C’è mai stato un momento nella storia americana in cui gli studi umanistici siano stati ritenuti meno preziosi,
e c’è mai stato un momento nella storia americana nel quale gli studi
umanistici siano stati più necessari? Sono onorato di potervi parlare
stamattina, dato che negli ultimi anni sono arrivato a concepire
l’impegno negli studi umanistici come un atto di ribellione
intellettuale, o di dissidenza culturale.
Da decenni in America assistiamo a una denigrazione costante e nauseante della conoscenza umanistica e del metodo umanistico. Viviamo
in una società inebriata dalla tecnologia, felicemente, addirittura
inconsciamente, governata dai valori di utilità, velocità, efficienza e
convenienza. La mentalità tecnologica – la lente attraverso la
quale l’America guarda il mondo – ci addestra a preferire questioni
pratiche a questioni di significato – ci si chiede non se le cose sono
vere o false, se sono buone o cattive, ma come funzionano. La nostra
ragione è diventata una ragione strumentale, non è più la ragione dei
filosofi, con la sua antica magnitudo di ambizione intellettuale, la sua
convinzione che i temi propri al pensiero umano siano i temi più vasti,
e che la mente, in un modo o in un altro, possa penetrare i princìpi
più autentici della vita naturale e della vita umana. La filosofia
stessa è ripiegata sotto il peso della nostra debolezza nei confronti
dell’utilitarismo – la filosofia moderna americana è stata in realtà una
delle cause di tale debolezza – e generalmente anch’essa preferisce
aggiustare e ritoccare.
Le macchine di cui siamo divenuti schiavi, tutte abbastanza stupefacenti, rappresentano il più grande attacco all’attenzione umana mai concepito:
sono motori di dispersione mentale e spirituale, che ci rendono più
grandi soltanto perché meno profondi. Ci sono pensatori, e anche
rispettabili se riuscite a crederci, che proclamano che la crescita
esponenziale dell’abilità computazionale ci porterà presto ben oltre la
limitatezza dei nostri corpi e delle nostre menti in modo che, come uno
di loro dice, non ci sarà più alcuna differenza fra uomo e macchina. La
Mettrie vive nella Silicon Valley. Questa, ovviamente, non è un’apoteosi
dell’umano, ma l’abolizione dell’umano; ma Google ne è particolarmente
felice.
Nell’universo digitale, la conoscenza è ridotta allo status di
informazione. Chi ricorderà più che la conoscenza sta all’informazione
come l’arte sta al kitsch – che l’informazione è il tipo più infimo di
conoscenza, dato che è il più esteriore? Un grande pensatore ebreo del
Medioevo si chiedeva perché Dio, se davvero avesse voluto che
conoscessimo la verità su tutto, non ci avesse semplicemente detto la
verità su tutto. La sua saggia risposta fu che se ci avesse
semplicemente detto quello che avevamo bisogno di sapere, noi non lo
avremmo, a rigor di termini, conosciuto. La conoscenza si può acquisire
soltanto nel tempo e solamente con metodo. E i dispositivi che ci
portiamo in giro come se ne fossimo dipendenti stanno deturpando le
nostre vite mentali anche in altri modi: ad esempio, generano un numero
finora inimmaginabile di numeri, numeri su tutto quello che esiste, e ci
trasformano in una cultura di dati, in un culto dei dati, nel quale
nessuna attività umana e nessuna espressione umana è immune dalla
quantificazione, nel quale la felicità è un soggetto adatto agli
economisti, nel quale le traversie del cuore umano sono
inappropriatamente traslate in espressioni matematiche, lasciandoci con
nuove illusioni di chiarezza e nuove illusioni di controllo.
La sfavillante èra del tecnologismo è anche una sfavillante èra dello scientismo.
Lo scientismo non è la stessa cosa rispetto alla scienza. La scienza è
una benedizione, lo scientismo è una maledizione. La scienza – intendo
quella che gli scienziati veri praticano – è ammirevolmente conscia dei
suoi limiti, umilmente ammette il carattere provvisorio delle sue
conclusioni; ma lo scientismo è dogmatico, e spaccia certezze. E’ sempre
pronto a fornire soluzioni a ogni problema, dato che crede che la
soluzione a ogni problema sia scientifica, e quindi fornisce risposte
scientifiche a domande non scientifiche. Ma persino la questione del
posto della scienza nell’esistenza umana non è una questione
scientifica. E’ una domanda filosofica, cioè umanistica.
A causa della propensione alla spiegazione totalitaristica, lo scientismo trasforma la scienza in un’ideologia, il che è ovviamente il tradimento del suo spirito sperimentale ed empirico.
Non esiste alcuna perplessità dell’umana emozione o dell’umano agire
che non venga accreditata alla genetica o spiegata nei presuntuosi
termini della biologia evoluzionistica. E’ vero che il gene egoista è
stato recentemente rimpiazzato dal gene altruistico, più carino
certamente, ma è comunque il gene che domina. Lo scientismo liberal non
dovrebbe essere per noi più filosoficamente attraente dello scientismo
conservatore, dato che anch’esso riduce con arroganza tutte le aree che
abitiamo in una singola area, e ci fa cadere nella tentazione di credere
che l’eschaton epistemologico sia finalmente arrivato, che finalmente
conosciamo quello che abbiamo bisogno di sapere per gestire saggiamente
gli affari umani. Questo credo è invariabilmente falso, e
occasionalmente disastroso. Stiamo diventando ignoranti dell’ignoranza.
Non esiste quindi alcun compito più urgente nella vita intellettuale americana in questo periodo che offrire resistenza all’imperialismo combinato di scienza e tecnologia,
e di ricostituire l’antica distinzione – una volta contestata
duramente, poi generalmente accettata, ora quasi completamente
dimenticata – tra lo studio della natura e lo studio dell’uomo. Come
Bernard Williams una volta ha rimarcato, “‘umanità’ è un nome non solo
per una specie ma anche per una qualità”. Voi che avete scelto di
votarvi allo studio della letteratura e delle lingue e dell’arte e della
musica e della filosofia e della religione e della storia – voi siete i
rappresentanti di tale qualità. Voi siete la resistenza. Avete avuto la
sfrontatezza di scegliere l’interpretazione rispetto al calcolo, e di
riconoscere che il calcolo non può fornire un quadro accurato, o un
quadro approfondito, o un quadro completo, di esseri che si
autointerpretano quali noi siamo; e io vi elogio per questo.
Non credete alle voci che dicono che il vostro percorso è obsoleto.
Se Proust fosse stato un neuroscienziato, allora non avreste alcun
bisogno della neuroscienza, avendo Proust. Se Jane Austen fosse stata
una studiosa della teoria dei giochi, allora non avreste alcuna ragione
di dedicarvi alla teoria dei giochi, avendo Austen. Per opporsi
all’accelerazione ciarliera della consapevolezza americana non vi è
baluardo più grande dell’incontro con un’opera d’arte, e dell’esperienza
di un testo o di un’immagine. Siete i rappresentanti, i residui
salvifici di tale incontro e di tale esperienza, e del serio studio di
tale incontro e tale esperienza – cioè, voi siete la controcultura.
Forse ora la cultura è la controcultura.
Quindi non perdete la testa. Non esitate. Siate molto orgogliosi.
Usate nuove tecnologie per vecchi scopi.
Non fatevi innervosire dai numeri, che non saranno mai germogli di
saggezza. Nel sostenere gli studi umanistici, onorate una civiltà che è
stata fondata sulla ricerca del vero, del bene, del bello. Perché fino a
che saremo creature senzienti, creature che amano e immaginano e
soffrono e muoiono, gli studi umanistici non saranno mai superflui. Da
oggi in poi agite come se foste indispensabili alla vostra società,
perché – che essa ne sia consapevole o no – lo siete.
di Leon Wieseltier
è il capo della cultura del magazine The New Republic. Questo è il
discorso che l’intellettuale liberal ha tenuto alla cerimonia della
consegna dei diplomi alla Brandeis University, il 19 maggio scorso.
(traduzione di Sarah Marion Tuggey)
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