venerdì, novembre 28, 2008

Trilce

Il racconto: “Al di lá della Vita e della Morte” configura un centro tematico e simbolico attorno al quale si organizzano molti dei testi di Trilce.
Il viaggio che è un “nostos” e una “nekuya” andini, la porta serrata, la casa vuota, la vertigine della natura minerale, sono elementi che generano un certo numero di testi importanti della seconda raccolta di Vallejo.
Eccone alcuni:


XLVI

Il vespro culinario si trattiene
Alla mensa alla qualte ti nutristi
Morto di fame viene il tuo ricordo
Senza neppure bere di tristezza
Ma come sempre umile accconsenti
Che ti si offra la bontá più triste.
Gustare tu non vuoi se sai chi viene
Come figlio alla mensa ove mangiasti
Il vespro culinario ti scongiura
Ti piange nel grembiale tanto sudicio
Che ci comincia a piangere di udirci
Anch'io mi sforzo perché non c'è piú
Corraggio per servirsi questo pollo.
Ahi che non ci serviremo piú di nulla.

*

XXIII

Forno rovente di quei miei biscotti
Puro tuorlo infantile, innumerevole madre
I tuoi quattro colletti. paurosamente
Mal pianti, madre: i tuoi mendichi
Le due sorelline. Miguel che è morto
E io che ancora trascino
Una treccia per ogni lettera del abecedario.
Nella sala di sopra ci spartivi
Quelle tue ostie così ricche di tempo
Perché ci avanzassero ora
Gusci d'orologio in flessione di mezzanotte
Fermi in orario.
Madre, e ora! Ora in qual alveolo
Resteresti, in che germoglio capillare,La briciola che oggi si lega al mio collo
Passare non vuole. Oggi quando persino
Le tue pure ossa saranno farina
Di cui non si fará pasta
Dolce pasticcera d'amore,
Anche nell'ombra cruda, anche nel gran molare
La cui gengiva pulsa nella lattea fossetta
Che occulto si prepara pulllante! Quanto lo hai visto!
Nelle manine novelle strette strette,
Anche la terra udrá nel tuo silenzio
Come tutti ci chiedano l'affitto
Del mondo in cui ci abbandoni
E il prezzo del pane inesauribile.
Ce lo fanno pagare, quando, eravamo piccini
Allora, come sai,
Non lo avevamo portato via
A nessuno; ce lo hai dato tu,
Mamma! Non è vero?

Trad genseki

Ibn Masarra di Almeria



parte I


Ibn Masarra


Pare che fosse un gigante biondo. Sicuramente un uomo piú alto e corpulento della media. In Africa lo ritenevano un siciliano. Forse per l'azzurro degli occhi.
Di lui non ci è pervenuta nessua opera, nessuna frase. Anche la memoria del suo nome andó perduta per molti secoli e fu riesumata da un dotto Castigliano, acuto, cattolico, miope e sprezzante come Asin Palacios.
Delle sue opere non ci sono giunti nemmeno i titoli, forse, solo di due possiamo ricostruirli con una certa sicurezza: “Kitâb al-tabsira” e Kitab al-horûf”.
Ibn Masarra fu un maestro precoce appena diciassettenne nell'anno 899 giá pare potesse contare su di un congruo numero di discepoli con cui viveva ritirato in una proprietá della Sierra di Cordova.


Il Viaggio in Oriente


Con due di questi discepoli intraprese un lungo viaggio in Oriente, giunse fino a Medina e fino alla Mecca dove incontrò molti importanti maestri dalla cui esperienza apprese la necessitá e le forme di un rigoroso esoterismo.
L'Islam viveva in quegli anni un rigoglioso periodo creativo. Secondo quanto scrive Garaudy Ibn Masarra venne a contatto, nel corso di questo viaggio, soprattutto con il pensiero di Al-Razhi che fu un avversario dell'aristotelismo e del fanatismo religioso allo stesso tempo. Tra le sue opere vi è una “Critica della Religione”. Al-Rhazi puó essere considerato un filosofo della natura nel senso presocratico.
“L'anima è il movimento che orienta ogni essere verso il suo fine. È il progetto di essere. E se si svia da questo fine non sará mai capace di pretendere l'eternitá non essendo niente altro che un progetto abortito”. Al-Razhi considerava necessaria una interpretazione simbolica delle scritture e riconosceva il valore di tutte le religioni.”


I fratelli della purezza


A Bassora studió il razionalismo mo'tazilita e fu influenzato dai “Fratelli della purezza” (ikhwan as-safá) che cercavano una sintesi tra la scienza del tempo e la religione.
Secondo questa scuola rigorosamente esoterica:


“Tutti i profeti annunciano la stessa religione. La religione di tutti i profeti mostra lo stesso cammino e invita in una stessa direzione: il perfezionamento dell'anima umana, la liberazione dal mondo della generazione e della corruzione e l'entrata nel sentero che conduce alla vita eterna”.


La maggior parte degli uomini, peró: “confonde la religione (dîn) con la legge (Sharia)”. La prima non è soggetta a nessuna imposizione.


I “Fratelli della Purezza”sono riconducibili all'ambito ismailita e il loro insegnamento fu esposto in una vera e propria enciclopedia consistente in 52 lettere (Rasa'il Ikhwan as-Safa). La confraternitá si riuniva regolarmente secondo un caledario prestabilito, sembra tre volte al mese: la prima dedicata all'insegnamento, la seconda all'osservazione astronomica e astrologica e la terza alla composizione de esecuzione di inni dal contenuto filosofico. La scuola era organizzata in una gerarchia basata, non rigidamente sull'etá. I gradi gerarchici erano quattro:



  • Gli artigiani: a partire da 15 anni
    I dirigenti politici: a partire da 30 anni
    I re: a partire da 40 anni
    I profeti e i filosofi: a partire da 50 anni. Si trattava del grado angelico (al-martabat al-malkiyya).


I membri della scuola si riferivano a se stessi come: “coloro che dormono nelle grotte”.


Non sappiamo se e quanto dei principi che reggevano questa importante scuola siano stati adottati da Ibn Masarra e applicati nella direzione della comunitá della Sierra di Cordova.
I “Fratelli della Purezza” come gli altri gruppi ismailiti consideravano l'ambito della Rivelazione, anzi l'ambito delle rivelazioni come lo spazio proprio della libertá e dello sviluppo dell'Uomo nella sua interezza.
Questo spazio oggi è andato perduto. Le Rivelazioni si sono chiuse su se stesse, amputando l'anima umana di una parte forse decisiva del suo mondo.
Certamente questa libertá e questo spazio furono il tesoro che Ibn Masarra portó con sé da Bassora a Cordova.


Duh'l Nun l'Egiziano


Sempre secondo Garaudy Ibn Masarra conobbe in Egitto Duh'l Nun, un grande maestro Sufi che viveva asceticamente nel deserto ossessionato dal desiderio dell'unione don Dio.
Attraverso di lui Ibn Masarra conobbe lo gnosticismo neoplatonico. Questo pensiero si era diffuso nel mondo islamico attraverso due opere apocrife: “La teologia di Aristotele” che è una compilazione delle Enneadi di Plotino , precisamente della IV, V, VI e una raccolta di scritti attribuiti ad Empedocle che contenvano, invece, una sintesi del pensiero dei neoplatonici alessandrini. Il tema di queste opere 'e la ricerca dell'Unitá con l'Uno. Duh'l Nun definiva l'unitá con Dio nel modo seguente:


“L'autentica conoscenza dell'Uno è il cuore illuminato da Dio stesso”,


commentando cosí un importante hadith del Profeta:


“Quando amo il mio servo, Io, il Signore, sono le sue orecchie, affinché egli possa udire per mezzo mio; la sua lingua perché possa parlare per mezzo mio, e la sua mano, perché per mezzo mio possa agire”.


Il Ritorno a Cordova


Ritornato nella Sierra di Cordova riprese il suo insegnamento avvolto in uno spesso manto di simboli esoterici. Organizzó la sua scuola in senso strettamente gerarchico, ponendo tutta la sua attenzione nella scelta di pochi discepoli e nella loro direzione spirutuale. Qui egli realizzó la prima sintesi filosofica delle tradizioni mistiche dell'Asia e dell'Africa.
Nella Sierra di Cordova morí, a soli cinquant'anni, circondato dall'ostilitá dei religiosi ortodossi.


A cura di genseki

mercoledì, novembre 26, 2008

Huerta

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Il cristianesimo di Kojève



Nella “natura umana” del Cristo l’essenza umana è legata in modo biunivoco e necessario al corpo umano. Fatto che obbliga ad ammettere che questo legame è definitivamente necessario anche in tutti gli uomini, essendo lo stesso dovunque e sempre.
Ti p. 340
*
In assenza del dogma dell’Incarnazione e quindi della Trinità, i teologi ebrei e mussulmani non poterono opporsi alla filosofia (paritetica) pagana che proponendo al suo posto soltanto il dogma della Creazione. Ora, questo dogma afferma il carattere arbitrario di tutti i legami di cui si parla ed esclude così la Filosofia in quanto tale, dal momento che rende impossibile parlare del Concetto. È per questo che non c’è mai stata in nessun luogo una filosofia giudaica o islamica ma soltanto una teologia (monoteista). Soltanto il Cristianesimo ha potuto enunciare (per bocca di Kant) una Paratesi (sintetica) filosofica, grazie all’introduzione nel discorso filosofico dell’equivalente del dogma dell’Incarnazione. Ma è solo nel momento in cui il dogma della Trinità fu anch’esso introdotto nel discorso filosofico (da Hegel), cioè nel momento in cui l’insieme del discorso teologico (cristiano) fu trasformato in un solo e medesimo discorso filosofico, che questo si trasforma (per questo stesso fatto) nel sistema del sapere hegeliano.
Ti p. 341
*
Dalla sua origine , il Cristianesimo si presenta come una specie di Paratesi, che si situa nell’Universo tra la tesi ellenica e l’Antitesi ebraica. San Paolo proclama la saggezza cristiana come una doppia negazione delle tesi contrarie (“Follia per i Greci, scandalo per gli Ebrei”).
Ma se la mistica radicale sembra aver accettato in un sol colpo il Silenzio a cui equivale la negazione paolina della copia antitetica, il Cristianesimo discorsivo si è sforzato fin dall’inizio di sostituire al ne…ne di S. Paolo la paratesi classica del e…e, cioè della doppia affermazione parziale e più parziale delle tesi contraddittorie che supponeva il discorso cristiano.
D’altra parte il Cristianesimo si inserisce, fin dal principio nel quadro ellenistico nel senso che il dogma ebraico si esprime discorsivamente, in quanto dottrina cristiana in un Universo dominato dal discorso ellenico. In altri termini, in e per la paratesi cristiana, l’antitesi giudaica suppone come posta la tesi pagana enunciata dai Greci. È dunque negando il Paganesimo che il cristianesimo si afferma. Ma si distingue dal Giudaismo in quanto compromesso paritetico, ove il Paganesimo tetico è negato solo parzialmente, con l’obiettivo di integrarlo da quanto conserva del Giudaismo antitetico. La proporzione dell’uno e dell’altro variò nel corso del tempo, mano a mano che si esplicitava la “contraddizione in termini” inerente al Cristianesimo preso e compreso quale paratesi discorsiva.
Dal punto di vista che ci interessa qui, due miti giudaici escludevano la possibilità di qualsiasi filosofia. Da un lato il mito della creazione del mondo ex nihilo per un atto di volontà “libero” dell’uno-completamente-solo” di Parmenide affermava, (almeno implicitamente), il carattere arbitrario del legame tra l’Essenza e il Corpo in tutto ciò che esiste empiricamente in quanto oggetto. D’altra parte, il mito della creazione del Discorso ad opera di Adamo, che chiamava tutti gli oggetti come gli pareva, stabilisce (esplicitamente) il carattere arbitrario del legame tra Senso e Morfema nella Nozione “in generale”. Ora se tutte le relazioni sono arbitrarie, ha tanto senso parlare di Concetto come se fossero necessarie. E nella misura in cui il dogma tetico della Scienza greca affermava il carattere necessario di tutte le relazioni, la negazione totale di questa necessità (cioè “l’affermazione” della non-necessità di tutte le relazioni) ad opera del dogma della teologia ebraica costituiva un’autentica antitesi. TI p. 191-192
*
Se per assurdo, si potesse eliminare Dio nel Giudaismo, tutte le relazioni del mondo sarebbero per questo giudaismo ateo tanto necessarie quanto lo sono per la Scienza “laica” dei Greci.
Detto altrimenti, basterebbe sottomettere a una “legge” necessaria la volontà del solo Dio, perché il dogma “giudaico” coincida con il dogma scientifico dei Greci. Inversamente, basta introdurre nella “legge bronzea” (“ananke” riconosciuta da quest’ultimo un elemento di “volontà libera” – oppure di azione “cosciente e volontaria” -) perché questa dogma assuma una colorazione (più o meno) “giudaica” (cioè teologica). E questo è precisamente quello che cerca di fare la dogmatica paritetica cristiana.
Ma se il monoteismo predestinava il Giudaismo (religioso) a subire un “compromesso” paritetico con il Paganesimo (scientista), la cristologia incitava il cristianesimo (moralizzante) a promuovere questo compromesso. In effetti, a parte qualche “miracolo”, il giudaico incarnato (in quanto Logos) subiva la necessità delle relazioni in questo mondo e le consacrava in quanto necessaria. Nella durata-estensione del Mondo, le essenze si collegavano in modo biunivoco e necessario ai loro rispettivi corpi in tutti gli oggetti, nella stessa misura in cui questo insieme era il mondo in cui viveva il dio incarnato, o doveva diventare un tale mondo, o già lo era stato. Detto altrimenti, il Mondo cristiano ove ha vissuto incarnato il Dio giudaico è un Cosmos della scienza greca che ha ricevuto un fine, cioè uno scopo e un termine finali, determinanti il suo proprio inizio. TI p. 192-193

Trad. genseki

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Dans la "nature humaine" du Christ, l’essence humaine est liée d’une façon bi-univoque et nécessaire au corps humain. Ce qui fait admettre que ce lien est tout aussi nécessaire dans tous les hommes quels qu’ils soient, étant le même partout et toujours. TI p340
*
En l’absence du dogme de l’Incarnation et donc de la Trinité, les théologiens juifs et musulmans ne purent s’opposer à la philosophie (parathétique) païenne qu’en proposant à sa place le seul dogme de la Création. Or, ce dogme affirme le caractère arbitraire de toutes les liaisons dont on parle et exclut ainsi la Philosophie en tant que telle, puisqu’il rend impossible de parler du Concept. C’est pourquoi il n’y a jamais eu nulle part de philosophie judaïque ou islamique mais seulement une théologie (mono-théiste). Seul le Christianisme a pu énoncer (par la bouche de Kant) une Parathèse (synthétique) philosophique, grâce à l’introduction dans le discours philosophique de l’équivalent du dogme de l’Incarnation. Mais ce n’est qu’au moment où le dogme de la Trinité fut lui aussi introduit (par Hegel) dans le discours philosophique, c’est-à-dire au moment où l’ensemble du discours théologique (chrétien) fut trans-formé en un seul et même discours philosophique, que celui-ci se trans-forme lui-même (de ce fait même) en Système du Savoir hégélien. TI p341
*
Dès son origine, le Christianisme se présente lui-même comme une sorte de Para-thèse, qui se situe dans l’Univers entre la Thèse hellène et l’Anti-thèse hébraïque. Saint Paul proclame la sagesse chrétienne comme une double négation des thèses contraires ("folie pour les Grecs, scandale pour les Hébreux"). Mais si la mystique radicale semble avoir accepté d’emblée le Silence auquel équivaut la négation paulinienne du couple antithétique, le Christianisme discursif s’est efforcé dès le début de substituer au ni-ni de saint Paul la Para-thèse classique du et-et, c’est-à-dire de la double affirmation partielle et plus ou moins partiale des thèses contra-dictoires que sup-posait le discours chrétien.
Par ailleurs, le Christianisme s’insère dès le début dans le cadre hellénistique en ce sens que le dogme hébreu s’exprime discursivement, en tant que doctrine chrétienne, dans un Univers dominé par le discours hellène. En d’autres termes, dans et par la Para-thèse chrétienne, l’Anti-thèse du Judaïsme suppose comme posée la Thèse païenne énoncée par les Grecs. C’est donc en niant le Paganisme que le Christianisme s’affirme. Mais il se distingue du Judaïsme en tant que compromis para-thétique, où le Paganisme thétique n’est nié que partiellement, en vue d’être complété par ce qui est retenu du Judaïsme antithétique. La proportion de l’un et de l’autre ayant d’ailleurs varié au cours du temps, au fur et à mesure que s’explicitait la "contradiction dans les termes" inhérente au Christianisme pris et compris en tant que Para-thèse discursive.
Du point de vue qui nous interresse ici, deux mythes judaïques excluaient la possibilité de toute philosophie quelle qu’elle soit. D’une part, le mythe de la création du monde ex nihilo par un acte de volonté "libre" de l’Un-tout-seul parménidien affirmait (du moins implicitement) le caractère arbitraire du lien entre l’Essence et le Corps dans tout ce qui existe-empiriquement en tant qu’Objet. D’autre part, le mythe de la création du Discours par Adam, qui nommait comme bon lui semble tous les objets quels qu’ils soient, établit (explicitement) le caractère arbitraire du lien entre le Sens et le Morphème dans la Notion "en général". Or si toutes les liaisons sont arbitraires, il y a tout aussi peu de sens de parler du Concept que si toutes les liaisons sont nécessaires. Et dans la mesure où le dogme thétique de la Science hellène affirmait le caractère nécessaire de toutes les liaisons quelles qu’elles soient, la négation totale de cette nécessité (c’est-à-dire l’ "affirmation" de la non-nécessité de toutes les liaisons) par le dogme de la Théologie hébraïque constituait une anti-thèse authentique. TI 191-192
*
Si l’on pouvait par impossible, éliminer Dieu dans le Judaïsme, toutes les liaisons dans le Monde seraient pour ce Judaïsme athée tout aussi nécessaires qu’elles le sont pour la Science "laïque" des Grecs. Autrement dit, il suffirait de soumettre à une "loi" nécessaire la volonté du seul Dieu, pour que le dogme "judaïque" coïncide avec le dogme scientifique des Hellènes. Inversement, il suffit d’introduire dans la "loi d’airain" ("ananke" reconnue par ce dernier un élément de "volonté libre" (ou d’action "consciente et volontaire") pour que ce dogme prenne une coloration (plus ou moins) "judaïque" (c’est-à-dire théologique). Et c’est précisèment ce qu’essaye de faire la dogmatique parathétique chrétienne.
Mais si le monothéisme prédestinait le Judaïsme (religieux) à subir un "compromis" parathétique avec le Paganisme (scientiste), la christologie incitait le christianisme (moralisant) à promouvoir ce compromis. En effet, à quelques "miracles" près, le Dieu judaïque incarné (en tant que Logos) subissait la nécessité des liaisons dans ce monde et consacrait en quelque sorte celles-ci en tant que nécessaires. Dans l’ensemble de la durée-étendue du Monde, les essences se liaient d’une façon bi-univoque et nécessaire à leur corps respectifs dans tous les objets quels qu’ils soient, dans la mesure même où cet ensemble était le monde où vivait le Dieu incarné, ou devait devenir un tel monde, voire l’a déjà été. Autrement dit, le Monde chrétien où a vécu incarné le Dieu judaïque est un Cosmos de la science hellène qui a reçu une "fin", c’est-à-dire un but et un terme final, déterminant son propre commencement. TI 192-193
*

lunedì, novembre 24, 2008

Melchisedec


I testi delle visioni mistiche di Anne-Catherine Emmerich sono di una straordinaria qualitá pittorica. Sembrano nascere dal ricordo che anima i quadri biblici degli antichi maestri fiammighi. Da un'immaginazione che accarezza e gode del colore e delle pennellate piuttosto che dalla commozione mistica.

Anne-Catherine pare aver il dono di rendere viva la pittura di convertire lo spazio in successione e movimento.

Tutte le sue visioni hanno una prospettiva sola. Sono riprese aeree, a volo d'uccello. Come se un falco osservasse i quadri, che so di Rembrandt e ce ne trasmetttesse magicamente le immagini reinterpretate nella sua vertiginosa prospettiva.

I testi della Emmerich sono pura vertigine del volo, dell'altezza avi di Gaspard de la Nuit.

genseki


***



Colpo d’occhio su Melchisedech



Quando Nostro Signore Gesù Cristo prese il calice durante l’istituzione della Santa Eucarestia io ebbi un’altra visione che si riferiva all’Antico Testamento. Vidi Abramo in ginocchio davanti ad un altare; in lontananza vi erano dei guerrieri con bestie da soma e cammelli: un uomo maestoso si avvicinò ad Abramo e depose sull’altare lo stesso calice di cui Gesù si servì più tardi. Io vidi che quest’uomo aveva come delle ali sulle spalle; non le aveva realmente; era come un segno per indicarmi che davanti ai miei occhi vi era un angelo. Questo personaggio era Melchisedech. Dietro l’altare di Abramo salivano tre nuvole di fumo quella di mezzo si innalzava abbastanza in alto; le altre erano più basse.
Vidi in seguito due file di figure che terminavano con Gesù. Vi si trovavano Davide e Salomone (era il corteo dei possessori del calice, dei sacrificatori, o degli antenati di Gesù? La Suora ha dimenticato di dirlo.) Vidi alcuni nomi sopra Melchisedech (1) Abramo e alcuni Re. Poi ritornai al calice.
Melchisedech aveva già il calice. Vidi che Abramo doveva sapere in anticipo ch’egli avrebbe offerto il sacrificio; egli, infatti aveva elevato un bel altare, al di sopra del quale vi era come una tenda di foglie. C’era anche una specie di tabernacolo ove Melchisedech depose il calice. I vasi da cui si beveva parevano essere di pietre preziose. C’era un foro sull’altare, probabilmente per il sacrificio. Abramo aveva condotto una mandria superba. Quando questo patriarca aveva ricevuto il mistero della promessa, gli era stato rivelato che il sacerdote dell'altissimo avrebbe celebrato davanti a lui il sacrificio che sarebbe stato stabilito dal Messia per durare eternamente. Per questo, quando Melchisedeche fece annunciare il suo arrivo da due messi di cui soleva servirsi sovente, Abramo lo attese con rispettoso timore, e innalzò l’altare e la tenda di foglie.
Vidi che Abramo pose sull’alatre, come sempre faceva quando offriva sacrifici, alcune ossa di Adamo; Noé le aveva conservate nell’arca. L’uno e l’altro pregarono Dio di adempiere la promessa fatta a quelle ossa, e che altro non era che il Messia. Abramo desiderava intensamente la benedizione di Melchisedech.
La pianura era coperta di uomini, di bestie da soma e di bagagli. Il re di Sodoma era con Abramo sotto la tenda. Melchisedech veniva da un luogo che divenne poi Gerusalemme; aveva abbattuto una foresta e gettato le fondamenta di alcuni edifici; un edificio circolare era finito a metà e un palazzo era appena cominciato. Giunse con una bestia da soma grigia, non era un cammello, non era nemmeno il nostro asino; questo animale aveva un collo largo e corto, era leggero nella corsa, su un fianco portava un grande vaso pieno di vino e sull’altro una cassa in cui si trovavano pani schiacciati e diversi vasi. I vasi, che avevano la forma di botticelle, erano trasparenti come pietre preziose. Abramo si fece incontro a Melchisedech. Lo vidi entrare nella tenda dietro l’altare, offrire il pane e il vino elevandoli nelle mani, benedirli e distribuirli: c’era, in questa cerimonia qualche cosa della Santa Messa. Abramo ricevette un pane più bianco di quello degli altri e bevve dal calice che servì, in seguito alla Cena di Gesù, e che ancora non aveva il piede. I più importanti tra coloro che assistevano distribuirono anche al popolo che li circondava vino e pezzettini di pane.
Non ci fu consacrazione: gli angeli non possono consacrare. Le oblazioni furono però benedette e le vidi risplendere. Tutti coloro che ne mangiarono furono fortificati e elevati verso Dio, Abramo fu anche benedetto da Melchisedech e vidi che era una figura dell’ordinazione sacerdotale. Abramo aveva già ricevuto la promessa che il Messia sarebbe uscito dalla sua carne e dal suo sangue. Mi fu spiegato che Melchisedech gli aveva fatto conoscere queste parole profetiche sul Messia e sul suo sacrificio: - Il Signore ha detto al mio Signore, siedi alla mia destra (2) fino a che io riduca i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi. Il Signore l’ha giurato e non si pente. Sarai sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech -. Vidi anche che Davide, quando scrisse queste parole ebbe una visione della benedizione data da Melchisedech ad Abramo. Abramo, avendo ricevuto il pane profetizzò e parlò di Mosé, dei Leviti e di ciò che il primo diede loro come eredità.
Non so se fosse Abramo ad offrire il sacrificio. Lo vidi poi donare la decima delle sue mandrie e dei suoi tesori; ignoro cosa ne fece Melchisedech; credo che la distribuisse. Melchisedech non sembrava vecchio; era agile, alto, pieno di una dolce maestà; aveva una lunga veste, più bianca di quante mai ne vidi; la veste bianca di Abramo sembrava opaca al paragone. Durante il sacrificio egli indossò una cintura sulla quale erano ricamati alcuni caratteri, e un copricapo bianco simile a quello che poi indossarono i sacerdoti. I suoi lunghi capelli erano di un biondo chiaro e brillavano come seta; aveva una barba bianca, corta e appuntta, il suo volto risplendeva. Tutti lo trattavano con rispetto; la sua presenza diffondeva ovunque la venerazione e una calma maestosa. Mi fu detto che era un angelo sacerdotale e un messaggero di Dio. Era stato inviato per stabilire diverse istituzioni religiose. Conduceva i popoli, trasferiva le razze, fondava città. L’ho visto in diversi luoghi prima del tempo di Abramo. Poi non l’ho più rivisto.


Note
1. Il 3 aprile 1821, ella disse, nell’estasi: - Il sacrificio di Melchisdech ebbe luogo nella valle di Josaphat, su di un luogo elevato. Ora non posso ritrovare il luogo -.
Il 5 Luglio 1821 ella disse: - Ciò ebbe luogo nella valle delle Uve, che si prolunga in direzione di Gaza. Ora Bachiene Hammelsteld e altri considerano una valle di questa contrada come la valle di Josaphat, perché i nemici di Giosaphat vi si distrussero da soli con un Giudizio di Dio e Giosaphat vuol dire: Dio giudicherà. La valle in cui Giosaphat rese grazie per la sua vittoria si chiamava la valle di Benedizione. Un giorno Anne Catherine designava diversi percorsi che il Signore doveva seguire, il 13 ottobre del terzo anno della sua predicazione, ella disse: egli passerà nel luogo in cui Melchisedech offerse il pane e il vino: c’è ancora una specie di cappella costruita in pietra nuda, credo che ancora, talvolta, vi si offici. Ora, il percorso seguito allora da Gesù si avvicinava alla contrada di Gaza.
2. A proposito di queste parole: “siedi alla mia destra”, ella così si esprimeva: - Il lato destro ha un significato grande e misterioso. L’eterna generazione del Figlio mi è stata mostrata talvolta in figure della Santa Trinità che il linguaggio non sarebbe in grado di rendere. Allora io vedo il Figlio nel lato destro del Padre, poi vedo la figura che Mosé vide nel roveto ardente, mi appare in un triangolo luminoso, alla sommità del qual c’è lo Spirito Santo. Questo può essere espresso in modo preciso, ma, in queste figure, messe alla portata di un semplice essere umano, il Figlio è sempre alla destra. Eva fu tratta dal fianco destro di Adamo. Senza la caduta gli uomini sarebbero usciti dal fianco destro. Ed è al fianco destro che i patriarchi portavano la benedizione della promessa, ed essi ponevano i loro figli alla destra quando li benedicevano. Il fianco destro del Cristo fu aperto dalla lancia del soldato. Nelle visioni si vede la Chiesa uscire da questa ferita.. Entrando nella Chiesa, si entra nel fianco destro del Salvatore e attraverso di lui e in lui si giunge al Padre.
Anne-Catherine Emmerich
Clemens Brentano
Trad. genseki
4 maggio 2002

domenica, novembre 23, 2008

Léo Ferré chantant les poètes

Pauvre Rutebeuf

Dei vecchi amici che n'è stato
Che mi erano cosí vicini
E tanto ho amato
Come si sono diradati
Credo che il vento l'abbia spazzati
L'amor è morto
Erano amici che che il vento porta
E c'era vento alla mia porta
Li portó via

Al tempo ch'arbol si spoglia
Quando sui rami non resta foglia
Che non ne cada
E povertá mi schiaccia a terra
E d'ogni dove mi fa guerra
L'amor è morto
Che vi racconti non bisogna
Come giunsi a questa vergogna
O in che maniera

Dei vecchi amici che n'è stato
Che mi erano cosí vicini
E tanto ho amato
Come si sono diradadti
Credo che il vento li abbia spazzati
L'amor è morto

Male non suole venir solo
Così che colsemi ogni duolo
Ben meritato
Povero senno e misera memoria
Diemmi il Signore Re della gloria
E picciol bene
La tramontana su me si avventa
Vento che soffia
Ratto mi schiant

L'amor è morto
Erano amici che il vento porta
E c'era vento alla mia porta
Li portó via

trad genseki

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venerdì, novembre 21, 2008

Gilles de Rais

da Huysmans
traduzione e montaggio del testo di genseki

Come si può penetrare negli avvenimenti del Medioevo, quando nessuno è nemmeno capace di spiegare gli episodi più recenti, i sotterranei della Rivoluzione, della Comune, per esempio? Non resta dunque che fabbricare la propria visione, immaginarsi da sé le creature di un altro tempo, incarnarsi in esse, rivestire, se si può gli stracci delle loro apparenze, forgiarsi, infine, con dettagli abilmente scelti dei quadri d’insieme fallaci.
Gilles de Rais, formidabile satanista fu, nel XV° secolo, il più artista, il più squisito, il più crudele e il più scellerato degli uomini.
Il nome di Gilles resiste da quattro secoli soltanto grazie all’immensità dei vizi di cui è il simbolo. Tuttavia la difficoltà maggiore è quella di spiegare in che modo quest’uomo, che fu un capitano coraggioso e un buon cristiano, divenne improvisamente sacrilego e sadico, vile e crudele. Non c’è nessun esempio, che si sappia di un così repentino cambiamento di un’anima, per questo tutti i suoi biografie si stupiscono di una tale magia spirituale, di questa metamorfosi dell’anima operata con un colpo di bacchetta, come in teatro; i vizi di certo dovettero infiltrarsi in lui in modi di cui sono perdute le tracce attraverso peccati invisibili ignorati dalle cronache.
Gilles de Rais, la cui infanzia ci è ignota, nacque intorno al 1404 sui confini tra la Bretagna e l’Anjou, nel castello di Machecoul. Suo padre muore alla fine di ottobre del 1415; sua madre si risposa quasi subito con un Sire d’Estouville e lo abbandona insieme a suo fratello René; passa quindi sotto la tutela di suo nonno, Jean de Craon, Signore di Champtocé e di La Suze, “Uomo vecchio e anziano e di età molto avanzata” come riporrtano le cronache. Egli non è sorvegliato né diretto da questo vecchio bonario e distratto che si sbarazza di lui sposandolo con Catherine de Thouars, il 30 di Novembre del 1420.
La sua presenza alla corte del Delfino è attestata 5 anni dopo; i suoi contemporanei ce lo presentano come un uomo robusto e nervoso, d’una bellezza inebriante, di rara eleganza. Non abbiamo informazioni sul ruolo da lui svolto presso questa corte, ma si può supplire facilmente, immaginandosi l’arrivo di Gilles, il più ricco dei baroni francesi presso un re molto povero. In questo momento, infatti, Carlo VII° è ridotto allo stremo, non ha denaro, ed è privo di ogni prestigio e autorità è già molto se le città della Loira gli obbediscono; la situazione della Francia estenuata dai massacri, già devastata, qualche anno prima, dalla peste è spaventosa. Essa è scarificata fino a sanguinare, vuotata fino al midollo dall’Inghilterra che simile alla piovra leggendaria, il kraken, emerge dal mare e lancia oltre lo stretto, sulla Bretagna, la Normandia, una parte della Piccardia, l’Ile de France, tutto il Nord e il Centro fino a Orléans, i suoi tentacoli che non lasciano quando si sollevano che città inaridite, campagne morte. Gli appelli di Carlo che reclama sussidi, inventa esazioni, sollecita il pagamento delle tasse sono inutili. Le città sacheggiate, i campi abbandonati e ripopolati dai lupi, non possono soccorrere un Re di dubbia legittimità. Egli mendica vanamente qualche spicciolo. A Chinon, la sua piccola corte è una rete di intrighi che talvolta terminano con egli omicidi. Stanco d’essere braccato, vagamente al sicuro ddietro la Loira, Carlo e i suoi partigiani finiscono per consolarsi con orge esuberanti, dei disastri che continuano ad avvicinarsi; in questo regnare alla giornata, mentre i prestiti e le razzie rendono i banchetti opulenti e lunghe le sbronze, si finisce per dimenticarsi dell’allarme permanente e dei soprassalti e si soffaca il pensiero del domani annegandolo nel vino e palpando le puttane. Che cosa ci si poteva aspettare d’altra parte da un Re sonnolento e già sfiorito, di madre infame e padre folle. Foucquet, nel ritratto che si può vedere al Louvre lo dipinge, con un grugno da maiale, occhi da usuraio di campagna, labbra dolenti e lardose, colorito da castrato, sembra che Foucquet abbia voluto dipingere un prete cattivo raffreddato e dalla sbronza triste. Egli era l’uomo che aveva fatto assassinare Giovanni senza paura e cabbandonerà Giovanna D’Arco; e questo basta per giudicarlo. E’ chiaro che Gilles de Rais che aveva arruolato delle truppe a proprie spese fosse accolto a braccia aperte in questa corte. Certamente egli vi organizzò tornei, fu dai cortigiani e prestò ingenti somme al Re. Tuttavia, nonostante il suo successo non sembra ch’egli sia mai sprofondato come Carlo VII nell’egosmo ansioso e nel vizio; lo ritorviamo infatti, ben presto nell’Anjou e nel Maine che difende dagli Inglesi. Qua egli si dimostrò “Valente e ardito capitano”, come affermano le cronache, anche se schiacciato dalla superiorità numerica del nemico dovette fuggire.

Montaigne

Questa frase l'ho rubata al blog stanzas, senza permesso;´era irresistibile.
genseki

"Qui ne voit que j'ai pris une route par laquelle, sans cesse et sans travail, j'ira iautant qu'il y aura d'encre et de papier au monde?"
(Essais III,9, "De la vanité")

Mercedes Sosa - Alfonsina y el Mar

Sugestiones vegetales

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Alfonsina Storni

Suggestione di un salice

Eppure esiste una cittá di muschio
Dal cielo grigio che angeli verdi
Percorrono volando nel tramonto
Con ali chiuse di cristalli infranti
E freddi specchi nell'erba ai cui bordi
Chinate piangono le vedove lunghe
Del vento che di giallo va tingendosi
E il vetro rende vaghe al dondolarsi.
E un punto nello spazio di pendenti
Gerbidi d'acqua ed una bimba morta
Che va pensando su piedi di trifoglio
E una grotta che piove dolcemente
Batraci vegetali che si schiantano,
Foglie nascenti sopra il dolce limo.

trad. genseki

mercoledì, novembre 19, 2008

Odi come bramisce

Resta il fatto che le ultimissime parole di Rimbaud furono un'invocazione ad Allah. Il fatto. Da cui trarre le conseguenze che si vuole che siano. Quali? Quelle che furono e quelle che saranno.


Odi come bramisce
Accanto alle robinie
In aprile la fronda
Dei viridi legumi.

Netta nel suo vapore,
A Febo! Ora la scorgi
Che s'agita la testa
Dei santi d'altre ere...

Lungi da biche chiare
Da soglie e da bei tetti
I cari Antichi vogliono
Il filtro menzognero...

Ora non è feriale
Non è neppure astrale
La bruma che s'esala
Dall'effetto notturno.

Eppur, eppure restano
E Sicilia e Germania
In questa nebbia triste
E giustamente pallida.

*

trad genseki

Mamma da fidanzata

Mamma da fidanzata
Dai grandi occhi scontrosi
Dai capelli corvini
Dalla pelle brunita
Mamma da fidanzata
Restava cosí sola
Sicura di non valere
Il prezzo di uno sguardo
Nel suo dialetto raro
Nel dialetto perduto
Negli occhi le restava
Il riflesso del grano
Dei prati di lavanda
E della cittá rossa
Mamma da fidanzata
Non aveva illusioni
O forse le perdeva
Allo scender le scale
Mamma da fidanzata
Quantoquanto piangeva
Nessuno lo sapeva
Con le sue calze nuove
E tutte le carezze
Perdute per sfiducia
Mamma da fidanzata
Non l'ho mai conosciuta
Non l'ho piú ritrovata
Nel tempo s'é smarrita
Di un abbraccio negato.

genseki

martedì, novembre 18, 2008

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La madre

Sul trono del mare siede
Tra scrosci cromatici code di cavallo azzurre
Nodi verdi e porporini di ali sciolte
Trombe spente e chiavi del paradiso
Di rame e filamenti di quelli che furono intenti
Avventi forse a perdersi nell'attesa fastosa
Sul trono del mare siede
Che ha forma di conchiglia
Che ha forma di orecchia sveglia
Che ha forma di orecchia di madreperla
Che ascolta gli schiocchi delle lingue
Delle cime delle onde, delle dita dei morti scarni
Che i flutti limano e levigano
E che qualche bambino raccoglierá sulla spiaggia
Sotto forma di ciottolo liscio liscio lievemente iridato
Un frammento osseo, insomma -
Siede su un trono di fili elettrici celesti
Su un trono di zucchero filato scintillante
Siede su un trono di piume di pavone bianco
Di sogni di vergine che abbia divorato una crostata al limone
Siede su questo e su tutti i troni con tutte le mani che reggono tutti gli oggetti
Che stringono tutti i simboli
Che aprono tutte le credenze, tutte le madie, tutti i comó con il loro odore
Stagionati di lavanda
Siede su un trono vertiginosamente alto
Vertiginosamente altissimo una torre proboscide e fagiolo magico
Una torre da illustrazione di gulliver
Siede sul mare sui polmoni, siede, color carrubo
Schiantato dal fulmine
Siede
Sola con occhi dolci di rapace ubriaco di ampi cerchi
Su un campo di orzo
Con occhi di giovenca alimentata con foglie di artemisia
Siede
La Madre.
Da sempre a sempre

Lucian Blaga


Paradossi cinesi

Da: “L'eone dogmatico”

Menzionammo, in relazione con i commentari monisti di Sankara, i paradossi del concreto visti dal punto di vista dell'acategoriale metafisico. Nello stesso ordine di idee citiamo, inoltre, per la curiositá che presentano, i paradossi del pensatore cinese Hui Shi (IV sec a. C.) Eccone alcuni: “Una freccia in volo no è né in movimento né in rioposo”; “Il sole tramonta quando è allo zenit”. “Se qualcuno parte oggi per Yue, arriverá ieri”. “Una tartaruga è piú lunga di un serpente”, etc. In realtá Zenone aveva tentato di pensare logicamente il movimento, e, non potendolo fare se non in modo antinomico, negó la sua esistenza. La tesi di Zenone è l'espressione suprema del dominio della logica. Non cosí per Hui Shi. Egli si situa nel fondo trascendente delle cose, nel Tao. Dal trascendente, poi, apre una finestra sul nostro mondo concreto. Come il Tao la nicchia trascendente del fenomeno è senza spazio e senza tempo. Hui Shi sostiene con ragione, che il piano della trascendenza comporta che: “una freccia in volo non si trovi né in movimento né in riposo”, perché nel trascendente questi stati e questi modi di esistenza non si danno. Cosí nel trascendente senza lo spazio “il sole tramonta quando è allo zenit”, perché lá non vi è né occaso né zenit e le cose partecipano dell'onnipresenza del Tao. Una tartaruga è piú lunga di un serpente” perché sotto la specie del trascendente tutte le dimensioni sono illusorie. Tutte queste cineserie, rare e fragili, diventano comprensibili grazie alla trasposizione che divora le dimensioni nel Tao, nell'acategoriale.
Trad. genseki

Natura morta con rosa, limone aghi di pino e datteri

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lunedì, novembre 17, 2008

Al di lá della vita e della morte II

César Vallejo

Mi pare ancora di vederla – continuai singhiozzando – che non sapeva che cosa fare per il regalo cercando di tirarmi fuori un parere: - Ti ho visto, bugiardo; vuoi far credere che piangi mentre di nascosto ridi! E mi baciava piú che tutti voi, perché ero il piú piccino!
Al termine della veglia dolorosa Angelo mi parve di nuovo sfinito e come prima del lampo straordinariamente magro. Certo, dovevo aver sofferto una difficoltá visiva, motivata dal bagliore improvviso per trovare il suo aspetto risollevato e fresco come, naturalmente non poteva essere stato.
Ancora non dava segno di voler apparire l'aurora del giorno seguente, quando mi montai e partii per la fattorua, congedandomi da Angelo che restava ancora qualche giorno per gli affari che avevano motivato il suo arrivo a Santiago.
Finita la prima giornata di viaggio, mi accadde qualche cosa di inaudito. Nella locanda mi trovai piegato su un banco, riposando, e un'anziana della baracca che guardandomi, improvvisamente spaventata mi chiese compassionevolmente:
Che cosa si è fatto Signore? Ha la faccia insanguinata. Mio Dio!...
Saltai in piedi. E lo specchio mi confermó in effetti il volto macchiato di piccole chiazze di sangue secca. Un forte brivido mi scosse. Sangue? Da dove? Mi ero accostato al volto di Angelo mentre piangeva ... Ma ... No. No. Da dove veniva questo sangue? È facile comprendere il terrore e l'allarme che sorsero nel mioanimo con mille presentimenti. Nulla si puó paragonare con quella scossa del mio cuore. Mai troverò le parole adeguate ad esprimerla. Oggi stesso, mentrte scrivo nella mia stanza solitaria è presente quel vecchio sangue e la mia faccia unta con esso e quella vecchia e il viaggio e mio fratello che piange e che mia madre morta non bació e...
Ho dovuto interrompere la scrittura di queste righe, sono fuggito disperatamente verso il balcone. Tanto forte e sapventoso è il ricordo di quel mosteriososcarlatto ..,
O notte di incubo indimenticabile in quella capanna in cui l'immagine di mia madre, tra le spinte di fili strani, senza capo, che si rompevano solo a guardarli, si alternava a quella di mia Angelo che piangeva lacrime di rubino, per sempre!
Continuai il viaggio, Infine, dopo una settimana di trotto per cordigliere e terrecalde di montagna dopo aver attraversato il Marañon, una mattina, entrai nei tereni della fattoria. Lo spazio nuvoloso riverberava irregolarmente di lontani tuoni e fugaci schiarite.
Smontai proprio davanti al palo per ferrare i cavalli del portone della casa che da sulla strada. Cani latrarono nella calma fuliginosa della montagna triste e pacificata. Dopo quanto tempo ritornavo a questa casa solitaria, piantata nel ventre profondissimo del bosco!
Una voce che da dentro chiamava i mastini per contenerli, tra il garrulo allarme degli uccelli domestici sembró essere stranamente fiutata dallo stanco e timoroso solipede che starnutó piú volte, piego le orecchie quasi in orizzontale in avanti, e, impennandosi, cercó di togliermi le redini dalle mani per fuggire via. L'enorme portone era chiuso. Si sarebbe detto che la toccai in modo quasi meccanico. Poi quella stessa voce continuó a vibrare dall'altro lato del muro, e venne un momento in cui al separarsi, con forza esplosiva spaventevole, dei duie battenti del portale, questo timbro boccale venne a pararsi propio nei miei ventisei anni totali e mi lasció alla punta del'eternitá. Le porte si spalancarono.
Meditate brevemente s questo incredibile avvenimento, che spezza le leggi della vita e della morte, che supera ogni possibilitá; parola di speranza e di fede tra l'assurdo e l'infinito, innegabile sconnessione di luogo e di tempo; nebulosa che fa piangere di disarmoniche, inconoscibili armonie.
Mia mi si fece incontro per accogliermi!
Figlio mio – escamó stupefatta -Tu vivo? Sei resuscitato? Che cosa vedo, Signore dei cieli?
Mia madre! Mia madre in anima e corpo! Viva! Con tanta vita che oggi penso che sentii, alla sua presenza, affacciarsi al mio naso due desolati granelli di decrepitezza che poi finirono per cadere e pesare sul mio cuore fino a curvarmi senilmente, come se per un baratto fantastico del destino mia madre fosse appena nata e io, invece provenissi da tempi tanto antichi, che mi davano un senso di paternitá relativamente a lei.
Si. Mia madre stava li. Vestita di nero unanime. Viva. Non morta. Era possibile? No. Non loera. In nessun modo. Quella signora non era mia madre. Non poteva esserlo. E poi che che cosa aveva detto quando mi aveva visto? Mi credeva morto?
Figlio dell'anima mia – scoppió a singhiozzare mia madre e corse a stringermi contro il suo seno, con quella frenesia e quel pianto di gioia con i quali sempre mi protesse in tutti i miei ritorni e in tutte le mie partenze.
Io mi ero fatto come di pietra. La vidi gettarmi al collo le braccia adorate, baciarmi avidamente e come se volesse divorarmi e singhiozzare le sue coccole e quelle carezze che giammai torneranno a piovere nelle mie viscere. Poi con entrambe le mani afferró il mio volto impassibile e mi fissó cosí faccia a faccia, sfinendomi di domande. Io, dopo alcuni secondi, scoppiai a piangere ma senza cambiare di espressione e neppure di atteggiamento: le mie lacrime parevano acqua pura che sgorgasse dalle pupille di una statua.
Infine raccolsi tuute le luci disperse del mio spirito. Mi ritiri di alcuni passi. E lasciai comparire, Mio Dio! Questa maternitá che non volevo ricevere nel cuore e disconoscevo e temevo; la feci comparire davanti a non so che di sacro, sconosciuto per me fino a questo momento, e lanciai un grido silenzioso di due fili a tutta la sua presenza, con lo stesso ritmi del martello che si avvicina e si allontana dall'incudine, con cui il figlio lancia il suo primo gemito, all'essere strappato dal ventre della madre, econ cui pare indicarle che è vivo e darle allo stesso tempo un segnale con il quale riconoscersi entrambi per i secoli dei secoli. Gemetti fuori di me:
Mai! Mai! Mia madre è morta da tempo, non puó essere...
Ella si alzó spaventata davanti alle mie parole e come se dubitasse che fossi proprio io. Poi riprese a stringermi tra le braccia e tutti e due continuammo a piangere un pianto quale mai pianse e neppure piangerá nessun essere vivente.
Certo – ripetevo – Mia madre morí. Anche mio fratello Angelo lo sa.
E a questo punto le macchie di sangue che avvertivo sul mio volto, mi attraversarono la mente come segni di un altro mondo.
-Ma figlio del mio cuore! - sussurrava lei quasi senza forze – Sei mio figlio morto, quello che io stessa ho visto nella bara? Sei tu! Credo in Dio! Vieni tra le mie braccia! Ma che? ... Non vedi che sono tua madre? Guardami! Guardami! Toccami! Non ci credi, forse?
La contemplai ancora. Toccai la sua adorabile testolina imbancata. Nulla. Non credevo nulla.
Certo, ti vedo – le risposi – ti tocco – Ma non credo. Non puó capitare una cosa tanto impossibile.
E scoppiai a ridere con tutte le mie forze!

trad. genseki