venerdì, dicembre 05, 2008

Montaigne in blog


Michel de Montaigne

Alla fine, davvero, dopo una serena riflessione ho deciso di porre anche Montaigne che da tantissimi anni non fequentavo più, tra i lari di questo blog.
Per quali ragioni?
Eccone alcune qui di seguito:

"Io, che ultimamente mi sono ritirato in casa deciso, per quanto dipende dalla mia volontá a passare riposatamente e in solitudine quel piccolo resto di vita che ancora mi tocca, parvemi non poter fare cosa piú grata all'anima mia che lasciarla libera, pienamente, abbandonata alle sue proprie forze, affinché ella si fermasse ove lo ritenesse maggiormente profittevole, sperando cosí che potesse per l'avvenire acquisire un grado maggiore di maturazione, tuttavia, cred'io che siccome
Variam semper dant otia mentem
quello che occorre è l'opposto. Cavallo che solo se en fugge corre cento volte piú rapido di quando alcun fantino lo governa, lo spirto mio ozioso tante chimere genera, tanti mostri fantastici senza tregua e senza riposo, senza ordine e senza armonia veruna, che per poter contemplare comodamente la debolezza e bizzarria di essi tutti
mi avvenne di ponerli per iscritto, sperando che col tempo gli sia causa di vergogna contemplare simiglianti spropositi." (trad. genseki) Montaigne Essais I,6

Che è la definizione esatta della ragion d'essere di questo blog.
genseki

giovedì, dicembre 04, 2008

Kohlart II

art
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Egemonia

La riflessione di Gramsci sull'egemonia è prima di tutto una riflessione su una struttura storica determinata: Il Partito leninista, ovvero lo strumento politico elaborato e impiegato da Lenin nella Rivoluzione di Ottobre.
Questa riflessione è anche amaramente critica ma non vi è nessun dubbio che l'orizzonte nel quale si muove è questo.

Il Partito di Lenin è considerato da Gramsci come un apparato di egemonia su piani differente, da quello economico a quelli sovrastrutturali tra cui il piano culturale. Certamente Gramsci concentra la sua riflessione in modo significativo sull'egemonia culturale. L'interesse a questa particolare forma di egemonia e al ruolo degli intellettuali mi sembra, implicitamente dipendere dall'ansia di comprendere come la macchina del partito di Lenin abbia potuto trasformarsi nell'incubo barbarico scita dello stalinismo.

Nonostante quest'ansia la nozione di egemonia resta in Gramsci sempre all'interno della nozione di Partito considerato come avanguardia necessaria di ogni movimento storico progressivo:
“Elementi di storia etico-politica nella filosofia della praxis: concetto di egemonia, rivalutazione del fronte filosofico, studio sistematico della funzione degli intellettuali nella vita statale e storica, dottrina del partito politico come avanguardia di ogni movimento storico progressivo.” 1235

Il Partito che, come è noto, Gramsci descrive come il nuovo Principe, è lo strumento nuovo, che forgiato da Lenin nella forma di un intellettuale-militante collettivo ha il compito di realizzare la famosa tesi di Marx a proposito di Feurbach e della filosofia.
Certamente uno degli antecedenti del Partito è stata la Compagnia di Gesú di Ignazio da Loyola.

Come si vede c'è davvero poco che possa servire al no-globalismo, o ai manifestanti anti-gelmini.
Mi sembra che una delle cose piú negative di quella che si pretende ancora una sinistra antogonista è aver perduto la nozione di quanto lavoro sia necessario, quanto tempo, quanto studio e soprattutto quante, quante sconfitte e amarezze, per creare una qualunque forma di opinione organizzata che permetta di introdurre cambiamenti, appunto, radicali nelle societá odierne.

Il compito principale di una simile struttura, oggi, poi, sarebbe quello di sopravvivere e di riprodursi salvaguardando il patrimonio di conoscenze e di pratica politica che è venuta accumulando nel tempo.
La qual cosa non sigifica ritirarsi dalla politica in un isolamento settario, ma essere presenti nel conflitto politico senza rinnegare mai per nessuna ragione nessun principio.
La battaglia politica sui principi è la sola forma conosciuta di selezionare militanti de intellettuali che costituiscano l'embrione di una futura possibile egemonia:

“La proposizione contenuta nell'introduzione alla Critica dell'economia che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura nel terreno delle ideologie deve essere considerata come un'affermazione di valore gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teorico politico dell'egemonia ha anch'esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l'apporto teorico massimo di Ilici alla filosofia della praxis. Ilici avrebbe fatto progredire la filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico.” 1249-1250 Quaderno X – XXXIII

“Ho accennato altrove all'importanza filosofica del concetto e del fatto di egemonia dovuto a Ilici. L'egemonia realizzata significa la critica reale di una filosofia, la sua reale dialettica”.
882
**
L'egemonia è appunto la realizzazione di quanto è stato pensato nella storia filosofia.
È la filosofia diventata pratica.
Il concetto di egemonia è dunque molto, molto vicino a quello di fine della storia come viene letto da Kojève in Hegel.
L'egemonia è la forma della fine della storia nel pensiero di Gramsci. Naturalmente Gramsci ovviamente avrebbe piuttosto parlato di iniszio della Storia e di fine della preistoria.
Infine, l'egemonia si colloca in una visione della storia che ha nella lotta di classe e nella lotta di classe sul piano economico il suo asse:

“... se ne deduce che il contenuto dell'egemonia politica del nuovo gruppo sociale che ha fondato il nuovo tipo di stato deve essere prevalentemente di ordine economico: si tratta di riorganizzare la struttura e i rapporti reali tra gli uomini e il mondo economico o della produzione. Gli elementi di superstruttura non possono che essere scarsi e il loro carattere sará di previsione e di lotta, ma con elementi di piano ancora scarsi: il piano culturale sarà soprattutto negativo, di critica del passato, tenderá a far dimenticare e a distruggere...”

Tutte le letture post-moderniste, e noglobaliste di Gramsci sembrano davvero molto poco legittime alla luce delle linee precedenti.
L'egemonia non si riduce solo all'egemonia culturale e per egemonia culturale si intende soprattutto egemonia sul ceto intellettuale.
Ma l'egemonia non è una proposta teorica alla quale omologare la realtá.
Il concetto di egemonia è uno strumento di analisi della storia e della pratica di costituzione e di perpetuazione del dominio di classe.
La teoria di Gramsci dell'egemonia è la descrizione scientifica di come la borghesia costruisce il suo domino e di come lo mantiene.
Questa descrizione è fatta al fine di fornire alla classe antagonista gli strumenti perfezionati e coscienti che le permettano di costruire una nuova egemmonia e di subentrare agli antichi dominatori:

“Ogni rapporto di egemonia è necssariamente un rapporto pedagogico e si realizza non solo all'interno di una nazione, tra le diverse forze che la compongono, ma nell'intero campo internazionale e mondiale, tra complessi di civiltá nazionali e mondiali.”
1331

Riduzione a politica di tutte le filosofie speculative, a momento della vita storico-politica; la filosofia della praxis concepisce la realtá dei rapporti umani di conoscenza come elemento di “egemonia” politica.
1245

Le domanda da porsi quindi sarebbe:

È ancora possibile e in che termine è possibile riproporre qualche cosa di simile al Partito di Lenin?
Perché dalla risposta a questa domanda dipende l'attualitá della figura dell'egemonia gramsciana.
Da questa risposta dipende se la storia è finita nel regno dell'animale consumatore o se quella che si avvicina alla fine è la preistoria della specie umana.

I numeri delle pagine si riferiscono all'edizione Einaudi Tascabili dei Quaderni a cura di Valentino Gerratana. 2001
a presto
genseki

mercoledì, dicembre 03, 2008

Kohlart

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La dialettica di Paco Yunque


Il racconto per bambini Paco Yunque di César Vallejo che fu rifiutato da diversi editori perché considerato, probabilmente, oltraggiosamente senza speranza, puó essere letto come un'illustrazione pedagocica della dialettica.
La poesia di Vallejo e segnatamente i “Poemas humanos” puó essere interpretata, certamente come un gigantesco sforzo di creare una dialettica poetica.
Paco Yunque fu scritto intorno al 1931, quando Vallejo era giá seriamente impegnato in una convinta militanza marxista.

La relazione che intercorre tra Paco Yunque il giovane andino e il bambino inglese Humberto Grieve è una relazione servo-padrone.
Humberto Grieve dice subito ai compagni di classe che Paco Yunque è il suo “muchacho” e per questo puó obbligarlo a sedere nel banco che decide lui e costrigerlo a lasciarsi picchiare e umiliare a suo arbitrio.
La relazione tra Paco Yunque e Humberto Grieve pare essere accettata senza nessun problema dalle autoritá: il maestro.
Non è accettata in modo altrettanto acritico dai compaghi di Paco come Fariña e i gemelli Zuniga che cercano di rendere Paco cosciente di una qualche anomalia della sua condizione servile e di spingerlo alla ribellione mostrandogli affetto naturale e spontaneo sostegno.
Paco Yunque non puó accettare la ribellione perché ha paura, paura del dolore sprattutto che Humberto Grieve puó decidere di infliggergli o forse perché non intravede la possibilitá di una relazione diversa come qualche cosa di reale.
Nel mondo da cui proviene tutti sono servi o padroni. Egli e la sua famiglia appartengono alla famiglia di Umberto Grieve: sono servi!
Servo e suo padre che accetta come naturale qualsiasi umiliazione gli venga dal Signor Grieve, seserva è sua madre che accetta con rassegnazione che il gioco preferito di Umberto Grieve sia quello di picchiare crudelmente suo figlio.
La servitú per Paco Yunque è un fatto naturale.
La scuola non è il mondo di Paco Yunque. La scuola è una soglia, il limbo di una nuova forma della coscienza.
Il mondo della servitú è per Paco anche il mondo della madre. Il mondo in cui vi è tenerezza e amore.
Servitù, dolore, paura, amore sono i sentimenti contradditori che si agitano nell'anima del bambino che poco a poco diviene cosiente di essi per il fatto stesso di aver varcato la soglia, per il fatto di trovarsi nel limbo della scuola.

Per Hegel, nella “Fenomenologia dello Spirito” la dialettica servo-padrone, è una figura del processo di formazione dell'autocoscienza. Il Signore è colui che sfida la morte e il dolore e per questa sua capacitá di sfida finisce per subordinare coloro che non sono in grado di affrontare queste realtá con altrettanta forza. Il Signore, peró, una volta costituitosi come tale dipende dal lavora del servo. È il servo che lo nutre e gli permette di restare in vita e nello stesso tempo e il servo che lo separa dalla realtá, dalle condizioni reali della sua stessa riproduzione nel tempo come individuo. Il padrone non puó piú fare a meno del servo.

Questo schema del pensiero hegeliano è chiaramente semplificato nella relazione tra Paco e Humberto.

Humberto ha assoluto bisogno di Paco per sopravvivere nella scuola. Ha necessitá che Paco stia nel suo stesso banco. È costretto a dipendere da Paco per poter svolgere i compiti e per poter avere un quadro accettabile della realtà. Humberto dice al maestro che in casa sua i pesci vivono sul tappeto del salotto di casa perché suo padre ha molto denaro e quindi in casa sua i pesci non hanno bisogno dell'acqua. Humberto non ha quindo quasi nessun rapporto con la realtá del mondo. Paco sa cosa è un pesce, sa che cosa è la morte e sa che cosa è il dolore. Per questo Humberto ha bisogno di Paco per poter sopravvivere nello spazio limbico della scuola.
È Humberto che ha bisogno di Paco e non Paco di Humberto. È Humberto che dipende da Paco.
A questo punto la relazione servo-signore, come in Hegel, risulta invertita. Invertita peró in modo dialettico. Nel cortile o nell'aula della scuola la relazione tra Paco e Humberto si inverte pur restando anche sempre la stessa. Restando cioè anche quella che è fuori della scuola.
Paco si trova preso nel compito di conseguire la consapevolezza di questa realtá e le sue lacrime alla fine del racconto sono il primo paso in questa direzione.

Paco Yunque non si chiude dunque su una nota disperata ma si apre su di un processo di liberazione e di conquista della dignitá nella sua fase embrionale.
genseki

lunedì, dicembre 01, 2008

likenart

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Argerich Gaspard de la Nuit - Scarbo

Guardó sotto il letto, nel camino e nella credenza: nessuno. Non riuscí a capire da dove fosse entrato e da dove, poscia, se ne fosse uscito.
Hoffmann
Notturni

Oh! Quante volte ho visto e udito Scarbo, quando a mezzanotte la luna brilla nel cielo come uno scudo d'argento su una bandiera di lapislazzulo costellata di api dorate.

Quante volte l'ho udito ronzare, il suo riso, nell'ombra della mia alcova e stridere la sua unghia sulla seta delle cortine del mio letto.!

Quante volte l'ho visto scendere dal soffitto, fare le capriole con un piede solo e rotolare per la camera come il fuso caduto dalla conocchia di una strega!

Credevo che fosse svenuto? Cresceva, il nano, tra me e la luna come fosse il campanile di una cattedrale gotica, un sonaglio d'ro in movimento sul berretto appuntito.

Presto, peró, il suo corpo azurrava, trasparente come la cera d'una candela, il suo volto impallidiva come la cera di un lumicino, e - di colpo si spegneva.

A. Bertrand
trad. genseki

Gaspard de la nuit


Lo scolaro di Leida


Le precauzioni non sono mai abbastanza con i tempi che corrono, soprattutto da quando i falsari si sono stabilito nel nostro paese.


L'assedio di Berg-op-zoom


***


Si siede nella sua poltrona di velluto di Utrecht, Mastro Bissio, il mento nel suo colletto finemento ricamato, come un pollo che il cuoco abbia arrostito in un tegame di ceramica.


Si siede al suo banco per registrare la moneta di mezzo fiorino; io, povero scolaro di Leida, non ho che un berretto e un par di braghe bucati, e resto dritto su un piede solo come una gru su di un palo.


Ecco il bilancino che esce dalla sua custodia di lacca decorata di strane figurine cinesi, come un ragno, che ripiegando le sue braccine lunghe si rifugia in un tulipano dalle sfumature di mille colori.


Dalla sua faccia allungata, dal tremito delle sue dita secche secche che saggiano i pezzi d'oro, Mastro Bessio sembrerebbe propio un ladro colto sul fatto e obbligato con una pistola puntata alla gola a restituire a Dio ció che gudagnó come mercede del diavolo.


Il mio fiorino che esamini con la tua lente è meno equivoco e meno losco che il tuo occhietto grigio che fuma come uno stoppino mal spento.
Il bilancino è rientrato nella sua scatolina di lacca su cui brillano le figurine cinesi, Mastro Bessio si soleva un pochino dalla sua poltrona di velluto di Utrecht, e io, povero scolaro di Leida con le scarpe e le calze bucate, mi inchino fino al suolo e esco come un gambero.


trad genseki

Preghiera prima della studio

Tomaso d'Aquino

O Creatore ineffabile, che con il tesoro della tua sapienza hai tre gerarchie angeliche e le hai disposte sul cielo empireo in un ordine meraviglioso, tu che hai dsistribuito con suprema eleganza gli elementi dell'universo. Ti che sei detto fonte della luce e della sapienza, principio supereminente, degnati di illuminare con i raggi del tuo chiaro splendore le duplici oscure tenebre del mio intelletto, con le quali sono nato, ovvero il peccato e l'ignoranza. Tu che conferisci alla lingua degli infanti la facoltá di parlare, istruisci la mia lingua e poni sulle mie labbra il dono della tua benedizione.
Concedimi l'acume dell'intelligenza, la capacitá di assimilare, metodo efacilitá nell'apprendere, intuizione nell'interpretare, e una fluente eloquenza. Veglia sulla preparazione, dirigi il progresso e conserva il frutto. Tu che sei vero Dio e vero uono e vivi nei secoli dei secoli. Amen.
trad genseki
***
CREATOR ineffabilis, qui de thesauris sapientiae tuae tres Angelorum hierarchias designasti et eas super caelum empyreum miro ordine collocasti atque universi partes elegantissime distribuisti: Tu, inquam, qui verus fons luminis et sapientiae diceris ac supereminens principium, infundere digneris super intellectus mei tenebras tuae radium claritatis, duplices, in quibus natus sum, a me removens tenebras, peccatum scilicet et ignorantiam. Tu, qui linguas infantium facis disertas, linguam meam erudias atque in labiis meis gratiam tuae benedictionis infundas. Da mihi intelligendi acumen, retinendi capacitatem, addiscendi modum et facilitatem, interpretandi subtilitatem, loquendi gratiam copiosam. Ingressum instruas, progressum dirigas, egressum compleas. Tu, qui es verus Deus et homo, qui vivis et regnas in saecula saeculorum. Amen

domenica, novembre 30, 2008

Epistola sul metodo di studio


Tomaso D’Aquino


Epistola sul metodo di studio


Carissimo Giovanni, amico mio in Cristo, siccome mi hai chiesto in che modo tu debba impegnarti per acquisire il tesoro della scienza ti do questo consiglio: scegli di bagnarti prima nei ruscelli e non subito nel mare, perché occorre giungere alle cose più difficili passando per quelle più facili. Questo è il mio insegnamento e la tua istruzione: ti ordino di non essere precipitoso nel parlare, lentro ad entrare nei discorsi; difendi la purezza della coscienza. Non tralasciare di dedicarti alla preghiera. Ama la tua cella se vuoi entrare in quella che custodisce il vino. Mostrati amabile con tutti; non chiedere mai nulla che riguardi i fatti degli altri; non mostrare molta familiarità, perché la familiarità eccessiva genera il disprezzo e fornisce pretesti per sottrarsi allo studio; non intrometterti in nessun modo nelle parole e nei fatti dei laici; evita soprattutto di andare a zonzo senza scopo; non trascurare di imitare l’esempio dei santi e dei buoni; non distoglierti da quello che odi, ma custodisci nella memoria tutte le cose buone che vengono dette; cerca di capire ciò che odi o leggi; cerca di chiarificare i dubbi; datti da fare per riporre nello scrigno della mente tutto quello che potrai come se volessi colmarne il vaso; non cercare cose più alte. Seguendo questo sentiero produrrai frutti fecondi e le tue fronde si estenderanno nella vigna del Signore Sabaoth per tutti i giorni della tua vita. Se seguirai queti insegnamente potrai giungere a ciò che aspiri.


Trad. genseki


***

sabato, novembre 29, 2008

Gilles de Rais II


Le armate inglesi si congiungevano, inondavano il paese, si estendevano sempre di più, invadevano il Centro. Il re pensava a ripiegare nel Sud, ad abbandonare la Francia; fu allora che apparve Giovanna D’Arco.
Gilles ritorna allora presso Carlo che gli affida la guardia e la difesa della Pulzella. Egli la segue dovunque, l’assiste nelle battaglie, anche sotto le mura di Parigi, è accanto a lei a Reims nel giorno della consacrazione, quando il Re a motivo del suo valore lo crea Maresciallo di Francia a venticinque anni!
Come si comportò Gilles de Rais con Giovanna D’Arco? Non abbiamo informazioni. Vallet de Viriville l’accusa di tradimento senza però portare nessuna prova. L’abate Bossard afferma al contrario che gli fu fedele e che lealmente vegliò su di lei portando ragioni plausibili a suffragio della propria opinione. Quello che è certo è che si trattava di un uomo la cui anima era saturata di idee mistiche come prova tutta la sua storia. Visse a fianco di questa fanciulla straordinaria le cui avventure sembrano attestare che un intervento divino negli avvenimenti di quaggiù è veramente possibile.
Assiste al miracolo di una contadinotta che piega una corte di cialtroni e di banditi, rianima un Re vile e in procinto di fuggire. Assiste all’incredibile episodio di una vergine che conduce come un gregge docile al suo gesto dei tipi come La Hire, Xaintrailles, Beaumanoir, Chabannes, Dunois e Goncourt vecchie belve che belano al suo comando e rivestono l vello degli agnelli. Anche lui, come loro bruca l’erba bianco delle prediche, fa la comunione, venera Giovanna come una santa. Vede infine che la Pulzella mantiene le sue promesse. Toglie l’assedio di Orléans, fa consacrare il Re a Reims e dichiara, allora, ella stessa che la sua missione è terminata, domandando la grazia di potersene tornare a casa.
E’ facile scommettere che un tale ambiente abbia potuto esaltare il misticismo di Gilles; ci troviamo di fronte ad un uomo la cui anima è divisa tra l’ussaro e il monaco.
La Pulzella aveva portato a termine la sua missione. Che cosa avvenne di Gilles dopo ch’ella fu catturata, dopo la sua morte? Nessuno lo sa. Tutt’al più viene segnalata la sua presenza nei dintorni di Rouen quando viene istruito il processo; ma da questo non si può concludere, come fanno certi suoi biografi ch’egli nutrisse l’intenzione di salvarla.
Comunque, dopo aver perduto le sue tracce lo ritroviamo chiuso a ventisei anni nel suo castello di Tiffauges.
Il vecchio soldato che che era in lui scompare. Nello stesso tempo in cui iniziano i delitti cominciano a svilupparsi in Gilles l’artista e il letterato, debordano, lo incitano perfino, sulla spinta di un misticismo capovolto, alle più sapienti crudeltà, ai crimini più raffinati. E’ quasi isolato al tempo suo il barone de Rais! I suoi pari non sono che dei bruti, lui cerca le appassionate raffinatezze dell’arte, sogna una letteratura e lontana, compone persino un trattato sull’arte di evocare i demoni, adora la musica ecclesiastica, vuole circondarsi soltanto di oggetti introvabili, di cose rare.
Erudito latinista, conversatore spiritoso, amico generoso e fedele. Possedeva una biblioteca straordinaria per quei tempi in cui la lettura restava chiusa nei limiti della teologia o delle vite dei santi. Possediamo la descrizione di alcuni dei suoi manoscritti: Svetonio, Valerio Massimo, un Ovidio pergamenaceo, rilegato di cuoio rosso con fermaglio di vermiglio e chiave.
Era pazzo di questi libri e li portava con sé dovunque andasse; aveva assunto un pittore chiamato Thomas che li decorava con lettere miniate, lui stesso dipingeva smalti che uno specialista scovato con grande fatica incastonava nell’oro delle rilegature, I suoi gusti in fatto d’arredamento erano strani e solenni; restava senza fiato davanti alle stoffe abbaziali, alle voluttuose sete, alle tenebre dorate degli antichi broccati. Amava i piatti accuratamente speziati, i vini ardenti, resi cupi dagli aromi; sognava gioielli insoliti, metalli spaventosi, pietre di follia. Era il Des Esseintes del XV° secolo!
Ma tutto questo costava caro, anche se meno caro di quanto non costasse la corte fastosa che lo circondava a Tiffauges e rendeva questa corte un luogo unico. Aveva una guardia di più di duecento uomini, cavalieri, capitani, scudieri, paggi e tutti avevano a loro volta i propri servitori magnificamente equipaggiati a spese di Gilles. Il lusso della sua cappella e della collegiata tendevano positivimente alla demenza.
Traduzione e montaggio genseki

venerdì, novembre 28, 2008

césar vallejo - trilce

Trilce

Il racconto: “Al di lá della Vita e della Morte” configura un centro tematico e simbolico attorno al quale si organizzano molti dei testi di Trilce.
Il viaggio che è un “nostos” e una “nekuya” andini, la porta serrata, la casa vuota, la vertigine della natura minerale, sono elementi che generano un certo numero di testi importanti della seconda raccolta di Vallejo.
Eccone alcuni:


XLVI

Il vespro culinario si trattiene
Alla mensa alla qualte ti nutristi
Morto di fame viene il tuo ricordo
Senza neppure bere di tristezza
Ma come sempre umile accconsenti
Che ti si offra la bontá più triste.
Gustare tu non vuoi se sai chi viene
Come figlio alla mensa ove mangiasti
Il vespro culinario ti scongiura
Ti piange nel grembiale tanto sudicio
Che ci comincia a piangere di udirci
Anch'io mi sforzo perché non c'è piú
Corraggio per servirsi questo pollo.
Ahi che non ci serviremo piú di nulla.

*

XXIII

Forno rovente di quei miei biscotti
Puro tuorlo infantile, innumerevole madre
I tuoi quattro colletti. paurosamente
Mal pianti, madre: i tuoi mendichi
Le due sorelline. Miguel che è morto
E io che ancora trascino
Una treccia per ogni lettera del abecedario.
Nella sala di sopra ci spartivi
Quelle tue ostie così ricche di tempo
Perché ci avanzassero ora
Gusci d'orologio in flessione di mezzanotte
Fermi in orario.
Madre, e ora! Ora in qual alveolo
Resteresti, in che germoglio capillare,La briciola che oggi si lega al mio collo
Passare non vuole. Oggi quando persino
Le tue pure ossa saranno farina
Di cui non si fará pasta
Dolce pasticcera d'amore,
Anche nell'ombra cruda, anche nel gran molare
La cui gengiva pulsa nella lattea fossetta
Che occulto si prepara pulllante! Quanto lo hai visto!
Nelle manine novelle strette strette,
Anche la terra udrá nel tuo silenzio
Come tutti ci chiedano l'affitto
Del mondo in cui ci abbandoni
E il prezzo del pane inesauribile.
Ce lo fanno pagare, quando, eravamo piccini
Allora, come sai,
Non lo avevamo portato via
A nessuno; ce lo hai dato tu,
Mamma! Non è vero?

Trad genseki

Ibn Masarra di Almeria



parte I


Ibn Masarra


Pare che fosse un gigante biondo. Sicuramente un uomo piú alto e corpulento della media. In Africa lo ritenevano un siciliano. Forse per l'azzurro degli occhi.
Di lui non ci è pervenuta nessua opera, nessuna frase. Anche la memoria del suo nome andó perduta per molti secoli e fu riesumata da un dotto Castigliano, acuto, cattolico, miope e sprezzante come Asin Palacios.
Delle sue opere non ci sono giunti nemmeno i titoli, forse, solo di due possiamo ricostruirli con una certa sicurezza: “Kitâb al-tabsira” e Kitab al-horûf”.
Ibn Masarra fu un maestro precoce appena diciassettenne nell'anno 899 giá pare potesse contare su di un congruo numero di discepoli con cui viveva ritirato in una proprietá della Sierra di Cordova.


Il Viaggio in Oriente


Con due di questi discepoli intraprese un lungo viaggio in Oriente, giunse fino a Medina e fino alla Mecca dove incontrò molti importanti maestri dalla cui esperienza apprese la necessitá e le forme di un rigoroso esoterismo.
L'Islam viveva in quegli anni un rigoglioso periodo creativo. Secondo quanto scrive Garaudy Ibn Masarra venne a contatto, nel corso di questo viaggio, soprattutto con il pensiero di Al-Razhi che fu un avversario dell'aristotelismo e del fanatismo religioso allo stesso tempo. Tra le sue opere vi è una “Critica della Religione”. Al-Rhazi puó essere considerato un filosofo della natura nel senso presocratico.
“L'anima è il movimento che orienta ogni essere verso il suo fine. È il progetto di essere. E se si svia da questo fine non sará mai capace di pretendere l'eternitá non essendo niente altro che un progetto abortito”. Al-Razhi considerava necessaria una interpretazione simbolica delle scritture e riconosceva il valore di tutte le religioni.”


I fratelli della purezza


A Bassora studió il razionalismo mo'tazilita e fu influenzato dai “Fratelli della purezza” (ikhwan as-safá) che cercavano una sintesi tra la scienza del tempo e la religione.
Secondo questa scuola rigorosamente esoterica:


“Tutti i profeti annunciano la stessa religione. La religione di tutti i profeti mostra lo stesso cammino e invita in una stessa direzione: il perfezionamento dell'anima umana, la liberazione dal mondo della generazione e della corruzione e l'entrata nel sentero che conduce alla vita eterna”.


La maggior parte degli uomini, peró: “confonde la religione (dîn) con la legge (Sharia)”. La prima non è soggetta a nessuna imposizione.


I “Fratelli della Purezza”sono riconducibili all'ambito ismailita e il loro insegnamento fu esposto in una vera e propria enciclopedia consistente in 52 lettere (Rasa'il Ikhwan as-Safa). La confraternitá si riuniva regolarmente secondo un caledario prestabilito, sembra tre volte al mese: la prima dedicata all'insegnamento, la seconda all'osservazione astronomica e astrologica e la terza alla composizione de esecuzione di inni dal contenuto filosofico. La scuola era organizzata in una gerarchia basata, non rigidamente sull'etá. I gradi gerarchici erano quattro:



  • Gli artigiani: a partire da 15 anni
    I dirigenti politici: a partire da 30 anni
    I re: a partire da 40 anni
    I profeti e i filosofi: a partire da 50 anni. Si trattava del grado angelico (al-martabat al-malkiyya).


I membri della scuola si riferivano a se stessi come: “coloro che dormono nelle grotte”.


Non sappiamo se e quanto dei principi che reggevano questa importante scuola siano stati adottati da Ibn Masarra e applicati nella direzione della comunitá della Sierra di Cordova.
I “Fratelli della Purezza” come gli altri gruppi ismailiti consideravano l'ambito della Rivelazione, anzi l'ambito delle rivelazioni come lo spazio proprio della libertá e dello sviluppo dell'Uomo nella sua interezza.
Questo spazio oggi è andato perduto. Le Rivelazioni si sono chiuse su se stesse, amputando l'anima umana di una parte forse decisiva del suo mondo.
Certamente questa libertá e questo spazio furono il tesoro che Ibn Masarra portó con sé da Bassora a Cordova.


Duh'l Nun l'Egiziano


Sempre secondo Garaudy Ibn Masarra conobbe in Egitto Duh'l Nun, un grande maestro Sufi che viveva asceticamente nel deserto ossessionato dal desiderio dell'unione don Dio.
Attraverso di lui Ibn Masarra conobbe lo gnosticismo neoplatonico. Questo pensiero si era diffuso nel mondo islamico attraverso due opere apocrife: “La teologia di Aristotele” che è una compilazione delle Enneadi di Plotino , precisamente della IV, V, VI e una raccolta di scritti attribuiti ad Empedocle che contenvano, invece, una sintesi del pensiero dei neoplatonici alessandrini. Il tema di queste opere 'e la ricerca dell'Unitá con l'Uno. Duh'l Nun definiva l'unitá con Dio nel modo seguente:


“L'autentica conoscenza dell'Uno è il cuore illuminato da Dio stesso”,


commentando cosí un importante hadith del Profeta:


“Quando amo il mio servo, Io, il Signore, sono le sue orecchie, affinché egli possa udire per mezzo mio; la sua lingua perché possa parlare per mezzo mio, e la sua mano, perché per mezzo mio possa agire”.


Il Ritorno a Cordova


Ritornato nella Sierra di Cordova riprese il suo insegnamento avvolto in uno spesso manto di simboli esoterici. Organizzó la sua scuola in senso strettamente gerarchico, ponendo tutta la sua attenzione nella scelta di pochi discepoli e nella loro direzione spirutuale. Qui egli realizzó la prima sintesi filosofica delle tradizioni mistiche dell'Asia e dell'Africa.
Nella Sierra di Cordova morí, a soli cinquant'anni, circondato dall'ostilitá dei religiosi ortodossi.


A cura di genseki

mercoledì, novembre 26, 2008

Huerta

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Il cristianesimo di Kojève



Nella “natura umana” del Cristo l’essenza umana è legata in modo biunivoco e necessario al corpo umano. Fatto che obbliga ad ammettere che questo legame è definitivamente necessario anche in tutti gli uomini, essendo lo stesso dovunque e sempre.
Ti p. 340
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In assenza del dogma dell’Incarnazione e quindi della Trinità, i teologi ebrei e mussulmani non poterono opporsi alla filosofia (paritetica) pagana che proponendo al suo posto soltanto il dogma della Creazione. Ora, questo dogma afferma il carattere arbitrario di tutti i legami di cui si parla ed esclude così la Filosofia in quanto tale, dal momento che rende impossibile parlare del Concetto. È per questo che non c’è mai stata in nessun luogo una filosofia giudaica o islamica ma soltanto una teologia (monoteista). Soltanto il Cristianesimo ha potuto enunciare (per bocca di Kant) una Paratesi (sintetica) filosofica, grazie all’introduzione nel discorso filosofico dell’equivalente del dogma dell’Incarnazione. Ma è solo nel momento in cui il dogma della Trinità fu anch’esso introdotto nel discorso filosofico (da Hegel), cioè nel momento in cui l’insieme del discorso teologico (cristiano) fu trasformato in un solo e medesimo discorso filosofico, che questo si trasforma (per questo stesso fatto) nel sistema del sapere hegeliano.
Ti p. 341
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Dalla sua origine , il Cristianesimo si presenta come una specie di Paratesi, che si situa nell’Universo tra la tesi ellenica e l’Antitesi ebraica. San Paolo proclama la saggezza cristiana come una doppia negazione delle tesi contrarie (“Follia per i Greci, scandalo per gli Ebrei”).
Ma se la mistica radicale sembra aver accettato in un sol colpo il Silenzio a cui equivale la negazione paolina della copia antitetica, il Cristianesimo discorsivo si è sforzato fin dall’inizio di sostituire al ne…ne di S. Paolo la paratesi classica del e…e, cioè della doppia affermazione parziale e più parziale delle tesi contraddittorie che supponeva il discorso cristiano.
D’altra parte il Cristianesimo si inserisce, fin dal principio nel quadro ellenistico nel senso che il dogma ebraico si esprime discorsivamente, in quanto dottrina cristiana in un Universo dominato dal discorso ellenico. In altri termini, in e per la paratesi cristiana, l’antitesi giudaica suppone come posta la tesi pagana enunciata dai Greci. È dunque negando il Paganesimo che il cristianesimo si afferma. Ma si distingue dal Giudaismo in quanto compromesso paritetico, ove il Paganesimo tetico è negato solo parzialmente, con l’obiettivo di integrarlo da quanto conserva del Giudaismo antitetico. La proporzione dell’uno e dell’altro variò nel corso del tempo, mano a mano che si esplicitava la “contraddizione in termini” inerente al Cristianesimo preso e compreso quale paratesi discorsiva.
Dal punto di vista che ci interessa qui, due miti giudaici escludevano la possibilità di qualsiasi filosofia. Da un lato il mito della creazione del mondo ex nihilo per un atto di volontà “libero” dell’uno-completamente-solo” di Parmenide affermava, (almeno implicitamente), il carattere arbitrario del legame tra l’Essenza e il Corpo in tutto ciò che esiste empiricamente in quanto oggetto. D’altra parte, il mito della creazione del Discorso ad opera di Adamo, che chiamava tutti gli oggetti come gli pareva, stabilisce (esplicitamente) il carattere arbitrario del legame tra Senso e Morfema nella Nozione “in generale”. Ora se tutte le relazioni sono arbitrarie, ha tanto senso parlare di Concetto come se fossero necessarie. E nella misura in cui il dogma tetico della Scienza greca affermava il carattere necessario di tutte le relazioni, la negazione totale di questa necessità (cioè “l’affermazione” della non-necessità di tutte le relazioni) ad opera del dogma della teologia ebraica costituiva un’autentica antitesi. TI p. 191-192
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Se per assurdo, si potesse eliminare Dio nel Giudaismo, tutte le relazioni del mondo sarebbero per questo giudaismo ateo tanto necessarie quanto lo sono per la Scienza “laica” dei Greci.
Detto altrimenti, basterebbe sottomettere a una “legge” necessaria la volontà del solo Dio, perché il dogma “giudaico” coincida con il dogma scientifico dei Greci. Inversamente, basta introdurre nella “legge bronzea” (“ananke” riconosciuta da quest’ultimo un elemento di “volontà libera” – oppure di azione “cosciente e volontaria” -) perché questa dogma assuma una colorazione (più o meno) “giudaica” (cioè teologica). E questo è precisamente quello che cerca di fare la dogmatica paritetica cristiana.
Ma se il monoteismo predestinava il Giudaismo (religioso) a subire un “compromesso” paritetico con il Paganesimo (scientista), la cristologia incitava il cristianesimo (moralizzante) a promuovere questo compromesso. In effetti, a parte qualche “miracolo”, il giudaico incarnato (in quanto Logos) subiva la necessità delle relazioni in questo mondo e le consacrava in quanto necessaria. Nella durata-estensione del Mondo, le essenze si collegavano in modo biunivoco e necessario ai loro rispettivi corpi in tutti gli oggetti, nella stessa misura in cui questo insieme era il mondo in cui viveva il dio incarnato, o doveva diventare un tale mondo, o già lo era stato. Detto altrimenti, il Mondo cristiano ove ha vissuto incarnato il Dio giudaico è un Cosmos della scienza greca che ha ricevuto un fine, cioè uno scopo e un termine finali, determinanti il suo proprio inizio. TI p. 192-193

Trad. genseki

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Dans la "nature humaine" du Christ, l’essence humaine est liée d’une façon bi-univoque et nécessaire au corps humain. Ce qui fait admettre que ce lien est tout aussi nécessaire dans tous les hommes quels qu’ils soient, étant le même partout et toujours. TI p340
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En l’absence du dogme de l’Incarnation et donc de la Trinité, les théologiens juifs et musulmans ne purent s’opposer à la philosophie (parathétique) païenne qu’en proposant à sa place le seul dogme de la Création. Or, ce dogme affirme le caractère arbitraire de toutes les liaisons dont on parle et exclut ainsi la Philosophie en tant que telle, puisqu’il rend impossible de parler du Concept. C’est pourquoi il n’y a jamais eu nulle part de philosophie judaïque ou islamique mais seulement une théologie (mono-théiste). Seul le Christianisme a pu énoncer (par la bouche de Kant) une Parathèse (synthétique) philosophique, grâce à l’introduction dans le discours philosophique de l’équivalent du dogme de l’Incarnation. Mais ce n’est qu’au moment où le dogme de la Trinité fut lui aussi introduit (par Hegel) dans le discours philosophique, c’est-à-dire au moment où l’ensemble du discours théologique (chrétien) fut trans-formé en un seul et même discours philosophique, que celui-ci se trans-forme lui-même (de ce fait même) en Système du Savoir hégélien. TI p341
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Dès son origine, le Christianisme se présente lui-même comme une sorte de Para-thèse, qui se situe dans l’Univers entre la Thèse hellène et l’Anti-thèse hébraïque. Saint Paul proclame la sagesse chrétienne comme une double négation des thèses contraires ("folie pour les Grecs, scandale pour les Hébreux"). Mais si la mystique radicale semble avoir accepté d’emblée le Silence auquel équivaut la négation paulinienne du couple antithétique, le Christianisme discursif s’est efforcé dès le début de substituer au ni-ni de saint Paul la Para-thèse classique du et-et, c’est-à-dire de la double affirmation partielle et plus ou moins partiale des thèses contra-dictoires que sup-posait le discours chrétien.
Par ailleurs, le Christianisme s’insère dès le début dans le cadre hellénistique en ce sens que le dogme hébreu s’exprime discursivement, en tant que doctrine chrétienne, dans un Univers dominé par le discours hellène. En d’autres termes, dans et par la Para-thèse chrétienne, l’Anti-thèse du Judaïsme suppose comme posée la Thèse païenne énoncée par les Grecs. C’est donc en niant le Paganisme que le Christianisme s’affirme. Mais il se distingue du Judaïsme en tant que compromis para-thétique, où le Paganisme thétique n’est nié que partiellement, en vue d’être complété par ce qui est retenu du Judaïsme antithétique. La proportion de l’un et de l’autre ayant d’ailleurs varié au cours du temps, au fur et à mesure que s’explicitait la "contradiction dans les termes" inhérente au Christianisme pris et compris en tant que Para-thèse discursive.
Du point de vue qui nous interresse ici, deux mythes judaïques excluaient la possibilité de toute philosophie quelle qu’elle soit. D’une part, le mythe de la création du monde ex nihilo par un acte de volonté "libre" de l’Un-tout-seul parménidien affirmait (du moins implicitement) le caractère arbitraire du lien entre l’Essence et le Corps dans tout ce qui existe-empiriquement en tant qu’Objet. D’autre part, le mythe de la création du Discours par Adam, qui nommait comme bon lui semble tous les objets quels qu’ils soient, établit (explicitement) le caractère arbitraire du lien entre le Sens et le Morphème dans la Notion "en général". Or si toutes les liaisons sont arbitraires, il y a tout aussi peu de sens de parler du Concept que si toutes les liaisons sont nécessaires. Et dans la mesure où le dogme thétique de la Science hellène affirmait le caractère nécessaire de toutes les liaisons quelles qu’elles soient, la négation totale de cette nécessité (c’est-à-dire l’ "affirmation" de la non-nécessité de toutes les liaisons) par le dogme de la Théologie hébraïque constituait une anti-thèse authentique. TI 191-192
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Si l’on pouvait par impossible, éliminer Dieu dans le Judaïsme, toutes les liaisons dans le Monde seraient pour ce Judaïsme athée tout aussi nécessaires qu’elles le sont pour la Science "laïque" des Grecs. Autrement dit, il suffirait de soumettre à une "loi" nécessaire la volonté du seul Dieu, pour que le dogme "judaïque" coïncide avec le dogme scientifique des Hellènes. Inversement, il suffit d’introduire dans la "loi d’airain" ("ananke" reconnue par ce dernier un élément de "volonté libre" (ou d’action "consciente et volontaire") pour que ce dogme prenne une coloration (plus ou moins) "judaïque" (c’est-à-dire théologique). Et c’est précisèment ce qu’essaye de faire la dogmatique parathétique chrétienne.
Mais si le monothéisme prédestinait le Judaïsme (religieux) à subir un "compromis" parathétique avec le Paganisme (scientiste), la christologie incitait le christianisme (moralisant) à promouvoir ce compromis. En effet, à quelques "miracles" près, le Dieu judaïque incarné (en tant que Logos) subissait la nécessité des liaisons dans ce monde et consacrait en quelque sorte celles-ci en tant que nécessaires. Dans l’ensemble de la durée-étendue du Monde, les essences se liaient d’une façon bi-univoque et nécessaire à leur corps respectifs dans tous les objets quels qu’ils soient, dans la mesure même où cet ensemble était le monde où vivait le Dieu incarné, ou devait devenir un tel monde, voire l’a déjà été. Autrement dit, le Monde chrétien où a vécu incarné le Dieu judaïque est un Cosmos de la science hellène qui a reçu une "fin", c’est-à-dire un but et un terme final, déterminant son propre commencement. TI 192-193
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lunedì, novembre 24, 2008

Melchisedec


I testi delle visioni mistiche di Anne-Catherine Emmerich sono di una straordinaria qualitá pittorica. Sembrano nascere dal ricordo che anima i quadri biblici degli antichi maestri fiammighi. Da un'immaginazione che accarezza e gode del colore e delle pennellate piuttosto che dalla commozione mistica.

Anne-Catherine pare aver il dono di rendere viva la pittura di convertire lo spazio in successione e movimento.

Tutte le sue visioni hanno una prospettiva sola. Sono riprese aeree, a volo d'uccello. Come se un falco osservasse i quadri, che so di Rembrandt e ce ne trasmetttesse magicamente le immagini reinterpretate nella sua vertiginosa prospettiva.

I testi della Emmerich sono pura vertigine del volo, dell'altezza avi di Gaspard de la Nuit.

genseki


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Colpo d’occhio su Melchisedech



Quando Nostro Signore Gesù Cristo prese il calice durante l’istituzione della Santa Eucarestia io ebbi un’altra visione che si riferiva all’Antico Testamento. Vidi Abramo in ginocchio davanti ad un altare; in lontananza vi erano dei guerrieri con bestie da soma e cammelli: un uomo maestoso si avvicinò ad Abramo e depose sull’altare lo stesso calice di cui Gesù si servì più tardi. Io vidi che quest’uomo aveva come delle ali sulle spalle; non le aveva realmente; era come un segno per indicarmi che davanti ai miei occhi vi era un angelo. Questo personaggio era Melchisedech. Dietro l’altare di Abramo salivano tre nuvole di fumo quella di mezzo si innalzava abbastanza in alto; le altre erano più basse.
Vidi in seguito due file di figure che terminavano con Gesù. Vi si trovavano Davide e Salomone (era il corteo dei possessori del calice, dei sacrificatori, o degli antenati di Gesù? La Suora ha dimenticato di dirlo.) Vidi alcuni nomi sopra Melchisedech (1) Abramo e alcuni Re. Poi ritornai al calice.
Melchisedech aveva già il calice. Vidi che Abramo doveva sapere in anticipo ch’egli avrebbe offerto il sacrificio; egli, infatti aveva elevato un bel altare, al di sopra del quale vi era come una tenda di foglie. C’era anche una specie di tabernacolo ove Melchisedech depose il calice. I vasi da cui si beveva parevano essere di pietre preziose. C’era un foro sull’altare, probabilmente per il sacrificio. Abramo aveva condotto una mandria superba. Quando questo patriarca aveva ricevuto il mistero della promessa, gli era stato rivelato che il sacerdote dell'altissimo avrebbe celebrato davanti a lui il sacrificio che sarebbe stato stabilito dal Messia per durare eternamente. Per questo, quando Melchisedeche fece annunciare il suo arrivo da due messi di cui soleva servirsi sovente, Abramo lo attese con rispettoso timore, e innalzò l’altare e la tenda di foglie.
Vidi che Abramo pose sull’alatre, come sempre faceva quando offriva sacrifici, alcune ossa di Adamo; Noé le aveva conservate nell’arca. L’uno e l’altro pregarono Dio di adempiere la promessa fatta a quelle ossa, e che altro non era che il Messia. Abramo desiderava intensamente la benedizione di Melchisedech.
La pianura era coperta di uomini, di bestie da soma e di bagagli. Il re di Sodoma era con Abramo sotto la tenda. Melchisedech veniva da un luogo che divenne poi Gerusalemme; aveva abbattuto una foresta e gettato le fondamenta di alcuni edifici; un edificio circolare era finito a metà e un palazzo era appena cominciato. Giunse con una bestia da soma grigia, non era un cammello, non era nemmeno il nostro asino; questo animale aveva un collo largo e corto, era leggero nella corsa, su un fianco portava un grande vaso pieno di vino e sull’altro una cassa in cui si trovavano pani schiacciati e diversi vasi. I vasi, che avevano la forma di botticelle, erano trasparenti come pietre preziose. Abramo si fece incontro a Melchisedech. Lo vidi entrare nella tenda dietro l’altare, offrire il pane e il vino elevandoli nelle mani, benedirli e distribuirli: c’era, in questa cerimonia qualche cosa della Santa Messa. Abramo ricevette un pane più bianco di quello degli altri e bevve dal calice che servì, in seguito alla Cena di Gesù, e che ancora non aveva il piede. I più importanti tra coloro che assistevano distribuirono anche al popolo che li circondava vino e pezzettini di pane.
Non ci fu consacrazione: gli angeli non possono consacrare. Le oblazioni furono però benedette e le vidi risplendere. Tutti coloro che ne mangiarono furono fortificati e elevati verso Dio, Abramo fu anche benedetto da Melchisedech e vidi che era una figura dell’ordinazione sacerdotale. Abramo aveva già ricevuto la promessa che il Messia sarebbe uscito dalla sua carne e dal suo sangue. Mi fu spiegato che Melchisedech gli aveva fatto conoscere queste parole profetiche sul Messia e sul suo sacrificio: - Il Signore ha detto al mio Signore, siedi alla mia destra (2) fino a che io riduca i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi. Il Signore l’ha giurato e non si pente. Sarai sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech -. Vidi anche che Davide, quando scrisse queste parole ebbe una visione della benedizione data da Melchisedech ad Abramo. Abramo, avendo ricevuto il pane profetizzò e parlò di Mosé, dei Leviti e di ciò che il primo diede loro come eredità.
Non so se fosse Abramo ad offrire il sacrificio. Lo vidi poi donare la decima delle sue mandrie e dei suoi tesori; ignoro cosa ne fece Melchisedech; credo che la distribuisse. Melchisedech non sembrava vecchio; era agile, alto, pieno di una dolce maestà; aveva una lunga veste, più bianca di quante mai ne vidi; la veste bianca di Abramo sembrava opaca al paragone. Durante il sacrificio egli indossò una cintura sulla quale erano ricamati alcuni caratteri, e un copricapo bianco simile a quello che poi indossarono i sacerdoti. I suoi lunghi capelli erano di un biondo chiaro e brillavano come seta; aveva una barba bianca, corta e appuntta, il suo volto risplendeva. Tutti lo trattavano con rispetto; la sua presenza diffondeva ovunque la venerazione e una calma maestosa. Mi fu detto che era un angelo sacerdotale e un messaggero di Dio. Era stato inviato per stabilire diverse istituzioni religiose. Conduceva i popoli, trasferiva le razze, fondava città. L’ho visto in diversi luoghi prima del tempo di Abramo. Poi non l’ho più rivisto.


Note
1. Il 3 aprile 1821, ella disse, nell’estasi: - Il sacrificio di Melchisdech ebbe luogo nella valle di Josaphat, su di un luogo elevato. Ora non posso ritrovare il luogo -.
Il 5 Luglio 1821 ella disse: - Ciò ebbe luogo nella valle delle Uve, che si prolunga in direzione di Gaza. Ora Bachiene Hammelsteld e altri considerano una valle di questa contrada come la valle di Josaphat, perché i nemici di Giosaphat vi si distrussero da soli con un Giudizio di Dio e Giosaphat vuol dire: Dio giudicherà. La valle in cui Giosaphat rese grazie per la sua vittoria si chiamava la valle di Benedizione. Un giorno Anne Catherine designava diversi percorsi che il Signore doveva seguire, il 13 ottobre del terzo anno della sua predicazione, ella disse: egli passerà nel luogo in cui Melchisedech offerse il pane e il vino: c’è ancora una specie di cappella costruita in pietra nuda, credo che ancora, talvolta, vi si offici. Ora, il percorso seguito allora da Gesù si avvicinava alla contrada di Gaza.
2. A proposito di queste parole: “siedi alla mia destra”, ella così si esprimeva: - Il lato destro ha un significato grande e misterioso. L’eterna generazione del Figlio mi è stata mostrata talvolta in figure della Santa Trinità che il linguaggio non sarebbe in grado di rendere. Allora io vedo il Figlio nel lato destro del Padre, poi vedo la figura che Mosé vide nel roveto ardente, mi appare in un triangolo luminoso, alla sommità del qual c’è lo Spirito Santo. Questo può essere espresso in modo preciso, ma, in queste figure, messe alla portata di un semplice essere umano, il Figlio è sempre alla destra. Eva fu tratta dal fianco destro di Adamo. Senza la caduta gli uomini sarebbero usciti dal fianco destro. Ed è al fianco destro che i patriarchi portavano la benedizione della promessa, ed essi ponevano i loro figli alla destra quando li benedicevano. Il fianco destro del Cristo fu aperto dalla lancia del soldato. Nelle visioni si vede la Chiesa uscire da questa ferita.. Entrando nella Chiesa, si entra nel fianco destro del Salvatore e attraverso di lui e in lui si giunge al Padre.
Anne-Catherine Emmerich
Clemens Brentano
Trad. genseki
4 maggio 2002

domenica, novembre 23, 2008

Léo Ferré chantant les poètes

Pauvre Rutebeuf

Dei vecchi amici che n'è stato
Che mi erano cosí vicini
E tanto ho amato
Come si sono diradati
Credo che il vento l'abbia spazzati
L'amor è morto
Erano amici che che il vento porta
E c'era vento alla mia porta
Li portó via

Al tempo ch'arbol si spoglia
Quando sui rami non resta foglia
Che non ne cada
E povertá mi schiaccia a terra
E d'ogni dove mi fa guerra
L'amor è morto
Che vi racconti non bisogna
Come giunsi a questa vergogna
O in che maniera

Dei vecchi amici che n'è stato
Che mi erano cosí vicini
E tanto ho amato
Come si sono diradadti
Credo che il vento li abbia spazzati
L'amor è morto

Male non suole venir solo
Così che colsemi ogni duolo
Ben meritato
Povero senno e misera memoria
Diemmi il Signore Re della gloria
E picciol bene
La tramontana su me si avventa
Vento che soffia
Ratto mi schiant

L'amor è morto
Erano amici che il vento porta
E c'era vento alla mia porta
Li portó via

trad genseki

Posted by Picasa

venerdì, novembre 21, 2008

Gilles de Rais

da Huysmans
traduzione e montaggio del testo di genseki

Come si può penetrare negli avvenimenti del Medioevo, quando nessuno è nemmeno capace di spiegare gli episodi più recenti, i sotterranei della Rivoluzione, della Comune, per esempio? Non resta dunque che fabbricare la propria visione, immaginarsi da sé le creature di un altro tempo, incarnarsi in esse, rivestire, se si può gli stracci delle loro apparenze, forgiarsi, infine, con dettagli abilmente scelti dei quadri d’insieme fallaci.
Gilles de Rais, formidabile satanista fu, nel XV° secolo, il più artista, il più squisito, il più crudele e il più scellerato degli uomini.
Il nome di Gilles resiste da quattro secoli soltanto grazie all’immensità dei vizi di cui è il simbolo. Tuttavia la difficoltà maggiore è quella di spiegare in che modo quest’uomo, che fu un capitano coraggioso e un buon cristiano, divenne improvisamente sacrilego e sadico, vile e crudele. Non c’è nessun esempio, che si sappia di un così repentino cambiamento di un’anima, per questo tutti i suoi biografie si stupiscono di una tale magia spirituale, di questa metamorfosi dell’anima operata con un colpo di bacchetta, come in teatro; i vizi di certo dovettero infiltrarsi in lui in modi di cui sono perdute le tracce attraverso peccati invisibili ignorati dalle cronache.
Gilles de Rais, la cui infanzia ci è ignota, nacque intorno al 1404 sui confini tra la Bretagna e l’Anjou, nel castello di Machecoul. Suo padre muore alla fine di ottobre del 1415; sua madre si risposa quasi subito con un Sire d’Estouville e lo abbandona insieme a suo fratello René; passa quindi sotto la tutela di suo nonno, Jean de Craon, Signore di Champtocé e di La Suze, “Uomo vecchio e anziano e di età molto avanzata” come riporrtano le cronache. Egli non è sorvegliato né diretto da questo vecchio bonario e distratto che si sbarazza di lui sposandolo con Catherine de Thouars, il 30 di Novembre del 1420.
La sua presenza alla corte del Delfino è attestata 5 anni dopo; i suoi contemporanei ce lo presentano come un uomo robusto e nervoso, d’una bellezza inebriante, di rara eleganza. Non abbiamo informazioni sul ruolo da lui svolto presso questa corte, ma si può supplire facilmente, immaginandosi l’arrivo di Gilles, il più ricco dei baroni francesi presso un re molto povero. In questo momento, infatti, Carlo VII° è ridotto allo stremo, non ha denaro, ed è privo di ogni prestigio e autorità è già molto se le città della Loira gli obbediscono; la situazione della Francia estenuata dai massacri, già devastata, qualche anno prima, dalla peste è spaventosa. Essa è scarificata fino a sanguinare, vuotata fino al midollo dall’Inghilterra che simile alla piovra leggendaria, il kraken, emerge dal mare e lancia oltre lo stretto, sulla Bretagna, la Normandia, una parte della Piccardia, l’Ile de France, tutto il Nord e il Centro fino a Orléans, i suoi tentacoli che non lasciano quando si sollevano che città inaridite, campagne morte. Gli appelli di Carlo che reclama sussidi, inventa esazioni, sollecita il pagamento delle tasse sono inutili. Le città sacheggiate, i campi abbandonati e ripopolati dai lupi, non possono soccorrere un Re di dubbia legittimità. Egli mendica vanamente qualche spicciolo. A Chinon, la sua piccola corte è una rete di intrighi che talvolta terminano con egli omicidi. Stanco d’essere braccato, vagamente al sicuro ddietro la Loira, Carlo e i suoi partigiani finiscono per consolarsi con orge esuberanti, dei disastri che continuano ad avvicinarsi; in questo regnare alla giornata, mentre i prestiti e le razzie rendono i banchetti opulenti e lunghe le sbronze, si finisce per dimenticarsi dell’allarme permanente e dei soprassalti e si soffaca il pensiero del domani annegandolo nel vino e palpando le puttane. Che cosa ci si poteva aspettare d’altra parte da un Re sonnolento e già sfiorito, di madre infame e padre folle. Foucquet, nel ritratto che si può vedere al Louvre lo dipinge, con un grugno da maiale, occhi da usuraio di campagna, labbra dolenti e lardose, colorito da castrato, sembra che Foucquet abbia voluto dipingere un prete cattivo raffreddato e dalla sbronza triste. Egli era l’uomo che aveva fatto assassinare Giovanni senza paura e cabbandonerà Giovanna D’Arco; e questo basta per giudicarlo. E’ chiaro che Gilles de Rais che aveva arruolato delle truppe a proprie spese fosse accolto a braccia aperte in questa corte. Certamente egli vi organizzò tornei, fu dai cortigiani e prestò ingenti somme al Re. Tuttavia, nonostante il suo successo non sembra ch’egli sia mai sprofondato come Carlo VII nell’egosmo ansioso e nel vizio; lo ritorviamo infatti, ben presto nell’Anjou e nel Maine che difende dagli Inglesi. Qua egli si dimostrò “Valente e ardito capitano”, come affermano le cronache, anche se schiacciato dalla superiorità numerica del nemico dovette fuggire.