Racconto di Stephan Hermlin
Il 17 giugno del 1953, subito dopo mezzogiorno due uomini entrarono nella cella di una certa Hedwig Weber, nella prigione di stato di Saalstedt. E, dopo che ella ebbe chiarito che scontava una pena di 15 anni per crimini contro l'umanità, le comunicarono con queste parole: "E' di gente come lei che abbiamo bisogno", che era di nuovo libera.
La sera precedente, la prostituta e infanticida Rallmann, che occupava la cella di sopra, la chiamò alla finestra con il segnale concordato. La Weber si era arrampicata fino alla finestra e aveva udito sussurrare che in città si scioperava. Volle domandare maggiori informazioni ma la Rallmann era già saltata via. La mattina, durante l'ora d'aria, le erano giunti per la prima volta echi di canti e di grida. Pigramente, controvoglia, aveva cercato di ricordare di che ricorrenza si potesse trattare, ma non le venne in mente nulla, e per forza! Quelli non facevano che inventare nuove feste. Mentre stava in piedi davanti ai due uomini le sembrò che l'ora d'aria, quel giorno, fosse stata più breve del solito. Un paio di ore dopo aveva di nuovo udito il suono di molte voci, molto più vicine del solito, più penetranti, determinate, senza tuttavia che le parole fossero chiare. La Weber aveva già scontato, un paio di anni prima quattro mesi di prigione per furto. Ora, secondo il calendario che stava sulla parete era cominciata la sua ventottesima settimana. Abbastanza per essere abituata ai rumori del carcere.
L'ala dell'istitituto di pena riservata alle donne si trovava abbastanza lontana dalla strada. Ciò che occasionalmente vi penetrava dall'esterno, non poteva riconoscerlo con chiarezza, in sé la cosa non aveva importanza, era solo la causa che faceva saltare, nel suo pensiero qualche immagine, così come si salta su di un treno in corsa: non c'era ragione di muoversi, quando si era dentro, erano le cose a saltarti addosso. Poi sognava, sogni selvaggi pieni di desideri, ma senza scopo, senza fede. Anche quella mattina non era cambiato niente, finché la Rallmann non l'aveva di nuovo chiamata alla finestra: vedeva del fumo. La Weber non poteva vedere quel fumo. Tirava un caldo e leggero vento da sud, il sole ricacciava indietro il fumo dalla fabbrica di pompe. Il fumo era in lei, era una nebbia che si espandeva, si espandeva in lei, udiva passi affrettati nei corridoi e colpi soffocati da sotto, tra il rumore della folla. Poi da lontano giunse un grido, che la Weber registrò freddamente, un grido inumano, quale solo un uomo può lanciare.
Fino a quel momento le celle erano rimaste in silenzio. Poi cominciò un vocìo, forte, affrettato, con risa squillanti; si faceva più vicino con i passi e l'aprirsi delle porte. Poi fu lo stridore dei catenacci, la Weber vide quei due uomini. Quello che si era informato dei motivi della sua pena era giovane, carino, robusto. Dell'altro, che era appena un po' più vecchio, notò appena lo sguardo che aveva incrociato il suo, fuggevolmente, mentre rispondeva. Di solito, lo sguardo vagava sempre intorno al taglio dei capelli, ma con gente con quello sguardo lì c'era poco da fidarsi.
I due stavano sulla soglia; portavano berretti baschi e occhiali da sole, dietro di loro si vedevano alcune prigioniere allontanarsi di corsa scendendo per il corridoio. Riconobbe la Inge Gruetzner del piano di sopra, che le strizzò allegramente l'occhio sopra le spalle dei due uomini per poi scomparire. Nella Weber iniziò la corsa folle dei vorrei crederci ma non posso.. La nebbia che in lei si espandeva e si gonfiava era una selvaggia, disordinata voglia di urlare, di impazzare, di rompere qualche cosa. Quegli uomini dicevano che a Berlino e dappertutto stavano succedendo cose grosse, il governo era rovesciato, si andava creando una amministrazione insurrezionale, gli amici erano già in movimento.
E i russi? -
I russi non vogliono fare la guerra per Ulbricht -, disse quello carino e osservava, fischiettando la parete, come se ci fosse uin essa qualche cosa da scoprire.
Se ne ritornano indietro, alla Vistola.
Potremo aver bisogno di gente come lei -, disse quello più anziano.
Lei deve entrare nella squadra di comando di Saalstedt, mi par già di vedere che cercheranno di strozzarci. Abbiamo bisogno di gente con esperienza e con convinzione -.
La Weber disse attraverso la sua nebbia: - Dite la verità, davvero sono libera? - I due scoppiarono a ridere.
La Weber udiva il rumore nei corridoi e sulla strada, ed era come se di colpo udisse una musica quasi dimenticata, richiami di fischi sul crepitio dei tamburi che dirigevano la marcia successiva, e questa musica era sommersa nel tonante Heil che rimbalzava di strada in strada e che la traeva in quel momento fuori dalla sua nebbia. Rivedeva chiaramente e con indifferenza i sette mesi in quella cella in cui avrebbe dovuto trascorrere quindici anni e i sette anni prima di quei sette mesi, gonfi di paura, di dissimulazioni, di disperazione, di inesprimibile odio verso tutti quelli che aveva ritenuto inferiori e che ora vedeva sopra di sé, per tutta quella gente nuova nell'amministrazione e nei giornali, per le loro bandiere, manifestazioni e striscioni. Tutto quel tempo era stato un incubo con minacce sconfinate, non delimitabili, dalle quali non si poteva fuggire perché qualche cosa nel profondo non credeva alla possibilità di una fuga, di un mutamento. Non aveva più frequentato le vecchie conoscenze. Udiva soltanto, presso un conoscente, i bollettini di ricerca del gruppo di lotta. Aveva udito uno o due nomi che conosceva da prima. Un giorno aveva udito il proprio: - Ricercata la funzionaria Hedwig Weber, vista per l'ultima volta nel marzo 1945 a Fuerstemberg - . Si era quasi tradita. Erano anche astuti, dicevano infatti Fuerstenberg che è vicino a Ravensbrueck.
Un paio di volte aveva anche cercato di lavorare in fabbrica, ne aveva subito avuto abbastanza, però, della gente e anche del lavoro. I documenti falsi, che portatvano il nome di Helga Shmidt, la legavano a un passato fatto di migliaia di piccole cose che ignorava del tutto. Aveva avuto storie con uomini, per passare il tempo. A Magdeburgo aveva conosciuto uno che le ricordava l'Obersharfuhrer Worringer, con cui aveva avuto una relazione a Ravensbrueck.
Quando, dopo il furto di un rotolo di filo di rame fu condannata a quattro mesi, fu tranquilla per la prima volta, nessuno poteva più farle domande, non doveva più temere di essere riconosciuta da qualcuno per strada. Dopo questo suo padre le aveva scritto una lettera da Hannover - là nessuno si preoccupava del passato di uno, al contrario, l'aver lavorato nell'apparato di sicurezza del Reich, era per la giustizia adirittura una referenza, lui non poteva lamentarsi, ma lei non doveva ancora raggiungerlo, aveva ancora difficoltà con una casa di nuova costruzione.
Ne aveva abbastanza di questa vita, con le camicie azzurre e tutto il meccanismo delle liste di sottoscrizione e la cultura e le facoltà e le case per le ferie e la polizia popolare sui suoi camion e tutto il traffico per uno straccio di biancheria che risultava proprio introvabile, e soprattutto non ne poteva più di andare per la strada e sedere nei caffè dove doveva stare sempre attenta a non dare nell'occhio, a motrarsi soprattutto di profilo, ne era così esacerbata che pensò seriamente, di partire, semplicemente, per Hannover, se non avesse temuto di essere cercata là ancor prima che qua dove nessuno più sospettava che si trovasse. Poi era accaduto quello che lei avave mille volte visto scorrere davanti agli occhi e che proprio per questo aveva finito per ritenere impossibile: un ex-prigioniero l'aveva riconosciuta a Saalstedt, per la strada, mentre usciva da un negozio, era stata arrestata e condannata a 15 anni di prigione.
In quel momento la Weber comprese che l'incubo non sarebbe durato eternamente e che quelli che stavano in alto sarebbero ritornati in alto. Era così che doveva andare a finire. Dovette sorridere quando si accorse che, involontariamente, la sua mano, forse da un po' di tempo, compiva un gesto abituale, che le dava fiducia: sferzava con un frustino invisibile il gambale di un invisibile stivale.
Può fare pieno affidamento su Fiorellino. Lui sa che cosa ci giochiamo -, disse quello carino, - era ieri a Zehlendorf. E' in grado di sentir crescere l'erba, per questo lo chiamiamo Fiorellino -. Sorrise lievemente.
Mi sembra che ognuno di noi possa fidarsi di tutti gli altri -, disse l'uomo chiamato Fiorellino con modestia.
Soprattutto deve mettersi addosso qualcosa d'altro, così da troppo nell'occhio. Possiamo cercarle qualche cosa in una boutique. Oggi è gratis -. Si scostò dalla porta per lasciare passare la Weber.
Sulla prima rampa di scale giaceva la sorvegliante Helmke con il volto massacrato. Respirava ancora.
Doveva essere una delle peggiori torturatrici -, disse quello carino passandole davanti.
La Weber non era mai stata torturata, nessuno lo era mai stato a Saalstedt. Questo la Weber non era mai riuscito a capirlo e proprio per questo disse: - Boh, e se… - ma subito notó che Fiorellino le aveva lanciato uno sguardo obliquo. Quel uomo poteva ridere senza contrare il volto. Lo sguardo diceva: noi due ci capiamo già… La Weber sentì come un senso di protezione. Il carcere era quasi vuoto, ora. Da qualche parte qualcuno aveva alzato al massimo una radio.
Verrebbe voglia di stare tutto il giorno accanto alla radio -, disse Fiorellino, - c'è un'edizione speciale dopo l'altra -.
La Weber si ricordava di come avevano festeggiatola presa di Parigi e poi quella di Smolensk e di Simferopol e di come tutti la chiamassero Nester… Non devo pensare a queste cose, pensò.
Sentiva l'urgenza di dire a qualcuno che cosa le era capitato. Non le venne in mente nessuno. Forse Worringer, ma era scomparso come un miraggio; qualcuno le aveva detto che si trovava in Argentina. Pensò a suo padre ad Hannover.
- Aspettate un attimo, devo scrivere una lettera -. Entrarono in un'osteria che aveva la porta aperta. C'era una macchina da scrivare accanto a una sedia rovesciata, senza spalliera.
trad genseki