giovedì, gennaio 08, 2009
mercoledì, gennaio 07, 2009
Gaspard de la nuit
Il Mercante di Tulipani
Il tulipano è tra i fiori ciò che tra gli uccelli è il pavone.
L'uno non ha profumo, l'altro non ha voce.
L'uno va orgoglioso della sua veste, l'altro della sua coda.
Nessun rumore se non il fruscio dei fogli di carta velina sotto le dita del dottor Huylten, che non alzava gli occhi salla sua bibbia fiorita di gotiche miniature se non per ammirare l'oro e la porpora dei due pesciolini prigionieri degli umidi fianchi d'un boccale.
Si aprirono scorrendo i battenti: era un mercante di fiori, che con le braccia cariche di vasi di tulipani si scusó di interrompere la lettura di un personaggio tanto sapiente.
“Maestro, disse, ecco il tesoro dei tesori, la meraviglia delle meraviglie, un bulbo come solo en fioriscono una volta ogni anni nei serragli dell'imperatore di Costantinopoli!
Un tulipano! Esclamó il vecchio corrucciato, un tulipano! Simbolo dell'orgoglio e della lussuria che hanno generato nella sventurata cittá di Wittemberg la detestabile eresia di Lutero e di Melantone!
Mastro Huylten chiuse la fibbia del fermaglio della sua bibbia pose gli occhiali nel loro astuccio e tiró le tende della finestra, per lasciar vedere, alla luce del sole, un fiore della passione con la sua corona di spine, la sua spugna, i suoi chiodi e le cinque piaghe di Nostro Signore.
Il mercante di tulipani si inchinó rispettosamente e, in silenzio, sconcertato dallo sguardo inquisitorio del duca d'Alba, il cui ritratto, capolavoro di Holbein, pendeva alla parete.
Louis Bertrand
Trad. genseki
Il tulipano è tra i fiori ciò che tra gli uccelli è il pavone.
L'uno non ha profumo, l'altro non ha voce.
L'uno va orgoglioso della sua veste, l'altro della sua coda.
Nessun rumore se non il fruscio dei fogli di carta velina sotto le dita del dottor Huylten, che non alzava gli occhi salla sua bibbia fiorita di gotiche miniature se non per ammirare l'oro e la porpora dei due pesciolini prigionieri degli umidi fianchi d'un boccale.
Si aprirono scorrendo i battenti: era un mercante di fiori, che con le braccia cariche di vasi di tulipani si scusó di interrompere la lettura di un personaggio tanto sapiente.
“Maestro, disse, ecco il tesoro dei tesori, la meraviglia delle meraviglie, un bulbo come solo en fioriscono una volta ogni anni nei serragli dell'imperatore di Costantinopoli!
Un tulipano! Esclamó il vecchio corrucciato, un tulipano! Simbolo dell'orgoglio e della lussuria che hanno generato nella sventurata cittá di Wittemberg la detestabile eresia di Lutero e di Melantone!
Mastro Huylten chiuse la fibbia del fermaglio della sua bibbia pose gli occhiali nel loro astuccio e tiró le tende della finestra, per lasciar vedere, alla luce del sole, un fiore della passione con la sua corona di spine, la sua spugna, i suoi chiodi e le cinque piaghe di Nostro Signore.
Il mercante di tulipani si inchinó rispettosamente e, in silenzio, sconcertato dallo sguardo inquisitorio del duca d'Alba, il cui ritratto, capolavoro di Holbein, pendeva alla parete.
Louis Bertrand
Trad. genseki
Lamento per Gaza e per noi stessi
Certamente, se avesse vissuto fino ad oggi,il cuore di César Vallejo sarebbe ora a Gaza. Sarebbe a Gaza e saprebbe trovare le parole necessarie, quelle sole possibili, per spiegare a tutti noi che la scheggia che antra nelle palme e nel costato dei bambini di Gaza, quella scheggia di metallo ci sta trafiggendo tutti, ci colpirá tutti, presto o tardi. No, ci ha già colpiti, ci ha colpiti proprio adesso. Ha ucciso prima di tutto le nostre parole e ci ha condannato alla sete; alla sete del bicchiere e non dell'acqua.
Come possiamo bere se i bambini di Gaza hanno sete?
genseki
César Vallejo
Oggi una scheggia la ha ferita
Oggi una scheggia l'ha ferita
Una scheggia le è caduta accanto, ha colto
Accanto, forte colpo al modo suo
di essere al suo famoso centesimo
Che dolore la sorte!
Che dolore la porta,
Che dolore la fascia, che la
Asseta e l'affligge
L'asseta del bicchiere non del vino.
Oggi ha perduto aria la vicina
Di nascosto fumo del suo dogma;
Oggi l'ha ferita una scheggia.
L'immensitá la insegue
Con distanza superficiale ad ampio anello
Oggi la vicina, poveretta, ha perso vento
Dalla guancia, dal nord, dalla guancia, dall'est
Oggi l'ha ferita una scheggia.
Chi comprerá nei giorni aspri e perituri
Un tocchettino di caffelatte?
Chi senza di lei, abbasserá la sua traccia, fino a far luce?
Chi, poi sará il sabato alle sette?
Tristi sono le schegge che ci feriscono
Proprio
qui
Esattamente!
Oggi ha ferito la compagna di viaggio
Una fiamma spenta dall'oracolo – poverina -
Una scheggia.
Che dolore il dolore il dolor giovine
Dolor bambino il doloraccio, il colpo
Sulle mani
Asseta, affligge
Asseta del bicchiere e non del vino.
Poverina!
trad. genseki
martedì, gennaio 06, 2009
Margherita di Navarra
Addio all'addio
Addio all'oggetto che per primo fece
Volgersi a lui la forza dei miei occhi
Dolce postura, onesto portamento
Armato a punto in ogni giostra e gioco
Che nessun occhio puó trovar riposo
Del mio piú degno. Addio gentil audacia:
Se di nascosto si reo non foste stato
Giammai grazia migliore avrei incontrato.
Addio vi dico o dolcissimo sguardo
Che cor non fu che non ne fosse colto,
D'occhi si belli e graziosi tanto
Che ad amarli i miei furon costretti
Ahi! Troppo presto vidi il raggio estinto
Ed oscurato dal furore piú fosco
Addio a quegli occhi che non sapevo falsi
Fino a celare dentro il miele il tosco.
Addio ancora al parlare gentile.
Sempre a proposito prudente e saggissimo,
Tenero con l'amico e sempre audace
Ove era uopo mostrare un altro volto.
Addio all'accento, al volto ed alla voce
Che mi hanno vinto e l'intelletto e il senso;
Or che il sermone vostro fu dettato
Peggio che morto con rimpianto vi penso.
Addio alla mano che spesso ho toccata
Come fosse, davvero perfettissima
Dentro la quale la mia si addormentava
Senza ferire d'onestá la legge.
Ora che siete contro me levata,
E l'amor convertite in crudeltate
Addio alla mano, ove ormai piú non vedo
La stimmata d'onore e di lealtate.
...
Addio all'addio che spesso mi deste,
Quando lungi da me ve en andavate
A fedeltá che serbar prometteste
Alle promesse che era meglio tacere
Poiché menzogna veggo rivelare
Il voler vostro e il segreto mal celato
Addio all'addio sovente taciuto
Di cui aumenta memoria il rimpianto.
Addio al core che credevo buono,
Giusto, leale a nessuno eguale
Sol d'una cosa perdono vi chieggo
de è davervi creduto verace
addio al trono su cui onesto amore
regnar dovea ma or veggo amor folle
condurre un gioco che troppo è mutevole.
Addio a quel cuore che al final del gioco
Inflisse al mio morte senza speranza
Per ferma fede de amore durevole
Altre parole piú non posso scrivere.
Marguerite de Navarre
trad. genseki
Addio all'oggetto che per primo fece
Volgersi a lui la forza dei miei occhi
Dolce postura, onesto portamento
Armato a punto in ogni giostra e gioco
Che nessun occhio puó trovar riposo
Del mio piú degno. Addio gentil audacia:
Se di nascosto si reo non foste stato
Giammai grazia migliore avrei incontrato.
Addio vi dico o dolcissimo sguardo
Che cor non fu che non ne fosse colto,
D'occhi si belli e graziosi tanto
Che ad amarli i miei furon costretti
Ahi! Troppo presto vidi il raggio estinto
Ed oscurato dal furore piú fosco
Addio a quegli occhi che non sapevo falsi
Fino a celare dentro il miele il tosco.
Addio ancora al parlare gentile.
Sempre a proposito prudente e saggissimo,
Tenero con l'amico e sempre audace
Ove era uopo mostrare un altro volto.
Addio all'accento, al volto ed alla voce
Che mi hanno vinto e l'intelletto e il senso;
Or che il sermone vostro fu dettato
Peggio che morto con rimpianto vi penso.
Addio alla mano che spesso ho toccata
Come fosse, davvero perfettissima
Dentro la quale la mia si addormentava
Senza ferire d'onestá la legge.
Ora che siete contro me levata,
E l'amor convertite in crudeltate
Addio alla mano, ove ormai piú non vedo
La stimmata d'onore e di lealtate.
...
Addio all'addio che spesso mi deste,
Quando lungi da me ve en andavate
A fedeltá che serbar prometteste
Alle promesse che era meglio tacere
Poiché menzogna veggo rivelare
Il voler vostro e il segreto mal celato
Addio all'addio sovente taciuto
Di cui aumenta memoria il rimpianto.
Addio al core che credevo buono,
Giusto, leale a nessuno eguale
Sol d'una cosa perdono vi chieggo
de è davervi creduto verace
addio al trono su cui onesto amore
regnar dovea ma or veggo amor folle
condurre un gioco che troppo è mutevole.
Addio a quel cuore che al final del gioco
Inflisse al mio morte senza speranza
Per ferma fede de amore durevole
Altre parole piú non posso scrivere.
Marguerite de Navarre
trad. genseki
lunedì, gennaio 05, 2009
Denis Diderot e lo zen
Smarrito di notte in un'immensa foresta non ho che una modesta lanterna per orientarmi. Sopraggiunge uno sconosciuto che mi dice: "Amico mio, per trovare meglio la strada soffia sulla fiammella". Lo sconosciuto è un teologo.
Denis Diderot
***
Un antico Buddha, uno di quei vecchi maestri cinesi dalle vesti macchiate e dagli occhi cisposi disse:
Smarrito di notte in un'immensa foresta non ho che una modesta lanterna per orientarmi. Sopraggiunge uno sconosciuto che mi dice: "Amico mio per trovare meglio la strada soffia sulla fammella". Lo sconosciuto è un Buddha.
Soffia sulla fiammella del tuo Io e sarai una sola cosa con la notte, con il nulla, oltre ogni discriminazione tra luce e tenebre tra te e gli alberi nell'unitá che viene prima dell'uno.
genseki
domenica, gennaio 04, 2009
martedì, dicembre 30, 2008
O fonti secche o arido vapore
O fonti secche o arido vapore
Pietra che manchi al piede
all'occhio al fuoco
Occhio che cieco anneghi di vedere
Parole di dolore
Non ne trovo
Prima della parola maledetti
Vi maledica il suono dal silenzio
La luce vi maledica dalla notte
Prima di spazio e tempo maledetti
O fonti secche o arido vapore
Pietra che manchi al piede
Voce all'odio
genseki
Gramsci e la fine della storia
Scrive Gramsci nelle pagine dei Quaderni dedicate alla filosofia di Benedetto Croce:
“La formulazione di Engels che l'unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente soggettivo [...]. L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie [...]. C'è dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l'unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un punto di partenza ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire verso l'unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario».
L'unificazione culturale del genere umano corrisponde in questo testo alla sparizione delle contraddizioni. Tuttavia la sparizione delle contraddizioni non puó che significare anche contemporaneamente la sparizione della dialettica dal momento che non vi è dialettica ove non è contaddizione. Se, tuttavia, come pare, anche nel pensiero di Gramsci la dialettica è la legge che governa la realtá umana e quella naturale, quale tipo di realtá sarebbe quella senza dialettica? Una realtá certamente non piú umana. Non piú umana in che senso? Certamente non nel senso di una realtá piú naturale. Che cosa allora? Qualche cosa che si situa al di lá del reale, nell'elemento dell'ultrareale che non è né trascendente né immanente e che quindi non non è né puó essere neppure anteriore piuttosto che posteriore. Infatti se non vi è contraddizione, ció che resta abolito è la negazione. Non puó evidentemente darsi negazione senza che inmediatamente si dia contraddizione e all'inverso ove non vi sia contraddizione non vi è possilitá di negazione. Senza negazione non si puó parlare di “punto di partenza” e neppure di principio. Perché vi sia partenza o perché vi sia inizio, è infatti necessario che vi sia negazione di uno stato che è appunto quello anteriore alla partenza o all'inizio e che nello stesso tempo è interno ad entrambi. Non so se si potrebbe dire attuale a tutti e due. L'unificazione del genere umano non può dunque essere considerata un punto di arrivo o di partenza se non in senso assolutamente relativo o metaforico.
In queste linee, tuttavia, Gramsci sembrerebbe voler far consistere la differenza tra idealismo e materialismo proprio in una opposta concezione del punto di arrivo e di quello di partenza. Gli idealisti sarebbero quelli che considerano lo spirito come il punto di partenza e i materialisti coloro che lo considerano un punto di arrivo,
Tuttavia se lo spirito, sarebbe meglio dire, il regno dello spirito realizzato è concepito da Gramsci come il regno della non contraddizione allora anche la contraddizione partenza-arrivo è tolta e con essa la contraddizione tra idealismo e materialismo che appunto non puó sussistere che in senso soltanto relativo.
D'altra parte la relazione dialettica tra partenza e arrivo è tale per cui l'arrivo è concepibile solo come legato alla partenza. In questo senso Gramsci sembrerebbe volerci dire che il materialismo è necessariamente legato all'idealismo e che non puó essere concepito se non in relazione dialettica con esso.
genseki
lunedì, dicembre 29, 2008
Etienne de la Boétie
Sonetto
Lasso per quanti giorni, lasso per quante notti
Vissi lungi del loco ove il cor mio dimora
Venti giorni costretto in oscura dimora
Un secolo mi parve di sofferenze a fiotti.
Solo porto la colpa o cattivo, infelice
Del sospirare invano, di ció che m'addolora:
Perché mal consigliato ho lasciato in mal'ora
Colei che in nessun luogo mai lasciare mi lice.
Ho vergoga che omai la pelle scolorata
Veggasi pel dolore di rughe come arata:
Ho vergogna che infine l' inumano dolore
Tinga il capo anzitempo con il bianco colore
Ancora son minore pel computo degli anni
Eppur sono giá vecchio per quello degli affanni.
trad. genseki
Lasso per quanti giorni, lasso per quante notti
Vissi lungi del loco ove il cor mio dimora
Venti giorni costretto in oscura dimora
Un secolo mi parve di sofferenze a fiotti.
Solo porto la colpa o cattivo, infelice
Del sospirare invano, di ció che m'addolora:
Perché mal consigliato ho lasciato in mal'ora
Colei che in nessun luogo mai lasciare mi lice.
Ho vergoga che omai la pelle scolorata
Veggasi pel dolore di rughe come arata:
Ho vergogna che infine l' inumano dolore
Tinga il capo anzitempo con il bianco colore
Ancora son minore pel computo degli anni
Eppur sono giá vecchio per quello degli affanni.
trad. genseki
martedì, dicembre 23, 2008
Bordiga
A Janitzio la morte non fa paura
«In Messico, nel lago Patzcuaro, si trova la piccola isola di Janitzio. A 2.350 metri d'altezza, un paesaggio stupendo si spalanca davanti ai visitatori: acque tranquille, montagne dai fianchi tormentati, un cielo così vicino che sembra di poterlo toccare col dito. Discendenti da una razza fiera, gli indiani Tarascani combatterono contro gli Spagnoli «conquistadores». Furono vinti e adottarono la religione cristiana degli invasori; ma i santi che essi venerano hanno conservato i caratteri delle antiche divanità. Il Sole, l'Acqua, il Fuoco e la Luna. I Tarascani sono abili nel lavorare il cuoio, nello scolpire il legno, nel lavorare l'argilla e nel tessere la lana. Sono anche abilissimi pescatori. Quando ritirano le loro reti dalla strana foggia, somiglianti a grosse farfalle, sono sempre ricche di pesce. Ma anche se industriosi, i Tarascani sono ancora molto primitivi. Essi considerano infatti la vita come uno stato transitorio, un breve momento che bisogna passare per giungere alla beatitudine della morte. La morte non rappresenta più un'inesorabile fatalità; al contrario essa è considerata un bene, l'unico veramente inestimabile. Ecco perché «il giorno dei morti» non è, per gli abitanti di Janitzio, un giorno di dolore. La festa inizia di buon mattino. Le case vengono decorate a festa e tutte le immagini dei santi si arricchiscono di pizzi e fiori di carta. I ritratti dei defunti vengono esposti e illuminati da decine di ceri. Le donne preparano i piatti favoriti dai parenti defunti poiché essi, tornando a visitare i vivi, vi traggano consolazione.Nel cimitero, dietro la chiesa, si decorano anche le tombe che molto spesso non hanno nome. Non vi sono iscrizioni funebri a Janitzio! Ma non per questo si dimenticano i morti. La via che conduce dal cimitero al villaggio viene cosparsa di petali di fiori, affinché i defunti possano agevolmente trovare la strada di casa.Nel «giorno dei morti» le donne di Janitzio si fanno belle. Pettinano le lunghe trecce scure e si adornano di gioielli d'argento. Il costume si compone di una lunga sottana rossa bordata di nero a larghe pieghe. La camicetta ricamata scompare sotto il «rebozo» che ricopre la testa e le spalle e dal quale, spesso, spunta la testina dell'ultimo nato. A mezzanotte le donne vanno tutte insieme nel camposanto e si inginocchiano a pregare per i loro cari defunti. Accendono i ceri, i più grandi dedicati agli adulti e i più piccoli per coloro che se ne sono andati troppo presto da «questa valle di lacrime». Poi si abbandonano alla meditazione che, a poco a poco, si traduce in parole. Inizia così uno litania che non è di dolore, ma che esprime la comunione esistente tra i vivi e i morti.Intanto gli uomini rimasti al villaggio si riuniscono a bere vicino alla chiesa dove è stato elevato un catafalco nero dedicato ai morti che non hanno più nessuno che preghi per loro. Ritorneranno a casa verso l'alba, mentre le loro donne, che hanno vegliato tutta la notte al cimitero, vanno a sentire la messa seminascoste nel «rebozo». Trascorre così a Janitzio «la giornata dei morti». Sui volti degli abitanti del villaggio non si legge dolore, ma la festosa aspettativa di chi attende la visita delle persone più care».
Abbiamo ripresa tal quale e col suo titolo questa notiziola da un giornale italiano per i ragazzi. È una delle tante rifritture di materiale americano di «cultura» che passano di giornale in giornale e di rivista in rivista senza che pennaioli di servizio si accorgano di altro che del grado di effetto del pezzo che circola. Il ricopiatore ennesimo non si è nemmeno sognato il significato profondo che la sua diffusione nasconde, sia pur nella forma convenzionalmente conformista.
Le nobilissime popolazioni messicane, diventate cattoliche sotto il terrore spietato degli invasori spagnoli, mostrerebbero, col non avere terrore ed orrore della morte, di essere rimaste «primitive».
Erano, invece, quei popoli, eredi di una civiltà incompresa ai cristiani di allora e di oggi, e trasmessa dal comunismo antichissimo. L'insulso individualismo moderno non può che stupire beota se, pur nel testo scolorito, si legge di tombe senza iscrizione e di cibi che si apprestano ai morti che nessuno commemora. Veri «morti ignoti», non per retorica bolsa e demagogica, ma per possente semplicità di una vita che è della specie e per la specie, eterna come natura e non come sciocco sciame di anime vaganti negli extra-mondi, per la quale, e per il suo sviluppo, valgono le esperienze dei morti, dei vivi e dei non nati, in una serie storica il cui avvicendarsi non è lutto, ma gioia di tutti i momenti del ciclo materiale.
Anche nel simbolo, quei costumi sono più alti di quelli nostrani, ad esempio in quelle donne che si fanno belle per i morti e non per il più danaroso dei vivi, come nella società mercantile, fogna in cui noi siamo immersi.
Se sotto le spoglie degli squallidi santi cattolici vive ancora la forma antichissima delle divinità non inumane, come il Sole, ciò ricorda le notizie - quanto giunte a noi travisate! - della civiltà Incas, che Marx ammirava. Non erano primitivi e feroci tanto da immolare i più begli esemplari della specie giovane al Sole che chiedeva sangue umano, ma splendide di un intuito possente, quelle comunità che riconoscevano il fluire della vita nella energia, che è la stessa quando il Sole la irradia sul pianeta e quando fluisce nelle arterie dell'uomo vivo e diventa unità ed amore nella specie una, che fino a quando non cade nella superstizione dell'anima personale col suo bilancio bigotto di dare ed avere, soprastruttura della venalità monetaria, non teme la morte e non ignora che la morte della persona può essere inno di gioia, e contributo fecondo alla vita dell'umanità.
Nel comunismo naturale e primigenio, anche se l'umanità è sentita nel limite dell'orda, il singolo non ha scopi che consistano nel sottrarre bene al fratello ma è pronto ad immolarsi per il sopravvivere della grande fratria senza alcuna paura. Sciocca leggenda vede in questa forma il terrore del dio che si plachi col sangue.
Nella forma dello scambio, della moneta, e delle classi, il senso della perennità della specie sparisce, e sorge quello ignobile della perennità del peculio, tradotta nella immortalità dell'anima che contratta la sua felicita fuori natura con un dio strozzino che tiene questa banca e pesa. In queste società che pretendono di essere salite da barbarie a civiltà si teme la morte personale e ci si prostra alle mummie, fino ai mausolei di Mosca, dalla storia infame.
Nel comunismo, che non si e avuto ancora, ma che resta certezza di scienza, si riconquista la identità del singolo e della sua sorte con quella della specie, distrutta entro essa tutti i limiti di famiglia, razza e nazione. Con questa vittoria finisce ogni timore della morte personale, ed allora soltanto ogni culto del vivo e del morto, essendo per la prima volta la società organizzata sul benessere e la gioia e sulla riduzione al minimo razionale del dolore della sofferenza e del sacrificio, togliendo ogni carattere misterioso e sinistro alla vicenda armoniosa del succedersi delle generazioni, condizione naturale del prosperare della specie.
Source: «Il Programma Comunista» N. 23 - 15-29 Dicembre 1961
«In Messico, nel lago Patzcuaro, si trova la piccola isola di Janitzio. A 2.350 metri d'altezza, un paesaggio stupendo si spalanca davanti ai visitatori: acque tranquille, montagne dai fianchi tormentati, un cielo così vicino che sembra di poterlo toccare col dito. Discendenti da una razza fiera, gli indiani Tarascani combatterono contro gli Spagnoli «conquistadores». Furono vinti e adottarono la religione cristiana degli invasori; ma i santi che essi venerano hanno conservato i caratteri delle antiche divanità. Il Sole, l'Acqua, il Fuoco e la Luna. I Tarascani sono abili nel lavorare il cuoio, nello scolpire il legno, nel lavorare l'argilla e nel tessere la lana. Sono anche abilissimi pescatori. Quando ritirano le loro reti dalla strana foggia, somiglianti a grosse farfalle, sono sempre ricche di pesce. Ma anche se industriosi, i Tarascani sono ancora molto primitivi. Essi considerano infatti la vita come uno stato transitorio, un breve momento che bisogna passare per giungere alla beatitudine della morte. La morte non rappresenta più un'inesorabile fatalità; al contrario essa è considerata un bene, l'unico veramente inestimabile. Ecco perché «il giorno dei morti» non è, per gli abitanti di Janitzio, un giorno di dolore. La festa inizia di buon mattino. Le case vengono decorate a festa e tutte le immagini dei santi si arricchiscono di pizzi e fiori di carta. I ritratti dei defunti vengono esposti e illuminati da decine di ceri. Le donne preparano i piatti favoriti dai parenti defunti poiché essi, tornando a visitare i vivi, vi traggano consolazione.Nel cimitero, dietro la chiesa, si decorano anche le tombe che molto spesso non hanno nome. Non vi sono iscrizioni funebri a Janitzio! Ma non per questo si dimenticano i morti. La via che conduce dal cimitero al villaggio viene cosparsa di petali di fiori, affinché i defunti possano agevolmente trovare la strada di casa.Nel «giorno dei morti» le donne di Janitzio si fanno belle. Pettinano le lunghe trecce scure e si adornano di gioielli d'argento. Il costume si compone di una lunga sottana rossa bordata di nero a larghe pieghe. La camicetta ricamata scompare sotto il «rebozo» che ricopre la testa e le spalle e dal quale, spesso, spunta la testina dell'ultimo nato. A mezzanotte le donne vanno tutte insieme nel camposanto e si inginocchiano a pregare per i loro cari defunti. Accendono i ceri, i più grandi dedicati agli adulti e i più piccoli per coloro che se ne sono andati troppo presto da «questa valle di lacrime». Poi si abbandonano alla meditazione che, a poco a poco, si traduce in parole. Inizia così uno litania che non è di dolore, ma che esprime la comunione esistente tra i vivi e i morti.Intanto gli uomini rimasti al villaggio si riuniscono a bere vicino alla chiesa dove è stato elevato un catafalco nero dedicato ai morti che non hanno più nessuno che preghi per loro. Ritorneranno a casa verso l'alba, mentre le loro donne, che hanno vegliato tutta la notte al cimitero, vanno a sentire la messa seminascoste nel «rebozo». Trascorre così a Janitzio «la giornata dei morti». Sui volti degli abitanti del villaggio non si legge dolore, ma la festosa aspettativa di chi attende la visita delle persone più care».
Abbiamo ripresa tal quale e col suo titolo questa notiziola da un giornale italiano per i ragazzi. È una delle tante rifritture di materiale americano di «cultura» che passano di giornale in giornale e di rivista in rivista senza che pennaioli di servizio si accorgano di altro che del grado di effetto del pezzo che circola. Il ricopiatore ennesimo non si è nemmeno sognato il significato profondo che la sua diffusione nasconde, sia pur nella forma convenzionalmente conformista.
Le nobilissime popolazioni messicane, diventate cattoliche sotto il terrore spietato degli invasori spagnoli, mostrerebbero, col non avere terrore ed orrore della morte, di essere rimaste «primitive».
Erano, invece, quei popoli, eredi di una civiltà incompresa ai cristiani di allora e di oggi, e trasmessa dal comunismo antichissimo. L'insulso individualismo moderno non può che stupire beota se, pur nel testo scolorito, si legge di tombe senza iscrizione e di cibi che si apprestano ai morti che nessuno commemora. Veri «morti ignoti», non per retorica bolsa e demagogica, ma per possente semplicità di una vita che è della specie e per la specie, eterna come natura e non come sciocco sciame di anime vaganti negli extra-mondi, per la quale, e per il suo sviluppo, valgono le esperienze dei morti, dei vivi e dei non nati, in una serie storica il cui avvicendarsi non è lutto, ma gioia di tutti i momenti del ciclo materiale.
Anche nel simbolo, quei costumi sono più alti di quelli nostrani, ad esempio in quelle donne che si fanno belle per i morti e non per il più danaroso dei vivi, come nella società mercantile, fogna in cui noi siamo immersi.
Se sotto le spoglie degli squallidi santi cattolici vive ancora la forma antichissima delle divinità non inumane, come il Sole, ciò ricorda le notizie - quanto giunte a noi travisate! - della civiltà Incas, che Marx ammirava. Non erano primitivi e feroci tanto da immolare i più begli esemplari della specie giovane al Sole che chiedeva sangue umano, ma splendide di un intuito possente, quelle comunità che riconoscevano il fluire della vita nella energia, che è la stessa quando il Sole la irradia sul pianeta e quando fluisce nelle arterie dell'uomo vivo e diventa unità ed amore nella specie una, che fino a quando non cade nella superstizione dell'anima personale col suo bilancio bigotto di dare ed avere, soprastruttura della venalità monetaria, non teme la morte e non ignora che la morte della persona può essere inno di gioia, e contributo fecondo alla vita dell'umanità.
Nel comunismo naturale e primigenio, anche se l'umanità è sentita nel limite dell'orda, il singolo non ha scopi che consistano nel sottrarre bene al fratello ma è pronto ad immolarsi per il sopravvivere della grande fratria senza alcuna paura. Sciocca leggenda vede in questa forma il terrore del dio che si plachi col sangue.
Nella forma dello scambio, della moneta, e delle classi, il senso della perennità della specie sparisce, e sorge quello ignobile della perennità del peculio, tradotta nella immortalità dell'anima che contratta la sua felicita fuori natura con un dio strozzino che tiene questa banca e pesa. In queste società che pretendono di essere salite da barbarie a civiltà si teme la morte personale e ci si prostra alle mummie, fino ai mausolei di Mosca, dalla storia infame.
Nel comunismo, che non si e avuto ancora, ma che resta certezza di scienza, si riconquista la identità del singolo e della sua sorte con quella della specie, distrutta entro essa tutti i limiti di famiglia, razza e nazione. Con questa vittoria finisce ogni timore della morte personale, ed allora soltanto ogni culto del vivo e del morto, essendo per la prima volta la società organizzata sul benessere e la gioia e sulla riduzione al minimo razionale del dolore della sofferenza e del sacrificio, togliendo ogni carattere misterioso e sinistro alla vicenda armoniosa del succedersi delle generazioni, condizione naturale del prosperare della specie.
Source: «Il Programma Comunista» N. 23 - 15-29 Dicembre 1961
Natale 2008
Ancora una volta il Fuoco ha penetrato la Terra.
Non si è schiantato con strepito come un fulmine sulle montagne. Forse il Signore deve forzare la porta per entrare nella sua casa?
Senza sismi, senza tuoni, appare la fiamma che ha illuminato ogni cosa dall'interno.
Dal cuore dell'infimo tra gli atomi fino all'energia delle leggi piú universali,
ha invaso con assoluta naturalezza, ogni individuo, e nel suo insieme, ogni elemento, ogni modello, ogni unione del nostro cosmo, tanto che potrebbe credersi che esso abbia spontaneamente preso fuoco.
In ogni nuova Umanitá che oggi si genera,
il Verbo ha prolungato l'atto senza fine
della sua nascita, e in virtú della sua immersione nel seno del Mondo, le grandi acque della Materia, senza nemmeno un brivido, si sono riempite di vita.
Apparentemente nulla ha tremato, per l'ineffabile trasformazione. Tuttavia, misteriosamente e realmente, al contatto con la parola sostanziale, lUniverso, immensa ostia si è fatto carne.
Da allora ogni materia si è incarnata, Dio mio, per opera della tua incarnazione.
Pierre Teilhard de Chardin
Inno dell'Universo
Trad. genseki
lunedì, dicembre 22, 2008
César Vallejo
Ciro Alegria
César Vallejo come l'ho conosciuto
Parte I
Un signore circospetto, carico di anni e di sapienza, era in visita a casa una domenica sera, e fu allora che udii per la prima volta il nome di César Vallejo e le discussione che provocava. Si parlava del fatto che il lunedí avrei dovuto cominciare ad andare a scuola.
- Se avessi un figlio – suggerí questo Signore – lo manderei al Seminario. È una scuola di preti ed è molto conveniente.
Io ascoltavo attentamente questa conversazione dalla quale dipendeva il mio destino di studente. Mia nonna rispose con dignitá:
- In realtà suo padre mi ha scritto che lo mandi alla Scuola Nazionale di San Giovanni. È quello che ha detto definitivamente. Tutti gli uomini della famiglia sono stati educati li -.
- Che classe frequenterá?
- Quest'anno va in prima.
Il vecchio fece quasi un salto e poi disse con molta concitazione:
- Ma signora! Qui non si tratta di Scuole, si tratta di buon senso ... Ma lei lo sa chi insegna in prima alla Scuola di San Giovanni? Lo sa? Ebbene, quel Cesare Vallejo, quello che crede di essere un poeta e gli manca qualche rotella ... -
- Vabbé, ma per insegnare in prima... - disse la nonna per calmarlo un po'.
Ma il nostro ospite sembrava deciso a salvare dal pericolo quel povero innocente che io ero e argomentó:
- No, signora! Questo Vallejo se non è un idiota è sicuramente un pazzo. Non potrebbe farlo entrare in seconda. Entrando ho visto che il bambino stava leggendo il giornale ...-
Il mio presunto salvatore fece una smorfia sconsolata quando la nonna gli disse:
- Si, sa giá leggere e scrivere ma non le altra materie che si insegnano in prima -.
Il vecchio era peró determinato a spendere tutte le sue risorse per liberare il mio povero cervello da influenze perturbatrici, e prese una direzione piú condiscendente:
- Tuttavia signora, lei non mi negherá che in quanto all'educazione e specialmente a quella religiosa il seminario è il collegio migliore. Il suo prestigio va crescendo ... -
E la nonna:
- anche nel piano di studi del San Giovanni c`è religione e non sono per niente anticattolici ...-
Il vecchio si arrese. Forse per consolarsi, peró, si mise a esporre alcune considerazioni fatali per il modernismo e per tutta una serie di altri ismi e poi fece lampi e tuoni di ordine estetico contro l'arte del mio maestro, ma io non ci capivo niente. Finalmente se en andó con un'espressione abbastanza contrariata e non senza farmi gli auguri di buona fortuna in un modo tra disperato e compassinevole.
Mi riuscí difficile conciliare il sonno nel mezzo delle inquietudini che si impadronivano di un bambino che domani aspettava il suo primo giorno di scuola e pensava al suo maestro, che si diceva fosse un poeta e che il vecchio severo aveva chiamato pazzo o forse idiota.
Un mio compagno di viaggio che studiava in quella stessa scuola mi ci accompagnó.
- Voi non entrate da qui – mi disse quando giungemmo ad una grande porta sulla quale si leggeva l'iscrizione: dio e patria, - questa porta è per noi, quelli delle medie. Passiamo di lá -.
Camminammo verso l`angolo della strada, e quando lo svoltammo, si aprí a metá la porta che usavano i maestri e gli alunni delle elementari. Ci fermammo di colpo e mio zio mi presentó a quello che sarebbe stato il mio maestro. Accanto alla porta, immobile c'era Cesare Vallejo, magro, giallognolo, quasi ieratico, mi parve un albero che avesse perso le sue foglie. Il suo vestito era scuro, come scura la sua pelle. Per la prima volta vidi la luce intensa dei suoi occhi quando si inclinó per domandarmi, con tenera attenzione, come mi chiamassi. Scambió poi alcune parole con mio zio e quando questi se en andó mi disse “vieni di qua” Entrammo in un piccolo cortile dove stavano giocando molti bambini. La classe di prima era su uno dei lati. Allora si mise ad aprire i banchi per vedere se ce en fosse uno libero in base al fatto che vi fossero o no abiti al suo interno, poi me en indicó uno dicendo:
- Ti siederai qui, metti le tue cose, no, non così, devi essere ordinato, prima la lavagnetta che è piú grande, sopra il tuo libro e il berretto -.
Trad. genseki
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