giovedì, aprile 02, 2009

C'è un paradosso nel marxismo

Da "considerazioni su alcuni filosofi" di Alain

Marx

C'è un paradosso nel marxismo, cioè che questa dottrina che si presenta come un materialismo è in realtá l'idealismo piú ardito. Finché non si sa superare la contradizione, ovvero farla passare all'antitesi che è correlazione non si puó andare avanti. Gli innumervoli lettori di Lucrezio sanno che cosa vuol dire salvare lo spirito negandolo e io ho spesso notato il contrasto tra i materialisti che sono spiriti risoluti e gli spiritualisti che sono spiriti stanchi. Ma bisogna vederci chiaro e ogni difficoltá è risolta in questa formula ben conosciuta di Bacon: "l'uomo trionfa sulla natura obbedendola", di cui il piú insignificante uomo di mare conosce bene ogni applicazione pratica. Il nostromo non è quel tipo di uomo che nega la potenza del mare e nemmeno è disposto a pregare perché l'onda lo colga a prua e non sul fianco; al contrario davanti alla forza impietosa, che egli sa fedele e senza malizia, agisce, cioè passa appoggiandosi a ció che offre resistenza.
Tutti i mestieri conoscono questa tecnica.
Chi non ha pesato come su una bilancia l'universo inflessibile, così ben coeso, e corrispondente a se stesso in tutti i suoi movimenti, senza nessun pensiero, questi non è un uomo. Lo stato di infanzia consiste proprio nel credere che pregando e sperando si vivranno giorni migliori. L'audace cerca soltanto una fenditura su cui poggiare il piede, sicuro, nel modo piú assoluto che l'universo non bara.
Questa posizione severa è quella di Descartes, che anche dal corpo vivo, dal suo proprio corpo, avendo ritirato ogni pensiero e non vedendovi altro che particelle che spingono o sono spinte, pensó che si poteva vivere a lungo se si giocava con tenacia. Ma davanti al corpo politico, il piú complicato di tutti non aveva progetti, qui confidava nella natura, cioé nelle abitudini, nelle passioni, nell'amicizia. Viveva come un Leviatano, come un selvaggio nel bel mezzo della natura delle cose, ossequiandole tutte per precauzione.
Ora, chi vuol agire così è come il pilota sul mare. Dapprima deve cogliere le leggi meccaniche, ció che resiste, che offre un appiglio, ció che on inganna. Cioé leggere la politica come un vortice piú complicato a senza spirito. Non appena vi si suppone uno spirito si è obblligati a pregare. Quindi, in questo mondo umano, cercare ció che non cede mai alla preghiera, cioè ritrovarvi la necessitá naturale attraverso i bisogni, i lavori, le risorse. Come il muschio non spunta che nei luoghi umidi, cosí l'uomo si espande come un vegetale. Negozi, officine, banche, trasporti e depositi, tutto ció è disegnato sulla terra con la stessa necessitá d una macchia di umidita sul soffitto. Chi vuol dimenticare questa necessitá muore. Tutti i pensieri che hanno vissuto dipendono da queste necessitá inferiori. Ecco distrute tutte le nostre ambizioni, ma anche le ambizini del chirurgo sono distrutte nel chirurgo; questa riflessione virile che contempla finalmente la necessitá esteriore, non uccide l'azione, anzi le apre un varco.
Nel momento in cui l'acqua e il vento sono forze cieche ecco che io posso navigare. Da qui questa altra navigazione politica che guarda ai bisogni, agli utensili, ai lavori, elementi ciechi, senza capricci, che non barano e contemporaneamente con questa separazione dello spirito dal corpo la volontá trova le sue armi e testa la sua potenza.
Uno dei termini illumina l'altro come si dice e come si dimostra ma astrattamente, mentre in ogni momento, nell'azione bisogna trovare lo spirito puro se si vuol trovare lo spirito puro. da qui si comprende che i nostri sociologhi mistici sono al livello dei maghi della pioggia. Invece ogni minimo cambiamento nelle condizioni inferiori è come un colpo di remo nell'acqua.;puó essere dato bene o male, ma una buona traversata o un naufragio dipendono dalle stesse leggi, e la sola differenza, per quanto riguarda l'azione dell'uomo, consiste in movimenti minimi, in minimi lavori, tutti orientati da uno spirito previdente e senza paura.

Alain
trad genseki

mercoledì, aprile 01, 2009

Kenneth Patchet

Di Kenneth Patchet non so granché, ho trovato una scelta di sue poesie su una vecchia rivista, e una foto con la faccia da operaio fotogenico. Testardo.Non so cogliere il ritmo dei suoi versi. Non lo sento. per questo, credo le traduzioni suoneranno afone.
Eppure questa poesia la ho vissuta, la vivo da tempo. Quando il dulice sonno ci riporta alla tenerezza animale che non sa della morte, e la mente per contrasto trema della consapevolezza del nulla nel tepore di pelle e lenzuola.

Religiome è che ti amo

Il tempo avrá disteso i nostri corpi
In un unico sogno, saziata la fame, spezzato il cuore
Come una bottiglia bevuta dai ladri.

Amata, lontano si incotrano le nostre bocche
Prossimi i capelle, stretti gli occhi
Fuori

Fuori dalla finestra rami agitati
Da mite vento, muovono gli uccelli rapide ali

Amore, in quest'aria sfinita moriamo.

Lascia che guardiamo il sonno,
Che infiliamo le dita nel respiro che cade su di noi.

Vivi possiamo amare, anche se s'approssima la morte
Non dobbiamo ascoltare il suo canto senza speranza.

Ora, stringiamoci forte, non moriremo uno accanto all'altro.

*

Ereditá

Ti lascio i piaceri della terra:
L'erba bruciata dal sole; corpi
D'acqua, amabili nella vastitá degli anni
Senza avere ali per noi;
La vasta meraviglia del firmamento, tutto l'arredamento
Sfasciato dello spazio cardiaco interiore;
La cinica immagine dl fumo che sale a spirale
Dalle case che non abbiamo mai avuto.

Ti lascio i mari sulle spiagge secche
La treccia d'oro della pergola
Sulle nostre tombe: il tenero suono
Del silenzio su tutte le cose.
Ritorno del corpo ribelle: qui;
La cruda quesione dell'erba;
Il volto cisposo dello spirito
senza splendore. Basta.
Ti lascio.

*

Argomento dell'allodola

Di primo matino venne il gigante
Raggiunse l'albero dei piccoli.
Le loro facce erano come mele candide
E i freddi rami oscuri
E i loro vestititini
Gesticolavano nel vento.
Non si udirono i passi
Dei suoi piedi pesanti. Subito si mise all'opera
Tirandoli giú dolcemente
In un grosso canestro
Che con una cinghia d'oro
Pendeva dalle sue spalle.
Uno solo sfugggí - un dolce grazioso piccino
Dai capelli color latte anacquato.
Cadde nell'erba alta
E non lo poté trovare
Pur avendo frugato con le dita
Fino a che sanguinarono e sorse il giorno,

Agitò i pugni verso il cielo
E chiamò Dio
con un nome brutto.

Ma non ci fu risposta e il gigante
Si inginocchió davanti all'albero
Abbracció il tronco con le mani
E lo scosse
Fino a che caddero tutti i piccini
Nell'erba. E lui li pestò fino a frne gelatina.
Ma non si fermó qui
Diede fuoco al suo canestro mezzo pieno
Tenendolo Tenendolo con le mani finché
Non fu tutto bruciato. Egli vide poi
Due uomini che si avvicinavano su cavalli fumanti
Dalla parte del mondo.
Trasse un piccolo flauto d'argento
Dalla tasca e suonó un motivo
Dopo l'altro
Fino a che essi lo raggiunsero.


Trad. genseki

sabato, marzo 28, 2009

Hegel e Dogen

ll sapere che è in primo luoo o immediatamente il nostro oggetto non puó essere che quello che è esso stesso sapere inmediato, sapere del'immediato o dell'ente. Dobbiamo quindi metterci in relazione in modo inmediato e accogliente, senza modificare niente in esso tal quale si presenta e allontanando il concetto dalla percezione.

Il contenuto concreto della certezza sensibile fa che questa si manifesti come la conoscenza più ricca, ossia come una conoscenza infinitamente ricca tale che – anche movendosi nello spazio e nel tempo come nl mezzo in cui essa si espande oltre se stessa, oppure prendendo un frammento di questa pienezza e entrando per suddivisione, dentro quel frammento medesimo – non sapremmo trovarne il limite.


Hegel

Fenomenologia dello Spirito
Cap. I

trad genseki


La prima frase della fenomenologia, il punto di partenza dell'avventura della Bildung univesale è anche il punto di arrivo, ovviamente, quello del sapere piú ricco.

La certezza sensibile è quel genere di immediatezza che corrisponde al pensiero hishiryo del Maestro Dogen: “non pensare con il pensiero, pensare con il non pensiero. Come si pensa con il non pensiero? Col pensiero hishiryo”.

Cioè saltando inmediatamente, oltre ogni mediazione nella certezza sensibile,

Cioè raggiungere la meta al principio del cammino

Ieri fui sogno

Ieri fui sogno; domani saró terra!

Appena prima, nulla; dopo, fumo!

Eppur nutro ambizioni, eppur presumo

E punto son del cerchio che mi serra.


Breve battaglia d'importuna guerra

In mia difesa son periglio estremo

Con le mie mani il mio essere scemo

Meno m'alberga il corpo che m'interra.


Ier non é pú, domani non ancora

L'oggi trascorre, è fu giá con movimento

Che mi getta di morte nella gora.


E vanga è l'ora che per le mie ossa

Con mercé della pena che m'accora

Scava nella mia vita la mia fossa.


trad genseki


venerdì, marzo 27, 2009

Lo spirito e la nazione

In ciascuna delle sue forme, lo spirito del mondo ha raggiunto la sua propria autocoscienza, piú o meno sviluppata, peró sempre assoluta; ogni nazione, sotto qualsiasi sistema di leggi e di costumi ha saputo incarnarlo e godere della sua presenza.

Hegel

Legge naturale
Werke II
Pagg. 496-97
trad genseki

mercoledì, marzo 18, 2009

Orologi

Orologio da sabbi

Che vuoi contare tu
Orologio molesto
In un soffio di vita sfortunata
che passa tanto presto
Fornito il suo cammin d'una giornata
Breve e costretta dall'uno all'altro polo
Essendo tal giornata un passo solo?
Se contassi il travaglio, il duol, la pena
Del viver mio, non potresti serrare
Tanti grani d'arena
Che il mar istesso potrebbero colmare.
Lascia passar le ore, non segnarle
Non voglio misurarle
Non m'aggrada conoscere la sorte
Del termine obbligato della morte.
Deh non mi far piú guerra
Il nome di pietoso infin accetta
Poco tempo mi spetta
Pria di dormir nel grembo della terra.

Ma se è tuo dovere
Contar i giorni della vita mia
Presto riposerai poiché le cure
E le tante premure
Che nutre lacrimoso
Il cor mio doloroso
L'ardente fiamma ria
Ch'amor attizza nelle vene oscure
(men che di sangue son di fuoco piene)
Mi spinge con gran possa
Nel grembo della morte, e mi accorcia il cammino
Ché con pie doloroso
Misero pellegrino
Vo`dando giri presso la nera fossa.

Ben so che sono fiato fuggitivo
Giá so, già temo, già son fatto accorto
Che polvere saró, quale tu, da morto
E vetro son, quale tu sei, da vivo.

Quevedo

Poesie Morali

Trad. genseki

mercoledì, marzo 11, 2009

Il Risveglio

Attraverso il Risveglio si attualizza la vacuitá, la quidditá, il limite della realtá, il regno dello spirito e l'essenza.
Queste, peró sono solo parole, nomi che servono per intendersi provvisoriamente.
Il Risveglio in se stesso è l'ultima veritá e l'ultima realtá, È la norma immutabile, indistruttibile, oltre la disriminazione, è l'autentica pura conocenza che tutto penetra e che tutti i Buddha possiedono; è la perfezione fondamentale attraverso la quale i Buddha ottengono la penetrazine nella natura di qualsiai realtá, di ogni forma; sta oltre ogni definizione, di ogni struttura, di ogni pensiero.

Prajnaparamita Sutra
a cura di genseki

L'Atalante

La congiura degli spagnoli contro Venezia

Questa e l prima parte della traduzione di quest'opera, per molti versi avvolta di mistero di Saint-Réal, cui si ispiró Simone Weil per la sua bella Tragedia: "Venise Sauvée".
L'epoca della nascente riflessione scientifica sulla politica, del farsi autonoma della politica rispetto ad altre pratiche e ad altri saperi è l'epoca dell'analisi delle congiure e dei complotti.
La legge è sottesa ai femnomeni naturali, il complotto a quell politici. Dal gran secolo francese e da Botero e Gracián giú giú fino ai bassifondi di internet la spiegazione della politic in termini di complotto ha percorso un lungo cammino.
In Saint-Réal ha ancora la forma della meraviglia e dell'avventura.

Il protagonista di questi primi paragrafi è il Marchese di Bedmar. Egli è il congiurato ideale, che unisce la determnazione e la segretezza a una specie di onniscienza. Profondo umanista trae i suoi metodi di azione e i suoi convincimenti dalla frequentazione assidua dei classici. Nn è ineressato ai vantaggi che la sua azione puó portargli personalmente quanto piutosto alla forma che esa riveste, quasi come fosse un'opera d'arte. Bedmar é l'artista della congiura, il dandy del complotto.
La Repubblica di Venezia è il suo destino in quanto sistema di governo assolutamente razionale. Il governo di Venezia è ermeticamente chiuso in uno scrigno di procedure che vanificano il potere del complotto in quanto ne assumono i modi e la logica come forme proprie e quotidiane dell'azione di governo. Il senato di Venezia è la isituzionalizzazione del complotto come forma permanente di dominio e di controllo.

La sfida tra Venezia e Bedmar è inevitabile:

Il marchese di Bedmar

Quando i francesi ebbero posto fine al conflitto ch che opponeva la Repubblica di Venezia al papa Paolo V, in modo tale che l'onore dovuto al Santo Soglio restasse intetto e la gloria che i veneziano meritavano non venisse negata, solo gli spagnoli si ritrovavano in una condizione per la quale avrebbero potuto lamentarsi. Siccome si erano schierati direttamente con il papa e si erano offerti di sottomettere Venezia con le armi, furono irritati dall'aver questi intrapreso trattative quasi senza una loro partecipazione: quando peró ebbero avuto maggior contezza dei segreti dell'accordo, seppero che non avevano motivo di lamentarsi di lui e che il disprezzo d cui erano stati fati oggetto in quell'occasione proveniva dalla Repubblica. Era il Senato che aveva voluto in qualche modo escluderli dalla mediazione. Pretendeva che non potessero essere arbitri dopo aver dimostrato tanta parzialitá.
Per quanto il loro risentimento fosse grande per questa ingiuria essi non lo vollero manifestare fino a che visse Enrico IV: il debito che questo principe aveva con i veneziani era troppo conosciuto, cosí come l'attenzione con cui si era preso cur dei loro intresi nel conflitto con la corte pontificia. La sua morte lasciava mano libera agli spagnoli ch avevano soltanto bisogno di un pretesto.
Una banda di pirate, detto Uscocchi si era stabilita nelle terre adriatiche della casa d'Austria. Questi delinquenti avevano commesso un numero infinio di violenze contro i suditi della Repubblica, e godevano della protezione dell'Arciduca ferdinando di Graz, sovrano del paese e che in seguito sarebbe divenuto imperatore. Era un principe molto religioso, ma i suoi ministri dividevano il bottino con gli Uscocchi.
L'Imperatore Mattia, commosso dalle giuste lamentele della Repubblica, stipuló un accordo in Vienna nel mese di febbraio del 1612; tuttavia questo accordo fu cosí mal asservato da parte dell'arciduca, che si giunse a una guerra aperta, in cui egli non ottenne tutti i vantaggi che gli Spagnoli si aspettavano. I veneziano poterono facilmente rivalersi delle perdite che subirono in alcuni piccoli combattimenti: Siccome non avevano niente da temere da parte dei Turchi, potevano sopportare la guerra in migliori condizioni che l'arciduca. Questo principe era spinto alla pace dall'imperatore, perché il Turco minacciava l'Ungheria; e aveva bicogno di grandi somme per favorire la sua ascesa al trono di Boemia che si verificó in seguito molto presto. Gli spagnoli avrebbero voluto fornirgli i mezzi per continuare la guerra; ma Carlo Emanuele, duca di Savoia contro il quale erano in guerra alllo steso tempo, non permetteva loro di raccogliere le forze, e siccome questo duca riceveva molto denaro dalla Repubblica non ebbero modo, mai, di separarlo da essa.
Il consiglio di Spagna era molto indignato di verificare come i veneziani fossero in vantaggio ovunqu. Il genio dolc e pacifico di Filippo III e del suo favorito il duca di lerma, non sapeva trovare un mezzo per tirarsi fuori da una situazione tanto pericolosa; ma un ministro che esi avevano in Italia e che non era altrettanto moderato, prese su di se di risolvere il problema.
Si trattava di don Alfonso de la Cueva, marchee di Bedmar, ambasciatore ordinario a Venezia, uno dei geni piú poderosi e degli spiriti piú pericolosi che la Spagna avesse mai prodotto. Si vede, dagli scritti che ci ha lasciato, che possdeva tutto ció che secondo la storia antica e moderrna serve alla formazione di un uomo straordinario. Egli comparava le cose che vi si trovano narrate con quelle che accadevano al tempo suo, Osservava esattamente differenze e somiglianze delle quistioni e come quello che le differenzia modifica quella che le rende simili. Egli giudicava del successo di una impresa non appena en conosceva il piano e le basi. Se poi gli avvenimenti provavano che non aveva indovinato, egli risaliva alla fonte del suo errore e cercava di scoprire ció che l'aveva ingannato. In questo modo, aveva egli compreso quali fossero le vie sicure, i mezzi utili e le circostanze capitali che fanno presagire un buon successo dei grandi progetti e che fanno si che essi finiscano quasi sempre per riuscire. Questa continua pratica della lettura, della riflessione dell'osservazione delle cose del mondo, l'avevano innalzato a un punto tale di sagacitá che nel consiglio di Spagna le su congetture sull'avvenire erano prese come profezie.
A questa profonda conoscenza della natura delle grandi questioni, egli univa talenti singolari per la manipolazione, una facilitá di parlare e di scrivere in modo straordinariamente gradevole, un meraviglioso istinto per conoscere gli uomini, un aspetto sempre gaio e aperto, un umor libero e compiacente tanto piú impenetrabile quanto piú tutti quanti credevano poter penetrarlo; modi dolci, insinuanti e lusighieri, che attiravano il segreto dei cuori piú difficili ad aprirsi; tutto l'aspetto della piú completa libertá di spirito nelle convulsioni piú atroci. Gli ambasciatori di Spagna erano allora in condizione di governare e corti presso le quali erano inviati e il marchese di bedmar era stato scelto per Venezia nell'anno 1607 dal momento che questo era considerato il piú difficile egli incarichi all'estero, e in cui non ci si poteva avvaler di donne, di monaci e neppure di favoriiti. Il consiglio di Spagna era cosí contento di lui, che, nonostante sorgessero ncessitá altorve, per sei interi anni non si risolse a richiamarlo. Un si lungo soggiorno diedegli agio di studiare i principi di quel governo, di dipanarne i piú segreti ingranaggi, di scoprirne i punti forti e quelli deboli, i vantaggi e i difetti. Quando si rese conto che l'Ariduca sarebbe stato costreto alla pace e che questa sarebbe stato vergognosa per la casa d'Austria dal momnento che aveva torto, risolse di tentare qualche cosa per prevenire tale eventualitá.
Cnsider'che nello stato in cui Venezia si trovava non era impossibile impadronirsene con le conoscenze che aveva e con le forze sulle quali poteva fare affidamento.
Gli eserciti l'avevano privato delle armi e ancor peggio di uomini capaci di portarle.
Siccome la flotta non era mai stata tanto bella, il senato non si era mai considerato cosí temibile e mai aveva temuto meno. Tuttavia questa flotta invincibile quasi non poteva allontanarsi dalla costa istriana dove si combatteva quella guerra. L¡esercito di terra, anch'esso era lontano; e non vi era nulla a Venezia che potesse opporsi a un attacco della marina spagnola. Per rendere piú sicuro questo attacco il marchese di Bedmar volle impadrronirsi dei posti principali, come Piazza S. Marco e l'arsenale; e, siccome sarebbe stato difficile farlo se la cittá fosse stata perfettamente tranquilla, pensó bene di far incendiare contemporanemente tutti i luoghi che erano piú adatti e che fosse piú importante soccorerre.
Non volle scrivere subito in Spagna: sapeva che i principi non amano essere messi al corrente di questo tip di imprese che quando sono giunte ad un punto tale di esecuzione che solo manca un loro cenno di approvazione. Si accontentó di far notare al marchese di Useda, principale segretario di stato che la casa d'Austria era svergognata dall'insolenza dei veneziano nella guerra del Friuli e che tutti i negoziato che si svolgevano a Vienna e altrove erano pieni di ignominia e che egli credeva che fosse giunto il mmento in cui la natura e la politica obbligano un suddito fedele a ricorrere a mezzi straordinari per preservare il proprio principe e il proprio paese da una infamia altrimenti inevitabile; che questa preoccupazione lo concerneva particolarmente, a cusa del suo incarico, in cui aveva sempre davanti agli occhi le fonti del male cui si doveva porre rimedio, che e che egli avrebbe cercato di condurre a termine questo suo compito in un modo degno dello zelo che lo animava per l'onore del suo signore.
Il duca di Useda, che lo conosceva per quello che, comprese subito che questo discorso nascondeva qualche progetto pericoloso e importante in parti eguali: ma, come coloro che sono saggi non vogliono sapere niente di questo genere di cose se non obbligati, non comunicó il suo pensiero al Primo Ministro e rispose al marchese di Bedmar in termini generali, lodando il suo zelo e rimetendosi per il resto alla sua ben conosciuta prudenza. Il marchese che si attendeva una risposta del genere non fu sorpreso dalla sua freddezza; si dispose a metterei atto il suo piano per assicurarsi di essere approvato.
Mai vi fu nel mondo una monarchia assoluta come il dominio che il senato di Venezia esercitava nel governo della Repubblica. Infinita è la differenza tra i nobili e quelli che non lo sono. Solo la nobiltá puó comandare nei paesi che en dipendono.

Saint-Réal
traduzione genseki

giovedì, marzo 05, 2009

Parajanov

Gramscismi

Nell'articolo: “Antichi monasteri benedettini in Albania nella tradizione e nelle leggende popolari” del pade gesuita Fulvio Cordignana pubblicato nella “Civiltá Cattolica” del 7 Dicembre 1929 si legge:


Il “Vakúf”, - Ció che è rovina di chiesa o bene che gli appartenga – nell'idea del popolo ha in se stesso una forza misteriosa, quasi magica. Guai a chi tocca quella pianta o introduce tra quella rovine il gregge, le capre divoratrici di ogni fronda; sará colto all'improvviso da un malanno; rimarrá storpio, paralitico, mentecatto, come se si fosse imbattuto, in mezzo agli ardori meridiani o durante la notte oscura e piena di perigli in qualche “Ora” o “Zana” laddove queste fate invisibili e in perfetto silenzio stanno sedute a una tavola rotonda o in mezzo al sentiero.”


C'è ancora qualche altro accenno nel corso dell'articolo.


Questa nota di Gramsci cosi estranea al corso delle sue preccupazioni intellettuali quali esse ci appaiono nei Quaderni, cosí apparentemente divagatoria nella ci permette forse, per un istante di entrare nell'intimo della sua mente, di intravedere una fazione infinitesima del gomitolo di pensieri e desideri che continuamente si srotola nel suo e nel nostro cevello e che come un ronzio ci assicura che esistiamo. È questo ronzio quello che abbiamo di piú nostro, di piú personale, di piú simile ad una Io permanenente.

In queste poche righe di annotazione possiamo cogliere la tenerezza infantile del desiderio di un mondo di favole e di leggende, forse un appena un bagliore della strana convinzione di Gramsci di essere di origine albanese, la nostalgia della Sardegna arcaica, proprio quando anche la sua infanzia si fa per lui aracaica e il passato della terra leggendaria e della biografia perduta il solo orizzonte possibile.


L'isolamento delle rovine delle vecchie chiese è il correlativo simbolico dell'isolamento carcerario del suo corpo, anch'esso appunto segregato e in rovina.

Gramsci sente il suo corpo come il tempio, come il recinto del sacro nella sola forma in cui a lui è dato sentirlo.


Tutto questo nellinfinita noia dolente, nell'agonia ovattata di un pomeriggio carcerario.


genseki

mercoledì, marzo 04, 2009

Fantasia - Night on Bald Mountain

Gaspard de la Nuit

Con questo paragrafo termina la traduzione del primo libro di Gaspard de la Nuit di Louis Bertrand.


Partenza per il Sabba

Ella si alzó in piena notte, e, accesa una candela, prese un scatola e si unse, poi, per mezzo di qualche formula magica fu trasportata al Sabba.

Jean Bodin
De la démonomanie des sorcières.

Ce n'era una dozzina che mangiavano la minestra alla bara, ciascuna usando per cucchiaio l'avambraccio di uno scheletro.

Il camino era rosso di bragia, le candele come funghi tra il fumo,i piatti avevano l'odore di una fossa primaverile.

Quando Maribas rideva o piangeva, si udiva come il gemere di un archetto sfregato sulle tre corde di un violino fracassato.

Purtuttavia il Rodomente sbatté diabolicamente sulla tavola, alla luce del sego, un grimorio ove finì per abbattersi una mosca carbonizzata.

Ronzava ancora la mosca quando un ragno dal ventre enorme e peloso scaló i bordi del magico volume.

Ormai peró strege e stregoni giá se en erano volati via attraverso il camino a cavallo delle loro scope e attizzatoi, Maribas sul manico di una padella.

trad genseki

La vergogna e la pietá

Questo è un testo abbasanza noto di Pietro Colletta, dalla “Storia del reame di Napoli”

di esso parla Cesare Abba nel suo memoriale garibaldino pare che lo leggesse il Padre Canata nel Liceo Scolopico di Carcare.

Il contrasto tra l'abiezione, l'indifferenza e lo spettacolo è qui rapresentata con una precisione geometrica che ne fa qualche cosa di piú e di diverso da un testo di propaganda o di battaglia culturale anticlericale, ne fa una riflessione lucida su come la violenza e il dolore inflitto distruggano e le vittime e i carnefici, spoglino entrambi di qualsiasi dignitá. Gli inquisitori e gli eretici sono ridotti a grige comparse dementi bloccate nella confabulazione piú viscosa, triturate dalla tautologia, sfigurate dala perversione sistematica di ogni parola.

Tutti sono macchine che producono non senso. Passa nella mente di chi legge l'alito cinerino e morbido della demenza. Quello che resta è vergogna una vergogna piú profonda di ogni possibile pietá.

genseki


In dieci anni, dal 1720 al 30, non avvennero in Napoli cose memorabili, fuorché tremuoti, eruzioni volcaniche, diluvi ed altre meteore distruggitrici. Ma nella vicina Sicilia; l' anno 1724,fatto atroce apportò tanto spavento al regno, che io credo mio debito narrarlo a fine che resti saldo nella memoria di chi leggerà; e i Napoletani si confermino nell'odio giusto alla In- quisizione, oggidì che, per l'alleanza dell'imperio assoluto al sacerdozio, la superstizione, l'ipocrisia, la falsa venerazione del- l'antichità spingono verso tempi e costumi abborriti, e vedesi quel tremendo Uffizio, chiamato Santo, risorgere, in non pochi luoghi d'Italia, tacito, ancora discreto, ma per tornare, se for- tuna lo aiuta, sanguinario e crudele quanto ne' tristi secoli di universale ignoranza.
ndarono soggetti al Santo Uffizio, l'anno 1699, fra' Romualdo laico agostiniano e suora Geltrude bizzoca di san Benedetto: quegli per “quietismo, molinismo, eresia”; questa per orgoglio, vanità, temerarietà, ipocrisia”.
Ambo folli, però che il frate, con molte sentenze contraria a' dogmi o alle pratiche del cristianesimo, diceva ricever angeli messaggeri da Dio, parlar con essi, esser egli profeta, essere infallibile: e la Geltrude, tener commercio di spirito e corporale con Dio, essere pura e santa, aver inteso dalla Vergine Maria non far peccato godendo in oscenità col confessore; ed altri assai sconvolgimenti di ragione. I santi inquisitori ed i teologi del Santo Uffizio avevano disputato più volte con quei miseri, che ostinati, come mentecatti, ripetevano deliri ed eresie.
Chiusi nelle prigioni, la donna per venticinque anni, il frate per diciotto, (attesoché gli altri sette li passò a penitenza ne' conventi di san Domenico) tollerarono i martori più acerbi, la tortura, il flagello, il digiuno, la sete; e alla fine giunse il sospirato mamento del supplicio.
Avvegnaché gli inquisitori condannarono entrambo alla morte, per sentenze confermate dal vescovo di Albarracìn, stanziato a Vienna, e dal grande inquisitore delle Spagna; dopo di che il devoto imperatore Carlo VI comandò che quelle condanne fossero eseguite con la pompa dell' Atto-di-fede.
Le quali sentenze amplificavano il santissimo tribunale, la “dolcezza”, la “mansuetudine”, la “benignità” de' santi inquisitori: e incontro a sensi tanto umani e pietosi la malvagità, la irreligione, la ostinatezza de' due colpevoli. Poi dicevano la necessità di mantenere le discipline della sacrosanta cattolica religione, spegnere lo scandalo, e vendicare lo sdegno de' cristiani.
Il dì 6 di aprile di quell'anno 1724, nella piazza di Sant'Erasmo, la maggiore della città di Palermo, fu preparato il supplizio. Vedevi nel mezzo croce altissima di color bianco e da' lati due roghi chiusi, alto ciascuno dieci braccia, coperti da macchina di legno a forma di palco, alla quale ascendevasi per gradinata; un tronco sporgeva dal coperchio di ogni rogo: altari da luogo in luogo e tribune riccamente ornate stavano disposte ad anfiteatro dirimpetto alla croce; e nel mezzo, edificio più alto, più vasto, ricchissimo di ornamenti per velluti, nastri dorati ed emblemi di religione. Questo era per gli inquisitori; le altre logge per il vicerè, l'arcivescovo, il senato: e per i nobili, il clero, i magistrati, le dame della città: il terreno per il popolo.
A' primi albori le campane suonavano a penitenza: poi si mossero le processioni di frati, di preti, di confraternite; che traversando la città, fatto il giro attorno alla croce, si schierarono all'assegnato luogo. Popolata la piazza si dalla prima luce, riempivano le tribune genti che, a corpi o spicciolate, con abiti di gala,venivano al sacrificio: era pieno lo spettacolo; si attendevano le vittime.
Già scorso di due ore il mezzo del giorno, mense innumerevoli ed abbondanti coprirono le tribune, così che la scena preparata e mestizia mutò in allegrezza. Fra' quali tripudi giunse prima la misera Geltrude legata sopra un carro, con vesti luride, chiome sparse e gran berretto di carta che diceva il nome, scritto con dipinte fiamme d'inferno.
Convoiavano il carro,tirato da bovi neri e preceduto da lunga processione di frati,molti principi e duchi sopra cavalli superbi; e dietro cavalcati a mule bianche, seguivano i tre padri inquisitori. Giunto il corteggio, e consegnata la donna ad altri frati domenicani e teologi per le ultime e finte pratiche di conversione, ricomparve corteggio simile al primo per frate Romualdo: ed allora gli inquisitori nella magnifica ordinata tribuna.

Compiute le formalità, bandito ad alta voce l'ostinato proponimento d' colpevoli, lette le sentenze in latino, prima la donna salì sul palco; e due frati manigoldi la legarono al tronco, e diedero fuoco alle chiome, imbiotate innanzi di unguenti resinosi acciò le fiamme durassero vive attorno al capo: indi bruciarono le vesti, anch'esse intrise nel catrame, e partirono.
La misera rimasta sola sul palco, mentre gemeva e le ardevano intorno e sotto i piedi le fiamme, cadde col coperchio del rogo; scomparso il corpo, rimasero ai sensi degli spettatori i gemiti di lei; le fiamme, il fumo, che andavano ad oscurare l'alta croce di Cristo svergognata.
Così fra' Romualdo morì nell'altro rogo, dopo aver visto il martirio della compagna.
Tra gli spettatori notatasi un drappello sordido, mesto, di ventisei prigioni del Santo Uffizio, voluti presenti alla cerimonia: soli fra tutti che piangessero di quei casi, perciocché gli altri, sia per viltà, o ignoranza, o religion false, o empia superstizione, applaudivano l'infame olocausto……
…Descrisse quell'atto in grosso volume Antonio Mongitore……

venerdì, febbraio 27, 2009

La morte - Carmelo Bene - Unamuno

Io non diró che siano le dottrine piú o meno poetiche e non-filosofiche che esporró quelle che mi fanno vivere, oso tuttavia affermare che è il mio anelo di vivere e di vivere per sempre che me le ispira. E se grazie ad esse potró corroborare e sostenere questo stesso anelo che forse sta venendo a mancare in altri, avró fatto opera umana o perlomeno avró vissuto. In una parola: con la ragione, contro la ragione o senza la ragione, io non ho voglia di morire. E, quando alfin morró, se é per sempre, non mi saró ucciso io, cioé non mi saró lasciato morire, sará il destino umano che mi avrá ucciso.
Unamuno
Del Sentimento Tragico della Vita
trad. genseki

giovedì, febbraio 26, 2009

Trilce XV

Quella che segue è ancora una poesia di quello che potremmo chiamare il “ciclo della madre” in Trilce.

La rielaborazione della perdita e del lutto comporta l'assunzione dell'infanzia, un viaggio nel proprio passato, nel vuoto, negli inferi della personalitá che va formandosi e deformandosi. da questa discesa nell'abisso della terra la madre va mergendo come l'asse portante, che permette la coerenza el ricordo e la continuitá dell'io. La madre è colonna e colonnato e arco: asse e protezione. L'icona della madre è quella della Vergine, madre di dio padre. Nella mitologia familiare di Vallejo, oltre ogni etnicismo e senza tirare in ballo la psicanalisi, il padre è fratello e in parte anche figlio.

Se la madre assume la forma icona della Vergine Maria, il padre è il Padre e il Cristo contemporanemente.

L'immortalitá è propria della madre, affermata e riaffermata nelle forma di una immanenza e di una quiddità assolute: “cosí...così” che ritmano il rifiuto di qualsiasi orizzonte di trascendenza. L'immortalitá della madre è assolutamente carnale, corporale e architettonica.

genseki


Trilce XV


Madre, domani verró a Santiago

Per bagnarmi nel tuo pianto benedetto

Ora che vado riordinando piaghe e delusioni

Di false faccende.


Mi aspetterá il tuo arco di stupore,

Le tue colonne d'ansie tonsurate

Che finiscono con la vita e col cortile

Il corridoio tutto stucchi e gale;

Mi aspetterá il seggiolone aio

Quell'affare a ganasce di dinastico cuoio

Che con cinghie e laccetti stringe stretto

Natiche pronipoti.


Sto setacciando i miei piú puri affetti

Sto trivellando, non odi la sonda?

Non odi le campane strepitanti?


La tua formula d'amore sto plasmando

Per ciascuno dei vuoti del suolo

Per tutte le cinture piú distanti

E per le citazioni piú distinte.


Cosí morta immortale, cosí

Sotto l'arcata doppia del tuo sangue

Ove passar si debe con riguardo

Con un riguardo tale che mio padre

Persino lui si fece mezzo uomo

Fino ad essere il primo dei tuoi figli.


Cosí morta immortale,

Nel colonnato delle tue ossa

Che non cadrebbe neppure per le lacrime

E nel cui fianco non poté insinuare

Il destino nessuna delle dita

Così, madre immortale, cosí.


trad genseki

mercoledì, febbraio 25, 2009

Gilles de Rais

Tutte le teorie moderne dei vari Lombroso e Maudsely non sono sufficienti a spiegare i crimini innumerevoli e i singolari abusi del Maresciallo. Classificarlo nel gruppo dei monomaniaci sarebbe stato giusto, se con questa parola si classificano tutti coloro che hanno una idea fissa. Infatti, ognuno di noi è monomaniaco, a partire dal commeciante che pensa solo al suo interesse, fino all'artista assorbito nella concezione di un'opera, Perché, tuttavia. il Maresciallo fu momomane, come lo divenne? Ecco ció che tutti i Lombroso della terra ignorano. Le lesioni dell'encefalo non significano assolutamente niente in queste faccende. Si tratta semplicemente di coneguenze, di effetti derivati di una causa che dovrebbe essere spiegata e che nessun materialista sa spiegare. È davvero un po' troppo facile affermare che una perturbazione dei lobi crebrali produce assassini o sacrileghi; gli alienisti famosi dei nostri giorni pretendono che l'analisi del cervello di una folle riveli una lesione o una alterazione della materia grigia, e se così fosse? Resterebba da spiegare, per una donna affetta da demonomania, se la lesione si è prodotta perché ella è demonome o al contrario ...


Nel quindicesimo secolo le due tendenze estreme dell'anima furono rappresentate da Giovanna d'Arco e dal Maresciallo de Rais. Non vi é alcuna ragione per affermare che Gilles fosse piú folle della Pulzella i cui meravigliosi eccessi non hanno relazione alcuna con manie e deliri.


Quando gli esperimenti alchemici e le evocazioni diaboliche falliscono Prelati, Blanchet e tutti i maghi e stregoni che circondano il Maresciallo ammettono che per agganciare Satana, Gilles avrebbe dovuto cedergli o l'anima o la vita o commettere crimini.

Gilles rifiuta di alienare la sua esistenza e di abbandonare l'anima, ma pensa senza orrore agli assassinii. Quest'uomo, tanto valoroso sui campi di battaglia, tanto coraggioso quando difende e accompagna Giovanna d'Arco, trema davanti al iavolo, ha paura quando pensa alla vita eterna, quando pensa a Cristo. E lo stesso vale per i suoi complici; per essere sicuro che essi non riveleranno i rivoltanti abomini che il castello nasconde, fa loro giurare il segreto sui santi evangeli, sicuro che nessuno di loro romperá il giuramento, perché, nl medio Evo , il piú impavido dei banditi non oserebbe assumere su di sé irremissibile misfatto di ingannare Dio!.

Comunque resta il fatto che mentre gli alchimisti abbandonano i loro fornelli impotenti, Gilles si abbandona a orge spaventevoli e la sua carne arsa dalle essenze disordinate delle bevute dei piatti, entra in eruzione, bolle e tumultua.

Non vi erano donne nel castello; Gilles sembra aver esecrato il sesso a Tiffauges. Dopo le bagasce degl accampamenti le prostitute della corte di carlo VII, sembra che lo abbia colto il disprezzo per le forme femminili. Come coloro il cui ideale di concupiscenza si altera e si svia, giunge a essere disgustato dalla delicatezza della pelle e dall'odore della donna che tutti i sodomiti detestano.

Egli conduce alla depravazione i ragazzi del coro della sua cappella, li aveva scelti “belli come angeli”. Furono i sol che egli amó e i soli che nei raptus omicidi risparmió.

Ma presto questa salsa di eiaculazioni infantili gli parve insipida. La legge del satanismo che vuole che l'eletto del male scenda fino all'ultimo scalino la spirale del peccato, era ancora una volta, in vigore. L'anima di Gilles doveva riempirsi di pus, perché in quel rosso tabernacolo decorato di ascessi potasse abitare compiaciuto l'Infimo!

Le litanie della foia si innalzarono nel vento salato dei macelli. la prima vittima di illes fu un bambinello il cui nome si ignora. Lo sgozzó, gli taglió le mani, gli estrasse il cuore, gli strappó gli occhi e li portó nella stanza di Prelati. Entrambi gli offrirono a con suppliche appassionate al diavolo che tacque. Gilles esasperato fuggí e Prelati avvolse i poveri resti in un lenzuolo e tremando fu, nella notte a seppellirli in terra consacrata accanto a una cappella dedicata a San Vincenzo.

Il sangue di quel fanciullo che Gilles aveva conservato per scrivere le su formule di evocazione e i suoi grimori, fu seme orribile e presto Gilles poté mietere e immagazinare la piú esorbitante messe di crimini che si conosca.

Dal 1432 al 1440, cioé negli otto anni che vanno dal ritiro del Maresciallo alla sua morte, gli abitanti dellAnjou, del Poitou, della Bretagna, errano singhiozzand sulle strade. Tutti i bambini scompaiono; i pastorelli sono rapiti nei campi, le bambine all'usicta da scuola, i ragazzetti che vanno a giocare a palla nelle stradine o si rincorrono all'orlo dei boschi, non tornano piú.

Nel corso di un'inchiesta ordinata dal Duca di Bretagna, gli scribi di Jean Touscheronde, commissario del Duca, redigono liste interminabili di bambini scomparsi.

Perduto, a ochebernart, il figlio di Donna Péronne “che andava a scuola e imparava molto bene” dice la madre.

Perduto a Sain-étienne de Monluc, il figlio di Guillaume Brice “poveretto che chiedeva l'elemosina”.

Perduto a Machecol, il figlio di Georget le Barbier “che fu visto, un certo giorno cogliere pere dietro il Palazzo Rondeau e che poi non fu piú visto”.

Perduto a Thonaye, il figlio di Mathelin Thouars “che si lamenta e piange e il figlio aveva dodici anni”.

A Machecoul ancora, il giorno di Pentecoste, i coniugi Sergent lasciano a casa il loro figliuolo di otto anni e al ritorno dai campi “non ritrovano piú il bambino di otto anni e molto se en meravigliano e soffrono”.


Huysmans

Là-bas

Trad e montaggio genseki