venerdì, settembre 12, 2014


René Char

Congedo al vento

Sui fianchi della collina del villaggio bivaccano i campi coltivati a mimosa. Accade che, lungi dal loro sito, capiti l'incontro profumatissimo con una giovinetta le cui braccia sono state occupate per tutto il giorno nella cura di fragili rami.
Come una lampada che diffndesse un'aureola pofumata elle si alontana, volgendo le spalle al tramonto.
Rivolgerele la parola sarebbe sacrilego.
Sfiorando appena l'erba con i calzari, cedetele il passo.
Con un po' di fortuna scorgerete sulle sue labbra la chimera dell'umiditá della notte.

Frequenza

Tutto il giorno, coadiuvando l'uomo, il ferro ha applicato il suo torso, al fango ardente della fucina.. Con il tempo i loro garretti gemelli hanno fatto scoppiare la sottile notte del metallo ben custodita nella profonditá della terra.
Senza fretta l'uomo lascia il lavoro. Immerge per l'ultima volta le braccia nel fianco oscuro del rio. Saprá finalmente afferrare ol solido bastone delle alghe.

Gioventú

Lungi dall'imboscata delle tegole e dall'elemosina dei calvari, vi partorivate, ostaggi degli uccelli, fontane. Il declivio dell'uomo sorto dalla nausea delle sue ceneri, dell'uomo in lotta con la propria provvidenza vendicativa, non basta a sciogliere il vostro incantesimo.

Elogio, ci siamo accettati.

"Se fossi  stata muta come lo scalino di pietra fedele  al sole e che ignora la propria ferita, rimarginatea con la terra, se fossi stata bambina come l'albero bianco che accoglie i timori delle api, se le colline fossero sopravissute fino all'estate, se il lampo mi avesse spalancato la sua grata, se le tue notti mi avessero perdonato ..."

Guarda, verziere di stelle, l'erica, la solitudine sono diverse da voi! Il canto termina l'esilio. La brezza degli agnelli porta con sé vita nuova.

Trad genseki


giovedì, settembre 11, 2014

Tzara

Tzara ne délirait que sur Villon. Il se méfiait tout de même de ce délire.

Lacan
Dissolution 

Tristan Tzara

Il tempo fa cadere frammenti dietro di sé
Miete molecole finissime in praterie d'acqua
Domina le borse d'aria, attraversa la giungla
Taglia il bruco dell'onda e da ogni metá nasce piena
Di luce una farfalla
Nel vulcano si imbastisce seguendo il filo della nota di un violino
Arriccia il tagrlio errante del vetro nelle ore sottili della
Trasparenza
Proprio dove i nostri sogni rovesciano
I manicaretti canterini
Della luce


Il fiume que la montagna infila verso l'articolato oriente
Di perché e di pericoli
Carica di medagli e di olocausti
Lungo le gardenie
Si è corrugato intorno al tuo pugno sentiero abbottonato
Di termini al sole prossimo ai campi
Oltre i ruscelli l'arco aumenta il sorriso dello spazio
Fino al rictus del ghiacciaio
E la scialuppa del tessitore punteggiato di rami nella
Sbronza del millepiedi
Attraversa gli ostacoli calvi  e gli occhi pelati delle
Frecce che vedevano
Tuttavia la saldatura al bordo del lago si disfa
Quando bocconi di nubi si stabiliscono sull'acqua i
Sentimenti decorati di canestri ricamati
Con penne stilografiche
O il tremito del fuoco che si muove nello spazio che
L'eco ha svuotato
Il vento fugge dalla porta girevole il vento esamina
Paesaggio e passeggeri
E la volontá di essere uno misura nel vuoto
Dello spruzzare la sua continua collocazio

I papaveri elettrici sotto il guscio della tartaruga
Proteggono grani di sabbia e di bellezza
Il crepuscolo innalza gli addi all'orizzonte
Bagnato dalla fredda chiaretá dello stetoscopio
Frustato dagli splendori navali del ritorno
In prigione
E la loro caduta di sito in sito prepara l'elettrificazione
Degli occhi
Adamo ed Eva si nascondono nei bei paraggi del frutto spaccato
Due giri fanno sbarcare sottilmente dal cielo
Gemelli d'altri tempi
Con il sapore dei metalli pesanti i cristalli delle
Stelle offrono il grmembo all'ingresso della
Grotta
Nella rocciosa pietrificazio in alto per Lei
Cadendo nel lasciar amdare dell'inverno che centellina
Le sue sabbia ....

Da: L'homme approximatif
Trad. genseki

Nina Cassian pentru Revista Tango

Nina Cassian

Allegria

Godo quando confondo i mei capelli con voi, foglie autunnali,
Quando corro nel folle bosco, ridendo, scivolando, graffiandomi
Le  guance contro le cortecce rugose,
Gioisco quando lancio il mio grido solitario e profondo
Nell'autunno che rosseggia,
Sotto le volte d'oro secco, tra i sussurri del vento,
Mi piace fuggire, cadere, ridere sulla terra decorata
Dal tuo sorriso giallo
Autunno!

*

Volavano

A partire da quel momento, comicia a fare tutto
Due volte.
Al posto del braccio 
Gli spunta  un'ala.


Lui aveva l'ala sinistra
Lei quella destra
Come un solo corpo tra due ali
Volavano
Volavano
Respiravano tra le due ali
Lei - con il polmone destro,
Lui - con quello sinistro
Attraverso un cielo saturo d'oro
Come una lunga navicella d'oro,
Come una chiave d'oro,
Volavano ...
Nell'oro ...
Volavano ...
Nell'oro ...

Trad. genseki

mercoledì, settembre 10, 2014

Nichita Stanescu


Nichita Stanescu

La proclamazione del nome

Dapprima ti stringi nelle spalle
Poi ti sollevi sulla punta dei piedi
Chiudi gli occhi
Ti tappi le orecchie
Dici a te stesso:
Ecco, adesso mi alzo in volo
Poi dici:
Ecco, sto volando, e questo effettivamente è il volo
Ti stringi nella spalle
Come gli affluenti di un grande fiume
Chiudi gli occchi, come le nuvole
Che accerchiano il campo
Ti sollevi sulla punta dei piedi
Come la piramide si eleva sulla sabbia
Rinunci completamente all'udito
All'udito di tutto un secolo
Poii dici a te stesso:
Ecco, adesso mi alzo in volo
È proprio questo il momento giusto,
Raccogli i tuoi fiumi
Proprio come raccogli le spalle
Ti sollevi sui belati caprini
Dici: "Nevermore"
E subito dopo: - "frufru" - "accipicchia" -
Sbatti le ali di un altro
Che resterá per sempre
Un altro.

Trad genseki

Leopoldo Maria Panero

EL LAMENTO DE JOSÉ DE ARIMATEA

No soporto la voz humana,
mujer, tapa los gritos del
mercado y que no vuelva
a nosotros la memoria del
hijo que nació de tu vientre.

No hay más corona de
espinas que los recuerdos
que se clavan en la carne
y hacen aullar como
aullaban
en el Gólgota los dos ladrones.
Mujer,
no te arrodilles más ante
tu hijo muerto.
                                Bésame en los labios
como nunca hiciste
y olvida el nombre
maldito de
Jesucristo.

      Así arderá tu cuerpo
y del Sabbath quedará
tan sólo una lágrima
y tu aullido.

Leopoldo María Panero · Dios De La Vida, Dios De Los Suicidas

martedì, settembre 09, 2014


Il Padre di Famiglia

C’è un solo avventuriero al mondo, e ciò si vede soprattutto nel mondo moder­no: è il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori avventu­rieri non sono nulla, non lo sono per niente al suo confronto. Non corrono assolutamente alcun perico­lo, al suo confronto. Tutto nel mondo moderno, e so­prattutto il disprezzo, è organizzato contro lo stolto, contro l’imprudente, contro il temerario,
Chi sarà tanto prode, o tanto temerario?
Contro lo sregolato, contro l’audace, contro l’uomo che ha tale audacia, avere moglie e bambini, contro l’uomo che osa fondare una famiglia. Tutto è contro di lui. Tutto è sapientemente organizzato contro di lui. Tutto si rivolta e congiura contro di lui. Gli uomini, i fatti; l’accadere, la società; tutto il congegno automatico delle leggi economiche. E infine il resto. Tutto è contro il capo famiglia, contro il padre di famiglia; e di conse­guenza contro la famiglia stessa, contro la vita di fami­glia. Solo lui è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo. Solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura. Perché gli altri, al maximum, vi sono coinvolti solo con la testa, che non è niente. Lui invece ci è coinvolto con tutte le sue membra. Gli altri, al maximum, si giocano solo la loro testa, il che non è niente. Lui invece mette in gioco tutte le membra. Gli altri soffrono solo per se stessi. Ipsi. Al primo grado. Lui solo soffre per altri. Alii patitur. Al secondo, al ven­tesimo grado. Fa soffrire altri, ne è responsabile. Lui solo ha degli ostaggi, la moglie, il bambino, e la malattia e la morte possono colpirlo in tutte le sue membra. Gli altri navigano a secco di vele. Lui solo, qualunque sia la forza del vento, è obbligato a navigare a piene vele. Tutti hanno vantaggio su di lui e lui non ha vantaggio su nes­suno. Si muove continuamente con i suoi ostaggi, in lungo e in largo tra quei terribili fortunali. Le cose che accadono, i guai, la malattia, la morte, tutto ciò che accade, tutti i guai hanno vantaggio su di lui, sempre; è sempre esposto a tutto, in pieno, di fronte, perché navi­ga su una larghezza immensa. Gli altri scantonano. So­no corsari. Sono a secco di vele.
Ma lui, che naviga, che è obbligato a governare la nave su questa rotta immen­samente larga, lui solo non può assolutamente passare senza che la fatalità si accorga di lui. E allora è lui che è coin­volto nel mondo, e lui solo. Tutti gli altri possono infi­schiarsene. Lui solo paga per tutti. Capo e padre di ostaggi, anche lui stesso è sempre ostaggio. Che impor­ta agli altri di guerre e rivoluzioni, guerre civili e guer­re straniere, l’avvenire di una società, ciò che accade alla città, la decadenza di tutto un popolo. Non rischia­no mai altro che la testa. Niente, meno di niente. Lui invece non solo è coinvolto dappertutto nella città pre­sente. Dalla famiglia, dalla sua razza, dalla sua discen­denza da quei bambini è coinvolto dappertutto nella citta futura, nello sviluppo ulteriore, in tutto il tempo­rale accadere della città. Si gioca la razza, si gioca il popolo, si gioca la società, mette come posta la società. Si gioca (tutta) la città, presente, passata, a venire. Tale è la sua posta in gioco. Gli altri scantonano sempre. Sono carene leggere, sotti­li come lame di coltello. Lui è la nave grossa, pesante bastimento da carico. È il luogo d’appuntamento di tutte le tempeste. Tutti i venti del cielo congiurano e si mettono d’accordo, si abbattono da tutti gli angoli del cielo, accorrono e si intersecano da tutti i punti del­l’orizzonte per assalirlo. Lui scopre alla sorte, alla for­tuna, alla sfortuna che vigila, alla fatalità una larghezza (di spalle) (su cui abbattersi), una superficie, un vo­lume incredibile. Non è coinvolto solo nella cit­tà presente.
È coinvolto dappertutto nell’avvenire del mondo. E anche in tutto il passato, nella memoria, in tutta la storia. È assalito dagli scrupoli, straziato dai rimorsi, a priori, (di sapere) in che città di domani, in quale ulteriore società, in quale dissoluzione di tutta una società, in quale miserabile città, in quale deca­denza, in quale decadenza di tutto un popolo lasceran­no, consegneranno, domani, stanno per lasciare, entro qualche anno, il giorno della morte, quei bambini di cui i padri  si sentono così pienamente, così assoluta­mente responsabili, di cui sono temporalmente i pieni autori. Quindi per loro nulla è indifferente. Niente di quello che succede, niente di storico è per loro indiffe­rente. Soffrono di tutto. Soffrono dappertutto. Solo loro hanno esaurito la sofferenza temporale, tutto il dolore di chi vive nel tempo. Chi non ha mai avuto un bam­bino malato non sa cosa sia la malattia. Chi non ha perso un bambino, chi non ha visto morto il suo bambino non sa cosa sia il dolore. E non sa cosa sia la morte. E, coinvolti da ogni parte nelle sof­ferenze, nelle miserie, in tutte le responsabilità, sono tutti  ingolfati nell’esistenza, sono pesanti e impacciati, sono goffi, impediti nelle manovre; sembrano deboli e vili; non solo lo sembrano; sono deboli, sono vili, sono codardi. Nella manovra. Capi responsabili e appesanti­ti, carichi e responsabili di una banda di prigionieri, prigionieri essi stessi, carichi, responsabili di una banda di ostaggi, ostaggi essi stessi, non fanno un passo che non sia vigliacco, sembrano, sono circospetti, sono prudenti, non fanno una mossa che non sia sconcertante. E tutti li disprez­zano e, quel che è peggio, hanno ragione a disprezzarli. Gli altri scantonano sempre. Non hanno bagagli. Vili, scantonano con districamenti politici. Coraggiosi scan­tonano con districamenti eroici, con districamenti d’au­dacia. Temporali, scantonano verso la carriera e le domi­nazioni temporali. Spirituali, scantonano, si defilano verso le osservanze della regola. Storici, scantonano verso le carriere della gloria. Riescono sempre, sia nella regola, sia nel secolo.
II padre di famiglia è solo, e condannato a non riuscire affatto. Non può mai scanto­nare. Deve sempre passare in tutta la sua larghezza. Ed è molto semplice, non ci passa. Non ci passa mai. Non passa da nessuna parte. Non riesce né nella regola né nel secolo. Non riesce nella regola, la regola si oppone. Prima di cominciare. Non riesce nel secolo. Il secolo si oppone prima, durante, dopo. Non riesce nella poli­tica e non riesce nell’audacia… È troppo grosso. Ha tutta la famiglia attorno al corpo. È come la donnola di La Fontaine, ma dopo che è ingrassata. Ha socialmente un grasso, un tessuto adiposo sociale, che lo rende inadatto alla corsa. Ora, temporalmente tutto non è altro che corsa, non è altro che concorso e con­correnza. Gli altri corrono, intanto, gli altri arrivano, quelli magri, fini, sottili, socialmente scarichi, sgombri di bagagli. Così tutti lo disprezzano; in sua presenza, tra di loro, lo schermi­scono; sordamente, involontariamente congiurano con­tro di lui. Più di tutti gli altri, lo disprezzano i preti. Perché hanno questo (di bello), quando si accaniscono su qualcuno, ci si riaccaniscono di preferenza. Prefe­renzialmente. E quello che chiamano la carità.
Bisogna sottolineare attentamente che la vita di famiglia è la vita più impegnata nel secolo, la vita meno conforme, la meno simpatica, la meno affine alla regola. Vuol dire lasciarsi prendere, lasciarsi ab­bindolare dalle apparenze più grossolane, commettere l’errore più smaccato, e anche naturalmente il più co­mune, l’errore più frequente, quello di dire che la vita pubblica è vivace, e la vita di famiglia è silen­ziosa, e la regola, la vita regolare è anche lei silenziosa; e quindi la vita pubblica è non ritirata, e la vita di fa­miglia è ritirata, e la regola, la vita regolare è anche lei ritirata; e concluderne, credere, che sia la vita di famiglia che è vicina alla vita di regola, apparentata alla vita di regola, e che sia la vita pubblica che se ne è allontanata. Questo è lasciarsi prendere dalle più grossolane apparenze. È diame­tralmente il contrario.
La vita di famiglia è agli antipodi della vita della regola. Nessun uomo al mondo è coin­volto nel mondo, nella storia e nel destino del mon­do quanto l’uomo di famiglia, tanto quanto il padre di famiglia, così pienamente, così carnalmente. L’uomo pubblico invece, il vir politicus, non è affatto coinvolto nel mondo, non è affatto coinvolto nella storia e nel destino del mondo. Cosa importa all’uomo politico, al demagogo, al tribuno, all’oratore, al legislatore, all’eloquente, anche all’uomo politico serio, all’uomo pubblico, all’uomo di Stato, all’uomo di governo, (e a maggior ragione) al capo di partito (come tali), cosa importa al militare e al giudice, al generale e al presidente di corte e al presidente di camera, (come tali, come tali), che importa come tali al funzionario e al magistrato, al generale, al deputato, al senatore, al giornalista, al pubblici­sta, all’esattore, e all’usciere del ministero, cosa importa al signor sindaco; cosa importa come tale a ogni uomo pubbli­co delle sorti della città presente, le sorti ulteriori, la destinazione e il destino; cosa gli importa di cosa sarà di questo popolo, cosa faremo di questo popolo; vi sono coinvolti solo con la testa e qualcuno con la gloria; al massimo con l’onore, quando ne hanno: niente, meno di niente. Non ci rischiano che la testa, al più, al maximum; al meno, di solito l’avanzamento, la carriera, al più del meno l’apice; miserie. Gloria tem­porale, onore temporale; niente, meno di niente. Avan­zamento temporale, carriera temporale, apice temporale, testa temporale; miserie. E le gioie e le miserie del dominio. E le gioie e le miserie del denaro. Ecco tutto quello che si giocano. Come tali. Se intanto, se insieme sono padri di famiglia, cosa estremamente rara, l’ope­razione è tutta diversa, il comportamento e l’azione pubblica è tutta diversa, tutta diversa la situazione anche per così dire topografica, geografica, demogra­fica. Cosa importa loro, come tali, una rivoluzione, una guerra civile o straniera, un sabotaggio di tutto un po­polo. Una diminuzione, una decrescita; una perdita, forse irrimediabile; una decadenza, forse irreparabile, irrevocabile. Tutt’al più si giocano, nel temporale, una gloria del loro nome, la gloria, ulteriore, l’onore o il discredito sul loro nome. Di solito questo tipo di con­siderazione li lascia abbastanza freddi. Sono abba­stanza poco sensibili a considerazioni di questo tipo. Di solito.
Solo il padre di famiglia mette in gioco, rischia, impegna infinitamente di più nella destinazione del mondo, nel secolo, nella destinazione di tutto un popolo; nel futuro di una razza. Nel destino di tutto questo popolo, nell’avvenire di questa razza impegna tutto, mette tutto, la sua carne e di più; si gioca la razza, si gioca davvero il popolo, si gioca la sua discendenza. II solo padre di famiglia, il padre di famiglia da solo. Ed è un pover’uomo. Tormentato da scrupoli, assalito, invaso, tormentato da rimorsi, per crimini che non ha affatto commesso, che non commetterà mai, che altri mille, che tutti gli altri commetteranno, sente oscura­mente, molto profondamente, che è lui, in effetti, che è lui davvero il responsabile. Perché è padre di famiglia. È uno dei casi più significativi che ci siano di responsa­bilità senza colpa, di colpevolezza senza colpa. Eppure di responsabilità reale, di colpevolezza reale; comune; misteriosa; di fatalità, anche; infinitamente più profonda; segreta; in comunità, in comunione; con la crea­zione con (tutto) il mondo; infinitamente più grave delle nostre proprie responsabilità, personali, particola­ri, limitate, note, individuali e collettive; infinitamente più profonda; infinitamente più vicina alla creazione stessa; e quasi (oscuramente ce ne accorgiamo), quasi infinitamente più giusta, attinente alla creazio­ne stessa, al mistero, al segreto della creazione; una col­pevolezza, allora, infinitamente più seria delle nostre colpevolezze propriamente criminali.
Per il padre di famiglia (questo è lo stato, costante, uno stato situazionale; è la sua stessa patente, la sua condizione ab urbe condita, una volta fondata la famiglia. È la sua stessa definizione, il pane di tutti i (suoi) giorni, il cruccio delle sue notti. È il midol­lo, stesso, della sua vita, il segreto della sua esistenza, la sua regola interiore, la sua regola esteriore, la regola del suo secolo, la sua regola di secolo. Ed è un pover’uomo; innocente criminale; innocente responsabile; innocente colpevole; innocente assalito da scrupoli; innocente tormentato dai rimorsi; legato, incatenato da ogni parte, mani, piedi, da tutti i lacci, da tutte le catene, è lui, amico mio, è lui, e lui solo, che ha le relazioni peri­colose; confuso, prigioniero, ostaggio, manette alle ma­ni, ganasce ai piedi, capo, responsabile dei prigionieri, capo, responsabile degli ostaggi, fa pena, è esposto a tutto, ai quodlibet, alle ingiurie, al peggio di tutto: a una sorta di riprovazione, di malevolenza universale, di presa in giro, di tacita ingiuria, (peggiore, infinitamen­te più grave di quella formale), perché se è così tacita, se può essere così sottintesa, come se andasse da sé, per così dire; non vale la pena di parlarne, perché tutti lo sanno bene; è una cosa intesa, senza che ci si pensi, una cosa alla quale tutti consentono, a cui tutti danno la mano. È infinitamente peggio di una cosa infinitamen­te concertata, che una cosa universalmente concertata. È una cosa universalmente non concertata. Così è infi­nitamente meno demolibile. Una cosa che va da sé. Che si sappia. Allora tutti ci calpestano sopra.
Allora, rin­galluzzito, anche il prete ci calpesta sopra. Clericus. Il sacerdote se ne accorge bene, un istinto di casta lo av­verte, uno degli avvertimenti, uno degli istinti più si­curi, uno degli istinti più infallibili, un segreto orgo­glio infallibile lo avverte che è lui il nemico, il più lontano, il più straniero, che l’uomo di famiglia, che il padre di famiglia è l’uomo più lontano dalla regola e dalla clericatura, l’uomo del mondo più coinvolto nel mondo, un istinto segreto lo avverte che lui è infinita­mente più vicino al pubblico peccatore; e reciproca­mente; che il tribuno, l’oratore, l’eloquente, l’uomo della tribuna è infinitamente più vicino all’uomo del pulpito, infinitamente più imparentato all’uomo del pulpito, che l’uomo del meeting, della pubblica riunio­ne è infinitamente più vicino all’uomo della predica e all’uomo del sermone; più pronto, per l’uno e per l’al­tro, sia per diventarlo, sia per subirne l’effetto, sia insie­me l’uno e l’altro, che sono dello stesso genere, che si passa comodamente e quasi continuamente dall’uno all’altro, che c’è tra loro un’intesa, interna, un accordo segreto, una somiglianza, almeno di modo, e in più che appartengono allo stesso mondo; e per la regola che il celibe, l’uomo libero, il non prigioniero, il non ostag­gio, lo slegato, il non legato, l’inlegato, il mai legato, lo scantonatore, il pié leggero, il corridore, il bombarolo, il festaiolo, l’uomo all’erta è infinitamente più vicino; e più pronto, più disponibile; che lui piace di più; che con lui ci si capirà meglio, ci si intenderà sempre. E poi è lui che è un personaggio gradevole. Il padre di fami­glia è un povero essere. Tirar su solo tre bambini, pensa un po’. Che grottesco, che ridicolo. Tutte le forze della società sono congiurate, si congiurano contro una cosa del genere. Ora, il sacerdote è una forza della società, fa parte delle forze della società. Allora tutti calpestano il padre di famiglia. Allora il sacerdote, ardi­to, lo calpesta. Non ha che indulgenza, e che indulgenze, per tutti gli altri. Si crede di solito che il celibe, l’uomo senza famiglia è un uomo di fortuna(e), un avven­turiero, che vive di avventure.
Invece è l’uomo di fami­glia che è un avventuriero, che vive non solo alcune avventure, ma una sola, una grande, un’immensa, una totale avventura; l’avventura più terribile, la più costan­temente tragica; la cui vita stessa è un’avventura, il tes­suto stesso della vita, la trama e l’ordito, il pane quoti­diano. Ecco l’avventuriero, il vero, il reale avventuriero.

Charles Péguy
da Dialogo della storia e dell'anima carnale
Da Tempi.it

Frammento di Bools Corracha

Finimmo per vivere qui,
Molto lontano dal ricordo degli eucalipti
Dove il bosco si diradava fino a svanire
In una lontananza di macchie verdi
E di pietrame. Fiori irriconoscibli,
Come antiche minacce, bruciavano
In silenzio, Il silenzio dell'acqua
Generava altri fiori. Fiori alti
Pallidi e disfatti. Non ci restava altra scelta
La fatica della guerra, il saldo demografico negativo,
Ci obbligvano a limitare il nomadismo
A farci, almeno temporaneamente stanziali
A dimenticare canne e palmizi
Il sollevarsi frenetico e teso
Di stormi alati, limpidi fischi,
Frulli, timidi schiocchi.
Finimmo per vivere qui:
All'inizio fu molto duro, le crisi
Di vomito bianco stremavano le donne
I nostri sogni erano piantagioni di forbici,,
Batterie de chiodi, l'ombra del grande crocifisso
Ci preservava a stento dalla febbre.
Spesso ci dimenticavamo di avere denti,
Le dita delle mani si mettevano a cresecere
Asimettricamente e a produrre pseudofoglie,
Gli aruspici erano sfiniti da tanto amputare,
Poi furono le nostre madri a venirci a visitare
Le antiche, perdute nel grande viaggio
Sgorgavano dalla nebbia gialla
Dapprima come mucchietti di stracci grigi, lisi
Con cui il vento giocava, faceva mulinelli
Scoteva conferendogli le movenze di spaventapasseri epilettici
Poi si definivano sari e toghe dai bordi porporini ...

Bools Corracha
A cura di genseki

La poesia si disfó di me

La poesia si disfó di me
Prima che il tempo scoperchiasse il torrente
Rimasero correnti di lame vive,
Brividi di metallo,
Il fumo dell'incenso si solidificava
Ma non avrebbe potuto ferirmi
Come un feto mi diluivo
Nella placenta delle parole
Fino all'inganno,
Fino a neve e neve e neve e neve di menzogne;
Espulso dalla poesia
Dalle lacrime dei segni
Nel deserto di pece e vento.

genseki

Il Verbo

In principio era la Parola (Verbum), questo non si puó capire senza le parole, non si intende con parole umane. La parola è qualche cosa che non ha forma e, tuttavia, è la forma di tutte le cose che hanno una forma...

Agostino


*

È strano che nessuna delle tre cose: lo Spirito, il Sangue e l'Acqua, che testimoniano la Veritá sulla terra sia Parola (Verbo), e, tuttavia, tutte diano testimonianza della Parola che è Cristo: lo Spirito come Dio ispiratore, l'Acqua come il risultato efficiente della Parola, la Chiesa, e il Sangue, finalmente, nel momento in cui nel silenzio e nel grido inintellegibile si realizza ció che nella Parola è decisivo.

Hans Urs Von Balthasar

*

Trad genseki

Anton Reiser

L'aria era fredda e umida, cadeva un nevischio fradicio che inzuppava i vestiti, di colpo lo invase la sensazione di non poter sfuggire a se stesso. Bastó che questa idea si manifestasse e fu come se una montagnag li fosse franata addosso. Si sforzava di trovare una via di uscita verso l'alto, ma era come se il peso dell'esistenza lo schiacciasse. Doversi alzare al mattino e andare a letto alla sera in compagnia di se stesso, giorno dopo giorno!  Doversi trascinare dietro quel suo io odioso passo dopo passo!
La sua coscienza di sé con la sensazione di essere rifiutato e disprezzato, gli risultava tanto sgradevole e opprimente come il suo corpo fradicio e infreddolito.

Moritz

Anton Reiser
Trad. genseki

lunedì, settembre 08, 2014

Léo Ferré - Génération Ferré (Documentaire Arte - 2013)

L'olivo di Tiro





Due grandi rocce chiamate Ambrosie galleggiano sulle acque, su di esse:

Fiorisce
Il germoglio di un un olivo altrettanto antico, da nessuno piantato e ad esse unito,
Ombelico della roccia che attraversa le acque, Tra i suoi rami
Riposa un'aquila
E una coppa finemente cesellata. L'albero arde
Sprigionando scintille meravigliose di un fuoco spontaneo
E la fiamma circonda i germogli senza consumarli.
Un serpente è il guardiano dell'albero frondoso
Sí che ne stupiscono lo sguardo e l'udito.
Il serpente, infatti, striscia silenzioso verso l'aquila che si libra in alto,
Ma non la avvolge sinuoso nelle spire minacciose,
Non inietta veleno mortale coi denti, e neppure
L'aquila ghermisce il rettile avvolto in molli spire,
Levandosi a volo e fendendo l'aria,
Né potrebbe lacerarlo con il becco adunco.
Il fuoco non si propaga ai rami, al fusto,
Non consuma il germoglio che permane intatto,
Anzi la fiamma amichevole genera vapore tra le fronde,
Senza consumare le spire scagliose del serpente
Avvolte al fusto, la vampa del fuoco non si trasmette
Alle ali intrecciate ai rami del rapace,
Né la coppa immobile, sospesa in alto precipita per il soffio dei venti

Nonno di Panopoli
Dionisiache

Canto 40 – 468, 491

Trad. genseki