lunedì, gennaio 19, 2009

Kodo Sawaki e Daichi

Kodo Sawaki

Il vecchio albero morto nel cuore del monte
Sporge il suo tronco sul dirupo scosceso
Lucidato dai venti
Dalle piogge dilavato
Spogliato dal temporale.
Due mila inverni sono passati su di lui
E hanno lasciato solo l'essenza
Di quello che fu un albero.
Eppure anche se lo tagliassimo
A colpi d'ascia,
Questa essenza noi non sapremmo ritrovarla.
Splendido
Anche se non ha né fiori né foglie
Se non ha rami, scorza né linfa
Completamente secco
Pura essenza concentrata
Di secoli di espeienza.
L'oscuritá dell'ombra dei pini
Dipende dalla luce della luna.

*

Daichi

Il Drago celeste si rivela con un ruggito
Sulla casa del monte
Non c'è modo di passare
Non si puó varcare
La porta:
Tendi l'orecchio:
C'è solo il vento
Apri gli occhi:
Ecco la chiara luna.
Quanti però
Vengono fin quassú
Per affacciarsi da questo balcone.

Trad a cura di genseki

sabato, gennaio 17, 2009

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Della Virtú


Michel De Montaigne

De la vertu


Il me semble que la vertu est chose, et plus noble, que les inclinations à la bonté, qui naissent en nous. Les âmes reglées d'elles mêsmes et bien nées, elles suivent mesme train et représentent en leur action mesme visage que les vertueueses. Mais la vertu somme je en sçais quoy de plus grand et de plus actif, que de se laisser par un douce complexion, doucement et paisiblement conduire à la suite de la raison. Celuy qui d'une douceur et facilité naturelle mespriseroit les offenses reçeues, feroit chose très belle et digne de louange: mais celuy qui picqué et outré jusques au vif d'une offence s'armeroit des armes de la raison contre ce furieux appetit de vengeance, et après un grand conflict, s'en rendroit enfin maistre, feroit sand doute beaucoup plus. Celuy-là feroit bien, et cestuy-ci vertueusement: l'une action se pourrait dire bonté, l'autre vertu. Car il semble que le nom de la vertu presuppose de la difficulté et du contraste, et qu'elle en peut s'exercer sans partie. C'est à l'aventure pourquoi nous nommons Dieu bon, fort, libéral et juste, mais nous en le nommons pas vertueux. Ses opérations sont toutes naïfves et sans effort


Montaigne
Les essais
Chapitre XII De la Cruauté



Parmi essere la virtú cosa piú nobile di quanto non siano le inclinazioni verso la bonta che sorgono in noi. Le anime ben organizzate in se medesime e bennate menano lo stesso treno di vita e mostrano nell'agir loro il volto istesso delle virtuose. Tuttavia la virtù aggrega un non so che di piú grande e di piú attivo che il mero lasciarsi condurre da una complessione dolce, pacificamente e mollemente, al seguito della ragione non sia.
Colui che con dolce facilitá naturale disprezzasse le offese ricevute farebbe, egli è certo, cosa bellissima e degna di essere commendata; ma colui che, ferito e oltraggiato da una qualche offesa nella sua carne viva si armasse con le armi della ragione contra la furiosa brama di vendetta, e dopo aspra pugna ne uscisse vincitore, certamente farebbe cosa ancora maggiore. Quegli farebbe bene, questi virtuosamente: quell'azione la si potrebe nomare bontà, l'altra virtú. Egli mi pare, infatti, che il nome di virtú presupponga difficoltá e contrasto, e che essa virtú non possa darsi senza urto. Per questo forse avviene che si chiami Dio buono, forte, liberale e giusto, ma non virtuoso. Le sue azioni sono senza calcolo e senza sforzo.
Trad genseki

venerdì, gennaio 16, 2009

Ivan e Palagna di Sergej Paradjanov

Il Re Mesa



Lo spirito del Re Mesa continua a vivere in Medio Oriente, come se tre millenni non fossero passati, immenso fossile rapace dalle ali insanguinate, dall'odore di marcio e polvere da sparo


Iscrizione


(IX secolo avanti Cristo)


Son io colui che regna, Mesa, Figliol di Chemos
Ho abbattuto il bosco dei grandi pini scuri
Baal Meon ho edificato dalle mura di legno
dai muri di mattoni forte cittá africana
Ho detto: che ogni uomo scavi presso la casa
Una grande cisterna se no sia imprigionato
Per le piogge che cadono nei mesi dell'inverno,
Perché gli armenti possano pascolare sicuri,
Ho lasciato alle mandrie un gran campo murato:
Io ho fatto la porta e ho fatto la torretta
Astarte è la sovrana io guerreggio per Ella
Il Dio Chemos mio padre ha lottato al mio fianco
Quando da Gad cacciai Omri Re di Giudea
Ho costruito Aroer rocca delle piú forti
Le genti mi lodavano perché ero un Re buono;
Regnavo sull'armata immensa di Dibon
Che beve mentre canta all'ombra della morte
Mescendo sangue d'aquila con latte di cammella
Io, Giustiziere e Principe alla luce di Chemos,
E di Bal e di Dagon e di Astarte lunare
Ho scavato da Ur a Tiro gallerie
Chemos m'h detto: “Togli Nebo a Israele”
Io che sempre ho compiuto il volere del cielo
Ora chiudo i miei occhi in questo pozzo scuro
Sappiate che dovete venerar questa stele
Davanti a questa tomba bruciare i vostri aromi
Perché io ho trucidato gli abitanti di Nebo
Ne ho nutrito i corvi che volan tra le nubi,
Ho venduto al mercato le donne tutte nude,
Gravato col bottino quattrocento elefenti
E infine ho crocifisso tutti i bimbi e i lattanti,
Con la destra ha spazzato le razze miserabili.

Alle cittá ho attribuito, di nuovo i nomi antichi.


Victor Hugo
La Légende des Siècles


trad. genseki

mercoledì, gennaio 14, 2009

Claude Lorrain


Per Maresa II

Quella che segue è la traduzione della piccola meraviglia di Du Bellay che Maresa ha copiato in "stanzas". Traduco, per possedere questi e altri versi, nel senso metaforicamente piú perverso, per penetrarli e godere della mia nuova pronuncia dentro il loro ritmo:


Offerta di un bracciante ai venti


A voi stormo lieve
Che con le ali liete
I cieli trascorrete.

E con un fruscio breve
le verdi chiome ombrose
D'un fremito scuotete.

Offro un bel mazzolino
Di gigli e di violette
Di rose novellette,

Fresche rose vermiglie
Nuovamente dischiuse,
E un vago gelsomino.

Dolcemente spirate
Su queste terre arate
E su questo soggiorno.

Mentre io mi tormento
A vagliare il frumento
Nel calore del giorno.

J. Du Bellay

***

trad. genseki

Lichenology


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Questo spirito è uno spirito senza spirito

Il Maestro Hungpo disse:

È meglio onorare un solo adepto del non spirito che tutti i Buddha di tutti gli spazi. Perché? Perché il non spirito è l'assenza di ogni stato dello spirito particolare.La sostanza di ciò che è così ha un duplice aspetto: dentro è immobile come pietra o legno; fuori non incontra ostacolo come se si trattasse dello spazio vuoto. Quivi non si trova nè soggetto nè oggetto, non luogo nè direzione, non aspetto nè forma, non guadagno nè perdita. Coloro che hanno fretta non osano impegnarsi in questo cammino. Hanno paura di cadere nel vuoto senza la possbilitá di trovare ove agrapparsi. Poi, avendo scrutato l'abisso, si tirano indietro e, tutti allo stesso modo, partono alla ricerca di conoscenze e di opinioni. Ecco perché coloro che ricercano conoscenze e opinioni sono in numero maggiore delle piume ma coloro che su risvegliano alla Via, rari come le corna
Manjusri corrisponde al principio ultimo e Samantabhadra alla pratica. Il principio ultimo è il principio della vacuitá che nulla puó ostruire e la pratica, la pratica inesauribile che consiste nel separarsi dai caratteri particolari. Avalokitesvara rappresenta la grande compassione e Mahastamaprapta la grande conoscenza. Quanto a Vimalakirti, ovvero “Pura Fama”, “puro” designa l'essenza dello spirito e “Fama” i suoi attributi. Siccome essenza e attributi non sono distinti si parla di “Pura Fama”.
Insomma, ogni uomo possiede ció che esprimono i grandi Bodhisattva: semplicemente lo spirito uno al quale deve risvegliarsi. I diseepoli attuali non si risvegliano rivolgendosi al proprio spirito ma attaccandosi ai caratteri particolari. Si appropriano di oggetti esterni al loro spirito che è come se in fin dei conti dessero le spalle alla Via.
Il Buddha dice che le sabbie del Gange non si inorgogliscono per essere caplestate dai Buddha, dai Bodhisattva, da Indra o da Brahma e gli altri dei e non si sdegnano quando lo sono da bufali, capre, insetti, formiche. Queste sabbie non desiderano tesori preziosi né incensi raffinati e disprezzano gli escrementi e le altre forme di sporcizia. Allo stesso modo questo spirito è uno spirito senza spirito.
Oltre tutti i caratteri particolari, gli esseri viventi e i Buddha non sono piú differenti gli uni dagli altri e basta conoscere questo non spirito per raggiungere il risveglio.
trad genseki
Huangopo "I Dialoghi" cap. II

lunedì, gennaio 12, 2009

Tucidide a Gaza


DIALOGO DEGLI ATENIESI E DEI MELI
(Tucidide V 84 114)
Il dialgo si svolge nell'anno 416 a.C. a Melo, isola delle cicladi legata a Sparta per la discendenza da una stirpe comune
Gli ateniesi propongono ai Meli di sottomettersi e di pagare un tributo al loro impero
Melo si trova davanti a un’alternativa:
accettare il dominio e salvarsi, o resistere, cosa che avrebbe causato l’assedio, la conquista e la distruzione della città.
Nelle pagine seguenti di Tucidide è delineata una situazione astrattamente molto simile a quello che accade oggi in Gaza.
Certo il lucido, tagliente realismo degli ambasciatori ateniesi è a un altro livello stilistico e intellettuale rispetto all'ipocrita, ripugnante, ingiustificabile vittimismo dei dirigenti israeliani.
Certo il destino dei Meli appare meno brutale alla fine di quello che attende i palestinesi. I bambini in special modo non sono bruciati vivi nelle loro scuole ma venduti come schiavi. Si puó discutere su quale delle due sventure sia meno ignobile.
Tuttavia si propone qui, forse per la prima volta il dilemma, se la resistenza disperata per la dignitá e per "l'onore" sia alla fine morale. Se piegarsi alla forza da parte del piú debole e quindi aderire liberamente alla necessitá non sia la vera forma che in questa circostanza assume la libertá.
Su questo dilemma va giudicata Hamas. E il giudizio è terribilmente difficile.
Come i Meli i Palestinesi non hanno amici. Né gli arabi, né gli spartani lo sono. Come i Meli anch'essi sono messi davanti alla scelta tra la sottomissione e la distruzione.
Come i Meli esssi sembrano aver scelto la distruzione.
Certamente l'Impero ateniese era un momento della storia, lo Stato di Israele solo pura negativitá. Ma l'analogia resta.

84, 1 Nell’estate seguente Alcibiade giunse per mare ad Argo con venti navi e arrestò trecento Argivi sospetti di favoreggiamento per Sparta: gli Ateniesi li deportarono nelle isole vicine loro suddite. E gli Ateniesi fecero una spedizione contro l’isola di Melo con trenta navi loro, sei di Chio, due di Lesbo, e con 1200 opliti, 300 arcieri e 20 arcieri a cavallo venuti da Atene, 1500 opliti circa venuti dagli alleati e dagli isolani.
2 I Meli infatti sono coloni dei Lacedemoni e non volevano sottostare ad Atene come gli altri isolani, ma dapprima se ne stavano tranquilli in quanto neutrali, poi, costretti dagli Ateniesi che ne devastavano la terra, si volsero aguerra aperta.
3 Invasa la terra e accampatisi con questi contingenti, gli strateghi Cleomede di Licomede e
Tisia di Tisimaco, prima di colpire il territorio, inviarono ambasciatori per intavolare una discussione. Ma i Meli non li condussero davanti al popolo, bensì li invitarono a parlare su quegli affari, per i quali erano venuti, stando davanti ai magistrati e agli oligarchi.

85 E gli ambasciatori ateniesi così parlarono: «Dal momento che la discussione non ha luogo in presenza del popolo, evidentemente perché esso resti ingannato non potendo udire, in un discorso continuato, argomenti persuasivi e inconfutabili una volta per tutte (abbiamo capito, infatti, che questo è lo scopo per cui ci avete condotto in disparte di fronte agli oligarchi), voi che siete qui seduti cercate di agire in modo ancor più sicuro. Rispondete punto per punto, e neppure voi con un discorso continuato, ma replicando subito a quelle frasi che a vostro parere sono inesatte. E dapprima diteci se vi piace la proposta che vi facciamo».

86 E i consiglieri Meli risposero: «La ragionevolezza dell’informarci tranquillamente a vicenda non incontra il nostro biasimo, ma i preparativi di guerra, che sono già qui presenti e non tarderanno a mostrarsi, ci appaiono discordanti da tutto ciò. Vediamo che voi siete venuti qui a giudicare ciò che diremo, e che la conclusione della discussione, se, come è naturale, noi avremo la meglio in difesa del diritto e perciò non cederemo, ci porterà la guerra, mentre ci porterà la schiavitù se ci faremo persuadere».

ATENIESI 87 «Se siete venuti qui con noi per far calcoli sui vostri sospetti per il futuro, o per qualche altro scopo che non sia quello di prendere per la città, sulla base delle circostanze presenti e di ciò che sta sotto i vostri occhi, una deliberazione che la salvi, smetteremo di parlare; se invece siete venuti proprio per questo, parliamone».

MELI 88 «È naturale e comprensibile per persone che si trovano in questa situazione volgersi a
considerare tante cose, sia con parole che con supposizioni. Pure, la presente riunione è stata indetta per discutere della nostra salvezza, e la discussione si svolga, se vi piace, nel modo in cui ci invitate a discutere».

MELI 90 «A nostro parere, almeno, è utile (è necessario infatti usare questo termine, dal momento che avete proposto di parlare dell’utile invece che del giusto) - è utile che noi non distruggiamo questo bene comune ma che sia salvaguardato il diritto che spetta a colui che di volta in volta si trova in mezzo ai pericoli, e che sia avvantaggiato colui che riesce a persuadere un altro anche senza raggiungere i limiti dell’esattezza più rigorosa. E questo fatto non è meno utile nei vostri riguardi, in quanto in caso di insuccesso sarete d’esempio agli altri a prezzo di una severissima punizione».

ATENIESI 91, 1 «Ma noi non temiamo la fine del nostro impero se anche dovesse finire, perché non sono terribili per i vinti quelli che come i Lacedemoni comandano ad altri (e del resto la presente contesa non riguarda noi e i Lacedemoni), bensì i soggetti, qualora di propria iniziativa assalgano chi comanda e lo sottomettano.
2 E su questa questione ci sia permesso di correre rischi: ma che noi siamo qui per favorire il
nostro impero e che per salvare la nostra città ora vi facciamo questi discorsi, tutto ciò ve lo mostreremo, intenzionati a comandare a voi senza spendere fatica e a salvarvi con vantaggio di entrambi».

MELI 92 «E come può derivare dell’utile a noi dall’essere vostri schiavi, come a voi dal
comandarci? ».
ATENIESI 93 «Perché a voi toccherebbe obbedire invece di subire la sorte più atroce, mentre noi , se non vi distruggessimo, ci guadagneremmo».

MELI 94 «E non potreste accettare che noi, restando in pace, fossimo amici invece che nemici, ma alleati di nessuna delle due parti? ».

ATENIESI 95 «No, perché la vostra ostilità non ci danneggia tanto quanto la vostra amicizia, manifesto esempio per i sudditi della nostra debolezza mentre l’odio lo è della nostra potenza».

MELI 96 «È così che vedono la giustizia i vostri sudditi, sì da porre sullo stesso piano quei popoli
che non hanno niente a che fare con voi e quelli che, vostri coloni per la maggior parte e vostri ribelli in un certo numero, sono stati da voi assoggettati? ».

ATENIESI 97 Sì, perché credono che né gli uni né gli altri manchino di giustificazioni per se stessi, e credono che alcuni di loro possano salvarsi grazie alla loro potenza, mentre noi non li assaliamo per paura. Sicché, oltre a farci comandare a un maggior numero di persone, voi con la vostra sottomissione ci fornireste un motivo di sicurezza, tanto più se, isolani e per giunta più deboli di altri, voi foste sconfitti da un popolo dominatore del mare».

MELI 98 «E nell’altro caso non credete di trarne sicurezza? Giacché, come voi ci avete distolto dal discorrere della giustizia e ci avete consigliato di obbedire a ciò che è utile per voi, così noi, mostrandovi il nostro vantaggio, dobbiamo cercare di persuadervi che il nostro utile può coincidere col vostro. E in realtà tutti coloro che ora sono neutrali, come non ve li renderete nemici allorché, guardando a quanto avviene a noi, penseranno che un giorno voi assalirete anche loro? In tal caso, che altro farete se non accrescere il numero dei vostri nemici e persuadere i riluttanti ad esserlo, anche se ora non ne hanno alcuna intenzione?».

ATENIESI 99 «No, perché noi non consideriamo pericolosi coloro che, abitatori di qualche parte della terraferma, grazie alla loro intatta libertà si guarderanno bene dallo stare sulla difensiva nei nostri riguardi; al contrario, noi temiamo quelli che, da qualche parte, sono isolani e non soggetti al nostro impero, come voi, insieme con coloro che ormai sono esasperati dalla costrizione del nostro dominio. Perhé costoro, abbandonandosi a calcoli errati, potrebbero numerosissime volte esporre se stessi e noi a un manifesto pericolo».

3
MELI 100 «Certo, se voi affrontate tali pericoli perché il vostro impero non abbia mai fine, e se i
vostri sudditi li affrontano per liberarsene, per noi che siamo ancora liberi sarebbe grande viltà e debolezza non affrontare ogni rischio prima di essere schiavi».

ATENIESI 101 «No, se la vostra deliberazione sarà ispirata a saggezza: ché per voi la lotta ora non è su un piano di parità, per decidere della vostra valentia, e cioè perché non siate tacciati di un’onta; ora piuttosto si decide la salvezza, cioè di non opporsi a chi è molto più forte».

MELI 102 Ma noi conosciamo le vicende della guerra, che talvolta danno una sor te comune alle
due parti avverse più di quanto ci si potrebbe aspettare dalla disparità delle forze; e per noi il cedere immediatamente ci priva di ogni speranza, mentre con l’agire c’è ancora qualche speranza di restare ritti in piedi».

ATENIESI 103, 1 «Ma la speranza, che incoraggia al pericolo, se anche danneggia quelli che vi si
affidano in una situazione di abbondanza, pure non li rovina. Ma quelli che tentano la sorte con tutte le loro sostanze (ché la speranza è per sua natura prodiga), la conoscono subito appena scivolano: essa però non lascia indietro qualche occasione perché uno possa poi stare attento, una volta che l'ha conosciuta.
2 E voi, che siete deboli e vi potete permettere una sola gettata di dadi, non vogliate subire questo danno o rendervi simili a molti uomini che, pur potendo salvarsi con mezzi umani, una volta che la speranza di manifesti aiuti li abbia abbandonati in mezzo alla sventura, si volgono alla speranza di ricevere soccorsi invisibili, e cioè alla mantica e ai vaticini e a tutte le altre cose di questo genere che affliggono gli uomini insieme cole speranze.

MELI 104 «Certo anche noi, siatene sicuri, pensiamo che è difficile lottare contro le vostre forze e
contro la sorte, se essa non sarà favorevole. Pure, noi confidiamo di non essere da meno per quanto riguarda la sorte che ci manderà la divinità, giacché noi, pii, ci opponiamo a persone ingiuste, e abbiamo fiducia chl l’inferiorità delle nostre forze sarà compensata dall’alleanza coi Lacedemoni, i quali saranno costretti ad aiutarci se non altro per dovere di consanguineità e per sentimento dell’onore. E insomma, la nostra audaci non ci sembra del tutto infondata».

ATENIESI 105 1 «Ma per quanto riguarda la devozione dei sentimenti verso la divinità, neppure noi crediamo di essere da meno, perché noi non pretendiamo né portiamo ad effetto alcuna cosa che devii dalle umane credenze nei confronti della divinità o dai desideri degli uomini nei confronti di se stessi.
2 Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comanda: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi., ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni dellastessa nostra potenza.
3 E così nei confronti della divinità, per quanto è probabile, non crediamo di essere inferiori a voi; quanto alla convinzione che avete nei riguardi dei Lacedemoni, per cui confidate che accorreranno in vostro aiuto per un sentimento d'onore, noi, pur considerando beata la vostra inesperienza, non invidiamo la vostra pazzia. 4 I Lacedemoni, di solito, sono valorosi quando sono chiamati in causa loro stessi con le loro consuetudini patrie, ma sul loro modo di trattare gli altri, sebbene vi sia molto da dire, pure in breve si potrebbe mostrare che costoro, nel modo più evidente tra tutti gli uomini che conosciamo, considerano onesto ciò che è piacevole e giusto ciò che è utile. Eppure, una tale convinzione non reca vantaggio agli irrazionali tentativi di salvezza a cui ora vi volgete».

MELI 106 «Ma noi abbiamo fiducia che per via dell’utile che ne deriva i Lacedemoni non vorranno, col tradire i Meli loro coloni, diventare infidi a quei Greci che sono favorevoli a loro e utili a quelli che sono loro nemici».

ATENIESI 107 «Non credete che l’utilità si accompagni alla sicurezza, mentre il giusto e l’onesto si compiono con pericolo (cosa che, solitamente, i Lacedemoni non osano fare)? ».

4
MELI 108 «Ma noi crediamo che loro tanto più affronteranno il pericolo per noi e lo
considereranno meno grave di quello affrontato per altri, in quanto noi siamo situati vicino alle azioni militari del Peloponneso e siamo più fidati di altri per via della consanguineità che si rivela nel nostro modo di pensare».

ATENIESI 109 «Ma la sicurezza, ai soccorritori, non è data dal benvolere di chi li ha chiamati in aiuto, ma solo dalla propria eventuale superiorità nell’agire, e a questo i Lacedemoni badano più degli altri (per sfiducia nel proprio apparato militare assalgono i vicini ricorrendo perfino all’aiuto di molti alleati), sicché non è probabile che compiano la traversata per arrivare fino a un'isola mentre noi siamo signori del mare».

MELI 110, 1 «Essi però potrebbero anche delegare altri a farlo, e vasto è il mare di Creta, in cui la cattura di qualcuno da parte di chi ne ha il controllo è più difficile di quanto non lo sia la salvezza di chivuole passare inosservato.
2 E se fallissero in questo intento, potrebbero anche rivolgersi contro la vostra terra e contro quegli alleati che vi sono rimasti e che Brasida non ha assalito; e le difficoltà allora non sorgerebbero tanto per una terra che non vi riguarda, quanto per la difesa del vostro suolo e di quello degli alleati».

ATENIESI 111, 1 «Ma una di queste eventualità non si potrà realizzare se non dopo che voi avrete sperimentato la vostra sorte e imparerete che gli Ateniesi non si sono mai ritirati da un assedio per timore di altri.
2 E noi riflettiamo che, pur avendo detto di volerci consultare per provvedere alla vostra salvezza, in questa discussione voi non avete detto ancora niente che possa dare agli uomini la fiducia di potersi salvare. Al contrario, le vostre maggiori forze sono rappresentate da speranze di cose di là da venire, mentre le forze che sono qui presenti sono insufficienti a vincere quelle schierate di fronte. E voi mostrate grande irragionevolezza se, dopo averci congedati, non prenderete qualche decisione più equilibrata di questa.
3 Che certo non vi volgerete a quel sentimento di onore, il quale procura grandi rovine agli uomini quando sorge in mezzo ai pericoli più evidenti e dall’esito più vergognoso. Infatti a molti, che pur prevedevano a che cosa andavano incontro, il cosiddetto sentimento dell’onore, sorretto dalla forza di un nome ingannevole, trascinò con sé, una volta che le suddette persone furono vinte da quella parola, il destino di piombare volontariamente nelle sciagure più atroci e di attirarsi per colpa della loro stessa irragionevolezza una vergogna più vergognosa che se fosse dipesa dalla sorte. 4 Ma da questo avvenire, se la vostra decisione sarà saggia, voi vi guarderete, e non considererete sconveniente essere vinti dalla più potente città, la quale vi sollecita a obbedire alle sue moderate richieste, a divenirne alleati conservando la vostra terra (pur essendo
sottomessi a un tributo) e, quando vi si concede la scelta tra la guerra e la sicurezza, a non intestardirvi nella soluzione peggiore. Coloro che non cedono a chi è pari di forze, si comportano al meglio di fronte ai più forti e sono moderati verso i più deboli, costoro ottengono i più grandi successi. 5 Riflettete dunque, anche dopo la nostra partenza, e ricordatevi più volte che state per prendere una decisione che riguarda la vostra patria, la quale è una sola e la cui salvezza dipende da un’unica decisione, a seconda che essa sia quella giusta o meno».

112, 1 Gli Ateniesi abbandonarono la discussione: i Meli, trattisi in disparte, poiché le loro vedute erano pressappoco simili alle risposte date nel dibattito, così risposero:
2 «Le nostre convinzioni non sono mutate, o Ateniesi, né in così breve tempo priveremo della sua libertà una città abitata già da settecento anni, ma fiduciosi nella sorte che ci manda la divinità, la quale ha sempre salvato la città fino ai nostri giorni, fiduciosi inoltre nel soccorso degli uomini e dei Lacedemoni, cercheremo di salvarci.
3 Noi vi proponiamo di esservi amici, e nemici di nessuna delle due parti in lotta, e vi invitiamo a ritirarvi dalla nostra terra dopo aver concluso un trattato che sembri essere utile sia a noi che a voi».

113 Così dunque risposero i Meli; gli Ateniesi, sciogliendo ormai il convegno, dissero: «Certo, a giudicare da vostre decisioni, voi, soli tra tutti quelli che conosciamo, considerate più sicuro il futuro del presente e, per il fatto che lo desiderate, contemplate l’incerto come se si stesse già realizzando e, gettandovi nelle braccia dei Lacedemoni e delle speranze e della sorte, quanto più siete pieni di fiducia, tanto più conoscerete gravi sciagure».

114, 1 E gli ambasciatori ateniesi tornarono al loro esercito: gli strateghi ateniesi, poiché i Meli non cedevano, si dettero subito alle operazioni belliche e, essendosi diviso il lavoro città per città, assediarono tutto all'intorno i Meli.
2 E in seguito gli Ateniesi, dopo aver lasciato per terra e per mare una guarnigione composta dai loro soldati e da quelli degli alleati, si ritirarono con il grosso dell'esercito. Quelli lasciati a Melo, rimanendo sul posto, continuavano l'assedio.
(…)
116, 3 Arrivò da Atene un altro esercito al comando di Filocrate di Demea, e i Meli ormai erano stretti da assedio a tutta forza; verificatosi anche un tradimento, si arresero agli Ateniesi a condizione che questi decidessero dei Meli secondo la loro discrezione.
4 E gli Ateniesi uccisero tutti i Meli adulti che catturarono e resero schiave le donne e i bambini; abit arono quindi loro stessi la località, dopo avervi inviato cinquecento
coloni.

Simone Weil a Gaza



Questi pensieri tratti dai quaderni di Simone Weil possono aiutare a intendere quello che sta accadendo in questi giorni in Palestina e che sta accadendo da secoli in angolo di questa terra impregnata di sangue:





Lo sventurato, non trovando né pietá, né simpatia non ne capisce il perché. Crede che se fosse lui al posto degli spettatori avrebbe pietá, perché immaginandosi al loro posto si inventa come spettacolo una sventura immaginaria in cui niente ostacoli la pietá.

Basta leggere i quotidiani di tutti i paesi sviluppati o ascoltare le notizie. I palestinesi non hanno diritto alla pietá.





Due pensieri alleviano un po' la sventura. Che essa finirá quasi subito, oppure che non finirá mai. Ma non si puó pensare che essa è, semplicemente. Questo è insostenibile.

In queste parole forse si puó intravedere il senso della resistenza disperata degli abitanti di Gaza e dei militanti di Hamas



***

La sofferenza non è nulla al di fuori del rapporto tra il paasato e il futuro, ma per l'uomo cosa c'è di più reale di questo rapporto? La realtá stessa.

***

Coloro cui era stata distrutta la cittá e che venivano condotti in schiavitú non avevano piú né passato né futuro: di quale oggetto potevano riempire il loro pensiero? Di menzogne e delle più infime, pronti, forse a rischiare la crocifissione per rubare un pollo piú che un tempo la morte in combattimento per difendere la loro cittá.

Nessuno compiangeva uno schiavo (un palestinese di Gaza); dunque egli poteva diffondere a sé il male che soffriva, solo con la cattiveria (lancio di missili Kassam), poiché gli era impossibile far soffrire gli altri per pietá.

Al di sotto di un certo livello questo desiderio di diffondere il male al di fuori di se sparisce e la sventura rende docili.

Questo grado estremo di sventura sembrerebbe essere l'obiettivo che Israele intende disumanamente raggiungere e che fino ad oggi non ha potuto conseguire.

***

Le perti in verde sono di genseki, le azzurre di Simone Weil dai Quaderni vol II pagg. 47-49 a cura di G. Gaeta.

sabato, gennaio 10, 2009

Nomadi del vento

Stephan Hermlin

Gli Uccelli e il test nucleare

Riportano i quotidiani che per l'influsso
Degli esperimenti con le bombe all'idrogeno
Gli uccelli migratori hanno variato
Le loro rotte per i mari del sud.

Per mari e per savane gli spinse
Il bisogno di vita, sui venti
Come sordi e ciechi, da tempi immemorabili
Alla ricerca di cibo e di un nido.

Non gli trattenne tuono né tifone
Neppure le reti dei cacciatori;
quando gli chiamava
Il grido stridulo a lanciarsi verso una stessa meta
Su uno stesso cammino
Sempre per il medesimo tragitto.

Essi che non temevano pioggia e tempesta
Videro un giorno in pieno mezzogiorno
Il volto atroce di una luce altissima
Questo gli spinse a cercare altre rotte
Verso nuove terre piú accoglienti
Che questo cambio scuota i vostri cuori.

Trad genseki

venerdì, gennaio 09, 2009

Lichenology

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L'albero di Gaza

A Gaza c'é un albero
un albero pieni di frutti
sono i frutti del sonno
non dormito
da tante palpebre sbarrate

palpebre spietate
son frutti senza ombra
frutti maturati alla linfa
di cenere

gabbiani senza occhi
vi pongono il loro nido
si nutrono del siero
dei sogni disossati

non un'ala si muove
nè foglia stormisce
aspettano una pioggia
che non venga dal cielo

ma cada dalla terra
dalle ossa dei morti
dalla carne disfatta
alle radici dei cardi

cada verso le nuvole
e sollevi dal fango
le palpebre sbarrate
e le ditta annerite.

Sergei Parajanov

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Gilles de Rais IV



Il grande Usuraio del tempo, Giovanni V Duca di Bretagna rifiutó di pubblicara nei suoi stati l'editto che fece tuttavia notificare, sottobanco a coloro tra i suoi sudditi che facevano affari con Gilles. Nessuno, quindi, osava piú comprare terre da Gilles per paura di attirarsi la collera del Re e l'dio del Duca, Giovanni V, restó il solo possibile compratore e fissó lui il prezzo. Questo spiega anche il furore di Gilles contro la sua famiglia che aveva sollecitato le lettere reali – e perché egli non si occupó piú, per tutta la sua vita di sua moglie e di sua figlia che relegó in un vecchio castelle a Pouzages.
La domanda sul perché e per quali motivi Gilles lasció la corte, mi sembra trovare risposta in questi stessi fatti. È evidente che giá da molto tempo, ancor prima che il Maresciallo si autoconfinasse nei suoi feudi, Carlo VII era assalito dalle suppliche della mogliee degli altri parenti di Gilles; d'altra parte, i cortigiani dovevano detestare il giovanotto a causa delle sue ricchezze e del suo fasto; quello stesso Re che abbandonó deliberatamente Giovanna d'Arco quando ritenne che non fosse piú utile, trovava un'occasione di vendicarsi su Gilles dei servizi che egli gli aveva reso. Quando aveva bisogno di denaro per le sue truppe, allora non si dava troppo pensiero del fatto che il Maresciallo fosse troppo prodigo! Ora che lo vedeva mezzo rovinato, gli rimproverava i suoi sperperi, e non gli risparmiava biasimo e minaccia. Si capisce che Gilles abbia lasciato quella corte senza nessun rimpianto. Ma c'è dell'altro. La stanchezza di una vita nomade, il disgusto degli accampamenti che probabilmente lo avevano colto; ebbe certamente fretta di concentrarsi in una atmosfera pacifica accanto ai suoi libri. Sembra che soprattutto la passione per l'alchimia l'abbia interamente dominato e che egli abbia abbandonato tutto a causa di essa. Bisogna, infatti notare che egli amó davvero in se stessa, quella scienza che lo precipitó della demonomania, quando sperava di produrre oro e di salvarsi quindi dalla miseria che lo assediava, la amó quando ancora era ricco. Fu, infatti, verso il 1426 quando il denaro scorreva a fiumi verso i suoi scrigni, che egli tentó, per la prima volta la riuscita della grande opera.
Eccolo, finalmente, a Tiffauges che sará il teatro dei suoi primi delitti di sadismo e di magia assassina.
Mancano i documenti per unire le due parti della sua vita cosí bizzarramente separate ma vi sono molte piste possibili. Quest'uomo era un vero mistico. Ha vissuto gli avvenimenti piú straodrdinari che la storia abbia mai mostrato. La frequentazione di Giovanna d'Arco ha certamente reso piú acuti i suoi slanci verso Dio. Ora dal misticismo esaltato al satanismo esasperato, non v'è che un passo. Nell'aldilá tutto si tocca. Egli ha trasferito la furia della preghiera nel mondo del suo inverso. In questo fu spinto dal gruppo di preti sacroleghi, dimanipolatori di metalli e di evocatori di demoni che lo corcondava a Tiffauges.
Fu Giovanna d'Arco che infiammó quest'anima smisurata, disposta a tutto alle orge di santitá come agli oltraggi del delitto. Poi non ci fu transizione: non appena morì Giovanna, egli cadde nelle mani degli stregoni che erano i piú squisiti scellerati e i letterati pi´raffinati. Coloro che lo frequentarono a Tiffauges erano ferventi latinisti, prodigiosi conversatori, possessori di arcani dimenticati, detentori di vecchi segreti. Gilles si trovava, evidentemente meglio con loro che con Dunois e La Hire.


Traduzione e montaggio a cura di genseki