir nella legnaia
Ove i gatti borbottano in oscuro ostrogoto
Rischiarando la notte con le pupile d'oro;

Usar come cuscino un pezzo di sgabello,
Digiunare due anni al modo di lumache,
Sognar con mille smorfie come macachi al sole
Che con grandi sbadigli si grattano le ascelle;

Con un vecchio cappello a guisa di berretto,
Con le trine di un manto poteggersi dal freddo
E fasciarsi la pancia con un frusta fodera;

Soffrire mille ingiurie da un vecchio oste irato
Che appena puó fornire una minima spesa
È questo il risultato d'una vita sbandata.


trad. genseki

lunedì, settembre 14, 2009

Filosofia e sapienza

Scrive il giovane Hegel:

"Tutti i moscerini della soggettivitá bruciano in questo fuoco distruggitore, ed è annientata anche la coscienza di questo sacrificio e annientamento".

Il fuoco è qui la filosofia, o la scienza. Il linguaggio è quello della mistica. La metafora degli insetti e del fuoco, siano essi farfalle, mosche o moscerini è una dele piú antiche del linguaggio mistico da Attar di Nishapur in avanti, si trova in Leonardo (Il parpaglion che fere la lumiera...) e in Goethe. La coscienza scompare in uno sfrigolante bagliore e si fa istantaneamente una sola cosa con il tutto, Si tratta, naturalmente di uno istantaneamente eterno e in cui anche lo sfrigolio ha un proprio valore teoretico.
Comunque proprio in una delle ultime stazioni sul cammino del grande santuario fenomenologico incontriamo una formula apparentemente mistica.
La fine della filososfia è anche fine della soggettivitá e della coscienza.
Se le cose stanno cosí peró, il supremo compimento della filosofia non ha piú nulla a che fare con la vita. È puro oltre, oltre ogni orizzonte, cioé, giacché non vi è orizzonte alcuno ove non vi sia soggettivitá.
La filosofia si compie, si attualizza, finisce con la distruzione del soggetto.
Tra il soggetto e la sua distruzione resta peró "lo sfrigolío" della fiamma. Il compimento non è mai compiuto completamente. Tra il compimento e il suo compiersi resta uno iato.
Questo iato è la spazio della sapienza. Tra coscienza e spirito sta la sapienza, seduta in profonda concentrazione, attenzione, samadhi.
Le parole fiammeggianti di Hegel lasciano lo spazio alla fresca brezza di una poesia di Dogen:

La persona autentica non è
Un individuo particolare
Come l'azzurro profondo del cielo illimitato
Essa è ogni persona
Ovunque nel mondo.

Dogen

domenica, settembre 13, 2009

L'individuo

Le righe che seguono sono dello Hegel francofortese, tratte dal "Systemfragment" del 1800 contengono un approccio alla dialettica nel punto in cui essa non appartiene ancora soltanto all'universo della teoria, nel momento in cui il sole non è ancora del tutto calato e la nottola esita ad alzarsi in volo. Altri uccelli incrociano le loro rotte crepuscolari, aprono le ali come evocando la crocifissione.
La possibilitá stessa del pensiero dialettico si gioca interamente sulla scommessa dell'individualitá. Si tratta di dare ragione dell'individuo, di costruirlo e di decostruirlo come centro di rifrazione della realtá.
Qui Hegel con timore e tremore imbocca la strada che forse potrá liberarlo dalla malattia mortale.

"Il concetto di individualiá implica contrapposizioneall'infinitá, molteplicitá e collegamento con la meesima; un uomo è una vita individuale in quanto è qualche cosa di diverso da tutti gli elementi e dall'infinitá delle vite individuali al di fuori di lui; egli è solo in quanto il tutto della vita è diverso; egli è una parte e tutto il resto un'altra; egli è solo in quanto non è una parte e nulla è separato da lui. La vita. quindi, non puó mai essere concepita solo come unione e rapporto ma deve esserlo in pari misura e immediatamente come abolizione dell'una e dell'altra. Essa è un infinitamente finito, un illimitatamente limitato, è connessione di connessione e di non connessione".

sabato, settembre 12, 2009

Un Edipo Cristano

San Giuliano l'Ospitalario abitó la mente di Flaubert che minió in una prosa preraffaelita la sua nobile leggenda che raccolse nell'ingenuo latino del vescovo genovese.

La figura di San Giuliano è di quelle che afferrano la fantasia: questo Edipo Cristiano deve qualche cosa a quello greco? È possibile ricostruire attraverso quale cammino?

Certamente il destino di questi due “eroi” diverge molto presto.

Ci afferra lo sgomento di fronte al miracolo finale, all'inaspettata salvezza che pretende, per farsi attuale, la rinuncia alla piú segreta intimitá, al nucleo piú protetto del proprio io: Giuliano ammette il Viandante, il Lebbroso nel proprio letto ed è allora ch'egli si trasfigura nell'Angelo del perdono.


Di questa rinuncia, del carattere carnale, quasi animale della fede di Giuliano resta traccia in tutto il medioevo. Per ospitalitá di San Giuliano si intendeva in quei secoli, infatti un'ospitalitá che giungesse fino all'unione sesssuale.


Oggi quello dell'ospitalitá è un universo morale scomparso, il cui linguaggio si è fatto osceno, inarticolabile.


Nessun Ospitalario si preoccupa di benedire i cadaveri dei tanti disperati che come Flebas il Fenicio fluttuano tra le onde del mediterrane.


genseki

venerdì, settembre 11, 2009

San Giuliano

San Giuliano

Storia di San Giuliano l'Ospitalario

Gregorio di Tours ci narra di un certo contadino che aveva deciso di mettersi ad arare di Domenica, afferrato con dita sicure un attrezzo con il quale voleva pulire il vomere questo restò attaccato alla sua mano destra. Ma due anni dopo, per le sue preghiere, fu guarito nella chiesa di San Giuliano.


Ci fu anche un altro Giuliano, che uccise, non sapendolo, entrambi i genitori.

Questo Giuliano era giovane e nobile, un giorno a caccia, inseguiva un cervo che aveva stanato lui stesso. Di colpo, obbedendo a un ordine divino, il cervo si voltò verso di lui e gli disse: “Tu che ora mi insegui sarai l’assassino di tuo padre e di tua madre!” Udendo quelle parole Giuliano si spaventò moltissimo, e temendo non gli capitasse davvero, ciò che aveva udito dire dal cervo, abbandonati di nascosto tutti i suoi compagni se ne partì da solo fuggendo dal suo destino.

Giunse in una regione remota e qui entrò al servizio di un Principe; si comportò in modo così leale in tutte le circostanze, in pace come in guerra che il Principe lo fece cavaliere e gli diede in moglie una castellana rimasta vedova che gli portò in dote il suo castello.


Nel frattempo i genitori di Giuliano addoloratissimi per la scomparsa del proprio figliolo andavano vagando qua e la e lo cercavano con somma diligenza . Finalmente giunsero al castello in cui viveva Giuliano. Giuliano, però, quel giorno, si era allontanato dal castello per qualche sua commissione. Quando la moglie di Giuliano li vide, domandò loro chi fossero e quando essi le ebbero raccontato per esteso la storia del loro figliolo, comprese che si trattava dei genitori del marito, avendone, come credo, sentito parlare da lui di frequente. Pertanto gli accolse benevolmente e per amore del marito cedette loro il prorpio letto e si ridusse in un letticiuolo collocato in un’altra stanza. Venuto il mattino, la castellana se ne andò alla chiesa. Ed ecco che Giuliano giungendo entrò in camera da letto come se dovesse svegliare sua moglie e trovando due persone che dormivano, pensò che dovesse trattarsi di sua moglie con il suo drudo, allora, estratta la spada in silenzio, li uccise entrambi. Uscendo poi di casa vide sua moglie che tornava dala chiesa e, meravigliandosi, le domandò chi fossero allora quelli che dormivano nel suo letto. Ella gli rispose: “sono i Vostri genitori, che Vi hanno cercato per moltissimo tempo e io li ho fatti mettere nel Vostro letto”. Udendo queste parole egli quasi senza conoscenza cominciò a piangere amarissimamente e a dire: “oh misero, che cosa farò! Io che ho ucciso i miei dolcissimi genitori. Ecco si è adempiuta la parola del cervo, e io ho compiuto ciò che volli evitare. Addio dolcissima sorella, perché non troverò pace in nulla, finché non saprò quale penitenza Dio vorrà impormi”. Ed ella rispose: “Non pensare, dolcissimo fratello, di potermi abbandonare e di andartene senza di me, ché se condivisi con te la gioia con te condividerò anche il dolore”.

Allora si ritirarono insieme presso un grande fiume, che molti cercavano di attraversare. Quivi, per fare penitenza fondarono un grande ospedale nel quale ospitavano tutti i poveri che giungevano e traghettavano senza sosta tutti quelli che lo desideravano. Dopo molto tempo, nel cuore della notte, mentre Giuliano, sfinito, dormiva e il gelo era fortissimo, egli udì la voce di un infelice che si lamentava in modo penosissimo chiedendo a Giuliano, con lugubre tono, di poter essere traghettato. Egli udendolo si alzò in tutta fretta e trovando colui che gridava proprio quando era sul punto di venir meno per il gelo lo portò nella sua capanna e accese un fuoco cercando di riscaldarlo. Ma ogni sforzo sembrava inutile, allora, per non lasciarlo morire, lo pose nel suo letto e lo coprì con molta cura. Ed ecco che subito colui che sembrava malato, forse lebbroso, ascese in splendore verso il cielo dicendo: “Il Signore mi manda a te per dirti che la tua penitenza è accetta e tutti e due fra breve riposerete in lui”. Così disparve e Giuliano poco tempo dopo per le buone opere sue e per le elemosine trovò anch’egli riposo nel Signore.


***

trad genseki