mercoledì, settembre 16, 2009

Aforismi

Quelle che seguono sono brevi citazione tratte da lunghi anni di escursioni, di viaggi forse, nel continente immenso, inevitabile dell'Hugo narratore. Viaggi che cominciai sistematicamente quando il primo attacco di artrite quasi mi parelizzzó e che continuai in febbrile quiete nei momenti piú lieti degli anni successivi.
Parmi che possano illustrare come la potenza immaginativa della parola hugoliana scavi nel pensiero cunicoli e camminamenti aforismatici che partendo da un punto di vista razionale sboccano in una allucinazione mitica. Mitologia bagnata dalla luce molle di una mattina marina della ragione. La sola mitologia consentita ai moderni,
Questo primo assaggio contiene brani dei miserabili. Il primo di essi non corrisponde che molto vagamente alle parole che ho scrito qui sopra, in parte ne è una fragrante negazione esemplare posa umilmente in limine.

genseki
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I MISERABILI

Si può considerare con indifferenza la pena di morte, si può non pronunciarsi, dire di sì e di no, finché non si è vista con i propri occhi una ghigliottina; ma quando se ne vede una, la scossa è violenta e bisogna decidersi a prender partito pro o contro. Alcuni ammirano, come il De Maistre, altri esecrano come il Beccaria. La ghigliottina è il concretizzarsi della legge; essa si chiama punizione, non è neutra e non vi permette di rimaner neutrali. Chi la scorge freme del più misterioso dei fremiti. Tutte le questioni sociali drizzano attorno alla mannaia i loro punti interrogativi. Il patibolo non è visione. Il patibolo non è un'impalcatura, non è una macchina, non è un meccanismo inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra che sia, in qualche modo, un essere dotato di chissà quali cupe iniziative. Si direbbe che quella impalcatura veda, che quella macchina intenda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria in cui getta l'anima con la sua presenza, il patibolo appare terribile e partecipe di quello che fa. Il patibolo è complice del carnefice: divora, mangia della carne, beve del sangue. Il patibolo è una specie di mostro, fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere d'una vita spaventosa, fatta di tutta la morte che ha procurato.

La morte appartiene solo a Dio. Con quale diritto gli uomini si servono di una cosa sconosciuta?».

«L'infinito esiste. È là. Se l'infinito non avesse un io, l'io sarebbe il suo limite; non sarebbe infinito; in altri termini, non esisterebbe. E invece esiste. Dunque ha un io. L'io dell'infinito è Dio».

Ma ciò che apprezziamo nei confronti di coloro che salgono, ci piace assai meno di fronte a coloro che cadono. Amiamo il combattimento fintanto che c'è pericolo; e, in ogni caso, sono soltanto gli oppositori della prima ora che hanno il diritto di essere gli sterminatori dell'ultima. Chi non è stato nei giorni della prosperità accusatore ostinato, al momento del crollo deve tacere. Solo il denunciatore del successo sarà il legittimo giustiziere della caduta.

Ogni zucchetto può sognare la tiara. Il prete, ai giorni nostri, è il solo uomo che possa di diritto diventare re; e che re! Il re supremo! Per questo il seminario è un semenzaio d'aspirazioni.

I geni, nelle inaudite profondità dell'astrazione e della speculazione pura, posti per così dire al di sopra dei dogmi, propongono a Dio le loro idee. La loro preghiera offre audacemente la discussione. La loro adorazione interroga. Questa è la religione diretta, piena d'ansietà e di responsabilità per chi ne tenta la scalata.

La meditazione umana non ha limiti. Ha i suoi pericoli, i suoi rischi, analizza e scava il proprio abbaglio. Si potrebbe quasi dire che, con una specie di splendida reazione, ella ne abbagli la natura; il mondo misterioso che ci circonda rende ciò che riceve; è probabile che i contemplatori siano a loro volta contemplati. Comunque, ci sono sulla terra uomini - ma sono uomini, poi? - che scorgono in fondo all'orizzonte del sogno le altezze dell'assoluto e che hanno la terribile visione della montagna infinita.


***

martedì, settembre 15, 2009

Tre mendichi

I Pitocchi

Ci fu un'epoca nella letteratura francese in cui fu possibile la poesia, prima del romanticismo e prima del poeticidio di Malherbe. Ua poesia lontana dal petrarchismo che profuma di muschio e osteria, di vecchie pietre e umida foresta. Una poesia da moschettieri, insomma all'avventura sulle scivolose strade di Francia. Saint Amant, Théophile e Viau, Tristan l'Hermite ne sono i maggiori rappresentanti prima che vincessero definitivamente i moschettieri del cardinale.
La traduzione è cosí cosí ma è quello che mi è riuscito di fare.
genseki

di Saint-Amant

Con un lenzuolo in tre senza luce né fuoco,
Nel piú profondo inverno, dormir nella legnaia
Ove i gatti borbottano in oscuro ostrogoto
Rischiarando la notte con le pupile d'oro;

Usar come cuscino un pezzo di sgabello,
Digiunare due anni al modo di lumache,
Sognar con mille smorfie come macachi al sole
Che con grandi sbadigli si grattano le ascelle;

Con un vecchio cappello a guisa di berretto,
Con le trine di un manto poteggersi dal freddo
E fasciarsi la pancia con un frusta fodera;

Soffrire mille ingiurie da un vecchio oste irato
Che appena puó fornire una minima spesa
È questo il risultato d'una vita sbandata.


trad. genseki

lunedì, settembre 14, 2009

Filosofia e sapienza

Scrive il giovane Hegel:

"Tutti i moscerini della soggettivitá bruciano in questo fuoco distruggitore, ed è annientata anche la coscienza di questo sacrificio e annientamento".

Il fuoco è qui la filosofia, o la scienza. Il linguaggio è quello della mistica. La metafora degli insetti e del fuoco, siano essi farfalle, mosche o moscerini è una dele piú antiche del linguaggio mistico da Attar di Nishapur in avanti, si trova in Leonardo (Il parpaglion che fere la lumiera...) e in Goethe. La coscienza scompare in uno sfrigolante bagliore e si fa istantaneamente una sola cosa con il tutto, Si tratta, naturalmente di uno istantaneamente eterno e in cui anche lo sfrigolio ha un proprio valore teoretico.
Comunque proprio in una delle ultime stazioni sul cammino del grande santuario fenomenologico incontriamo una formula apparentemente mistica.
La fine della filososfia è anche fine della soggettivitá e della coscienza.
Se le cose stanno cosí peró, il supremo compimento della filosofia non ha piú nulla a che fare con la vita. È puro oltre, oltre ogni orizzonte, cioé, giacché non vi è orizzonte alcuno ove non vi sia soggettivitá.
La filosofia si compie, si attualizza, finisce con la distruzione del soggetto.
Tra il soggetto e la sua distruzione resta peró "lo sfrigolío" della fiamma. Il compimento non è mai compiuto completamente. Tra il compimento e il suo compiersi resta uno iato.
Questo iato è la spazio della sapienza. Tra coscienza e spirito sta la sapienza, seduta in profonda concentrazione, attenzione, samadhi.
Le parole fiammeggianti di Hegel lasciano lo spazio alla fresca brezza di una poesia di Dogen:

La persona autentica non è
Un individuo particolare
Come l'azzurro profondo del cielo illimitato
Essa è ogni persona
Ovunque nel mondo.

Dogen

domenica, settembre 13, 2009

L'individuo

Le righe che seguono sono dello Hegel francofortese, tratte dal "Systemfragment" del 1800 contengono un approccio alla dialettica nel punto in cui essa non appartiene ancora soltanto all'universo della teoria, nel momento in cui il sole non è ancora del tutto calato e la nottola esita ad alzarsi in volo. Altri uccelli incrociano le loro rotte crepuscolari, aprono le ali come evocando la crocifissione.
La possibilitá stessa del pensiero dialettico si gioca interamente sulla scommessa dell'individualitá. Si tratta di dare ragione dell'individuo, di costruirlo e di decostruirlo come centro di rifrazione della realtá.
Qui Hegel con timore e tremore imbocca la strada che forse potrá liberarlo dalla malattia mortale.

"Il concetto di individualiá implica contrapposizioneall'infinitá, molteplicitá e collegamento con la meesima; un uomo è una vita individuale in quanto è qualche cosa di diverso da tutti gli elementi e dall'infinitá delle vite individuali al di fuori di lui; egli è solo in quanto il tutto della vita è diverso; egli è una parte e tutto il resto un'altra; egli è solo in quanto non è una parte e nulla è separato da lui. La vita. quindi, non puó mai essere concepita solo come unione e rapporto ma deve esserlo in pari misura e immediatamente come abolizione dell'una e dell'altra. Essa è un infinitamente finito, un illimitatamente limitato, è connessione di connessione e di non connessione".

sabato, settembre 12, 2009

Un Edipo Cristano

San Giuliano l'Ospitalario abitó la mente di Flaubert che minió in una prosa preraffaelita la sua nobile leggenda che raccolse nell'ingenuo latino del vescovo genovese.

La figura di San Giuliano è di quelle che afferrano la fantasia: questo Edipo Cristiano deve qualche cosa a quello greco? È possibile ricostruire attraverso quale cammino?

Certamente il destino di questi due “eroi” diverge molto presto.

Ci afferra lo sgomento di fronte al miracolo finale, all'inaspettata salvezza che pretende, per farsi attuale, la rinuncia alla piú segreta intimitá, al nucleo piú protetto del proprio io: Giuliano ammette il Viandante, il Lebbroso nel proprio letto ed è allora ch'egli si trasfigura nell'Angelo del perdono.


Di questa rinuncia, del carattere carnale, quasi animale della fede di Giuliano resta traccia in tutto il medioevo. Per ospitalitá di San Giuliano si intendeva in quei secoli, infatti un'ospitalitá che giungesse fino all'unione sesssuale.


Oggi quello dell'ospitalitá è un universo morale scomparso, il cui linguaggio si è fatto osceno, inarticolabile.


Nessun Ospitalario si preoccupa di benedire i cadaveri dei tanti disperati che come Flebas il Fenicio fluttuano tra le onde del mediterrane.


genseki

venerdì, settembre 11, 2009

San Giuliano

San Giuliano

Storia di San Giuliano l'Ospitalario

Gregorio di Tours ci narra di un certo contadino che aveva deciso di mettersi ad arare di Domenica, afferrato con dita sicure un attrezzo con il quale voleva pulire il vomere questo restò attaccato alla sua mano destra. Ma due anni dopo, per le sue preghiere, fu guarito nella chiesa di San Giuliano.


Ci fu anche un altro Giuliano, che uccise, non sapendolo, entrambi i genitori.

Questo Giuliano era giovane e nobile, un giorno a caccia, inseguiva un cervo che aveva stanato lui stesso. Di colpo, obbedendo a un ordine divino, il cervo si voltò verso di lui e gli disse: “Tu che ora mi insegui sarai l’assassino di tuo padre e di tua madre!” Udendo quelle parole Giuliano si spaventò moltissimo, e temendo non gli capitasse davvero, ciò che aveva udito dire dal cervo, abbandonati di nascosto tutti i suoi compagni se ne partì da solo fuggendo dal suo destino.

Giunse in una regione remota e qui entrò al servizio di un Principe; si comportò in modo così leale in tutte le circostanze, in pace come in guerra che il Principe lo fece cavaliere e gli diede in moglie una castellana rimasta vedova che gli portò in dote il suo castello.


Nel frattempo i genitori di Giuliano addoloratissimi per la scomparsa del proprio figliolo andavano vagando qua e la e lo cercavano con somma diligenza . Finalmente giunsero al castello in cui viveva Giuliano. Giuliano, però, quel giorno, si era allontanato dal castello per qualche sua commissione. Quando la moglie di Giuliano li vide, domandò loro chi fossero e quando essi le ebbero raccontato per esteso la storia del loro figliolo, comprese che si trattava dei genitori del marito, avendone, come credo, sentito parlare da lui di frequente. Pertanto gli accolse benevolmente e per amore del marito cedette loro il prorpio letto e si ridusse in un letticiuolo collocato in un’altra stanza. Venuto il mattino, la castellana se ne andò alla chiesa. Ed ecco che Giuliano giungendo entrò in camera da letto come se dovesse svegliare sua moglie e trovando due persone che dormivano, pensò che dovesse trattarsi di sua moglie con il suo drudo, allora, estratta la spada in silenzio, li uccise entrambi. Uscendo poi di casa vide sua moglie che tornava dala chiesa e, meravigliandosi, le domandò chi fossero allora quelli che dormivano nel suo letto. Ella gli rispose: “sono i Vostri genitori, che Vi hanno cercato per moltissimo tempo e io li ho fatti mettere nel Vostro letto”. Udendo queste parole egli quasi senza conoscenza cominciò a piangere amarissimamente e a dire: “oh misero, che cosa farò! Io che ho ucciso i miei dolcissimi genitori. Ecco si è adempiuta la parola del cervo, e io ho compiuto ciò che volli evitare. Addio dolcissima sorella, perché non troverò pace in nulla, finché non saprò quale penitenza Dio vorrà impormi”. Ed ella rispose: “Non pensare, dolcissimo fratello, di potermi abbandonare e di andartene senza di me, ché se condivisi con te la gioia con te condividerò anche il dolore”.

Allora si ritirarono insieme presso un grande fiume, che molti cercavano di attraversare. Quivi, per fare penitenza fondarono un grande ospedale nel quale ospitavano tutti i poveri che giungevano e traghettavano senza sosta tutti quelli che lo desideravano. Dopo molto tempo, nel cuore della notte, mentre Giuliano, sfinito, dormiva e il gelo era fortissimo, egli udì la voce di un infelice che si lamentava in modo penosissimo chiedendo a Giuliano, con lugubre tono, di poter essere traghettato. Egli udendolo si alzò in tutta fretta e trovando colui che gridava proprio quando era sul punto di venir meno per il gelo lo portò nella sua capanna e accese un fuoco cercando di riscaldarlo. Ma ogni sforzo sembrava inutile, allora, per non lasciarlo morire, lo pose nel suo letto e lo coprì con molta cura. Ed ecco che subito colui che sembrava malato, forse lebbroso, ascese in splendore verso il cielo dicendo: “Il Signore mi manda a te per dirti che la tua penitenza è accetta e tutti e due fra breve riposerete in lui”. Così disparve e Giuliano poco tempo dopo per le buone opere sue e per le elemosine trovò anch’egli riposo nel Signore.


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trad genseki

giovedì, settembre 10, 2009

Antonio Labriola

Antonio Labriola

Quello che segue è un breve malinconico frammento di una lettera di Labriola a Spaventa, che riletto oggi, sembra permeato di un ottimsmo radicale e disincarnato.
Queste poche parole, confrontate con l'esperienza dell'oggi ci danno la misura della rapiditá e della profonditá della degradazione di una classe dirigente e di una intellettuale.
Che distanza tra questa concezione della politica e quello che oggi si conviene chiamare politica.

"Io mi domando sempre se in Italia c'è o non c'è una decina di persone che senta la responsabilitá dello Stato per farla finita con le vuote forme della libertá e per ristabilire la seietá della vita. Lo stato deve essere il domini dell'ottimo, e l'ottimo non nasce dal caso con buon pace del Darwin e de furfanti che si chiamano liberali".

A Labriola
Lettera a Spaventa.

mercoledì, settembre 09, 2009

De Luce

Sulla luce
Ovvero
L’origine delle forme
Di
Roberto Grossatesta
Vescovo di Lincoln

Penso che la luce sia la prima forma corporea che alcuni chiamano anche corporeità. La luce, infatti, si espande da sola in ogni direzione in modo tale che a partire da un punto di luce subito si genera una sfera luminosa di grandezza variabile. La corporeità deriva necessariamente dall’estensione della materia in tre dimensioni, tuttavia entrambe, la corporeità come la materia sono sostanze in sé semplici che mancano di ogni dimensione. E’ impossibile invero che la forma in sé semplice e mancando di ogni dimensione possa produrre le dimensioni in ogni parte di una materia anch’essa similmente semplice e priva di dimensioni, se non moltiplicando se stessa e diffondendosi in ogni parte immediatamente ed estendendo la materia nell’atto stesso di questo suo diffondersi, dal momento che la forma non può lasciare la materia da cui è inseparabile e la materia non può fare a meno della forma.
Ho supposto che sia la luce ciò cui solo è possibile di compiere questa operazione di moltiplicare se stessa e di diffondersi immediatamente in ogni parte. Qualunque cosa faccia ciò o è la luce medesima oppure della luce partecipa quando questa agisce per virtù sua propria.
La corporeità dunque o è la luce stessa o è, come detto qualche cosa che produce le dimensioni nella materia in quanto partecipa della luce e agisce per virtù di questa. Ma, invero, non è possibile che la forma prima produca le dimensioni nella materia per virtù della forma conseguente. La luce non è quindi forma conseguente la corporeità ma è essa stessa la corporeità.
Più dettagliatamente i sapienti pensano che la prima forma corporale sia più degna di tutte le forme conseguenti e di essenza più eccellente e più nobile e più simile alle forme che sussistono separatamente. La luce, invero, è di essenza più nobile e più degna e più eccellente di tutte quante le cose corporee e più simile alle forme che sussistono autonomamente, che sono le Intelligenze. La luce è dunque la prima forma corporea.
Ecco allora che la luce che è la prima forma creata nella prima materia moltiplicandosi da sé infinitamente, ovunque egualmente estendendosi, al principio del tempo dilatava la materia che si diffondeva così in tanta per una misura pari a quella dell’intera macchina del mondo senza tuttavia poterla oltrepassare.
L’estensione della materia non poté avvenire per una moltiplicazione finita della luce, perché il semplice moltiplicato per un numero finito non genera la quantità come dimostra Aristotele nel “De Caelo et Mundo”.
E’, invece, necessario che infinitamente moltiplicato generi una quantità finita perché il prodotto di una moltiplicazione infinita di qualche cosa supera infinitamente ciò della cui moltiplicazione è prodotto. E il semplice non è superato infinitamente dal semplice ma basta soltanto una quantità finita per superarlo infinitamente. Infatti, la quantità infinita supera il semplice infinitamente infinite volte. La luce, dunque, che in sé è semplice, infinitamente moltiplicata, estende in dimensioni di grandezza finita la semplice materia.

E’ poi possibile che un insieme infinito di numeri sia proporzionale ad un insieme infinito secondo un relazione numerica o anche non numerica. Vi sono infiniti maggiori e altri minori di altri infiniti.
L’insieme di tutti i numeri pari e di tutti i numeri dispari è infinito e, tuttavia, è maggiore dell’insieme di tutti i numeri pari che è comunque lo stesso infinito perché lo eccede per la quantità di tutti i numeri dispari. Anche l’insieme di tutti i numeri moltiplicati per due a partire dall’unità in avanti è infinito, e similmente l’insieme di tutte le metà corrispondenti ai loro doppi è infinito. L’insieme delle metà dovrebbe essere la metà dell’insieme dei suoi doppi. Allo stesso modo l’insieme di tutti i numeri triplicati a partire dall’unità e andando sempre avanti è triplo rispetto all’insieme dei terzi corrispondenti a questi tripli. E’ così chiaro che ogni tipo di proporzione numerica può essere una relazione tra finito e infinito.

Prendiamo allora un insieme infinito di tutti i doppi a partire dall’unità e un’insieme infinito di tutte le metà corrispondenti a questi doppi, se sottraiamo un’unità o un altro numero finito dall’insieme dei doppi, una volta compiuta la sottrazione non vi è più una relazione proporzionale tra il primo insieme e quanto resta del secondo. Non vi è qui una proporzione numerica perché se restasse una proporzione numerica fra il primo insieme e quanto resta del secondo dopo la sottrazione, quello che è sottratto sarebbe una quota parte di una quota parte, ovvero una quota di parti di una parte di ciò da cui è sottratto. Ma un numero finito non può essere una quota parte o una quota di parti di una quota parte di un numero infinito. Perciò se noi sottraiamo un numero da un insieme infinito di metà non resta nessuna proporzione numerica tra l’insieme infinito dei doppi e quanto rimane dell’insieme infinito delle metà.

Ecco allora che diviene chiaro come la luce attraverso la propria moltiplicazione infinita estenda la materia in dimensioni finite più o meno ampie secondo le diverse proporzioni che si stabiliscono tra l’una e l’altra e che possono essere numeriche oppure non numeriche. Per questo la luce per mezzo della sua moltiplicazione infinita. Se quindi la luce per mezzo della sua moltiplicazione infinita estende la materia per uno spazio di due cubiti raddoppiando la medesima moltiplicazione infinita ecco che la diffonde per uno spazio di quattro cubiti e dividendola per due la amplia di un cubito e così via secondo le altre proporzioni numeriche e non numeriche.

Questa penso fu l’idea di quei filosofi che supposero che ogni cosa sia composta di atomi o di quelli che affermano che i corpi sono composti da superfici, le superfici da linee e le linee da punti. E non si oppone a questa affermazione chi dice che la grandezza si compone soltanto di grandezze. Infatti, quando si definisce la parte si definisce anche il tutto. Detto altrimenti si dice metà quella parte del tutto che presa due volte ci ridà il tutto. Analogamente il raggio è una parte del diametro ma moltiplicato per tante volte quante si vuole non ci ridà mai i diametro e rimane sempre minore di quello. Ancora, l’angolo di contingenza è una parte dell’angolo retto in cui è contenuto infinite volte e tuttavia, se ve lo sottraiamo un numero finito di volte lo rende più piccolo, mentre se sottraiamo un punto dalla linea di cui esso è una parte questa non ne resta in alcun modo diminuita.

Ritornando al mio assunto dico che la luce per mezzo della sua infinita moltiplicazione estende in ogni parte egualmente la materia in forma sferica. Ne consegue per necessità di questa estensione che le parti estreme della materia siano più rarefatte e più diffuse delle parti più interne più prossime al centro. Quando le parti estreme siano sommamente rarefatte ecco che anche quelle interne divengono suscettibili di rarefazione.

In questo modo, dunque, la luce estendendo la prima materia in forma sferica e rarefacendola nelle sue parti estreme, attualizzò perfettamente le possibilità della materia nell’ultima sfera non lasciando in essa nulla che fosse suscettibile di ulteriore impressione. Il primo corpo all’estremità della sfera è tanto perfetto da essere detto firmamento perché nella sua composizione non entra nient’altro che la prima forma e la prima materia. Per questo è un corpo semplicissimo quanto alle parti che ne costituiscono l’essenza e quanto alla grandezza che è massima e non differisce dal genere corporeo che per il fatto che in esso la materia è perfetta soltanto grazie alla forma. Ma il genere corporeo che si trova in questo e in altri corpi, avendo nella sua essenza la prima materia e la prima forma prescinde dalla completa attualizzazione della materia attraverso la prima forma e dalla diminuzione della materia per mezzo della prima forma.

Raggiunta così la perfezione, il primo corpo, cioè il firmamento, diffonde da solo la sua luce da ogni sua parte verso il centro del tutto. Infatti, siccome la luce è a perfetta attualizzazione del primo corpo essa si diffonde necessariamente verso il centro del tutto. Ma poiché la forma nella sua interezza non è separabile dalla materia mentre si diffonde dal primo corpo diffonde con sé la spiritualità della materia del primo corpo. Così dal primo corpo procede la luce che è un corpo spirituale o se si preferisce uno spirito corporale. Dal momento che la luce nel suo passaggio non separa il corpo che attraversa essa immediatamente penetrò dal primo corpo celeste verso il centro. Il suo passaggio non deve essere inteso come un passaggio di qualche cosa che sia misurabile benché istantaneo dal cielo verso il centro del tutto, questo, infatti, non sarebbe possibile, ma il suo passaggio avviene per mezzo della sua moltiplicazione e generazione infinita di luce. Questa luce diffusa dal primo corpo verso il centro raccolse la massa esistente al di sotto del primo corpo; e poiché non poteva diminuire il primo corpo che è completo e invariabile non trovando nessun vuoto dovette necessariamente, per raccogliere questa massa, disgregarne ed estenderne le parti estreme. Così le parti interne della massa divenivano più dense e quelle esterne più rarefatte; e fu tanto grande la potenza della luce che raccoglieva e contemporaneamente disperdeva ciò che aveva raccolto che le parti estreme della massa che si trovava al di sotto del primo corpo furono massimamente rarefatte e assottigliate.
Veniva così formandosi ai margini di questa massa una seconda sfera perfetta e non suscettibile di ulteriore impressione. La completezza dell’attualizzazione la perfezione della seconda sfera dipende dal fatto che la sua luce è generata dalla prima sfera ma mentre in questa è semplice in essa è doppia.

Così la luce generata dal primo corpo completò l’attualizzazione della seconda sfera e al suo interno lasciò una massa più densa, poi la luce generata dalla seconda sfera completò l’attualizzazione della terza e attraverso un processo di aggregazione lasciò al di sotto di questa una massa di densità maggiore. Questo processo di aggregazione e di disgregazione continuò finché furono generate nove sfere celesti e fu raccolta all’interno della nona ed infima sfera una massa più densa che fu la materia dei quattro elementi. L’infima sfera, poi, che è la sfera della luna, generando anch’essa da sé sola la luce adunò la massa contenuta al suo proprio interno e nell’adunarla ne rese sottili e ne disgregò le parti estreme. Ma la potenza di questa sua luce non era bastevole a far si che nell’aggregare le parti estreme potesse disgregarle completamente. Rimase così in ogni parte di questa sfera la possibilità di ulteriori aggregazioni e disgregazioni cioè l’imperfezione dell’attualità. La parte più alta di questa massa non completamente disgregata divenne di fuoco e rimase in essa la materia degli elementi. Questo elemento generando da sé la sua propria luce e adunando la massa contenuta sotto di sé ne disgregò le parti estreme in grado minore però di quello raggiunto dalla disgregazione del suo proprio fuoco, producendo così proprio il fuoco. Il fuoco a sua volta generando da sé la sua propria luce e adunando la massa contenuta sotto di sé ne disgregò le parti estreme in grado minore di quello della sua propria disgregazione dando così luogo all’aere. Anche l’aere generando da sé un corpo spirituale o spirito corporale e adunando la massa contenuta al suo interno per disgregarne nell’atto le parti estreme produsse l’acqua e la terra. Ma poiché nell’acqua rimase più virtù aggregante che non disgregante, la stessa acqua e la terra risultarono dotate di peso.

In questo modo, dunque furono prodotte le 13 sfere di questo mondo sensibile: cioè le nove sfere celesti inalterabili, inaccrescibili, ingenerabili e incorruttibili in quanto completamante attualizzate, e le quattro esistenti secondo modalità opposte, ovvero alterabili, accrescibili, generabili e corruttibili in quanto incomplete. E’ chiaro, inoltre che ogni corpo superiore secondo la luce che d sé trae è forma e perfezione del corpo successivo; così come la potenza dell’unità è contenuta in ogni numero successivo all’uno allo stesso modo il primo corpo, in virtù della moltiplicazione della sua luce è contenuto in ogni corpo successivo.

La terra poi contiene la potenzialità di tutti i corpi superiori in quanto in essa è contenuta l’aggregazione di tutte le loro luci. Per questo i poeti è stata chiamata Pan, cioè il tutto; e anche Cibele, che deriva da cubo, per la sua solidità, perché essa è più compatta di ogni altro corpo, Cibele madre di tutti gli dei, giacché in essa sono adunate tutte le luci superne, che non sono sorte da lei per opera sua sebbene sia possibile trarre da lei con atti e operazioni appropriate la luce di qualsivoglia sfera. Così sarà da lei procreato, quasi come da una madre qualunque Dio. I corpi intermedi poi hanno due tipi di correlazioni. Per quanto riguarda i corpi inferiori essi hanno con loro le stesse relazioni che il primo cielo ha con gli altri corpi, per quanto riguarda quelli superiori hanno con essi lo stesso tipo di relazione che la terra ha con tutti i corpi.

Forma e perfezione di ogni corpo è la luce ch’è spirituale e pura nei superiori, più corporea e complessa negli inferiori. Tuttavia tutti i corpi non hanno la medesima forma pur procedendo tutti dalla stessa luce semplice o complessa, così come non l’hanno i numeri benché derivati dalla somma di più o meno unità.

Con questa frase è chiarita l’idea di quelli che dicono “tutte le cose sono uno in virtù della perfezione di una luce” e di coloro che dicono “le cose molteplici sono tali in virtù della differente moltiplicazione della sola luce”.

Poiché, poi, i corpi inferiori partecipano della forma di quelli superiori, un corpo inferiore a causa della partecipazione alla forma del corpo superiore è in grado di ricevere il moto dalla stessa virtù motoria incorporea da cui è questo è mosso. Per questo la virtù motoria dell’intelligenza o dell’anima che muove la prima suprema sfera con moto continuo muove anche tutte le altre sfere celesti inferiori con il medesimo moto. Ma quanto più in basso si trovano tanto più debolmente ne ricevono il movimento, perché quanto più una sfera è bassa tanto meno pura e più debole è in essa la prima luce corporea.

Sebbene, poi, gli elementi partecipano della forma del primo cielo, non sono tuttavia mossi dal motore del primo cielo con moto continuo. Sebbene partecipino di quella prima luce, purtuttavia non obbediscono alla prima virtù motoria perché la loro luce è debole, impura e lontana da quella del primo corpo e perché la loro materia ha densità che è principio di resistenza e di disobbedienza. Alcuni ritengono tuttavia che la sfera del fuoco ruoti di moto continuo e portano come prova la rotazione delle comete e dicono che questo moto influisce persino sull’acqua del mare generandovi le correnti. I veri filosofi, tuttavia, affermano che la terra è immune da un tale influsso.

Allo stesso modo le sfere che si trovano dopo la seconda sfera, che contando a partire dalla terra è detta ottava, dal momento che partecipano della sua forma hanno tutte in comune con essa il moto, e ne hanno anche, oltre questo, uno loro proprio.

Dal momento che le sfere celesti, in quanto perfette, non sono suscettibili di rarefazione e di condensazione in esse la luce non spinge parti di materia lontano dal centro in modo che si rarefacciano né verso il centro in modo da farle addensare, per questo tali sfere celesti non ricevono, dalla virtù motoria intellettiva, un moto verso l’alto e neppure uno verso il basso ma solo un moto circolare. Questa riverberando su di loro nel suo aspetto corporeo le spinge ad una rivoluzione corporea.
La luce che è in loro, invece spinge gli elementi incompleti e suscettibili di rarefazione e di condensazione verso il centro per condensarli o lontano da esso per rarefarli. Per questo essi sono mobili verso l’alto oppure verso il basso.

Nel corpo supremo, che è il più semplice di tutti i corpi vi sono quattro costituenti, cioè la forma, la materia, la composizione e il composto. La forma in quanto semplicissima vale come unità, la materia per la sua duplice possibilità, quella di essere impressionabile e ricettiva e quella di essere densa, proprietà quest’ultima fondamentale della materia si manifesta per prima cosa e principalmente in modo binario e perciò le è assegnata una natura binaria. La composizione ha in sé la trinità. Perché in essa appare la materia formata, la forma materiata e la proprietà stessa della composizione che distinta sia dalla materia sia dalla forma si trova in ogni composte ciò che è composto oltre questi tre è compreso come quaternità. Lo si trova nel primo corpo nel quale esistono virtualmente tutti gli altri corpi, come appunto quaternità, perciò, fondamentalmente il numero di tutti gli altri corpi non può superare la decina. Infatti, l’unità della forma, la binarietà della materia, la trinità della composizione e la quaternità del composto prese insieme costituiscono la decina. Per questo la decina è il numero dei corpi delle sfere del mondo, poiché, sebbene la sfera degli elementi sia quadripartita, resta tuttavia una per la sua partecipazione alla corruttibile natura terrestre.

Ne deriva che la decina è il numero dell’universo perché è un tutto perfetto ciò che in sé contiene forma e unità, materia e binarietà, composizione e trinità e composto e quaternità. Non vi è bisogno di aggiungere un quinto costituente perché ogni perfetta totalità è nella decina.

Da ciò si vede chiaramente come che le sole cinque proporzioni presenti nei quattro numeri uno, due, tre e quattro bastano a costituire la composizione e la concordia di ogni composto.

Per questo queste cinque sole proporzioni bastano a produrre l’armonia della musica dei gesti e delle danze.

Qui termina il trattato della luce del Vescovo di Lincoln.

trad. genseki



mercoledì, luglio 29, 2009

Genesi

Le parole che cadono
Nell'oceano indistinto
Sorgono, grandi isole
Dalla schiuma salmastra
Di stridenti richiami
Vivono di voli radenti
Il guano le copre nasconde
Il loro segreto silenzio.


Fonti da esse sorgendo
D'acque faconde
Nell'intreccio di metallici
Splendori di libellule
Frenetiche elitre
Ali e becchi variopinti
Cantano il senso
Ancora oscuro nel morbido
Maturare soterraneo


A radici micorrize
Dando alimento
Fronde distendono
Nel prurito della luce
Nella pelle luminosa
Che il sole allunga
Da clorofilla a clorofilla
Evocano, non parlano,
Al dormiente tra steli di sparto.


Finalmente la pelle tesa
Dei tamburi scoppia
Sorda, bisognosa di occhi
Rispecchia lo smarrimento
Della separazione
Lontana dal centro
La coscienza articola
La leggenda del proprio terrore
La morte è levatrice del senso.


Parole, di nuovo, rinnovate
Separate, gravato il suono
Di senso e significante
Staccionate, limite,
Fallo, faglia confine
Tracciano del sacro
Sul limite della palude
Timide come ninfee
Como fiori di loto
Schiacciati dallo zoccolo del Centauro.

genseki


Hector Murena

Hector Murena

Que se entienda
Esta dicha terrible
Que es cualquier barco
Hacia odo naufragio.

Che sia compresa
La terribile sorte
D'essere qualche battello
Verso ogni naufragio

trad. genseki.

Columbares II

Altre ronde, altre ore

Altre ronde, altre ore
Ad aprirsi piú leste
E l'eco delle strade
Nelle foglie di gelso
Con una mela in tasca
Con il fuoco negli occhi
Abbandonar la patria
Riempire le bisacce
Nutrire pulci e pulci
Lavarsi con la nebbia
Scaldarsi con il fumo
Rubare le castagne
Lottare con un angelo
Tra i rami di un immenso
Faggio dell'appennino
Nel mezzo dell'autunno
Come puzzano i piedi
Il sudore, il fustagno
la cenere di frasca
La diarrea da muscaria
Altre ronde, altre ore
Or piú lente or più spente
E l'eco del cammino
Che quell'altro ha percorso.

*