giovedì, novembre 18, 2010

Memorie di Dreiser Cazzaniga

Dreiser Cazzaniga e il macinino

Fin dalla piú tenera infanzia Dreiser Cazzaniga ebbe una percezione chiara di quelo che fosse l'immortalitá. Lui l'immortalitá la percepiva nelle cose, negli oggetti piú semplici che andava scoprendo in casa della Nonna Violante detta la Dama Azul. La casa della Dama Azul aveva due colori bellissimi, l'arancione della cucina e l'azzurro della stanzza da letto. Tutti i mobili dela cucina erano dipinti di un arancione solare e le gambe delle sedie e dei tavoli erano arancioni, il sole che entrava come a fiotti dalla finestra incorniciata di gerani esaltava il canto luminoso del colore, lo faceva esplodere negli occhi. La dama Azul, come era allora costume delle vecchie signore del Barrio aveva i capelli azzurri, e l'azzurro era l'altro colore della case, il colore che dominava nella stanza da letto freschissima in cui Dreiser Cazzaniga dormiva, leggeva e sognava. Dal soffitto pendeva una curiosa lampada che emanava una pallidissima luce azzurra che a Dreiser Cazzaniga faceva pensare alla morte. Non è che lui sapesse che cosa fosse la morte e che cosa avesse a che fare con quella fievole luce azzurra in cui ad osservala bene parevano predominare i toni verdi, un sottile verde cobalto, tuttavia le due immagini, la lucina e la morte era incatenate una all'altra. Molti anni dopo, la lucina azzurra avrebbe iluminato due grossi piedi pallidi e sporchi che spuntavano da una coperta troppo corta su di un letto troppo corto. Cosí sorgeva la morte agli occhi di Dreiser Cazzaniga, Gli oggetti della cucina immersi nela loro atmosfera di agrumi, invece, erano assolutamente immortali: erano immortali i piselli che egli aiutava a sgusciare traendol dal sacchetto di spessa carta marroncina, erano immortali gli stofinacci bianchi con l'impronta di qualche bruciatura, era immortale il macinino del caffe, era tutto di legno e quando si apriva il cassettino emanava un odore profondo che stordiva di piacere, era immortale il mortaio per fare il pesto di marmo grigio con le sue venuzze azzurre come i capelli della nonna Dama, era la grande radio di legno con le sue due pesanti porte di legno e tutte le colonnine che separavano gli altoparlanti, il vaso del basilico alla finestra la grattugia del parmigiano e quella ancora piú temibile del pecorino sardo che la nonna Dama Azul, la Violante benedetta ripuliva con infinita pazienza, con la lama di un colello per estrarne anche la piú piccola briciola di formaggio. Tutta questa meraviglia avvolgeva gli oggetti della cucina che sorgevano dal sempre, dall'evidenza, davanti a Dreiser Cazzaniga che li percepiva come meravigliosi proprio perché nel momente in ciu gli apparivano gli apparivano come rivelandosi sullo sfondo di una preeseistenza, un sempre che era l'evidenza stessa della loro permenenza. Dreiser Cazzaniga, bambino rabbrividiva di gratitudine per l'esistenza del mondo e per la sua indubitabile eternitá.

L'eccentrico

L'eccentrico

Questa volta non avevo vie d'uscita
La cosa migliore era fare
Come tutti gli altri
La gente del villaggio non avrebbe capito
Nemmeno gli artisti della capitale,
D'altra parte, nessuno avrebbe capito
Lo sapevo bene.
Sarebbe stato beffardo, elegante,
Ma anche un tenero dono di speranza
Se non fossi stato sicuro che sarebbe passato inavvertito
Non restava piú nulla da esaminare,
Il tempo per la riflessione era trascorso.
Avevo stabilito il tempo e il luogo.
La veritá è che avevo già da qualche tempo
Deciso di cominciare ad invecchiare,
Per non dare troppo nell'occhio.
Qualche pelo bianco nella barba,
Passeggiare con il bastone, e tanti altri piccoli dettagli
Per rendere il tutto piú credibile.
Bastava già.
La decisione l'avevo presa. Sarei morto come tutti gli altri
Non avevo ancora deciso di che
Ma sarei morto, che diamine.
Proprio come mio nonne, il tempo dell'immortalitá
Non era ancora maturo, la societá non era pronta
Tutti erano tanto abiuati a morire
Tutti erano troppo abituati a morire,
Ci sarebbero volute generazioni per cambiare questa abitudine,
Questo costume tanto radicato
Se non fossi morto avrebbero
Finito per ammazzarmi
Sarei morto allora, da solo. Dovevo cercarmi un assasino
Su Facebucco o goggole.
O un'assasina che mi istillase goccia a goccia
Un veleno tiepido
Un estratto di anime marcite e peli madidi
Sarebbe stato un po' come fare l'amore.
Dovevo ricordarmi di controllare i trigliceridi
Chi rinuncerebbe a morire sano,
Senza cirrosi o colesterolo?
Prima di morire dovevo smettere di fumare
Fare lunghe passeggiate e rinunciare alla pancetta fritta
Sarei morto senza cancro perbacco
Ma sarei morto, Lo avevo deciso.
Non avevo altra scelta.

*

genseki

Memorie di Dreiser Cazzaniga

La Gaviota di Solentiname

Gli amici di Dreiser Cazzaniga vivenano una doppia vita. Proprio tutti. Una era, appunto la loro vita. L'altra, meschina davvero, era quella che menavano nella scatola cranica di Dreiser Cazzaniga, sottomessi ai suoi bizzarri e cangianti paesaggi interiori. Condannati a lunghe e ripetitive conversazioni. A dire il vero questo destino Dreiser Cazzaniga non lo riservava solo agli amici, ma a parenti, amanti, nemici. Tutti condannati ad avere un doppio nella sua testa e a non poter saperlo.
Il piú condannato di tutti, comunque, era Dreiser Cazzaniga stesso. Egli non poteva, invero, godere, che so io, di una gita per le sierre autunnali che incoronavano dei loro fiammeggianti boschi e dei loro pascoli diamantini il barrio povero e infreddolito, senza dover convocare proprio a quella escursione uno dei suoi amici diletti. Si, certo uno dei tanti tenerissimi compagni che dovevano tradirlo, tutti o per l'abbraccio della Señora de las Aguas Verdes, o per un'avventura in compagnia di Jesús il Verde, una di quelle avventure che non hanno mai ritorno, o semplicemente pugnalarlo alle spalle con un pugnale intinto nel veleno, cosí, solo per vederlo contorcersi dal dolore.
Cosí Dreiser Cazzaniga peccatore cieco e meschinello abbandonato dalla Grazia era condannato a vivere qualsiasi esperienza estetica, amorosa, politica, o sportiva, soltando condividendola con questi doppi ignari. Erano i suoi prigionieri. Erano velieri in bottiglia. La sua mente era la bottiglia. Imprigionandoli, peró Dreiser Cazzaniga finiva per imprigionare soprattutto se stesso. Come vivere con una Dama Bunducchia nella testa che vi va sbavando tutto il parquet dell'anima con la sua bava di alcolista mentre voi le sputate addosso tutto il vostro furioso, inutile disprezo,? Come contemplare un dipinto di Paolo Veronese discutendone tutti i particolari con lo zio Cardinale, quasi catatonico e dallo sguardo a tratti misteriosamente indulgente, mentre gli si dimostrava con logica impeccabile quanto spregevole e straccione fosse il Profeta di Nazareth, per vederlo ridere soddisfatto, guardandosi le unghie pallide sulla veste rossissima macchiata di ragú? Era piú terribile essere la bottiglia che il veliero o il piccione che vi era restato imprigionato. Dreiser Cazzaniga viveva solo se poteva porre tra se e la vita la conversazione immaginale con un doppio. Uno strazio. Penitenza e preghiera avrebbero forse potuto salvarlo Ma questo non avvenne. La bottiglia si ruppe da sola. O meglio fu il doppio di una certa dolcissima bianca gabianella che semplicemente ruppe la bottiglia col piccolo becco crudele aduso a sventrare i piccioni e Dreiser Cazzaniga la vide volare via nel cielo immenso che era anche esso nella sua mente, intendendo cosí che la sua mente non era una bottiglia ma un universo. Rotta la bottiglia tutti furono liberi, felloni e leali, vivi e morti, tutti i doppi ritrovarono la loro libertá e Dreiser Cazzaniga ritrovó il silenzio, la Rosa Blanca, il perdono e respiró finalmente la bellezza del mondo e dell'essere mortali. Dolce Gabbianella. Forse ella fu, o meglio il suo doppio fu, un inconsapevole strumento della Vergine Pastora. Dreiser Cazzaniga amó la di lei libera rotta, la carena, la vena e il palpito per tutta la sua pigra vecchiezza.

Alejandra Pizarnik - Extracción de la piedra de la locura

Alejandra Pizarnik


Alejandra Pizarnik

Ceneri

Abbiamo detto parole
Parole adatte a risvegliare i morti
Parole per accendere un fuoco
Parole in cui poter sedersi
E sorridere.

Abbiamo creato il sermone
Dell'uccello e del mare,
Il sermone dell'acqua,
Il sermone dell'amore.

Ci siamo messi in ginocchio
E adorato lunghe frasi
Come sospiro di stella,
Come onde,
Come ali.

Abbiamo inventato nuovi nomi
Per il vino e per la risata,
Per gli sguardi e i loro terribili
Sentieri.

Ora sono sola
Come l'avara che delira
Su una montagna d'oro -
Scagliando parole verso il cielo,
Sono sola
Senza poter dire a chi amo
Quelle parole per cui vivo.

Da “Aventuras perdidas”

Trad, genseki

Slavoj Zizek

Il Sogno e la rivoluzione

In una rivoluzione davvero radicale il popolo non solo realizza il proprio sogno di emancipazione; quanto piuttosto reinventa completamente il suo modo di sognare.

Zizek

Heiner Müller


Messia

Un annuncio soleva risuonare. Il treno arriverá alle 18h15' e partirá alle 18h20' – il treno puntulamente non arrivava alle 18h15'. Si udiva, invece, un altro annuncio: il treno arriverá alle 20h10'. Questa era la situazione. Basicamente, uno stato di antipazione messianica. Era l'annncio costante dell'imminente arrivo del Messiah, e si sapeva perfettamente che il Messiah non sarebbe mai arrivato. E tutavia è così bello sentire anunciare la sua venuta ancora e poi di nuovo.

*
Heiner Müller
Trad. genseki

lunedì, novembre 08, 2010

Nana Mouskouri - Pauvre Rutebeuf

Povero Rutebeuf

Gli amici
Da Rutebeuf
trad genseki

De' miei amici cos'è avvenuto,
Quale destino avranno avuto?
Accanto a me s'erano stretti
Per tanto tempo, i miei diletti.
Guardali ora sono dispersi
Qua e la sbattuti da venti avversi
Erano amici che porta il vento
E c'era vento alla mia porta
Una ventata li portó via!
L'amore è morto.

Nella stagion ch'ogni albero si spoglia
Quando sui rami non resta foglia
Ma vanno a terra
Nel freddo inverno
La povertà ratto m'atterra
Da tutti i lati per me v'è guerra
L'amore è morto

Non voglio dire in qual maniera
Sono caduto in tale inferno
Con tanta onta
Per quale onda son naufragato.

De' miei amici cos'è avvenuto,
Quale destino avranno avuto?
Accanto a me s'erano stretti
Per tanto tempo, i miei diletti.
Guardali ora sono dispersi,
Qua e là sbattuti da venti avversi;
Erano amici che porta il vento
E c'era vento alla mia porta:
Una ventata li portó via!
L'amore è morto.

Male non v`è che venga solo
A me toccava si amaro duolo
E peggior torto!

Povero senno e povera memoria
Dio mi concesse, il re di gloria,
Povera borsa!
E sul mio culo quando c'è vento
La tramontana ratta s'avventa
Vento a me viene, vento non svento
L'amore è morto

Erano amici che porta il vento
E c'era vento alla mia porta:
Una ventata li portó via!

Pauvre Rutebeuf Léo Ferré

Virgilio

Dall'Egloga I

Perché non resti a dormire da me stasera?
Ho un letto di frasche che ho appena tagliato
Nel bosco
E per colazione ci sonole castagne,
Quelle belle tenere e le mele le la toma di capra.
E poi, lo vedi? I camini fumano giá in paese
E l'ombra dei molti piú alti, guarda come cresce
Nella valle!

trad genseki

José Hierro

Beethoven davanti alla televisione

Tedesco, di Bonn, identificava
Tutti i suoni della natura:
Quello del mae, quello del fiume, quello del vento e la pioggia,
Il canto dell'usignolo, quello dell'upupa e del cuculo.
Un giorno un uccello cantó de egli non udiva il suo canto:
Fu il primo segnle di allarme.
Poi, implacabile, a poco a poco, la sorditá crebbe
Finché la notte sonora lo avvolse.
Da allora compose con il suono che solo immaginava.
Non poté mai ascoltare la sua Messa in Re,
I suoi ultime quartetti, la sua ultima sinfonia.

Ludovico Van Beethoven morí nel milleotocentoventisette
(è quello che pensano i disinformati),
Io, tuttavia lo vidi al Lincoln Center.
Fu negli anni novanta. Sedevamo in poltrone contigue.
Scrissi sul mio programma:
“Concerto eccelente”. Assentí:
“Non si prenda il disturbo di scrivere, ci sento perfettamente”.

Poi, nell'intervallo, parlammo della sua musica,
(Forse si rese conto
Che lo avevo appena riconosciuto.)
Avvisarono che era il momento di tornare in sala
Per ascoltare la Nona.
Van Beethoven si voltó e fece per andarsene.
“Perché proprio ora?” Gli chiesi.
“Torni in albergo. Ascolteró la Nona
In televisione, c'è la diretta”, rispose.
“Permette che l'accompagni?”, dissi.
Si strinse nelle spalle.

Tutto finiva cosí
Seduti davanti al televisore.
Ascoltammo il galoppo della battuta
Sul leggío: Silenzio. Ruggí l'orchestra.
Allora Ludwig Van Beethoven
Si alzó e tolse l'audio.
Il silenzio era allora assoluto.

A volte canticchiava, alzava la mano
Per indicare l'entrata dei timpani
Nello scherzo. Pianse con l'adagio,
Si riprese entusiasta quando il coro cantava
Le parole di Schiller.

Io non udró mai, nessuno potrá
Udire ció ch'egli udiva.
Il concerto terminó. Egli si alzó di nuovo,
Si avvicinó al televisore.
Le camere inquadravano adesso
Il pubblico entusiasta.
Van Beethoven udiva, nel millenovecentonovanta,
Quegli applausi che non poteva udire a Vienna,
Nel milleottocentoventiquattro.

José Hierro
Trad genseki

giovedì, novembre 04, 2010

Pasolini, Jara, Hernandez

Adesso che sappiamo con certezza che il loro sacrificio è stato inutile, che la brutalitá delle loro morti è abisso di abiezione, posto che i loro popoli hanno dimostrato di non essere degni di loro, di non voler percorrere il cammino della dignitá da loro indicato, anzi di volerlo piuttosto ostruire con la spazzatura dei loro consumi infantili, adesso ancora piú grande è l'affetto che vogliamo offrire alle loro ombre senza pace, quando i nostri occhi ancora una volta vedono seccarssi anche le lacrime della speranza e tutto è corruzione, intorno a noi, corruzione dei ricchi come dei poveri, prepotenza dei forti e ahimé anche dei deboli e persino l'odio è inaridito dall'aviditá, dall'usura che siede trionfante alle fonti della vita.

genseki

In memoria di Pier Paolo Pasolini, Victor Jara e Miguel Hernandez

Axion Esti Anigo To Stoma Mou Odysseas Elytis Mikis Theodorakis Grigori...

Odysseas Elytis

Odysseas Elytis

Traduzioni di genseki

“Orientamenti”

Marina delle rocce

Hai sapore di tempesta sulle labbra – Ma dove te ne andavi
Per intere giornate nella dura fanasia della pietra e del mare?
Il vento che porta le aquile spoglió le colline
Spoglió il tuo desiderio fino alle ossa
Le figlie dei tuoi occhi raccolsero la testimonianza della Chimera
Mentre la linea del ricordo rabbrividiva di schiuma!
Dove sta la costa ben nota del piccolo settembre?
Sulla terra rossa con cui giocavi con il capo basso
La macchia d’arbusti delle altre ragazze
Gli angoli dove le tue amiche abandonavano fasci di rosmarino.

Ma dov’era che te ne andavi
Tutta la notte con il duro incantesimo della pietra e del mare?
Ti diceva di misurare nell’acqua nuda i suoi giorni luminosi
Che supina godessi dell’alba delle cose
Che ancora andssi errando per i campi dorati
Col trifoglio della luna in petto eroina del giambo

Hai sulle labbra il sapor del temporale
E un vestito rosso come il sangue
Nell’oro piú profondo dell’estate
Nell’aroma dei giacinti – ma dov’era che te ne andavi?

Quando scendevi verso le spiagge, verso le baie, i ciottoli
V’era fresca erba marina, salubre
Ma sul fondo un’emozione umana sanguinava
Sorpesa spalancavi allora le braccia pronunciando il suo nome
Risalendo leggera fino alla trasparenza delle profonditá
Dove luceva la tua stella marina.

Ascolta, la parola è la sapienza degli ultimi
Il tempo un frenetico scultore di uomini
E sopra il sole ci mette una bestia di speranza,
E tu, ancora piú vicina a lui stringi un amore
Che sa di temporale sulle labbra

Azzurro fino al midollo non potrai contare su un’altra estate
Perché i fiumi invertano il corso
E ti portino indietro da tua madre,
Perché tu possa ribaciare altri ciliegi
O cavalcare il Mistral

Ferma sulla roccia senza oggi, senza domani
Tra i pericoli delle rocce con chioma di temporale
Prenderai congedo dal tuo enigma.

*** ^


Etá del glauco ricordo

Lontano viti e olivi fino al mare
Ancora piú lontano rosse barche di pescatori fino al ricordo
Elitre dorate di Agosto durante la siesta
Con alghe o conchiglie. E quella imbarcazione
Appena varata, verde che nella calma del seno delle acque
Ancora puó leggersi Dio provvede

Passarono gli anni come foglie o ciottoli
Ricordo i ragazzini, i marinai che partivano
Tinte le vele come i loro cuori
Cantavano ai punti cardinali
Portavano i venti del nord tatuati sul petto.

Che cosa cercavo quando giungesti tinta d’aurora
Negli occhi l’etá del mare
Il vigore del sole nel corpo – che cercava
Nel fondo delle grotte marine dei sogni spaziosi
Dove il vento faceva schiuma dei suoi sentimenti
Glauco e sconosciuto, incidendo sul mio petto il suo emblema marino

Con sabbia tra le dita chiudevo le dita
Con la sabbia negli occhi stringevo le dita
Era il dolore –
Era aprile ricordo quando sentii per la prima volta il tuo peso umano
Il tuo corpo umano fango e peccato
Come nel nostro primo giorno sulla terra
Facevan festa le amarillidi – Ricordo tuttavia che provasti dolore
Fu un profondo morso sulle labbra
Un graffio sulla pelle proprio dove resta inciso per sempre il tempo
Allora ti lasciai

E un alito rumoroso sollevó le candide case
I bianchi sentimenti appena lavati lassú
Nel cielo illuminato da un sorriso.

Lo avró allora vicino a me un otre d’acqua immortale
Un abbozzo della libertá dl vento che si agita
E quelle mani tue ove l’Amore si tormenterá
E quella tua conchiglia in cui risuonará l’Egeo.

*** ^


Trad. genseki

Il Fabbro

Era solo il vento che si udiva
Fischiare fuori dalle tapparelle verde oliva
Quel vento che adesso modellava le lenzuola
Le ginocchia si infiltrava tra braccia
E ombelico
Increspava il vino rosso nel bicchiere
Del Fabbro all'osteria del borgo
Conferendogli quel lieve gusto di prezzemolo
Perché era una gabbia non un prato
Una gabbia piena di scintille
Una voliera piena di schegge luminose
In cui si carbonizzava il suo dolore
Nelle infinite cerimonie dell'accoppiamento
Perché era solo in fondo, dentro di lei
Era sempre solo semre piú solo
In gabbia e le tapparelle che sbattevano
Alcuni isolati piú in la come nacchere
Gigantesche aprendosi e chiudendosi
Sulle gengive grige dei davanzali
Come valve di vongole sudate
Non potevano servire da messaggeri
Tra la sua fiamma e quelle ginocchia
Tra la pupilla del suo stupore
E l'affronto consumato dal vento al loro tepore
Quanto vento ha soffiato o Fabbro!
Da piazza Baracca al Kon tiki
Eppure quel ventre. Il suo:
Come ogni altro ventre è rimasto sterile
Vuoto come una bottiglia verde
Sul tavolo zoppo di un'osteria
Mentre il mattino trascina il suo guanciale
Tra i frassini e le farnie in cerca del vento
Che solo puó spegnere l'arsura
Di tutta questa inconsapevoe sterilitá.

*

genseki