martedì, febbraio 22, 2011
José Emilio Pacheco
Birds in the night
(Vallejo e Cernuda si incontrano a Lima)
Tutta la notte odo l'alato rumore che precipita
E come in un poema di Cisneros,
Albatri, pellicani e cormorani
Muoiono di fama a Lima, in pieno centro;
Sono torturati baudelariamente.
In questi vicoli miserabili
(Tanto simili a Messico)
César Vallejo passeggió, fece l'amore, deliró
Scrisse versi.
Giá! Ora lo imitano, lo venerano
"È un orgoglio per il continente",
In vita lo presero a calci, a sputi,
Lo ammazzarono di fame e di tristezza.
Disse Cernuda che nessun paese
Ha mai tollerato vivi i suoi poeti.
Va bene cosí.
Sarebbe forse meglio
Essere il Poeta Nazionale
(Vallejo e Cernuda si incontrano a Lima)
A partire dalle coste del Perú ha messo in crisi
L'industria della pesca e ha provocato nelle cittá
del litorale l'invasione di uccelli.
E come in un poema di Cisneros,
Albatri, pellicani e cormorani
Muoiono di fama a Lima, in pieno centro;
Sono torturati baudelariamente.
In questi vicoli miserabili
(Tanto simili a Messico)
César Vallejo passeggió, fece l'amore, deliró
Scrisse versi.
Giá! Ora lo imitano, lo venerano
"È un orgoglio per il continente",
In vita lo presero a calci, a sputi,
Lo ammazzarono di fame e di tristezza.
Disse Cernuda che nessun paese
Ha mai tollerato vivi i suoi poeti.
Va bene cosí.
Sarebbe forse meglio
Essere il Poeta Nazionale
Che tutti salutano per strada?
**
César Vallejo
Mi duole nelle ossa l'umiditá
Che trafigge come un cilicio
Qui soccombe per il mal di mare il nativo
Delle alte cittá dell'entroterra
Secche o morte
Messico sull'altipiano
Che fu bosco e laguna
E oggi è terrore e chissáche altro.
Dalla finestra entra l'aria di Lima
L'umiditá come una forma di pianto
Oggi venedí
15 aprile
Mezzo secolo dopo
La morte di Vallejo.
**
José Emilio Pacheco
Trad genseki
lunedì, febbraio 14, 2011
A sua madre
Fu quando tutti i voli si fecero marmo
Che l'autunno frullava nel fondo delle mie pupille
E le foglie più pesanti ancora del loro lutto
Non cessavano di balenare come monete
Senza una faccia senza una luna
Perduto il tuo volto nel suo occaso incessante
Anche il mio nome era un altro
La mia vicenda entrava nel porto
Le mie ultime lettere le scrivevo sulla carta da imballaggio
Dove potevo ormai appendere il cappello?
Sedermi al tavolo da gioco?
Accoccolarmi nell'orto sapendo che non mi amavi?
Che non mi amavi?
E le ali le scolpiva lo scalpello del volo
Nel marmo di quel pezzetto di cielo
Non fosti il mio battello
I tuoi occhi non mi furono lago
Sulla tua altra sponda aspettavo
Il mio traghetto, ora ora soltanto
So che avrai una mano per accarrezzare
I capelli stessi della luce
genseki
Che l'autunno frullava nel fondo delle mie pupille
E le foglie più pesanti ancora del loro lutto
Non cessavano di balenare come monete
Senza una faccia senza una luna
Perduto il tuo volto nel suo occaso incessante
Anche il mio nome era un altro
La mia vicenda entrava nel porto
Le mie ultime lettere le scrivevo sulla carta da imballaggio
Dove potevo ormai appendere il cappello?
Sedermi al tavolo da gioco?
Accoccolarmi nell'orto sapendo che non mi amavi?
Che non mi amavi?
E le ali le scolpiva lo scalpello del volo
Nel marmo di quel pezzetto di cielo
Non fosti il mio battello
I tuoi occhi non mi furono lago
Sulla tua altra sponda aspettavo
Il mio traghetto, ora ora soltanto
So che avrai una mano per accarrezzare
I capelli stessi della luce
genseki
L'anima e la memoria
Manuel Altolaguirre
da: “Il cavallo greco”
Dopo la morte l'anima non si sente nuda. L'anima si veste della sua memoria, si limita con essa, illuminandola da dentro con la propria intelligenza e la propria volontà in modo che nulla di quanto visse resti occulto. L'anima resta avvolta dal paesaggio del suo comportamento, dei suoi pensieri, delle sue emozioni. La memoria, che in vita ci abbandona con tanta frequenza, nella morte ci presta il suo mantello, ci conforta e ci salva.
**
Se non in me, dove sta la mia vita? L'idea che possa essere registrata in un'intelligenza superiore mi riempie di speranza.
**
Rientriamo in noi solo con la morte. In tal modo ci incorporiamo con la forma totale della nostra storia, che, siccome il nostro corpo non è sufficiente per tante e tali attitudini, muore nell'attesa del giorno in cui sarà ancora convocato dallo spirito.
Morire è essere pianura, un grande volto impassibile, uno specchio di tutta l'anima nel quale si può leggere tutta una vita. Dove restò il tempo? Nell'oblio o nella disperazione. Nulla di tutto questo si trova in quel volto la cui presenza è un riflesso della divina sapienza che lo sta giudicando.
Le nostre vite sono come fiumi che sboccano in uno specchio. Quando tale specchio rifletta in un sol colpo e per sempre tutto quello che fummo, è perché finalmente siamo arrivati al momento della morte.
**
Nessun campo tanto vasto come la nostra memoria, percorrerlo è cercare se stessi. Ma questa ombra che cerca di conoscersi a forza di camminare su e giù per la propria vita non sono interamente io. Nemmeno questi che riceve a poco a poco strane impressioni e si mostra insensibile alla maggior parte di esse sono io, anche se nel mio sogno gli conferisco consistenza. Solo mi riconosco negli altri. Essi sono la mia riva e io l'ombra, è la loro luce che confondendosi con i miei primi grigi, forma le aurore, e se io sono d'acqua e loro di roccia, al nostro urto si formeranno piagge e litorali; se sono calore e loro neve, nel nostro incontro la primavera darà i suoi fiori e l'autunno maturarà i suoi frutti.
trad. genseki
da: “Il cavallo greco”
Dopo la morte l'anima non si sente nuda. L'anima si veste della sua memoria, si limita con essa, illuminandola da dentro con la propria intelligenza e la propria volontà in modo che nulla di quanto visse resti occulto. L'anima resta avvolta dal paesaggio del suo comportamento, dei suoi pensieri, delle sue emozioni. La memoria, che in vita ci abbandona con tanta frequenza, nella morte ci presta il suo mantello, ci conforta e ci salva.
**
Se non in me, dove sta la mia vita? L'idea che possa essere registrata in un'intelligenza superiore mi riempie di speranza.
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Rientriamo in noi solo con la morte. In tal modo ci incorporiamo con la forma totale della nostra storia, che, siccome il nostro corpo non è sufficiente per tante e tali attitudini, muore nell'attesa del giorno in cui sarà ancora convocato dallo spirito.
Morire è essere pianura, un grande volto impassibile, uno specchio di tutta l'anima nel quale si può leggere tutta una vita. Dove restò il tempo? Nell'oblio o nella disperazione. Nulla di tutto questo si trova in quel volto la cui presenza è un riflesso della divina sapienza che lo sta giudicando.
Le nostre vite sono come fiumi che sboccano in uno specchio. Quando tale specchio rifletta in un sol colpo e per sempre tutto quello che fummo, è perché finalmente siamo arrivati al momento della morte.
**
Nessun campo tanto vasto come la nostra memoria, percorrerlo è cercare se stessi. Ma questa ombra che cerca di conoscersi a forza di camminare su e giù per la propria vita non sono interamente io. Nemmeno questi che riceve a poco a poco strane impressioni e si mostra insensibile alla maggior parte di esse sono io, anche se nel mio sogno gli conferisco consistenza. Solo mi riconosco negli altri. Essi sono la mia riva e io l'ombra, è la loro luce che confondendosi con i miei primi grigi, forma le aurore, e se io sono d'acqua e loro di roccia, al nostro urto si formeranno piagge e litorali; se sono calore e loro neve, nel nostro incontro la primavera darà i suoi fiori e l'autunno maturarà i suoi frutti.
trad. genseki
Regola grammaticale
Regola grammaticale
La grammatica, come norma colettiva in poesia, non ha ragion d'essere. Ogni poeta forgia la propria grammatica personale e che non puo' essere trasferita, la propria sintassi, ortografia, analogia, prosodia, semantica. Basta che non esca dalle consuetudini di base dell'idioma. Il poeta può persino cambiare, in certo modo la struttura letterale e fonetica di una stessa parola, secondo i casi. E questo, lungi dal restringere la portata socialista e uniersale della poesia, come si potrebbe credere, la dilata all'infinito. Si sa che quanto più personale (ripeto, non dico individuale) è la sensibilità dell'artista, tanto la sua opera è più universale e collettiva.
César Vallejo
La grammatica, come norma colettiva in poesia, non ha ragion d'essere. Ogni poeta forgia la propria grammatica personale e che non puo' essere trasferita, la propria sintassi, ortografia, analogia, prosodia, semantica. Basta che non esca dalle consuetudini di base dell'idioma. Il poeta può persino cambiare, in certo modo la struttura letterale e fonetica di una stessa parola, secondo i casi. E questo, lungi dal restringere la portata socialista e uniersale della poesia, come si potrebbe credere, la dilata all'infinito. Si sa che quanto più personale (ripeto, non dico individuale) è la sensibilità dell'artista, tanto la sua opera è più universale e collettiva.
César Vallejo
Il nome
Il mio nome era tutto quello che volevi sapere
Elsa. Il mio nome.
All'Osteria del Gozzo tra una toma
E un gotto di Carcairone
Ti avvicinavi al mio ginocchio
Come la volpe alle uova del pavone
Ma nemmeno il mio ginocchio
Sapeva il mio nome,
Poi passeggiando ti indicavo
I gattici fioriti, gli arbusti della fusaria
E i fori delle mine fluviali
Profumavi di alga il mio nome
Lo chiedevi sulle unghie
Nel sorriso, nella curva del collo
Nella profondità del tuo tepore
Il mio nome pero' non lo conoscevo
Lo avevo perduto forse una volta in stazione
Mi era caduto di tasca mente cercavo
Di obliterare il biglietto nella fessura
Di quella macchina troppo gialla
La geografia delle tue mani non era
Mappa sufficiente per indovinare nemmeno la mia origine
Ritornammo passando per il lago
In Nissan
Come un grande cigno bianco
genseki
Elsa. Il mio nome.
All'Osteria del Gozzo tra una toma
E un gotto di Carcairone
Ti avvicinavi al mio ginocchio
Come la volpe alle uova del pavone
Ma nemmeno il mio ginocchio
Sapeva il mio nome,
Poi passeggiando ti indicavo
I gattici fioriti, gli arbusti della fusaria
E i fori delle mine fluviali
Profumavi di alga il mio nome
Lo chiedevi sulle unghie
Nel sorriso, nella curva del collo
Nella profondità del tuo tepore
Il mio nome pero' non lo conoscevo
Lo avevo perduto forse una volta in stazione
Mi era caduto di tasca mente cercavo
Di obliterare il biglietto nella fessura
Di quella macchina troppo gialla
La geografia delle tue mani non era
Mappa sufficiente per indovinare nemmeno la mia origine
Ritornammo passando per il lago
In Nissan
Come un grande cigno bianco
genseki
Il crepitare altissimo d'incendi
Il crepitare altissimo d'incendi
lassù sull'altipiano dove le nuvole di marmo
Ci oscuravano il respiro
Il vento delle lacrime ti scuoteva
Come i rami dell'abete
Il fumo si faceva più solido
Tu dipingevi quel melo dalla finestra del bagno
Ti osservavo dalla siepe
Tra gli altri alberi da frutto
Al congedarti odore di verderame
Poi fu sera, tramonto, oltre la curva fiamme
Come sfrigolavano cervi e miniature
Un istante di cenere il nostro
Con un occhio ai tuoi collant
Fissavo il rogo della cordigliera
Come un'immenso coniglio rosso
Scuotere sfrenato le orecchie
Davanti al parabrezza.
genseki
lassù sull'altipiano dove le nuvole di marmo
Ci oscuravano il respiro
Il vento delle lacrime ti scuoteva
Come i rami dell'abete
Il fumo si faceva più solido
Tu dipingevi quel melo dalla finestra del bagno
Ti osservavo dalla siepe
Tra gli altri alberi da frutto
Al congedarti odore di verderame
Poi fu sera, tramonto, oltre la curva fiamme
Come sfrigolavano cervi e miniature
Un istante di cenere il nostro
Con un occhio ai tuoi collant
Fissavo il rogo della cordigliera
Come un'immenso coniglio rosso
Scuotere sfrenato le orecchie
Davanti al parabrezza.
genseki
Juan Larrea
Spine quando nevica
Sognami sognami in fretta stella di terra
Coltivata dalle mie palpebre afferrami per i miei manici d'ombra
Inebriami di ali di marmo ardendo, ardendo stella stella tra le mie ceneri
Potere potere alla fine trovare sotto il mio sorriso la statua
Di una sera di sole i gesti a fior d'acqua
Gli occhi a fior di inverno
Tu che nell'alcova del vento stai vegliando
L'innocenza di dipendere dalla bellezza “volandera”
Che si tradisce nell'ardore con cui le foglie si voltano verso il petto più debole
Tu che assumi luce e abisso al borco di questa carne
Che cade fino ai miei piedi come vivezza ferita
Tu che in selva d'orrori avanzi smarrita
Supponi che nel mio silenzio vive una oscura rosa senza uscita e senza lotta
**
Il mare in persona
Eccolo il mare innalzato in un battito di ciglia
Il mare senza sogno come una grande paura di trifogli fioriti
Nella postura della terra sottomessa come sembra
Se ne vanno digià con le loro lane di evidenza sulla nube e sulla sua fatica
All'ombra di un olmo non c'è mai tempo da perdere
Credula squisita l'oscurità mi viene incontro
Nella mia fronte abita lo scorza di pane che mi porto dentro
Tagliato a picco su un uccello insicuro
Così mi allontano per azione del piano
Che mi cuce alle piante che precorrono il mare
Un cervo d'autunno scende a leccare la luna della tua mano
E ora sulla mia sponda il mondo comincia a spogliarsi
Per morire d'alberi in fondo ai miei occhi
I miei capelli si riempiono di pesci di penombra
Di scheletri di navi forzate
Senza andare più lontano
Sei fredda come l'ascia che abbatte il silenzio
Nella lotta tra il paesaggio e il suo colpo d'occhio
Poi quando il cielo esporta i suoi pianisti celebri
E la pioggia l'odore della mia persona
Come il tuo bel cuore si tradisce
Trad. genseki
Sognami sognami in fretta stella di terra
Coltivata dalle mie palpebre afferrami per i miei manici d'ombra
Inebriami di ali di marmo ardendo, ardendo stella stella tra le mie ceneri
Potere potere alla fine trovare sotto il mio sorriso la statua
Di una sera di sole i gesti a fior d'acqua
Gli occhi a fior di inverno
Tu che nell'alcova del vento stai vegliando
L'innocenza di dipendere dalla bellezza “volandera”
Che si tradisce nell'ardore con cui le foglie si voltano verso il petto più debole
Tu che assumi luce e abisso al borco di questa carne
Che cade fino ai miei piedi come vivezza ferita
Tu che in selva d'orrori avanzi smarrita
Supponi che nel mio silenzio vive una oscura rosa senza uscita e senza lotta
**
Il mare in persona
Eccolo il mare innalzato in un battito di ciglia
Il mare senza sogno come una grande paura di trifogli fioriti
Nella postura della terra sottomessa come sembra
Se ne vanno digià con le loro lane di evidenza sulla nube e sulla sua fatica
All'ombra di un olmo non c'è mai tempo da perdere
Credula squisita l'oscurità mi viene incontro
Nella mia fronte abita lo scorza di pane che mi porto dentro
Tagliato a picco su un uccello insicuro
Così mi allontano per azione del piano
Che mi cuce alle piante che precorrono il mare
Un cervo d'autunno scende a leccare la luna della tua mano
E ora sulla mia sponda il mondo comincia a spogliarsi
Per morire d'alberi in fondo ai miei occhi
I miei capelli si riempiono di pesci di penombra
Di scheletri di navi forzate
Senza andare più lontano
Sei fredda come l'ascia che abbatte il silenzio
Nella lotta tra il paesaggio e il suo colpo d'occhio
Poi quando il cielo esporta i suoi pianisti celebri
E la pioggia l'odore della mia persona
Come il tuo bel cuore si tradisce
Trad. genseki
Isola ti chiamavo
Isola ti chiamavo Elsa, Elisa
Tu mi chiamavi. Come mi chiamavo?
Non mi chiamavo, non avevo nome.
Tu sempre domandavi finché quasi
Volevo dirti di chiamarmi cigno
Nube, Callisto, Melibeo, Elosabad,
Islamey, Lohengrin, Ulisse. Zero.
Come mi chiamo? Ancora me lo chiedi?
Mi chiamero', mi chiamero' Tiamo.
Tu non smettevi pero' di domandare
Fino a rientrare nel tuo secondo sogno.
Gerardo Diego
Trad.genseki
Tu mi chiamavi. Come mi chiamavo?
Non mi chiamavo, non avevo nome.
Tu sempre domandavi finché quasi
Volevo dirti di chiamarmi cigno
Nube, Callisto, Melibeo, Elosabad,
Islamey, Lohengrin, Ulisse. Zero.
Come mi chiamo? Ancora me lo chiedi?
Mi chiamero', mi chiamero' Tiamo.
Tu non smettevi pero' di domandare
Fino a rientrare nel tuo secondo sogno.
Gerardo Diego
Trad.genseki
San Sebastiano
San Sebastiano
Legato a un tronco un corpo, torso bianco bersaglio.
Sibilo, volo, un bosco di saette.
Candore che oramai si scorge appena
Di bellissima pelle. Ombre
Di penne e di steli ecco oscurano
La lividezza così prepotente. Fiumi
Di sangue macchiano sul petto
Le bande della nobiltà nel Cristo.
Danzando fu la sua danza rapita.
Tronco non fu d'olivo in fiamma e nodo
Né fusto di betulla argentea lebbra.
Né torsione veementissima del sandalo
Che immobilizzi così sul proprio asse
L'alata varietà solo in un grido.
È Sebastiano il martire che vendica
La superbia oceanica, lo scoglio
Ove un titano incatenato canta
Nel fuoco e nella danza si scatena.
La fiamma non rubo' ma l'alimenta
Col suo sangue la esalta e la ridona
Al cielo che l'assorbe in nuovo incendio.
O bandiera di rossi e di violetti
E azzurri rapidissimi, o incolume
Sebastiano nell'asta, nel candore
Zebrato. Gia s'estraggono quei dardi
E nel sollievo tu canti in trionfo,
Danzi la fe di Cristo insanguinata.
Gerardo Diego
Trad. genseki
Legato a un tronco un corpo, torso bianco bersaglio.
Sibilo, volo, un bosco di saette.
Candore che oramai si scorge appena
Di bellissima pelle. Ombre
Di penne e di steli ecco oscurano
La lividezza così prepotente. Fiumi
Di sangue macchiano sul petto
Le bande della nobiltà nel Cristo.
Danzando fu la sua danza rapita.
Tronco non fu d'olivo in fiamma e nodo
Né fusto di betulla argentea lebbra.
Né torsione veementissima del sandalo
Che immobilizzi così sul proprio asse
L'alata varietà solo in un grido.
È Sebastiano il martire che vendica
La superbia oceanica, lo scoglio
Ove un titano incatenato canta
Nel fuoco e nella danza si scatena.
La fiamma non rubo' ma l'alimenta
Col suo sangue la esalta e la ridona
Al cielo che l'assorbe in nuovo incendio.
O bandiera di rossi e di violetti
E azzurri rapidissimi, o incolume
Sebastiano nell'asta, nel candore
Zebrato. Gia s'estraggono quei dardi
E nel sollievo tu canti in trionfo,
Danzi la fe di Cristo insanguinata.
Gerardo Diego
Trad. genseki
L'azzurro
Fu l'azzurro che garantì la nostra nascita
In dolcezza e celebrata promessa,
Poi qualcuni guardo' attraverso lo sguardo
Come affaciandosi da una finestra aperta
E un altro risuono' inclemente
Nel vuoto della voce:
L'anima esplose come reticolo
Come carosello di spore
Le mani le avevamo legate in mille nodi
Un nodo per ogni nome
Uno per lo sguardo, uno per chi origliava
Dalla stretta fessura delle orecchie
Il mondo si fece allora giardino
La speranza condannata a germogliare
Ognuno ha diritto ad almeno due vite
Una contiene se stessa e un'altra
La morte resta il seme piú fecondo.
genseki
In dolcezza e celebrata promessa,
Poi qualcuni guardo' attraverso lo sguardo
Come affaciandosi da una finestra aperta
E un altro risuono' inclemente
Nel vuoto della voce:
L'anima esplose come reticolo
Come carosello di spore
Le mani le avevamo legate in mille nodi
Un nodo per ogni nome
Uno per lo sguardo, uno per chi origliava
Dalla stretta fessura delle orecchie
Il mondo si fece allora giardino
La speranza condannata a germogliare
Ognuno ha diritto ad almeno due vite
Una contiene se stessa e un'altra
La morte resta il seme piú fecondo.
genseki
Per ricordarmi dei tuoi capelli
Per ricordarmi dei tuoi capelli
Mi bastava fissare le mie dita
Le lune delle tue unghie, pure
Erano sciabole delle mie iridi.
Il segreto come decifrarlo?
O il tormento dei tuoi gesti,
Quando toglievi la mollica del pane
Scartavi il cuore delle mele
Ti chinavi ad accarezzare la caviglia
Con la tempia all'altezza della tavola preparata?
Il fiume dei tuoi capelli
Era come un firmamento
Un oceano di rame
Salato come il ghigno delle fiamme
Nell'inesanatura del caminetto.
genseki
Mi bastava fissare le mie dita
Le lune delle tue unghie, pure
Erano sciabole delle mie iridi.
Il segreto come decifrarlo?
O il tormento dei tuoi gesti,
Quando toglievi la mollica del pane
Scartavi il cuore delle mele
Ti chinavi ad accarezzare la caviglia
Con la tempia all'altezza della tavola preparata?
Il fiume dei tuoi capelli
Era come un firmamento
Un oceano di rame
Salato come il ghigno delle fiamme
Nell'inesanatura del caminetto.
genseki
L'azzurro
L'azzurro lo lasciai
Che aggredisse i miei occhi
Fino a farli leggeri come macchie
Fino a rendere l'ozono sonoro come la moneta
Che cade sullo zinco dell'acquisto
Perchè se di questo si trattava
Allora solo l'azzuro era la nostra lingua
Garanzia della vita ossigeno dell'essere
E i nostri corpi più liberi dei loro vestiti
Si sarebbero lasciati spogliare dall'anima
Dal vento
Per questo invocai l'azzuro sulle colline di cenere
Nei boschetti di ossa lo invocai
Con il flauto di sambuco accennando
melodie di miele
Perchè finalmente la mia voce perdesse
la sua pelle di polvere
E il solo senso fosse vuoto sguardo.
genseki
Che aggredisse i miei occhi
Fino a farli leggeri come macchie
Fino a rendere l'ozono sonoro come la moneta
Che cade sullo zinco dell'acquisto
Perchè se di questo si trattava
Allora solo l'azzuro era la nostra lingua
Garanzia della vita ossigeno dell'essere
E i nostri corpi più liberi dei loro vestiti
Si sarebbero lasciati spogliare dall'anima
Dal vento
Per questo invocai l'azzuro sulle colline di cenere
Nei boschetti di ossa lo invocai
Con il flauto di sambuco accennando
melodie di miele
Perchè finalmente la mia voce perdesse
la sua pelle di polvere
E il solo senso fosse vuoto sguardo.
genseki
Bolañismi
Manuel Maples Arce, paseando por la Calzada del Cerro, bosque de
Chapultepec, México DF, agosto de 1976.
Chapultepec, México DF, agosto de 1976.
Este joven, Arturo Belano, vino a
verme para hacerme una entrevista. Sólo lo vi una vez. Lo acompañaban dos
muchachos y una muchacha, no sé sus nombres, casi no abrieron la boca, la
muchacha era norteamericana.
Le dije que abominaba del magnetófono por la misma razón que mi amigo
Borges abominaba de los espejos. ¿Usted fue amigo de Borges?, me preguntó
Arturo Belano con un tono asombrado un poco ofensivo para mí. Fuimos bastante
amigos, le respondí, íntimos, podría decirse, en los días lejanos de nuestra
juventud. La norteamericana quiso saber por qué Borges abominaba de los
magnetófonos. Supongo que porque es ciego, le dije en inglés. ¿Qué tiene que ver
la ceguera con los magnetófon dijo ella. Le recuerda los peligros del oído, le
respondí. Escuchar su propia voz, los pasos de uno mismo, los pasos del
enemigo. La norteamericana me miró a los ojos y asintió. No creo que conociera a
Borges demasiado bien. No creo que conociera mi obra en absoluto, aunque a mí
me tradujo John Dos Passos. Tampoco creo que conociera mucho a John Dos
Passos.
En fin, me pierdo. ¿En dónde estaba? Le dije a Arturo Belano que prefería
que no usara el magnetófono y que sería mejor que me dejara un cuestionario con
preguntas. Él accedió. Sacó una hoja y redactó las preguntas mientras yo le
enseñaba algunas habitaciones de la casa a sus acompañantes. Luego, cuando
tuvo terminado el cuestionario, hice que trajeran unas bebidas y estuvimos
hablando. Ya habían entrevistado a Arqueles Vela y a Germán List Arzubide.
¿Cree usted que alguien se puede interesar actualmente por el estridentismo?, le
pregunté. Por supuesto, maestro, dijo él, o algo parecido. Yo creo que el
estridentismo ya es historia y como tal sólo puede interesar a los historiadores de
la literatura, le dije. A mí me interesa y no soy un historiador, dijo él. Ah, bueno.
Esa noche, antes de acostarme, leí el cuestionario. Las preguntas típicas
de un joven entusiasta e ignorante. Hice, esa misma noche, un borrador con mis
respuestas. Al día siguiente lo pasé todo en limpio. Tres días más tarde, tal como
habíamos convenido, vino él a buscar el cuestionario. La criada lo hizo pasar pero
le dijo, por expresa instrucción mía, que yo no estaba. Luego le entregó el paquete
que yo tenía preparado para él: el cuestionario con mis respuestas y dos libros
míos que no me atreví a dedicarle (creo que hoy los jóvenes desdeñan estos
sentimentalismos). Los libros eran Andamios interiores y Urbe. Yo estaba al otro
lado de la puerta, escuchando. La criada dijo: esto le ha dejado el señor Maples.
Silencio. Arturo Belano debió de coger el paquete y mirarlo. Debió de hojear los
libros. Dos libros publicados hace tanto tiempo y con las páginas (excelente papel)
sin cortar. Silencio. Debió de mirar por encima el cuestionario. Después oí que
daba las gracias a la criada y se marchaba. Si vuelve a visitarme, pensé, estaré
justificado, si un día aparece por mi casa, sin anunciarse, para conversar conmigo,
para oírme contar mis viejas historias, para poner sus poemas a mi consideración,
estaré justificado. Todos los poetas, incluso los más vanguardistas, necesitan un
padre. Pero éstos eran huérfanos de vocación. Nunca volvió.
verme para hacerme una entrevista. Sólo lo vi una vez. Lo acompañaban dos
muchachos y una muchacha, no sé sus nombres, casi no abrieron la boca, la
muchacha era norteamericana.
Le dije que abominaba del magnetófono por la misma razón que mi amigo
Borges abominaba de los espejos. ¿Usted fue amigo de Borges?, me preguntó
Arturo Belano con un tono asombrado un poco ofensivo para mí. Fuimos bastante
amigos, le respondí, íntimos, podría decirse, en los días lejanos de nuestra
juventud. La norteamericana quiso saber por qué Borges abominaba de los
magnetófonos. Supongo que porque es ciego, le dije en inglés. ¿Qué tiene que ver
la ceguera con los magnetófon dijo ella. Le recuerda los peligros del oído, le
respondí. Escuchar su propia voz, los pasos de uno mismo, los pasos del
enemigo. La norteamericana me miró a los ojos y asintió. No creo que conociera a
Borges demasiado bien. No creo que conociera mi obra en absoluto, aunque a mí
me tradujo John Dos Passos. Tampoco creo que conociera mucho a John Dos
Passos.
En fin, me pierdo. ¿En dónde estaba? Le dije a Arturo Belano que prefería
que no usara el magnetófono y que sería mejor que me dejara un cuestionario con
preguntas. Él accedió. Sacó una hoja y redactó las preguntas mientras yo le
enseñaba algunas habitaciones de la casa a sus acompañantes. Luego, cuando
tuvo terminado el cuestionario, hice que trajeran unas bebidas y estuvimos
hablando. Ya habían entrevistado a Arqueles Vela y a Germán List Arzubide.
¿Cree usted que alguien se puede interesar actualmente por el estridentismo?, le
pregunté. Por supuesto, maestro, dijo él, o algo parecido. Yo creo que el
estridentismo ya es historia y como tal sólo puede interesar a los historiadores de
la literatura, le dije. A mí me interesa y no soy un historiador, dijo él. Ah, bueno.
Esa noche, antes de acostarme, leí el cuestionario. Las preguntas típicas
de un joven entusiasta e ignorante. Hice, esa misma noche, un borrador con mis
respuestas. Al día siguiente lo pasé todo en limpio. Tres días más tarde, tal como
habíamos convenido, vino él a buscar el cuestionario. La criada lo hizo pasar pero
le dijo, por expresa instrucción mía, que yo no estaba. Luego le entregó el paquete
que yo tenía preparado para él: el cuestionario con mis respuestas y dos libros
míos que no me atreví a dedicarle (creo que hoy los jóvenes desdeñan estos
sentimentalismos). Los libros eran Andamios interiores y Urbe. Yo estaba al otro
lado de la puerta, escuchando. La criada dijo: esto le ha dejado el señor Maples.
Silencio. Arturo Belano debió de coger el paquete y mirarlo. Debió de hojear los
libros. Dos libros publicados hace tanto tiempo y con las páginas (excelente papel)
sin cortar. Silencio. Debió de mirar por encima el cuestionario. Después oí que
daba las gracias a la criada y se marchaba. Si vuelve a visitarme, pensé, estaré
justificado, si un día aparece por mi casa, sin anunciarse, para conversar conmigo,
para oírme contar mis viejas historias, para poner sus poemas a mi consideración,
estaré justificado. Todos los poetas, incluso los más vanguardistas, necesitan un
padre. Pero éstos eran huérfanos de vocación. Nunca volvió.
Roberto Bolaño
Los Detectives Salvajes
Manuel Maples Arce
Prisma
Io sono un punto morto nel centro del momento
Equidistante al grido naufrago di una stella
Un parco
La luna senza corda
Mi opprime alle vetrate.
Margherite dorate
Che si sfogliano al vento.
Insorta la città di annunci luminosi
Galleggia in calendari,
E poi di sera in sera.
Per la strada stirata si dissangua il tranvai.
L'insonnia come fosse un rampicante,
Si avviluppa ai traliccci del telegrafo
Mentre vanno i rumori scardinando le porte
La notte si fa magra leccando il suo ricordo.
Il silenzio giallino mi risuona sugli occhi,
Prisma, diafana mia, come sentire tutto!
Le separai le mani,
Ma proprio in quel momento
Grigio delle stazioni
Le sue parole fradice mi si strinsero al collo,
E una locomotiva
Assetata di chilometri la strappo' dalle mie braccia.
Il suono delle sue parole oggi è più gelido che mai
E la locura di Edison a mani di pioggia!
Il cielo è un ostacolo al condominio inverso
Rifratto nelle lunule ombrose degli specchi;
I violini non crescono al modo del moscato,
E mentre van le orecchie esplorando il mattino
Rabbrividisce ossuto l'inverno in guardaroba.
Mi debordano i nervi
La stella del ricordo
Naufragava nell'acqua
Del silenzio
Tu de io
Ci incontrammo
Nella notte terribile,
Meditazione tematica
Che appassisce in giardini.
Locomotori, grida,
Arsenali, telegrafi,
E l'amor della vita
Son già sindacalisti,
E tutto si dilata in circoli concentrici.
Trad. genseki
Io sono un punto morto nel centro del momento
Equidistante al grido naufrago di una stella
Un parco
La luna senza corda
Mi opprime alle vetrate.
Margherite dorate
Che si sfogliano al vento.
Insorta la città di annunci luminosi
Galleggia in calendari,
E poi di sera in sera.
Per la strada stirata si dissangua il tranvai.
L'insonnia come fosse un rampicante,
Si avviluppa ai traliccci del telegrafo
Mentre vanno i rumori scardinando le porte
La notte si fa magra leccando il suo ricordo.
Il silenzio giallino mi risuona sugli occhi,
Prisma, diafana mia, come sentire tutto!
Le separai le mani,
Ma proprio in quel momento
Grigio delle stazioni
Le sue parole fradice mi si strinsero al collo,
E una locomotiva
Assetata di chilometri la strappo' dalle mie braccia.
Il suono delle sue parole oggi è più gelido che mai
E la locura di Edison a mani di pioggia!
Il cielo è un ostacolo al condominio inverso
Rifratto nelle lunule ombrose degli specchi;
I violini non crescono al modo del moscato,
E mentre van le orecchie esplorando il mattino
Rabbrividisce ossuto l'inverno in guardaroba.
Mi debordano i nervi
La stella del ricordo
Naufragava nell'acqua
Del silenzio
Tu de io
Ci incontrammo
Nella notte terribile,
Meditazione tematica
Che appassisce in giardini.
Locomotori, grida,
Arsenali, telegrafi,
E l'amor della vita
Son già sindacalisti,
E tutto si dilata in circoli concentrici.
Trad. genseki
Frammento
Ti sporgevi dai tuoi sogni come da una caverna
Ma il mio sonno era verde come quello dei cinghiali
Sognavo un sogno di lupo prigioniero
Nella magia di una miniera di carbone
E i tuoi piedi come due colombe
Frullavano sgraditi alle mie tempie
Le unghie delle tue mani erano firmamento
Nella notte dei bambù e dei denti ...
genseki
Ma il mio sonno era verde come quello dei cinghiali
Sognavo un sogno di lupo prigioniero
Nella magia di una miniera di carbone
E i tuoi piedi come due colombe
Frullavano sgraditi alle mie tempie
Le unghie delle tue mani erano firmamento
Nella notte dei bambù e dei denti ...
genseki
Unica Rovelli
Poi non seppi più nulla di Dreiser Cazzaniga e non rividi più, per lunghi anni, il comissario Fabro, cosi che finii per dimenticarmi del tutto di quell'incidente marginale e sgradevole. Fu inaspettatamente e per puro caso che rividi il commisario Fabro nella piccola latteria al lato della Cattedrale nella quale solevo cercare rifugio nei momenti di tranquilla serenità e solitudine che si facevano sempre più splendidi, frequenti e luminosi con l'avanzare della vecchiaia, amavo questo mio lungo tramonto, i miei passi che si facevano incerti, la stanchezza, l'insonnia che rendeva le notti un'avventura febbrile, gli antidolorifici e il loro tremolante sopore e le ultime latterie, specialmente quella al lato della cattedrale, con l'odore di limone e canella, i grandi contenitori di vetro con le perle di zucchero e le gocce di cioccolato, il frigorifero panciuto che era un'imitazione vecchissima di un modello ancora più vecchio di frigorifero statunitense che sarebbe stato perfettamente al suo posto in una casa marziana visitata da Bradbury. Una manona si appoggio' pesantemente con cordialità non gradita sulla mia spalla, e la voce pastosa e sfrigolante del comissario Fabro scivolo' nelle mie orecchie senza apparente sforzo: - Lermita! È dal tempo di Scoriosozzo che non la vedo, si ricorda, la manzottin? -
Come dimenticarla – dissi rabbrividendo involontariamente.
Si sieda Lermita, posso offrirle un caffe?
Non potevo fuggire perché la porta stava proprio dietro il comissario che en occupava tutta la larghezza, e non me la sentivo di tentare la fuga attraverso il retrobotega perché poi avrei avuto difficoltà a restare cliente di una latteria dalla quale ero fuggito per liberarmi della polizia. Mi sedetti e il gentile Fabro mi aggiorno' sul caso di Dreiser Cazzaniga. Risultava che Il Duca o Buca Spadaro non lo poterono reperire e quindi non fu interrogato. Attraverso vari riscontri si poté appurare che le scatole di carne manzottin erano state rubate dalla macchina di Buca o Duca Spadaro da Dunja Rabam Kosovara che ruppe il vetro posteriore con un mattone che portava nella borsa da Pristina. Dunja non aprì le scatolette perché temeva che fossero una trappola dei cristiani e che contenessero carne di maiale, così nonostante le proteste dei bambini le cambio' con due confezioni di pannolini giganti alla vecchia Gita che viveva davanti alle rovine dell'antica fabbrica Eterthanatos in cui Dunja aveva trovato rifugio con la famiglia dai rigori dell'inverno. La vecchia Gita aveva barattato le scatole di carne Simental con 15 kili di torba e 10 Kili di russule emetiche da Biotto Cèpedo, il viandante dei boschi che le aveva portate a valle da una delle sue lunghe escursioni sui fianchi poderosi del Mucrone. Biotto Cèpedo, alla fine en aveva usato il contenuto per preparare trappole per le volpi e gli sciacalli, nessuno sciacallo e nessunissima volpe si era degnata di farsi attrarre da quella pastura e Biotto Cèpedo aveva usato le scatole vuote per allontanare i passeri dal suo piccolo vigneto. Il telefono mobile di Dreiser Cazzaniga aveva registrato questo messaggio circa una settimana prima della sua morte: “Non voglio più parlare con te basta messaggi e telefonate, e lasciaci in pace”. Firmato Duca o Buca Spadaro. Il plurale. Chi era l'altro o gli altri che Dreiser Cazzaniga doveva lasciare in pace? Fu appurato che Duca o Buca Spadaro era stato visto nella valle e sui sentieri del Mucrone in compagnia di tale Unica Rovelli, ex-concubina di Bilbo il Chimico che Duca o Buca Spadaro aveva amato nell'adolescena e che per farlo ingelosire si era sposata con Bilbo il chimico e aveva visuto con lui circa trentanni geneando figli e figlie nella città alemanna di Francomorte. Unica Rovelli era facilmente riconoscibile dalla bocca, aveva una bocca larga, che si apriva da orecchia a orecchia come se la testa fosse stata tagliata in due poco sopra il mento e le due parti separate lasciate distrattamene appoggiate una sull'altra. La bocca di Unica Rovelli non era oscena. Questo no. Ma creava in quanti si imbattevano in lei una sensazione di doloroso disagio che risultava difficile da definire. Insomma, trattandosi di bocca era facile che la mente si immergesse in indecorose comparazioni, ma era più una ferita che una bocca e lo sguardo en percorreva i margini come volesse suturarla per recuperare il suo equilibrio in forza di un gesto pietoso verso tanta sventura. Unica Rovelli era per unanime testimonianza di quanti l'avevano conosciuta una creatura psicologicamente gelatinosa con l'anima di un'assassina piagnucolosa. Duca o Buca Spadaro e Unica Rovelli hanno fatto perdere le proprie tracce, alcuni miei collaboratori dubitano persino che siano esistiti, credono che siano una leggenda formatasi nei boschi del Mucrone, magari dalla fantasia avariata di Biotto Cèpedo dopo un'indigestione di muscaria e veicolata da carbonai e ortolane sulla base di qualche elemento reale. Magari Diuna aveva rubato davvero un paio di scatolette di carne manzottin dalla bicicletta di una vedova, una poveretta dalla bocca deforme aveva mangiato polenta scunsa in qualche piola della valle, e questi fatti avevano colpito la fantasia popolare. Dreiser Cazzaniga era morto e se la coppia Buca Unica era reale certo aveva avuto qualche responsabilità in questo avvenimento.
Furono di questo tenore le conclusioni del comissario Fabro e quella fu l'ultima volta che lo vidi e che sentii parlare di Dreiser Cazzaniga fino a quando conobbi genseki.
Come dimenticarla – dissi rabbrividendo involontariamente.
Si sieda Lermita, posso offrirle un caffe?
Non potevo fuggire perché la porta stava proprio dietro il comissario che en occupava tutta la larghezza, e non me la sentivo di tentare la fuga attraverso il retrobotega perché poi avrei avuto difficoltà a restare cliente di una latteria dalla quale ero fuggito per liberarmi della polizia. Mi sedetti e il gentile Fabro mi aggiorno' sul caso di Dreiser Cazzaniga. Risultava che Il Duca o Buca Spadaro non lo poterono reperire e quindi non fu interrogato. Attraverso vari riscontri si poté appurare che le scatole di carne manzottin erano state rubate dalla macchina di Buca o Duca Spadaro da Dunja Rabam Kosovara che ruppe il vetro posteriore con un mattone che portava nella borsa da Pristina. Dunja non aprì le scatolette perché temeva che fossero una trappola dei cristiani e che contenessero carne di maiale, così nonostante le proteste dei bambini le cambio' con due confezioni di pannolini giganti alla vecchia Gita che viveva davanti alle rovine dell'antica fabbrica Eterthanatos in cui Dunja aveva trovato rifugio con la famiglia dai rigori dell'inverno. La vecchia Gita aveva barattato le scatole di carne Simental con 15 kili di torba e 10 Kili di russule emetiche da Biotto Cèpedo, il viandante dei boschi che le aveva portate a valle da una delle sue lunghe escursioni sui fianchi poderosi del Mucrone. Biotto Cèpedo, alla fine en aveva usato il contenuto per preparare trappole per le volpi e gli sciacalli, nessuno sciacallo e nessunissima volpe si era degnata di farsi attrarre da quella pastura e Biotto Cèpedo aveva usato le scatole vuote per allontanare i passeri dal suo piccolo vigneto. Il telefono mobile di Dreiser Cazzaniga aveva registrato questo messaggio circa una settimana prima della sua morte: “Non voglio più parlare con te basta messaggi e telefonate, e lasciaci in pace”. Firmato Duca o Buca Spadaro. Il plurale. Chi era l'altro o gli altri che Dreiser Cazzaniga doveva lasciare in pace? Fu appurato che Duca o Buca Spadaro era stato visto nella valle e sui sentieri del Mucrone in compagnia di tale Unica Rovelli, ex-concubina di Bilbo il Chimico che Duca o Buca Spadaro aveva amato nell'adolescena e che per farlo ingelosire si era sposata con Bilbo il chimico e aveva visuto con lui circa trentanni geneando figli e figlie nella città alemanna di Francomorte. Unica Rovelli era facilmente riconoscibile dalla bocca, aveva una bocca larga, che si apriva da orecchia a orecchia come se la testa fosse stata tagliata in due poco sopra il mento e le due parti separate lasciate distrattamene appoggiate una sull'altra. La bocca di Unica Rovelli non era oscena. Questo no. Ma creava in quanti si imbattevano in lei una sensazione di doloroso disagio che risultava difficile da definire. Insomma, trattandosi di bocca era facile che la mente si immergesse in indecorose comparazioni, ma era più una ferita che una bocca e lo sguardo en percorreva i margini come volesse suturarla per recuperare il suo equilibrio in forza di un gesto pietoso verso tanta sventura. Unica Rovelli era per unanime testimonianza di quanti l'avevano conosciuta una creatura psicologicamente gelatinosa con l'anima di un'assassina piagnucolosa. Duca o Buca Spadaro e Unica Rovelli hanno fatto perdere le proprie tracce, alcuni miei collaboratori dubitano persino che siano esistiti, credono che siano una leggenda formatasi nei boschi del Mucrone, magari dalla fantasia avariata di Biotto Cèpedo dopo un'indigestione di muscaria e veicolata da carbonai e ortolane sulla base di qualche elemento reale. Magari Diuna aveva rubato davvero un paio di scatolette di carne manzottin dalla bicicletta di una vedova, una poveretta dalla bocca deforme aveva mangiato polenta scunsa in qualche piola della valle, e questi fatti avevano colpito la fantasia popolare. Dreiser Cazzaniga era morto e se la coppia Buca Unica era reale certo aveva avuto qualche responsabilità in questo avvenimento.
Furono di questo tenore le conclusioni del comissario Fabro e quella fu l'ultima volta che lo vidi e che sentii parlare di Dreiser Cazzaniga fino a quando conobbi genseki.
Tristano Lermita
domenica, gennaio 30, 2011
Al margine dell'abetaia
Era tutto un trascorrere di lupi sotto i cavi
Al margine dell'abetaia
Quando la tua ora si faceva acqua profonda
La mia pazienza asta e fuscello
Ti toglievi gli scarponi ogni volta
Che seduta scorgevi un grumo di malva
La pulmonaria assorbiva gli ululati
Nella mia gola il groppo di non baciarti.
Poi fu uno scudisciare di fianchi, larici
Strisciante l'odore della pelle gridava
Il tuo ricordo
Agli spettri dei rododendri.
genseki
Al margine dell'abetaia
Quando la tua ora si faceva acqua profonda
La mia pazienza asta e fuscello
Ti toglievi gli scarponi ogni volta
Che seduta scorgevi un grumo di malva
La pulmonaria assorbiva gli ululati
Nella mia gola il groppo di non baciarti.
Poi fu uno scudisciare di fianchi, larici
Strisciante l'odore della pelle gridava
Il tuo ricordo
Agli spettri dei rododendri.
genseki
Odessa
Ad Odessa ti aspettavo all'aereoporto
Ansioso di vederti spuntare con l'impermeabile giallo
Il tichettio sotto le braccia e la valigetta
Di metallo sferico
ma era in una latteria che reclinavo la testa
Una di quelle della mia infanzia
Con cannella e ardesia
a profumare il crepuscolo
E un sogno di giacinti stridenti
Le mosche le friggeva quella lampada azzura
E fu così che non seppi abbandonare i tuoi occhi
Ad altre ali, ad altri coltelli
A fendere il volo e la polpa
Poi furono solo labbra e abbracci
Il profumo acre di terital
Il tuo dolore che mi sprigionava
Come un nodo, un virgulto di muscoli
L'impermeabile giaceva davanti al caminetto
Come nei migliori film di una volta
La coperta era anch'essa in bianco e nero
Come la busta di vaniglia del lattaio.
genseki
Ansioso di vederti spuntare con l'impermeabile giallo
Il tichettio sotto le braccia e la valigetta
Di metallo sferico
ma era in una latteria che reclinavo la testa
Una di quelle della mia infanzia
Con cannella e ardesia
a profumare il crepuscolo
E un sogno di giacinti stridenti
Le mosche le friggeva quella lampada azzura
E fu così che non seppi abbandonare i tuoi occhi
Ad altre ali, ad altri coltelli
A fendere il volo e la polpa
Poi furono solo labbra e abbracci
Il profumo acre di terital
Il tuo dolore che mi sprigionava
Come un nodo, un virgulto di muscoli
L'impermeabile giaceva davanti al caminetto
Come nei migliori film di una volta
La coperta era anch'essa in bianco e nero
Come la busta di vaniglia del lattaio.
genseki
Bolañismi
Soñé que estaba soñando y que en los túneles de los sueños encontraba el sueño de Roque Dalton: el sueño de los valientes que murieron por una quimera de mierda.
Sognai che stavo sognando e che nei tunnel del sogno incontravo il sogno di Roque Dalton: il sogno dei valorosi che morirono per una chimera di merda.
Roberto Bolaño
Trad. genseki
Sognai che stavo sognando e che nei tunnel del sogno incontravo il sogno di Roque Dalton: il sogno dei valorosi che morirono per una chimera di merda.
Roberto Bolaño
Trad. genseki
Roque Dalton
Alta ora di notte
Quando mi saprai morto tu non dire il mio nome
Perchè si fermerebbero e la morte e il riposo.
La tua voee, campana di tutti e cinque i sensi
Sarà il pallido faro che la mia nebbia cerca.
Quando mi saprai morto dimmi sillabe strane
Pronuncia pane, fiore, ape, lacrima e tormenta.
Non lasciare che le tue labbra trovino le mie undici lettere,
Ora ho sonno, ho amato e ho vinto il silenzio.
No, non dire il mio nome quando mi saprai morto
Dalla terra più oscura mi chiamerebbe la tua voce.
No, non dire il mio nome, non lo dire, per favore
Quando mi saprai morto tu non dire il mio nome.
27/01/11
14:38:09
Il mare
Ci sono grandi pietre nella tua tempestosa oscurità
Grandi pietre con le loro date lavate dalla tua ombra
Perchè persino il sole mangia della tua ombra
Scricchiola nel freddo congedandosi dall'aria
Che non osa penetrare in te.
O mare in cui i disperati possono dormire
Cullati da impassibili esplosioni
Alfabeto di vertigine paisage diluito che aggrediscono i muri
I gabbiani, la spuma dei pesci sono la tua primavera
La furia è una piramide verde
Una resurrezione del fuoco più acuto il tuo clima
La tua miglior traccia sarebbe una chiocciola
Che cammina con passi di bambino nel deserto.
Siempre amai i villaggi dissimili
Apparentemente rubati dalle mani del mare
Citfadine presso la sabbia
Porto scandalosi nel'elbrezza del salnitro
Casali rabbrividenti tra la nebbia piena di coralli
Grandi citàa titanice di fronte alle tempeste umiliate
Borghi di pescatori ciechi sotto un faro di olio
Fabbriche in agguato tra gli atolli con un largo coltello
Valapraiso come una grande cascata sospesa
Manta Punàa porti dell'Ecuador negatori delle foglie
Buenaventura aromatica come un gran porto sudicio
Panamàa con gli occhi (punzados?) dalla depravazione
Cartagena sempre in attesa dei pirati
Affamata
Wilemstadt naufraga nei domini del petrolio
Tenerife e la sua dolce coppa di vino
Barcellona che sbadiglia tra banche e carabinieri
Napoli bellamente tumefatta
Genova Leningrado Sochi La Guaira Buenos Aires
Montevideo come una margherita
Puerto Limon Corinto
Acajutla in una lenta spiaggia della mia patria
Dove tuti si guardano nello specchio pesante solcato dai delfini
Scostando come rapida sciabila
Le spighe infinite di smeraldo.
Ora di cenere
Finisce settembre. E' l'ora giusta per dirti
Quanto difficile è stato non morire.
Questa sera per esempio
Ho nelle mani grige
Libri belli che non so comprendere,
Non potrei cantare sebbene abbia smesso di piovere
E non ho ragione di ricordare
Il primo cane che amai da bambini.
Da quando ieri te en andasti
Persino la musica si è fatta umida e fredda.
Quando morirò
Solo ricorderanno il mio giubilo mattutino e palpabile,
La mia bandiera senza diritto a stancarsi,
La concreta verità che distribuii dal fuoco,
Il pugno che resi unanime
Con il clamore di pietra che pretese la speranza.
Fa freddo senza di te, Quando morrò
Diranno con buone intenzioni
Che non seppi piangere
Piove di nuovo.
Mai come oggi hanno tardato tanto le sette meno un cuarto.
O voglia di ridere
O di uccidermi.
*
Trad. genseki
Quando mi saprai morto tu non dire il mio nome
Perchè si fermerebbero e la morte e il riposo.
La tua voee, campana di tutti e cinque i sensi
Sarà il pallido faro che la mia nebbia cerca.
Quando mi saprai morto dimmi sillabe strane
Pronuncia pane, fiore, ape, lacrima e tormenta.
Non lasciare che le tue labbra trovino le mie undici lettere,
Ora ho sonno, ho amato e ho vinto il silenzio.
No, non dire il mio nome quando mi saprai morto
Dalla terra più oscura mi chiamerebbe la tua voce.
No, non dire il mio nome, non lo dire, per favore
Quando mi saprai morto tu non dire il mio nome.
27/01/11
14:38:09
Il mare
Ci sono grandi pietre nella tua tempestosa oscurità
Grandi pietre con le loro date lavate dalla tua ombra
Perchè persino il sole mangia della tua ombra
Scricchiola nel freddo congedandosi dall'aria
Che non osa penetrare in te.
O mare in cui i disperati possono dormire
Cullati da impassibili esplosioni
Alfabeto di vertigine paisage diluito che aggrediscono i muri
I gabbiani, la spuma dei pesci sono la tua primavera
La furia è una piramide verde
Una resurrezione del fuoco più acuto il tuo clima
La tua miglior traccia sarebbe una chiocciola
Che cammina con passi di bambino nel deserto.
Siempre amai i villaggi dissimili
Apparentemente rubati dalle mani del mare
Citfadine presso la sabbia
Porto scandalosi nel'elbrezza del salnitro
Casali rabbrividenti tra la nebbia piena di coralli
Grandi citàa titanice di fronte alle tempeste umiliate
Borghi di pescatori ciechi sotto un faro di olio
Fabbriche in agguato tra gli atolli con un largo coltello
Valapraiso come una grande cascata sospesa
Manta Punàa porti dell'Ecuador negatori delle foglie
Buenaventura aromatica come un gran porto sudicio
Panamàa con gli occhi (punzados?) dalla depravazione
Cartagena sempre in attesa dei pirati
Affamata
Wilemstadt naufraga nei domini del petrolio
Tenerife e la sua dolce coppa di vino
Barcellona che sbadiglia tra banche e carabinieri
Napoli bellamente tumefatta
Genova Leningrado Sochi La Guaira Buenos Aires
Montevideo come una margherita
Puerto Limon Corinto
Acajutla in una lenta spiaggia della mia patria
Dove tuti si guardano nello specchio pesante solcato dai delfini
Scostando come rapida sciabila
Le spighe infinite di smeraldo.
Ora di cenere
Finisce settembre. E' l'ora giusta per dirti
Quanto difficile è stato non morire.
Questa sera per esempio
Ho nelle mani grige
Libri belli che non so comprendere,
Non potrei cantare sebbene abbia smesso di piovere
E non ho ragione di ricordare
Il primo cane che amai da bambini.
Da quando ieri te en andasti
Persino la musica si è fatta umida e fredda.
Quando morirò
Solo ricorderanno il mio giubilo mattutino e palpabile,
La mia bandiera senza diritto a stancarsi,
La concreta verità che distribuii dal fuoco,
Il pugno che resi unanime
Con il clamore di pietra che pretese la speranza.
Fa freddo senza di te, Quando morrò
Diranno con buone intenzioni
Che non seppi piangere
Piove di nuovo.
Mai come oggi hanno tardato tanto le sette meno un cuarto.
O voglia di ridere
O di uccidermi.
*
Trad. genseki
Luis Cernuda
Dove vive l'oblio
Dove vive l'oblio
In quei vasti giardini senza aurora
Dove io solo sia
Memoria di una pietra sepolta tra le ortiche
Sopra la quale il vento alla sua insonnia sfugge
Dove il mio nome lasci
Tra le braccia dei secoli il corpo che designa,
E non vi sia più nessun desiderio.
In quella gran regione ove l'angelo terribile dell'amore,
Non celi come acciaio
Nel mio petto la sua ala,
Sorridendo pieno di grazia aerea mentre cresce il tormento.
Là dove infine abbia termine l'affanno che esige un padrone ad immagine sua
Sottomettendo la propria a un'altra vita
Senza altro orizzonte che quello d'altri occhi fronte a fronte.
Dove pene e fortuna siano soltanto un nome,
Cielo e terra nativi attorno ad un ricordo,
Dove senza saperlo io mi ritrovi libero
Dissolto nella nebbia, assenza,
Un'assenza leggera come carne di bimbo
Laggiù, laggiù lontano
Dove vive l'oblio.
IV
Io fui
Colonna ardente, luna di primavera
mare dorato, occhi grandi.
Cercai quel che pensavo
Pensai come nel languido sogno dell'alba,
Quel che il desio dipinge nei giorni adolescenti.
Cantai, salii,
Un di fui luce,
In fiamma trascinato.
Come un colpo di vento
Che l'ombra va disfando
Nel nero caddi,
Nel mondo mai sazio
Son stato.
V
Voglio con afanno sonnolento
Della morte più lieve godere
Tra i boschi ed i mari di rugiada
In aria dissolto che trascorre e ignora
La morte voglio averla tra le mani
Rapido frutto colore di cenere
Fragile qual corno
Di luce quando nasce l'inverno
Voglio poterne bere la lontana amaezza:
Voglio ascoltarne il sogno dal rumore di arpa
Mentre sento diffondersi il freddo nelle vene
Perchè soltanto il freddo mi potrà consolare.
Morro' d'un desiderio
Se sottil desiderio vale morte;
Di me stesso privato vivere di desiderio
Senza mai risvegliarmi, senza ricordi
Lassù, lassù perduto nel freddo della luna.
*
VI
Il mare è un oblio
Una canzone, un labbro
Il mare è un amante
Che risponde al desio
È come un usignolo
Le sue acque son piume
Impulsi che si alzano
Fino alle fredde stelle
Accarezza con sogni
Che schiudono la morte
Che son lune accessibili
Son la vita più alta.
Sopra le spade oscure
Van le onde godendo.
*
trad genseki
Dove vive l'oblio
In quei vasti giardini senza aurora
Dove io solo sia
Memoria di una pietra sepolta tra le ortiche
Sopra la quale il vento alla sua insonnia sfugge
Dove il mio nome lasci
Tra le braccia dei secoli il corpo che designa,
E non vi sia più nessun desiderio.
In quella gran regione ove l'angelo terribile dell'amore,
Non celi come acciaio
Nel mio petto la sua ala,
Sorridendo pieno di grazia aerea mentre cresce il tormento.
Là dove infine abbia termine l'affanno che esige un padrone ad immagine sua
Sottomettendo la propria a un'altra vita
Senza altro orizzonte che quello d'altri occhi fronte a fronte.
Dove pene e fortuna siano soltanto un nome,
Cielo e terra nativi attorno ad un ricordo,
Dove senza saperlo io mi ritrovi libero
Dissolto nella nebbia, assenza,
Un'assenza leggera come carne di bimbo
Laggiù, laggiù lontano
Dove vive l'oblio.
IV
Io fui
Colonna ardente, luna di primavera
mare dorato, occhi grandi.
Cercai quel che pensavo
Pensai come nel languido sogno dell'alba,
Quel che il desio dipinge nei giorni adolescenti.
Cantai, salii,
Un di fui luce,
In fiamma trascinato.
Come un colpo di vento
Che l'ombra va disfando
Nel nero caddi,
Nel mondo mai sazio
Son stato.
V
Voglio con afanno sonnolento
Della morte più lieve godere
Tra i boschi ed i mari di rugiada
In aria dissolto che trascorre e ignora
La morte voglio averla tra le mani
Rapido frutto colore di cenere
Fragile qual corno
Di luce quando nasce l'inverno
Voglio poterne bere la lontana amaezza:
Voglio ascoltarne il sogno dal rumore di arpa
Mentre sento diffondersi il freddo nelle vene
Perchè soltanto il freddo mi potrà consolare.
Morro' d'un desiderio
Se sottil desiderio vale morte;
Di me stesso privato vivere di desiderio
Senza mai risvegliarmi, senza ricordi
Lassù, lassù perduto nel freddo della luna.
*
VI
Il mare è un oblio
Una canzone, un labbro
Il mare è un amante
Che risponde al desio
È come un usignolo
Le sue acque son piume
Impulsi che si alzano
Fino alle fredde stelle
Accarezza con sogni
Che schiudono la morte
Che son lune accessibili
Son la vita più alta.
Sopra le spade oscure
Van le onde godendo.
*
trad genseki
Punto per punto
Punto per punto corrispondeva
Il tracciato del tuo candore con lo zenith
Con il calore vuoto del rame con le sue mani adunche
Quando afferravano lo specchio
Per maledire la lebbra degli occhi, la speranza
Delle labbra e tuttte quante le possibili preghiere:
Invoca il concavo risuonare su se stessa
della costernazione, quando anche il cielo
manca al respiro – gridava
E l'accoglievi aprendo tutti i pori
Alla pioggerellina rinfrescante della disperazione.
genseki
Il tracciato del tuo candore con lo zenith
Con il calore vuoto del rame con le sue mani adunche
Quando afferravano lo specchio
Per maledire la lebbra degli occhi, la speranza
Delle labbra e tuttte quante le possibili preghiere:
Invoca il concavo risuonare su se stessa
della costernazione, quando anche il cielo
manca al respiro – gridava
E l'accoglievi aprendo tutti i pori
Alla pioggerellina rinfrescante della disperazione.
genseki
La mano cerca il cenno
La tua voce cercava la parola come
La mano cerca il cenno, l'occhio il sottinteso
Come l'ala smarrita cerca la caduta
E il volo il rigore retto del mezzogiorno
La tua voce cercava la parola
Come il bagliore cerca l'elissi
Come qualsiasi sfera il punto e a capo
La tua voce si cercava nella parola
Come Achille cercava una tartaruga
Che accettasse la competizione
Come la trama cerca il dialogo
Il sentiero le orme l'erba del te il tepore del burro
La tua voce si cercava sempre a una soglia
Su di un limite sostando presso il verbo
Infinitamente vicina al suo svelarsi
Nella caducitá del proprio senso.
genseki
La mano cerca il cenno, l'occhio il sottinteso
Come l'ala smarrita cerca la caduta
E il volo il rigore retto del mezzogiorno
La tua voce cercava la parola
Come il bagliore cerca l'elissi
Come qualsiasi sfera il punto e a capo
La tua voce si cercava nella parola
Come Achille cercava una tartaruga
Che accettasse la competizione
Come la trama cerca il dialogo
Il sentiero le orme l'erba del te il tepore del burro
La tua voce si cercava sempre a una soglia
Su di un limite sostando presso il verbo
Infinitamente vicina al suo svelarsi
Nella caducitá del proprio senso.
genseki
Agua Mojada
Guardala come si divincola
Come cerca di sfuggire alla storia
Di rientrare a tentoni nello sguardo
Da cui era uscita in forma di certezza
In quello spazio tra corpo e consapevolezza
In cui ogni corpo appare come oscenamente triste
Per volersi separare dalla sua genericitá
Eddai! Guarda come si contorce, tutta bagnata
porta qua quegli stracci, le orecchie, i tasselli
Porta qua, svelto prima che piova
Anzi, guarda che sta giá piovendo come
Quando eri bambino ad Ormea e la pioggia
Si porta via la neve sporca, la neve che non è piú bianca ma è sporca
E la pioggia se la porta via la porta via nei tombini
Sotto terra la neve bianca ma sporca sotto la terra nera
Piange e la pioggia cade sulla pioggia
Strato di pioggia su strato di pioggia
E lo sguardo cade sullo sguardo
Strato di sguardo su strato di sguardo
E la storia cade sulla storia strato a strato di storia
Fino a coprire lo sguardo della sua ignominia
E inutilmente si divincola si scuote scampana
Strilla come acqua su acqua la storia
La storia si scioglie nel tempo
genseki
Come cerca di sfuggire alla storia
Di rientrare a tentoni nello sguardo
Da cui era uscita in forma di certezza
In quello spazio tra corpo e consapevolezza
In cui ogni corpo appare come oscenamente triste
Per volersi separare dalla sua genericitá
Eddai! Guarda come si contorce, tutta bagnata
porta qua quegli stracci, le orecchie, i tasselli
Porta qua, svelto prima che piova
Anzi, guarda che sta giá piovendo come
Quando eri bambino ad Ormea e la pioggia
Si porta via la neve sporca, la neve che non è piú bianca ma è sporca
E la pioggia se la porta via la porta via nei tombini
Sotto terra la neve bianca ma sporca sotto la terra nera
Piange e la pioggia cade sulla pioggia
Strato di pioggia su strato di pioggia
E lo sguardo cade sullo sguardo
Strato di sguardo su strato di sguardo
E la storia cade sulla storia strato a strato di storia
Fino a coprire lo sguardo della sua ignominia
E inutilmente si divincola si scuote scampana
Strilla come acqua su acqua la storia
La storia si scioglie nel tempo
genseki
Carne Manzottin
Il Duca detto anche lo Spadaro
Si dice, nelle piole dei borghi prossimi, che a Scoriosozzo qualcuno pur visse - , sussurró il comissario Fabro appoggiandosi rumorosamente alla spalliera della vecchia sedia - un tal Buca o Duca detto Spadaro, di lui poco si sa, se non che vegetava e ingrassava accanto alla stufa inebetito dalla televisione. Si dice che en tenesse accesa piú d'una contemporaneamente, en possedeva, pare, varie decine, e scendesse alla pianura in contate occasioni con una vecchia carretta dal bagagliaio pieno di scatolette di carne manzottin. Tutti nella valle e nella pianura hanno visto qualche volta un catorcio sudicio pieno di scatolette di carne manzottin. Sembra che la carne manzottin non la abbia mai tirata fuori dal bagagliaio. Perché teneva il bagagliaio zeppo di scatole di carne manzottin? Lermita, dica sinceramente, lei ha mai aperto nella sua vita una scatola di carne manzottin, en ha mai gustato il contenuto? - Comissario che cosa vuole da me? Risposi in un tono accentuato di stizza annoiata. - Non la prenda cosí caro Lermita, soltanto voglio che condivida con me questo esperimento – e, dopo aver goffamente frugato nelle tascone della deformata giacca di fustagno giallino che un tempo era forse stata arancione, gonfiate da una intera collezione di grandi mandilli stropicciati che dovevano aver raccolto e seccato intere secchiate di sudore commissarile, en trasse una scatoletta di carne manzottin, infilando l'indice nell'apposito anello con la cautela e il rispetto con cui il giovane sposo infila l'anello nuziale al dito della snella fanciulla davanti all'altare adornato di gigli, anche se in questo caso la manovra era all'inverso giacché si trattava di infilare l'anello nel dito e non il dito dell'anello di modo che non potevo fare a meno di pensare ad un oscena parodia del sacramento, inscenata con sfacciatagine blasfema dal comissario Fabro, per inveterato liberopensantismo o per studiare quelche mia reazione per qualche sua misteriosa ragione, aprí il contenitore metallico, e con l'altra mano rovesció il suo contenuto rosa e gelatinoso in un piattino celeste che il solerte cameriere, a un suo cenno imperioso gli aveva testé recato. I frammenti di carne rosa sfumavano nel grigio torbido della gelatina che verso l'esterno del cilindro, di cui aveva assunto per compressione la forma, andavano acquistando una tonalitá giallina, filamenti sopravissuti ad una soprannaturale macelleria in una nebbia solidificata, tutto il cieco orrore della realtá mi strinse la gola in una morsa ferrea, soffocavo, l'insensatezza impenetrabile dell'essere tremava come un cuore sfiancato negli ultimi battiti rosa dei filamenti che si dibattevano nella loro gelatina; Fabro trasse dal viluppo dei mandilli il suo opinello con cui divise esattamente in due la massa che ai miei occhi pareva palpitante, per un attimo pensai che i frammenti di carne trasformati in pseudopodi schizzassero verso i miei occhi e mi penetrassero nel cervello per succhiarmi quello che mi restava di autocoscienza – Che cosa le succede Lermita? - La voce di Fabro mi liberó da quell'incubo, i filamenti rientrarono nella gelatina e i miei occhi nelle loro orbite. Fabro mi stava offrendo nel piattino azzurro una metá della carne, l'altra meta la stava giá rumorosamente masticando lui, vincendo il ribrezzo con uno sforzo sovrumano la inghiottii anch'io a bocconcini. Perché il Duca Spadaro girava per la valle con il bagagliaio pieno di scatole di carne manzottin? Vi era un qualche legame tra Duca Spadaro e Dreiser Cazzaniga? La carne manzottin aveva qualche cosa a che fare con la morte di Dreiser Cazzaniga? Io en avevo mangiato un pezzo e non ero morto li per li. La carne manzottin era un segnale, un messaggio, una domanda? Dreiser Cazzaniga en conosceva la risposta e per questo doveva essere messo a tacere?
Si dice, nelle piole dei borghi prossimi, che a Scoriosozzo qualcuno pur visse - , sussurró il comissario Fabro appoggiandosi rumorosamente alla spalliera della vecchia sedia - un tal Buca o Duca detto Spadaro, di lui poco si sa, se non che vegetava e ingrassava accanto alla stufa inebetito dalla televisione. Si dice che en tenesse accesa piú d'una contemporaneamente, en possedeva, pare, varie decine, e scendesse alla pianura in contate occasioni con una vecchia carretta dal bagagliaio pieno di scatolette di carne manzottin. Tutti nella valle e nella pianura hanno visto qualche volta un catorcio sudicio pieno di scatolette di carne manzottin. Sembra che la carne manzottin non la abbia mai tirata fuori dal bagagliaio. Perché teneva il bagagliaio zeppo di scatole di carne manzottin? Lermita, dica sinceramente, lei ha mai aperto nella sua vita una scatola di carne manzottin, en ha mai gustato il contenuto? - Comissario che cosa vuole da me? Risposi in un tono accentuato di stizza annoiata. - Non la prenda cosí caro Lermita, soltanto voglio che condivida con me questo esperimento – e, dopo aver goffamente frugato nelle tascone della deformata giacca di fustagno giallino che un tempo era forse stata arancione, gonfiate da una intera collezione di grandi mandilli stropicciati che dovevano aver raccolto e seccato intere secchiate di sudore commissarile, en trasse una scatoletta di carne manzottin, infilando l'indice nell'apposito anello con la cautela e il rispetto con cui il giovane sposo infila l'anello nuziale al dito della snella fanciulla davanti all'altare adornato di gigli, anche se in questo caso la manovra era all'inverso giacché si trattava di infilare l'anello nel dito e non il dito dell'anello di modo che non potevo fare a meno di pensare ad un oscena parodia del sacramento, inscenata con sfacciatagine blasfema dal comissario Fabro, per inveterato liberopensantismo o per studiare quelche mia reazione per qualche sua misteriosa ragione, aprí il contenitore metallico, e con l'altra mano rovesció il suo contenuto rosa e gelatinoso in un piattino celeste che il solerte cameriere, a un suo cenno imperioso gli aveva testé recato. I frammenti di carne rosa sfumavano nel grigio torbido della gelatina che verso l'esterno del cilindro, di cui aveva assunto per compressione la forma, andavano acquistando una tonalitá giallina, filamenti sopravissuti ad una soprannaturale macelleria in una nebbia solidificata, tutto il cieco orrore della realtá mi strinse la gola in una morsa ferrea, soffocavo, l'insensatezza impenetrabile dell'essere tremava come un cuore sfiancato negli ultimi battiti rosa dei filamenti che si dibattevano nella loro gelatina; Fabro trasse dal viluppo dei mandilli il suo opinello con cui divise esattamente in due la massa che ai miei occhi pareva palpitante, per un attimo pensai che i frammenti di carne trasformati in pseudopodi schizzassero verso i miei occhi e mi penetrassero nel cervello per succhiarmi quello che mi restava di autocoscienza – Che cosa le succede Lermita? - La voce di Fabro mi liberó da quell'incubo, i filamenti rientrarono nella gelatina e i miei occhi nelle loro orbite. Fabro mi stava offrendo nel piattino azzurro una metá della carne, l'altra meta la stava giá rumorosamente masticando lui, vincendo il ribrezzo con uno sforzo sovrumano la inghiottii anch'io a bocconcini. Perché il Duca Spadaro girava per la valle con il bagagliaio pieno di scatole di carne manzottin? Vi era un qualche legame tra Duca Spadaro e Dreiser Cazzaniga? La carne manzottin aveva qualche cosa a che fare con la morte di Dreiser Cazzaniga? Io en avevo mangiato un pezzo e non ero morto li per li. La carne manzottin era un segnale, un messaggio, una domanda? Dreiser Cazzaniga en conosceva la risposta e per questo doveva essere messo a tacere?
Tristano Lermita
sabato, gennaio 22, 2011
Prima del grande urto
Avrei voluto averti conosciuta
Prima di addormentarmi nella macchina
Di addormentarmi davanti al palmizio
E il rombo poi e tutto quello sfacelo
E il gusto di bile nella bocca e di zinco
E le lacrime della carne come stille
Di rimorso quando ti caddero le forbici dal grembo
E i miei occhi si fecero porosi
Al potassio, al silicio del tuo ventre
Avrei voluto conoscerti prima del grande urto
Prima della voce roca prima della cassa toracica
Della fiera affamata, del pietrificarsi della fiamma nel focolare
Tra stemmi de emblemi avrei voluto conoscerti
Elevando il tuo fiato ad orifiamma
I tuoi occhi a guizzo di tromba il tuo dolore
Come la volpe in fuga si sarebbe nascosto tra le felci
la mia polvere si sarebbe deposta
Sui tuoi scaffali, sui tuoi guanciali come nel sogno
Del gatto che dorme ora sul raso e ti conserva
per se e per me in possibile memoria.
genseki
Prima di addormentarmi nella macchina
Di addormentarmi davanti al palmizio
E il rombo poi e tutto quello sfacelo
E il gusto di bile nella bocca e di zinco
E le lacrime della carne come stille
Di rimorso quando ti caddero le forbici dal grembo
E i miei occhi si fecero porosi
Al potassio, al silicio del tuo ventre
Avrei voluto conoscerti prima del grande urto
Prima della voce roca prima della cassa toracica
Della fiera affamata, del pietrificarsi della fiamma nel focolare
Tra stemmi de emblemi avrei voluto conoscerti
Elevando il tuo fiato ad orifiamma
I tuoi occhi a guizzo di tromba il tuo dolore
Come la volpe in fuga si sarebbe nascosto tra le felci
la mia polvere si sarebbe deposta
Sui tuoi scaffali, sui tuoi guanciali come nel sogno
Del gatto che dorme ora sul raso e ti conserva
per se e per me in possibile memoria.
genseki
Rimorsi
Per tanti anni ho pascolato i miei rimorsi
Alla falda dei tuoi capelli, dimentico
Che nel mondo c'erano ancora nuvole,
Che il ghiaccio continuava a fiorire dal granito
I miei rimorsi li ho nutriti di verbena,
Di rucola, di erba cipollina, ma erano i tuoi capelli
Il loro orizzonte, la tua chioma screpolata e lisa
Il suo odore di acquaragia e nei giorni di festa
Di pinosilvestrevidal.
Neppure il rimorso piú piccolo ho voluto
Lasciarlo preda dei denti, l'ho stretto al petto
Come un tumore, come un ratto lo ho coccolato
E intanto crescevano i tuoi capelli, fino ai larici
Fino al pino mugo gemevano nella brina
Come steli spezzati, gocciolavano appena
Spruzzati di notte a ricordarmi quanto fosse
Pieno, il nostro niente ardente di tanto dolore
E il rimorso un ricorso prudente di fronte
A tutto il male che ci univa nella comune abiezione
Di animali infermi di parola, di verbo infetti
E di voce corrosa.
genseki
Alla falda dei tuoi capelli, dimentico
Che nel mondo c'erano ancora nuvole,
Che il ghiaccio continuava a fiorire dal granito
I miei rimorsi li ho nutriti di verbena,
Di rucola, di erba cipollina, ma erano i tuoi capelli
Il loro orizzonte, la tua chioma screpolata e lisa
Il suo odore di acquaragia e nei giorni di festa
Di pinosilvestrevidal.
Neppure il rimorso piú piccolo ho voluto
Lasciarlo preda dei denti, l'ho stretto al petto
Come un tumore, come un ratto lo ho coccolato
E intanto crescevano i tuoi capelli, fino ai larici
Fino al pino mugo gemevano nella brina
Come steli spezzati, gocciolavano appena
Spruzzati di notte a ricordarmi quanto fosse
Pieno, il nostro niente ardente di tanto dolore
E il rimorso un ricorso prudente di fronte
A tutto il male che ci univa nella comune abiezione
Di animali infermi di parola, di verbo infetti
E di voce corrosa.
genseki
Un'altra Melisande
Ancora su Melisanda si distende il pensiero
Avvinto dalla sua natura vegetale,
Dal suo pullulare e germogliare dal susurro
Che sono le sue parole, la memoria radicale
Non sa di luoghi la sua tensione è atopica
Si sviluppa sempre come dentro se stessa
Per questo e solo per questo la chioma, rossa,
O aranciata è mistica imitazione dell'acqua
Ovazione al multiple frullo di tanti uccelli
Tutti vorrebbero bere dai suoi capelli
Io vorrei bere dai suoi capelli
La conoscenza liquida dello sprofondare in verticale
Nel corpo terroso ehe ci modella.
Il vero abbraccio è abbraccio di acqua e terra
Il solo amplesso in cui tutto si trasforma
Nella prossimitá del senza forma.
O Melisanda che non hai dato frutto
Ma solo chioma e rami d'etere e cromo
Nei pozzi rabbrividiva in te l'estraneitá
Gelida dei cieli, delle loro metalliche distanze
Ma lo spazio era nulla al tuo narcotizzante germinare
Le tue parole ti ricoprivano come corteccia.
*
genseki
Avvinto dalla sua natura vegetale,
Dal suo pullulare e germogliare dal susurro
Che sono le sue parole, la memoria radicale
Non sa di luoghi la sua tensione è atopica
Si sviluppa sempre come dentro se stessa
Per questo e solo per questo la chioma, rossa,
O aranciata è mistica imitazione dell'acqua
Ovazione al multiple frullo di tanti uccelli
Tutti vorrebbero bere dai suoi capelli
Io vorrei bere dai suoi capelli
La conoscenza liquida dello sprofondare in verticale
Nel corpo terroso ehe ci modella.
Il vero abbraccio è abbraccio di acqua e terra
Il solo amplesso in cui tutto si trasforma
Nella prossimitá del senza forma.
O Melisanda che non hai dato frutto
Ma solo chioma e rami d'etere e cromo
Nei pozzi rabbrividiva in te l'estraneitá
Gelida dei cieli, delle loro metalliche distanze
Ma lo spazio era nulla al tuo narcotizzante germinare
Le tue parole ti ricoprivano come corteccia.
*
genseki
La tua voce
No, la tua voce non la trovi nella poesia
Non risuona nel gioco delle vibranti
Liquida come il guizzo della lingua
Nel sogno torrenziale del bacio,
Di quel bacio, o di quel petalo
La tua voce non si spezza qui in inflessioni
Di edera e di felce elastiche come il passo
Di una mattina elegante correndo in un parco alla moda
Tra scoiattoli e tepore non raschia l'intonaco
Non aderisce alla pietra come la lucertola agostana
Nel chiaroscuro del patio, non brilla nel fondo del pozzo
Come la corona di Melisanda
Non affoga avvolgendo come la cascata dei suoi capelli
Melisanda appartiene al mondo vegetale,
Esprime il desiderio della clorofilla
La tua voce furono forse le spine che la prefigurararono
O il luppolo scabroso e adesivo, ma certo sotto la sua pelle
Vellutata da pomice e borotalco
É l'animale che si tende nel sua salto verso la morte
La tua voce si faceva di malva e violetta
Aprendosi al mio goffo silenzio
Come il bosco al ricordo del temporale
Ma a stento contiene i brividi lo strazio
Degli artigli, la convulsione gemella della preda e del predatore
La tua voce non risale dalla profonditá della poesia
Fino a farsi coscienza della parola ma si acquatta nella sua morte
Come un bianco felino in una tana,
Madida e felpata, come la tua lingua di un altro bacio
...
Non risuona nel gioco delle vibranti
Liquida come il guizzo della lingua
Nel sogno torrenziale del bacio,
Di quel bacio, o di quel petalo
La tua voce non si spezza qui in inflessioni
Di edera e di felce elastiche come il passo
Di una mattina elegante correndo in un parco alla moda
Tra scoiattoli e tepore non raschia l'intonaco
Non aderisce alla pietra come la lucertola agostana
Nel chiaroscuro del patio, non brilla nel fondo del pozzo
Come la corona di Melisanda
Non affoga avvolgendo come la cascata dei suoi capelli
Melisanda appartiene al mondo vegetale,
Esprime il desiderio della clorofilla
La tua voce furono forse le spine che la prefigurararono
O il luppolo scabroso e adesivo, ma certo sotto la sua pelle
Vellutata da pomice e borotalco
É l'animale che si tende nel sua salto verso la morte
La tua voce si faceva di malva e violetta
Aprendosi al mio goffo silenzio
Come il bosco al ricordo del temporale
Ma a stento contiene i brividi lo strazio
Degli artigli, la convulsione gemella della preda e del predatore
La tua voce non risale dalla profonditá della poesia
Fino a farsi coscienza della parola ma si acquatta nella sua morte
Come un bianco felino in una tana,
Madida e felpata, come la tua lingua di un altro bacio
...
Scoriosozzo
Che cosa ci faceva Dreiser Cazzaniga nei boschi di Scoriosozzo, che cosa lo aveva spinto a recarsi alle pendici del Monte Mucrone, alle soglie alte e luminose della Melanopartene, che avvolta nei suoi sette mantelli rossi benediceva il dolore dei pellegrini accogliendoli uno a uno tra i pesanti panneggi per un tempo sempre molto breve ma che ai meschini pareva un'eternitá di muschiosa beatitudine? Era difficile rispondere anche e soprattuto ora che questa domanda non si poteva piú farla direttamente a lui. Il Commissario Fabro pensava che Dreiser Cazzaniga dovesse conoscere qualcuno nel paese di Scoriozozzo; la difficoltá, tuttavia, stava nel fatto che il pasello di Scoriozzozzo in realtá non esisteva, e non solo non esisteva, nemeno aveva abitanti, Scoriosozzo era solo il mortuario sogno massonico di una pallida e grassa borghesia pedemontana. Quello che avrebbe potuto sembrare un borgo pittoresco radicato solidamente nel tempo e nel granito grigio del costone era in realtá solo un incastro di villule ottocentesche dalle forme grottescamente iniziatiche, simboliche, egiziane, di quell'Egitto di cartapesta e tarocchi che tanto affascinava il grasso Schikaneder. Certo dopo piú di un secolo quei tristi manieri melodrammatici in cui il granito era impiegato per imitare la cartapesta e che poggiavano su creste e costoni anch'essi di granito avevano assunto un tale convinzione del loro ruolo nel paesaggio da far si che Scoriozozzo potesse apparire un borgo agli occhi del viandante e persino del villegiante se non fosse stato che non aveva abitanti, e se non aveva abitanti come poteva Dreiser Cazzaniga essere ospitato da uno di loro per essere poi assassinato? In realtá nella valle si diceva o meglio si mormorava che un abitante residesse in quel triste mondo sarastriano anche se solo pochi si azzardavano a pronunciare il suo nome: un tale Duca o Buca detto anche Tucano: grasso, grasso, grasso, con lo sguardo perso perennemente in una smorfia di meraviglia eravi che diceva averlo scorto intento a far provvista di legna sul Mucrone e su Serretto nell'iminenza dell'inverno rigido di Scoriozozzo. Mo dove viveva, nessuno pareva saperlo a volerlo rivelare. Comunque Tristano decise di seguire il lentissimo Fabro nella sua ricerca. Il borgo di Scoriosozzo non lo si poteva percorrere senza essere scossi da un certa inquietudine, le sue magioni altezzose rivelavano nel portamento che la loro origine non era nell'arroganza rapace e spensierata di una feroce aristocrazia alpina, adusa alla razzia e al gelo, ma nei costumi biedermeier di un opulenta e untuosa e tronfia e suina borghesia di pianura e della pianura piú stagnante del continente. Stagnante nel suo ottuso benessere, nella sua cultura cimiteriale, nei suo entusiasmi cadaverici, nella sua grossolana teosofia. Scoriosozzo non era un borgo era un sogno molesto che si era a tal punto aggrappato al granito e alle robuste radici dei faggi da aver acquistato le convincenti sembianze di una solida esistenza. Scoriosozzo lo faceva star male come una sonata di Schubert suonata dalla figlia scrofolosa di un industriale di pianura per i suoi compari di sfruttamento e stupro prima di andarsene tutti al bordello marocchino a sodomizzare le tredicenni, Non poteva sopportare di immaginare i salotti tivestiti di mogano in cui un tempo la luce proveniente da pomposi candelabri illuminava tremante i ritratti di antenati comprati al mercato dell'antiquariato a metri quadri.
Tristano Lermita
martedì, gennaio 18, 2011
La voce
No, la tua voce non la trovi nella poesia
Non risuona nel gioco delle vibranti
Liquida come il guizzo della lingua
Nel sogno torrenziale del bacio,
Di quel bacio, o di quel petalo
La tua voce non si spezza qui in inflessioni
Di edera e di felce elastiche come il passo
Di una mattina elegante correndo in un parco alla moda
Tra scoiattoli e tepore non raschia l'intonaco
Non aderisce alla pietra come la lucertola agostana
Nel chiaroscuro del patio, non brilla nel fondo del pozzo
Come la corona di Melisanda
Non affoga avvolgendo come la cascata dei suoi capelli
Melisanda appartiene al mondo vegetale,
Esprime il desiderio della clorofilla
La tua voce furono forse le spine che la prefigurararono
O il luppolo scabroso e adesivo, ma certo sotto la sua pelle
Vellutata da pomice e borotalco
É l'animale che si tende nel suo salto verso la morte
La tua voce si faceva di malva e violetta
Aprendosi al mio goffo silenzio
Come il bosco al ricordo del temporale
Ma a stento contiene i brividi lo strazio
Degli artigli, la convulsione gemella della preda e del predatore
La tua voce non risale dalla profonditá della poesia
Fino a farsi coscienza della parola ma si acquatta nella sua morte
Come un bianco felino in una tana,
Madida e felpata, come la tua lingua di un altro bacio
Non risuona nel gioco delle vibranti
Liquida come il guizzo della lingua
Nel sogno torrenziale del bacio,
Di quel bacio, o di quel petalo
La tua voce non si spezza qui in inflessioni
Di edera e di felce elastiche come il passo
Di una mattina elegante correndo in un parco alla moda
Tra scoiattoli e tepore non raschia l'intonaco
Non aderisce alla pietra come la lucertola agostana
Nel chiaroscuro del patio, non brilla nel fondo del pozzo
Come la corona di Melisanda
Non affoga avvolgendo come la cascata dei suoi capelli
Melisanda appartiene al mondo vegetale,
Esprime il desiderio della clorofilla
La tua voce furono forse le spine che la prefigurararono
O il luppolo scabroso e adesivo, ma certo sotto la sua pelle
Vellutata da pomice e borotalco
É l'animale che si tende nel suo salto verso la morte
La tua voce si faceva di malva e violetta
Aprendosi al mio goffo silenzio
Come il bosco al ricordo del temporale
Ma a stento contiene i brividi lo strazio
Degli artigli, la convulsione gemella della preda e del predatore
La tua voce non risale dalla profonditá della poesia
Fino a farsi coscienza della parola ma si acquatta nella sua morte
Come un bianco felino in una tana,
Madida e felpata, come la tua lingua di un altro bacio
Confidenze al Comissario Fabro
Davanti a un bicchiere di Inferno e a un piatto rovente di polenta scunsa finí per riconoscere con il commissario Fabro che lui e Dreiser Cazzaniga avevano avuto molte conoscenze in comune. Si Jules Lapache lo aveva conosciuto anche lui, no, prima del suo sodalizio con Dreiser Cazzaniga, quando Jules Lapache aveva ancora la sua scorbutica centoventisette verde e il maglioncino azzurro a girocollo e forse lavorava ancora per la rateale Einaudi. Si fu al Barfranca che lo conobbe, pe via del progetto di una rivista a cui egli si diceva interessato, non non gli aveva mai comprato nessun libro, si, fu lui a dargli il nome di Dreiser Cazzaniga come un possibile cliente, Jules Lapache aveva giá tutti i denti marci, allora, ma questo non selo ricordava si ricordava solo il maglioncino a girocollo, Po Jules e Dreiser Cazzaniga cominciarono a rassomigliarsi ogn giorno di piú solo che Dreiser Cazzaniga andava in bicicletta con lo zaino e ogni tanto i capelli se li lavava. Il commissario Fabro continuava con le sue domande, come se non avesse niente di meglio da fare, mentre con le ditona grasse girava le pagine di una gazzetta dello sport sudicia e piena di cerchietti vinosi. No la sorella di Jules non l'aveva proprio mai vista, no quella con cui viveva non era la sorella! Jules Lapache non era un alcolizzato, non aveva ammazzato nessuno, non aveva un tesoro nascosto, faceva ringhiare le donne che incontrava come mastine, tutte, quasi tutte, con lui ringhiavano, non avevano paura di lui, verso di lui provavano qualche cosa che aveva punti in comune con la paura ma soprattutto con la voglia di dilaniare con i denti carni giá infette, di sporcarsi le labbra con sangue stagnante e di lecarsele poi e di ululare, dopo aver ringhiato il ringhio piú ndo e scabbioso che femmina del totem dello sciacallo avessa mai potuto ringhiare da quando la luna era verde e baciava sulla bocca, una per uno tutte le sue fedeli cacciatrici. Gli avrebbero morso volentieri gli stinchi rinsecchiti a stento ricoperti da qui calzettini rigidi e verdevinosi che dovevano puzzare deliziosamente. Ma lui non sembrava temerle, le affrontava con una voce soffice soffice e esibiva con loro il suo odio per la vita, che era un odio contadino, l'odio di una lucertola sul muro, un odio cresciuto nell'odore del verderame e del letame nella disperazione della masturbazione dietro la gabbia dei conigli. Si e Dreiser Cazzaniga non si accorgeva di andar rassomigliandosi, di tentare di imitarlo anche se lui le ragazze non le faceva ringhiare, anzi! E cosí si convertiva in un enigma, un enigma appassionato che attraeva odi impotenti, tanto impotenti da restare in gran parte inespressi. Dreiser Cazzaniga e Jules Lapache divennero enigma e paria del borgo e della provincia eppure con loro tutte le armi restavano spuntate, nulla avrebbe potuto ferirli. Dreiser Cazzaniga, allora si mangiava le unghie.
Commissario lei pensa che l'abbiano assassinato?
genseki
Commissario lei pensa che l'abbiano assassinato?
genseki
lunedì, gennaio 17, 2011
Breton su Achim von Arnim - Parte II
Bisogna anche notare come egli si tenne sempre lontano dai fratelli Schlegel. Un simile atteggiamento, che credo deliberato, implica, in questo momento da parte di Arnim, un'adesione senza riseve alle tesi di Fichte, nell'amplissima misura in cui, , oggetto delle piú costanti polemiche e delle piú vilente, esse costatemente difendono i diritti della Ragione e della Critica in quanto epsressioni della filosofia della Riforma e della Rivoluzione. Per togliere qualsiasi dubbio sulla chiarezza e la nettezza di questa adesione basterebbe portare una testimonianza del 1811, ovvero l'anno della pubblicazione di Isabelle d'Egitto e che proprio in quell'epoca acquisisce tutto il suo valore: “Per piú di un ascoltatore, studente o no, le conferenze di Fichte, come lo sotolinea Achim von Arnim, sostituivano quella che fu la religione della Chiesa”.
Cosí ecco come riesce a svilupparsi, non senza momenti di grande effervescenza e frequenti ritorni allo scrupolo, in uno dei cervelli meglio organizzati del principio del XIX secolo, e,non bisogna dimenticrlo, un cervello essenzialmente poetico, la notevole situazione in cui si trova lo spirito, conteso, allora in modo piú evidente che mai, tra le forze del progresso e quelle regressive. Un'alleanza che richiama l'attenzione e che nella storia è raramente cosciente di se stessa anche se la possiamo definire eterna tende a porre nello stesso campo i poeti, gli artisti e gli scenziati che sanno valutare il valore ell'iluminaione che si produce a grandi intervalli a traverso di loro e ammettere che vi è qualche cosa al di lá di essa, non fose altro che la notte.. Da qui a voler rendere ancora piú oscura la notte non vi è che un passo, come lo testimonia Schelling quando si mise in testa di attirare verso la sua folosofia l'approvazione dei romantici preconizzando un ritorno del misticismo e infeudando la scinza all'arte quando dichiaró che: “entrambe dovevano finalmente coincidere, quando a scienza avrá risolto il suo problema, e certo lo risolverá, come l'arte ha giá risolto per sempre il suo (sono io che lo sottolineo”.
Nell'altro campo, raggruppati attorno a Fichte come piú tardi lo saranno attorno a Hegel si radunavano i partigiani dell'illuminismo e tra di loro è essenziale riconosce, a partire a questo istante Achim von Arnim. Effettivamente è proprio questa congiuntura e questa soltanto che ci fa capire il rimorso di Brentano, verso la fine della sua vita, che si accusa, lui che doveva morire monaco, d'avere favorito il matrimonio di sua sorella con arnim: “Son io” - dice: “ che po condussi da Bettina e cosí la consegnai alla letteratura, ai filosofi, alla Giovin Germania; è colpa mia se ella non ha piú religione”. de è ancora questa congiuntura che ci spiega come l'opera di Arnim, la cui fantasia è la piú abbagliante della sua epoca, non incorre nel giudizio che si puó su gran parte della letteratura romantic tedesca e che si esprime a mio giudizio con un'autorevolezza incomparabile, in questa critica di Hegel a proposito di Enrico di Ofterdingen romanzo cosí nebuloso di Novalis: “Il giovane autore si è lasciato trascinare da una prima brillante invenzone, ma non si è reso conto di quanto una simile concezione sia difettosa, precisamente per essere irrealizzabile. Le figure incorporee e le situazioni vuote sfuggono sepre alla realtá in cui dovrebbero inserirsi, invece, se prtendessero di avere una qualche realtá”. Nulla di cosí arbitrario, vago, irrisolto in Arnim. sono ben sicuro, avendoli riletti molte volte, che nei racconti che seguono non è stato commesso il benché minim abuso di fiducia, salvo l'iniziativ che consiste nel mettere in circolazione e in relazione esseri liberati fin dove è possibile dalla convenzione di presentarsi nella loro essenza e comportamento com esseri vivi. Una volta acconsentito ad entrare in scena, questi esseri si comportano con una naturalezza e, si potrebbe dire, un coraggiodi cui non saprei trovare l'eqivalente nelle creazioni di qualche altro narratore. E dicendo questo, non penso solo a Hoffmann e a i suoi “diavoli” di paccotiglia, tra cui un sedicente golem venuto dopo quello di arnim e che solo en è una grossolana contraffazione, Sono davvero oggetti di perfetta illusione che spingono la civetteria fino a sembrar sottrarsi alla volontá dell'autore, in modo tale che costui, come se sfuggisse ad ogni contagio romantico, assume al loro lato l'aspetto di un osservatore impersonale.
Cosí ecco come riesce a svilupparsi, non senza momenti di grande effervescenza e frequenti ritorni allo scrupolo, in uno dei cervelli meglio organizzati del principio del XIX secolo, e,non bisogna dimenticrlo, un cervello essenzialmente poetico, la notevole situazione in cui si trova lo spirito, conteso, allora in modo piú evidente che mai, tra le forze del progresso e quelle regressive. Un'alleanza che richiama l'attenzione e che nella storia è raramente cosciente di se stessa anche se la possiamo definire eterna tende a porre nello stesso campo i poeti, gli artisti e gli scenziati che sanno valutare il valore ell'iluminaione che si produce a grandi intervalli a traverso di loro e ammettere che vi è qualche cosa al di lá di essa, non fose altro che la notte.. Da qui a voler rendere ancora piú oscura la notte non vi è che un passo, come lo testimonia Schelling quando si mise in testa di attirare verso la sua folosofia l'approvazione dei romantici preconizzando un ritorno del misticismo e infeudando la scinza all'arte quando dichiaró che: “entrambe dovevano finalmente coincidere, quando a scienza avrá risolto il suo problema, e certo lo risolverá, come l'arte ha giá risolto per sempre il suo (sono io che lo sottolineo”.
Nell'altro campo, raggruppati attorno a Fichte come piú tardi lo saranno attorno a Hegel si radunavano i partigiani dell'illuminismo e tra di loro è essenziale riconosce, a partire a questo istante Achim von Arnim. Effettivamente è proprio questa congiuntura e questa soltanto che ci fa capire il rimorso di Brentano, verso la fine della sua vita, che si accusa, lui che doveva morire monaco, d'avere favorito il matrimonio di sua sorella con arnim: “Son io” - dice: “ che po condussi da Bettina e cosí la consegnai alla letteratura, ai filosofi, alla Giovin Germania; è colpa mia se ella non ha piú religione”. de è ancora questa congiuntura che ci spiega come l'opera di Arnim, la cui fantasia è la piú abbagliante della sua epoca, non incorre nel giudizio che si puó su gran parte della letteratura romantic tedesca e che si esprime a mio giudizio con un'autorevolezza incomparabile, in questa critica di Hegel a proposito di Enrico di Ofterdingen romanzo cosí nebuloso di Novalis: “Il giovane autore si è lasciato trascinare da una prima brillante invenzone, ma non si è reso conto di quanto una simile concezione sia difettosa, precisamente per essere irrealizzabile. Le figure incorporee e le situazioni vuote sfuggono sepre alla realtá in cui dovrebbero inserirsi, invece, se prtendessero di avere una qualche realtá”. Nulla di cosí arbitrario, vago, irrisolto in Arnim. sono ben sicuro, avendoli riletti molte volte, che nei racconti che seguono non è stato commesso il benché minim abuso di fiducia, salvo l'iniziativ che consiste nel mettere in circolazione e in relazione esseri liberati fin dove è possibile dalla convenzione di presentarsi nella loro essenza e comportamento com esseri vivi. Una volta acconsentito ad entrare in scena, questi esseri si comportano con una naturalezza e, si potrebbe dire, un coraggiodi cui non saprei trovare l'eqivalente nelle creazioni di qualche altro narratore. E dicendo questo, non penso solo a Hoffmann e a i suoi “diavoli” di paccotiglia, tra cui un sedicente golem venuto dopo quello di arnim e che solo en è una grossolana contraffazione, Sono davvero oggetti di perfetta illusione che spingono la civetteria fino a sembrar sottrarsi alla volontá dell'autore, in modo tale che costui, come se sfuggisse ad ogni contagio romantico, assume al loro lato l'aspetto di un osservatore impersonale.
Trad genseki
Vecchie fotografie
Fu in una vecchia foto che ti ritrovai
Con le mani gonfie appoggiate al comodino
E la gonnellina nera del lutto di un altro fratellino
Morto prima di piangere, un fiore secco
Nel libro da messa e i mandorli fioriti
Nel cassetto della biancheria, il padre
Era un ingegnere con tanto di baffi,
Odore di treno e di cuoio e gli occhi
Con un germano dentro che volava
Nel mattino di Novembre su quel fiume
Che finiva per disfarsi nella cittá vecchia
Ubriaco di tannino e lisciva, il fiume,
Non il padre che faceva saltare il granito
Con il solo tuono degli occhi che beveva il tuorlo
Da un forellino e puzzava di ozono, di grasso di foca
Come un calafato e tu pregavi per lui, nella foto
Lo immaginavi tra tutte quelle vele
Accanto alla madonna ovale, e le funi
E abbassavi gli occhi e ti guardavi le scarpe
Entravi in un'altra foto dove eri nuda
Con i riccioli neri, le mani appoggiate ad una colonnina dorica
E si vedeva che puzzavi come un'oca
Prima di essere decapitata e come un'oca eri bianca
E ti guardavi i piedi senza vederli
E tuo padre sul ponte regolava funi e vele
Perforava il mare con i suoi tunnel di ghiaccio
Entrava con un tuono in antartide
Piantava la sua picozza su un iceberg
Poi con una stampella entravi in un'altra foto
Ti gettavi sotto la ruota del treno
E la Vergine dal suo uovo azzurro
Ti fulminava con i suoi raggi azzzurri
E tu ti allontanavi dai binari con una gamba in mano
La gonnellina da scolaretta delle monache
Spruzzata di sangue e ti fermavi a parlare con le chiocciole
Del gusto del cavolfiore e della cucina azzurra della vergine
Poi entravi in un'altra foto
In una successione di specchi e la Vergine
Ti sorrideva mentre ti guardavi i piedi
Pelavi le carote lavavi le sottane gettavi mangime ai granchi
Era la Vergine del Gelo, gelosa del padre,
La Vergine delle grotte che spiava l'ingegnere
Che tendava tranelli alla sua dinamite
Era la Vergine Ossidata
Quella che vive nell'abisso di una cascata di specchi
La vedi appena dietro il tuo volto piú sfocato
Dove hai le lentiggini e i capelli rossi
E i capelli neri unti e luminosi nello specchio di bronzo
Acqua di stagno come gli occhi dell'assassino
Ti fissi i piedi, ti sfoglia come una rosa,
E getta ogni petalo in un'altra foto
Alla Vergine della Primavera.
*
Con le mani gonfie appoggiate al comodino
E la gonnellina nera del lutto di un altro fratellino
Morto prima di piangere, un fiore secco
Nel libro da messa e i mandorli fioriti
Nel cassetto della biancheria, il padre
Era un ingegnere con tanto di baffi,
Odore di treno e di cuoio e gli occhi
Con un germano dentro che volava
Nel mattino di Novembre su quel fiume
Che finiva per disfarsi nella cittá vecchia
Ubriaco di tannino e lisciva, il fiume,
Non il padre che faceva saltare il granito
Con il solo tuono degli occhi che beveva il tuorlo
Da un forellino e puzzava di ozono, di grasso di foca
Come un calafato e tu pregavi per lui, nella foto
Lo immaginavi tra tutte quelle vele
Accanto alla madonna ovale, e le funi
E abbassavi gli occhi e ti guardavi le scarpe
Entravi in un'altra foto dove eri nuda
Con i riccioli neri, le mani appoggiate ad una colonnina dorica
E si vedeva che puzzavi come un'oca
Prima di essere decapitata e come un'oca eri bianca
E ti guardavi i piedi senza vederli
E tuo padre sul ponte regolava funi e vele
Perforava il mare con i suoi tunnel di ghiaccio
Entrava con un tuono in antartide
Piantava la sua picozza su un iceberg
Poi con una stampella entravi in un'altra foto
Ti gettavi sotto la ruota del treno
E la Vergine dal suo uovo azzurro
Ti fulminava con i suoi raggi azzzurri
E tu ti allontanavi dai binari con una gamba in mano
La gonnellina da scolaretta delle monache
Spruzzata di sangue e ti fermavi a parlare con le chiocciole
Del gusto del cavolfiore e della cucina azzurra della vergine
Poi entravi in un'altra foto
In una successione di specchi e la Vergine
Ti sorrideva mentre ti guardavi i piedi
Pelavi le carote lavavi le sottane gettavi mangime ai granchi
Era la Vergine del Gelo, gelosa del padre,
La Vergine delle grotte che spiava l'ingegnere
Che tendava tranelli alla sua dinamite
Era la Vergine Ossidata
Quella che vive nell'abisso di una cascata di specchi
La vedi appena dietro il tuo volto piú sfocato
Dove hai le lentiggini e i capelli rossi
E i capelli neri unti e luminosi nello specchio di bronzo
Acqua di stagno come gli occhi dell'assassino
Ti fissi i piedi, ti sfoglia come una rosa,
E getta ogni petalo in un'altra foto
Alla Vergine della Primavera.
*
Enrique Lihn
Di tutte le possibili disperazioni quella della morte deve essere...
Tra tutte le disperazioni possibili quella della morte sembra essere la peggiore
E con esse la paura della morte, testa o croce
Quando ormai si puó prevedere il giorno e l'ora
Vi è anche la sgradevole probabilitá che la paura della morte e la disperazione siano
Inseparabili come unghia e carne normalmente
Ricordo un amico di un'altra epoca che fuggiva di notte dalla sua casa e dall'ospedale
Con il salvancodotto che si concederebbe a un dannato nell'inferno
E piombava in casa di qualche amica che non corrispondeva al suo amore
de esigeva con gli argomenti propri della follia
Che lo accogliesse in casa come un ospite fisso
Mi sembra di vedere come alla fine di quste conversazioni impossibili
Era riportato alla sua tana dalla signora e dal suo coniuge
In silenzio asoluto, lui, lo gnomo dell'alba nella foresta nera
Di ritorno alla sua anticasa
O alll'aeroporto degli ospedali perché non perdesse il suo volo.
Fuori tempo
Il nostro entusiasmo infiammava quei giorni che scorrono
Tra moltitudini di giorni eguali.
La nostra debolezze codificava in essi
la nostra ultima speranza.
Pensavamo e il tempo che non avrebbe prezzo
Se en andava poveramente
E questi, sono, insomma, gli anni che verranno.
Proprio ora avremmo risolto tutto
Avevamo tutta la vita davanti.
La cosa migliore da fare era non aver fretta.
*
Se si deve scrivere correttamente poesiaNon basta sentirsi venir meno nel giardino
Sotto il peso combinato dell'anima o quel che l'è
E del celebre crepuscolo o quel che l'è.
Il cuore è povero di vocabolario.
Il suo labirinto: un gioco per ritardati
In cui fa ridere vederlo muoversi come un bue
Un lettore integrale di romanzi a fascicoli.
Fin dal momento in piglia il violino
Nemmeno fosse il valzer triste di Sibelius
Resta nella sala che va riempiendosi di tango.
Salo le dovute eccezioni le poetesse uruguayane
Confondono ancora la poesia con il ballo
In una morbosa sala da gioco,
Oppure la confondono con il sesso o la confondono con la morte.
Se si debe scrivere correttamente poesia
Bisogna comunque prendersela con calma.
Prima di tutto: sedersi a maturare.
L'odio prematuro per la letteratura
Puó servire per non passare da buliccio nell'esercito
Ma proprio Rimbaud
Che diede prova del suo odio fu topo di bibloteca,
E la sua gloriosa nausea venne da tanto rosicare.
Si gioca a scacchi
Con le parole per ululare.
Equilibrio instabile di inchiostro e sangue
Che devi mantenere da un verso all'altro
Sotto pena de romperti le scatole dell'anima.
Morte, follia e sogno son altrettanti pezzi
Di avorio o di corno o giu di li;
L'importante è spostarli nel giardino a quadretti
In modo che il pedone che balla con la regina
Non gli perdoni il minor passo falso.
Coloro che insistono nel chiamare le cose con il loro nome
Come se fossero chiare e semplicissime
Non fanno che coprirle di ornamenti.
Non le esprimono, girano intorno al dizionario,
Non usano il linguaggio,
Le chiamano per nome e loro rispondono ai loro nomi
ma si spogliano in luoghi oscuri.
Discorsi, orazioni, giochi da dopocena,
Tutte le cosucce che ci permettono di tirare avanti.
Se devi scrivere correttamente poesia
Non sarebbe male abbassare un po' il tono
Senza per questo cadere in un silenzio monolitico
Né decidersi per il mugugno.
È qualche cosa di simile a un pesce ciò che speriamo di pescare
Un tocco di vita, rapido, che si confonde con l'ombra
E non l'ombra vera e propria e neppure l'intero Leviatano.
È qualche cosa che vale la pena ricordare
Per una qualche ragione simile al nulla
Visto che non si tratta del nulla e neppure di tutto il Leviatano,
Non è precisamente una scarpa o una dentiera.
Tra tutte le disperazioni possibili quella della morte sembra essere la peggiore
E con esse la paura della morte, testa o croce
Quando ormai si puó prevedere il giorno e l'ora
Vi è anche la sgradevole probabilitá che la paura della morte e la disperazione siano
Inseparabili come unghia e carne normalmente
Ricordo un amico di un'altra epoca che fuggiva di notte dalla sua casa e dall'ospedale
Con il salvancodotto che si concederebbe a un dannato nell'inferno
E piombava in casa di qualche amica che non corrispondeva al suo amore
de esigeva con gli argomenti propri della follia
Che lo accogliesse in casa come un ospite fisso
Mi sembra di vedere come alla fine di quste conversazioni impossibili
Era riportato alla sua tana dalla signora e dal suo coniuge
In silenzio asoluto, lui, lo gnomo dell'alba nella foresta nera
Di ritorno alla sua anticasa
O alll'aeroporto degli ospedali perché non perdesse il suo volo.
Fuori tempo
Il nostro entusiasmo infiammava quei giorni che scorrono
Tra moltitudini di giorni eguali.
La nostra debolezze codificava in essi
la nostra ultima speranza.
Pensavamo e il tempo che non avrebbe prezzo
Se en andava poveramente
E questi, sono, insomma, gli anni che verranno.
Proprio ora avremmo risolto tutto
Avevamo tutta la vita davanti.
La cosa migliore da fare era non aver fretta.
*
Se si deve scrivere correttamente poesiaNon basta sentirsi venir meno nel giardino
Sotto il peso combinato dell'anima o quel che l'è
E del celebre crepuscolo o quel che l'è.
Il cuore è povero di vocabolario.
Il suo labirinto: un gioco per ritardati
In cui fa ridere vederlo muoversi come un bue
Un lettore integrale di romanzi a fascicoli.
Fin dal momento in piglia il violino
Nemmeno fosse il valzer triste di Sibelius
Resta nella sala che va riempiendosi di tango.
Salo le dovute eccezioni le poetesse uruguayane
Confondono ancora la poesia con il ballo
In una morbosa sala da gioco,
Oppure la confondono con il sesso o la confondono con la morte.
Se si debe scrivere correttamente poesia
Bisogna comunque prendersela con calma.
Prima di tutto: sedersi a maturare.
L'odio prematuro per la letteratura
Puó servire per non passare da buliccio nell'esercito
Ma proprio Rimbaud
Che diede prova del suo odio fu topo di bibloteca,
E la sua gloriosa nausea venne da tanto rosicare.
Si gioca a scacchi
Con le parole per ululare.
Equilibrio instabile di inchiostro e sangue
Che devi mantenere da un verso all'altro
Sotto pena de romperti le scatole dell'anima.
Morte, follia e sogno son altrettanti pezzi
Di avorio o di corno o giu di li;
L'importante è spostarli nel giardino a quadretti
In modo che il pedone che balla con la regina
Non gli perdoni il minor passo falso.
Coloro che insistono nel chiamare le cose con il loro nome
Come se fossero chiare e semplicissime
Non fanno che coprirle di ornamenti.
Non le esprimono, girano intorno al dizionario,
Non usano il linguaggio,
Le chiamano per nome e loro rispondono ai loro nomi
ma si spogliano in luoghi oscuri.
Discorsi, orazioni, giochi da dopocena,
Tutte le cosucce che ci permettono di tirare avanti.
Se devi scrivere correttamente poesia
Non sarebbe male abbassare un po' il tono
Senza per questo cadere in un silenzio monolitico
Né decidersi per il mugugno.
È qualche cosa di simile a un pesce ciò che speriamo di pescare
Un tocco di vita, rapido, che si confonde con l'ombra
E non l'ombra vera e propria e neppure l'intero Leviatano.
È qualche cosa che vale la pena ricordare
Per una qualche ragione simile al nulla
Visto che non si tratta del nulla e neppure di tutto il Leviatano,
Non è precisamente una scarpa o una dentiera.
Tristano Lermita
Incontro con Dreiser Cazzaniga
Ricordava di aver incontrato Dreiser Cazzaniga nel corso delle sue passeggiate novembrine, con la testa in fiamme e Carducci nel cuore. La sua percezione dell'autunno era profondamente carducciana per via della poesia imparata a memoria d'autunno, alle elementari e per il fatto che per la via che egli percorreva per andare a scuola davvero respirava l'aspro odore dei mosti e se non vi erano spiedi vi erano cacciatori di cinghiali, sugli usci, che non rimiravano il cielo ma si rimiravano le scarpe piene di fango, Insomma l'autunno lo viveva in un universo parallelo che chiamava Carducci, E fu in autunno che incontró Dreiser Cazzaniga sulla stradina di Santa Libera, prima che decidessero di asfaltarla, stradina che menava al mare attraverso un lunghissimo itinerario tra alte querce rosse. Dreiser Cazzaniga avanzava col passo di un ciccione che è profondamente convinto di essere magro. In generale si muoveva e gesticolava come qualcuno che fosse di colpo stato precipitato in un altro corpo e non se en fosse ancora reso conto, Dai suoi occhi tranquilli e acquosi sembrava guardare il mondo come se fossero intensi e fiammegianti, il sorriso dolce che modellava la sua bocca pareva che nascondesse una smorfia invisibile di annoiato disprezzo, le dita pallide e lunghisime le muoveva come se fossero tozze e brunite dal fuoco del lavoro e della lotta. La lunga barba castana e i capelli che scendevano formando abbozzi di anelli fino al collo sfiniti e unti sotto il rigido cappello nero gli conferivano un profilo vagamente giudaico. Scrutava pigramente il bosco in cerca di funghi, reggeva con la mano destra una copia dell'Orlando Furioso di Garzanti. Non sapeva chi fosse en come si chiamasse, venne a conoscenza del suo nome nel caffé del borgo mentre comprava un biglietto della corriera che scende verso il mare e trangugiava un caffé amaro e colloso. Lo rivide altra volte, anche in cittá, con i seguaci di Mastro Arrigo, con qualche prostituta ucraina biondissima e stupida, mentre entrava in una panetteria a comprare la focaccia. Dreiser Cazzaniga non aveva per lui nessun interesse e nulla faceva presagire che fosse destinato, proprio lui a incontrarne il cadavere in quel bosco di carpini epilettici alle pendici del monte mucrone con la testa appoggiata a un tronco coperto da uno spesso strato di Trametes Versicolor. Era Dicembre, Il monte Rosa lontano era solo un'idea traingolare, come era finito lassú quel corpo coperto da una giacca grunge, col basco ancora ficcato sulla testa calva e un paio di scarponi da muratore di cui no gli ea sfugitto dal piede? Restó a fissare il cadavere e si percepí di colpo come un leggero segugio giallo intento a fiutare le ascelle di quel morto. Poi si ricordó di Nastagio degli Onesti, di Botticelli, una donna nuda correva nel bosco in uno schianto secco di rami. Quando riaprí gli occhi e ritrovó la calma si accorse che il Commissario Fabro gli aveva appoggiato una mano sulla spalla.
Ricordava di aver incontrato Dreiser Cazzaniga nel corso delle sue passeggiate novembrine, con la testa in fiamme e Carducci nel cuore. La sua percezione dell'autunno era profondamente carducciana per via della poesia imparata a memoria d'autunno, alle elementari e per il fatto che per la via che egli percorreva per andare a scuola davvero respirava l'aspro odore dei mosti e se non vi erano spiedi vi erano cacciatori di cinghiali, sugli usci, che non rimiravano il cielo ma si rimiravano le scarpe piene di fango, Insomma l'autunno lo viveva in un universo parallelo che chiamava Carducci, E fu in autunno che incontró Dreiser Cazzaniga sulla stradina di Santa Libera, prima che decidessero di asfaltarla, stradina che menava al mare attraverso un lunghissimo itinerario tra alte querce rosse. Dreiser Cazzaniga avanzava col passo di un ciccione che è profondamente convinto di essere magro. In generale si muoveva e gesticolava come qualcuno che fosse di colpo stato precipitato in un altro corpo e non se en fosse ancora reso conto, Dai suoi occhi tranquilli e acquosi sembrava guardare il mondo come se fossero intensi e fiammegianti, il sorriso dolce che modellava la sua bocca pareva che nascondesse una smorfia invisibile di annoiato disprezzo, le dita pallide e lunghisime le muoveva come se fossero tozze e brunite dal fuoco del lavoro e della lotta. La lunga barba castana e i capelli che scendevano formando abbozzi di anelli fino al collo sfiniti e unti sotto il rigido cappello nero gli conferivano un profilo vagamente giudaico. Scrutava pigramente il bosco in cerca di funghi, reggeva con la mano destra una copia dell'Orlando Furioso di Garzanti. Non sapeva chi fosse en come si chiamasse, venne a conoscenza del suo nome nel caffé del borgo mentre comprava un biglietto della corriera che scende verso il mare e trangugiava un caffé amaro e colloso. Lo rivide altra volte, anche in cittá, con i seguaci di Mastro Arrigo, con qualche prostituta ucraina biondissima e stupida, mentre entrava in una panetteria a comprare la focaccia. Dreiser Cazzaniga non aveva per lui nessun interesse e nulla faceva presagire che fosse destinato, proprio lui a incontrarne il cadavere in quel bosco di carpini epilettici alle pendici del monte mucrone con la testa appoggiata a un tronco coperto da uno spesso strato di Trametes Versicolor. Era Dicembre, Il monte Rosa lontano era solo un'idea traingolare, come era finito lassú quel corpo coperto da una giacca grunge, col basco ancora ficcato sulla testa calva e un paio di scarponi da muratore di cui no gli ea sfugitto dal piede? Restó a fissare il cadavere e si percepí di colpo come un leggero segugio giallo intento a fiutare le ascelle di quel morto. Poi si ricordó di Nastagio degli Onesti, di Botticelli, una donna nuda correva nel bosco in uno schianto secco di rami. Quando riaprí gli occhi e ritrovó la calma si accorse che il Commissario Fabro gli aveva appoggiato una mano sulla spalla.
La tuta
La tuta, la sua parte superiore l'aveva comprata in autunno nell'umidissima Piazza dell'Aviatore, ora tutti lo avevano dimenticato, certo l'Aviatore non aveva piú discendenti, o questi si erano dispersi dimentichi della loro stirpe. Eppure era stata gran festa con la banda tutta ben lucidata e il maestro Orlando a scuotere pigramente la bacchetta come se la banda fosse stata di un altro e il cugino Tchenzo, quello che era rimasto sempre giovane e che provava il suono dei freni delle locomotive a soffiare nel clarinetto che tutti credevano fosse il diminutivo di Clarino e il volo cerimonioso dei piccioni tra i tigli dorati sulla piazza della stazione e poi al ristorante con il Borgomastro, i cani, i monelli, i marinaretti e le comitive in bicletta. Tutto era stato dimenticato, in Piazza dell'Aviatore ci avevo comprato la tuta che presto divenne un umile talismano, una tuta da poche palanche, beige, e nera aveva il potere come tutti gli altri talismani che aveva raccolto come orfani del caso di conferire all'attimo la solennitá di un promessa che sarebbe stata mantenuta. L'aveva comprata in un negozio albanese che si chiamava KOLA MIT HAT. Parole che evocarono su due piedi un animale mitologico una specie di incartapecorita tarasca da guardaroba. In un misto di hispano-germano-albionico quel nome gli apparve come dotato incontrovertibilmente del seguente significato: la coda incontra il cappello, la coda con la testa (in un'altra possibile versione). Il serpente Ourobouro insomma, anche enza palindromo. Un talismano, un enigma, un animale mitologico bastavano a renderlo sicuro che nonostante tutto, nonostante la miseria l'abiezione e il ridicolo la vita doveva avere un senso, magari non serio e pomposo, magari secco e spelacchiato e un poco ammuffitto ma sempre un senso. La tuta la indossava da allora quando cercava dentro di se la povertá delle foglie di autunno.
Contro i pensieri neri
Contro i pensieri neri
Pensieri
Non neri pensieri
La loro relazione paradigmatica con la morte è una facile risorsa
Una cattiva metafora
I pensieri non piangono
Non compatiscono i loro oggetti
Nemmeno possono essere pensati come ausiliari della ragione
(Fourier non aveva poi torto quando annunciava la scienza della follía)
L'espropriato osserva che, nella prospettiva della morte, le cose
Forzate a occupare uno spazio limitato piuttosto che a fluire in un
Tempo amorfo suppostamente illimitato
Si ordinano come in un quadro di Mantegna
Mai prima si era visto cosí, al centro della scena
Come un santo con un leone ai suoi piedi
Non sono mai stato un santo e non addomesticai mai un leone
L'importante è il centro del quadro
Come lo vedo, come lo vedono
Nella prospettiva dell'equidistanza
il fatto di essere senza che questo sia un motivo di orgoglio
(Che orgoglio puó mai avere colui che sta per morire?)
Il centro di un piccolo sistema planetario
Al quale, in onore della chiarezza, manca una quarta dimensione
Il tempo, il punto cieco della prospettiva.
Enrique Lihn
Trad genseki
Pensieri
Non neri pensieri
La loro relazione paradigmatica con la morte è una facile risorsa
Una cattiva metafora
I pensieri non piangono
Non compatiscono i loro oggetti
Nemmeno possono essere pensati come ausiliari della ragione
(Fourier non aveva poi torto quando annunciava la scienza della follía)
L'espropriato osserva che, nella prospettiva della morte, le cose
Forzate a occupare uno spazio limitato piuttosto che a fluire in un
Tempo amorfo suppostamente illimitato
Si ordinano come in un quadro di Mantegna
Mai prima si era visto cosí, al centro della scena
Come un santo con un leone ai suoi piedi
Non sono mai stato un santo e non addomesticai mai un leone
L'importante è il centro del quadro
Come lo vedo, come lo vedono
Nella prospettiva dell'equidistanza
il fatto di essere senza che questo sia un motivo di orgoglio
(Che orgoglio puó mai avere colui che sta per morire?)
Il centro di un piccolo sistema planetario
Al quale, in onore della chiarezza, manca una quarta dimensione
Il tempo, il punto cieco della prospettiva.
Enrique Lihn
Trad genseki
La porta e il portatore
Barzakh, vi si entra seguendo, magari un portatore della chiave, io non en ho mai incontrati, di portatori di chiavi tranne forse quella splendida figliola finlandese che coccolava un gatto tra i due seni perfetti in una pizzzeria di Via Meravigli a Milano. Non la ho seguita peró. La siciliana amara di Bra che voleva che io gli restituissi la copia del quotidiano che mi aveva prestato, ma non una qualsiasi copia di quel quotidiano, proprio quella che mi aveva prestato, Io mentivo compulsivamente allora, e cercavo di entrare nel Mondo dei Significati attarverso le porte al fondo delle case, degli appartamenti, delle villette, delle camere di albergo. Ogni luogo abitabile, allora mi pareva la porta aperta sulla meraviglia di una vita possibile, si aprivano davanti a me inesauribili vite possibili e la pura vita possibile era per me una finestra aperta su un cortile triste, su un grande albero sporco, su una via poco frequentata a guardare la pioggia cadere per sempre un mattino di riposo ma non di festa, un mattino di sciopero o di alluvione o di incipiente guerra civile, insomma un mattino senza lavoro ma feriale, alla finestra che piove. Poi queste porte si sono chiuse, adesso sono scomparse e cerco dentro di me la meraviglia: percheggio il furgone sotto un albero, al fresco, in periferia, ragazzi zingari bruciano piramide di pneumatici e poi vi girano in torno con le moto che urlano pú del sole. Chiudo gli occhi e cerco la porta o il portatore nella paura che sale dentro di me e che come un'onda si solleva dentro di me e con sé mi porta oltre la soglia di Barzakh a Rue Fontaine 41
Enrique Lihn
Nel 1999, tornato dal Venezuela sognai che mi portavano alla casa dove viveva, allora, Enrique Lihn, in un paese che avrebbe potuto essere il Cile e in una cittá che avrebbe potuto essere Santiago, se pensaimo che il Cile e Santiago per un certo periodo furono simili all'inferno e che questa somiglianza, in qualche profonditá della cittá reale e della cittá immaginaria rimarrá
per sempre. Certo io sapevo che Enrique Lihn era già morto, tuttavia, quando mi invitarono a fare la sua conoscenza non mi opposi. Foprse pensai in uno scherzo di quelli che erano con me, tutti cileni, o forse in un miracole. Probabiolmente non pensai un bel niente, o non mi resi ben conto di quello che avevano detto.
...
Al principio lo ricobbi a stento, la sua faccia non era quella che appare nelle foto dei suoi libri, era dimagrito e ringiovanito, era piú bello, i suoi occhi erano migliori che quelli in biaco e nero della quarta di copertina. In relatá Lihn non sembrava Lihn, ormai quanto piuttosto uno di quegli attori di Hollywood di serie B che appaiono nei film che vanno subito in TV o che non passano mai nelle sale europee e entrano immediatamente nei videoclub. Comunque anche se non somigilia a se stesso Lihn era Lihn, non vi era alcun dubbio.
Roberto Bolaño
Incontro con Enrique Lihn
Trad genseki
Al principio lo ricobbi a stento, la sua faccia non era quella che appare nelle foto dei suoi libri, era dimagrito e ringiovanito, era piú bello, i suoi occhi erano migliori che quelli in biaco e nero della quarta di copertina. In relatá Lihn non sembrava Lihn, ormai quanto piuttosto uno di quegli attori di Hollywood di serie B che appaiono nei film che vanno subito in TV o che non passano mai nelle sale europee e entrano immediatamente nei videoclub. Comunque anche se non somigilia a se stesso Lihn era Lihn, non vi era alcun dubbio.
Roberto Bolaño
Incontro con Enrique Lihn
Trad genseki
Enrique Lihn
Ora davvero tu e io siamo piú lontani uno dall'altro
Che due stelle in galassie differenti.
Nessun astronomo mai riuscirá a vederci insieme
Nel suo vertiginoso campo visuale
Né il fotografo di cartagena davanti alla sua Polaroid
Cosí fu per sette anni infiniti
Le altre immagini sono nubi di memoria
Da questa e da quelle se ne è andata la vita.
Drive in
Sullo schermo si legge: è solo per te
La proiezione comincerebbe se finalmente ti adormentassi
Se non fosse perché, a volte, per fortuna, la perdi
Vai al cinema da solo
Sei solo sullo schermo
I tuoi incontri con la star
Sarano pure fatali ma non aggiungono
Il suo nome alla povertá del cast:
Sei tu che reciti tutte le parti.
Magari, sará l'ultima volta che lavoreremo insieme
L'angoscia che ti sveglia suona falsa
Rinunzi ad annotare nel tuo quaderno dei sogni
Questa cosa da nulla che riempirebbe cento pagine
L'analisi che alla fine
Sarebbe un'operazione di routine.
Buona notte Achille
Finalmente ce l'abbiamo fatta a prenderti nel tallone
La morte che fuggi
Correrá senza scomporsi accanto a te.
Buona notte, Achille
Sto per attraversare la barriera
Sto per attraversare la barriera
Dello specchio per vedere
Ció che non si puó vedere:
Come sarebbe il mondo
Se copiasse lo specchio
La realtá non al rovescio
Colma infine del suo nulla.
Siccome erano anni che mi detestavi
Sicome erano anni che mi detestavi
Perché a tuo insindacabile giudizio ero stato
Cattivo coniuge d'una amica tua
Mi scegliesti per farmi dir di tuo marito
Cose che ripetesti avendole inventate
Come se io le avesi dette di lui, tra amici comuni
In una casa precisa
“Un perfetto mediocre”
Volesti infliggergli questa ferita nel costato
Celebro qui tutta la precisione
Della femmine perversitá
Per fare ammenda dei miei eccessi in lode e per la gloria
Delle donne
Mi piacerrebe ascoltare la tua verione dei fatti un giorno o l'altro
Ma, naturalmente, dopo la morte.
Come se il sogno fosse scritto in strofe regolari
Come se il sogno fosse scritto in strofe regolari
Ogni risveglio notturno significa
Che il corpo si riabitua alla sua idea fissa: il nemico
Monta la guardia dentro di lui
Senza mai chiudere un occhio
Signore e padrone della cittadella conquistata.
Enrique Lihn
Trad genseki
Che due stelle in galassie differenti.
Nessun astronomo mai riuscirá a vederci insieme
Nel suo vertiginoso campo visuale
Né il fotografo di cartagena davanti alla sua Polaroid
Cosí fu per sette anni infiniti
Le altre immagini sono nubi di memoria
Da questa e da quelle se ne è andata la vita.
Drive in
Sullo schermo si legge: è solo per te
La proiezione comincerebbe se finalmente ti adormentassi
Se non fosse perché, a volte, per fortuna, la perdi
Vai al cinema da solo
Sei solo sullo schermo
I tuoi incontri con la star
Sarano pure fatali ma non aggiungono
Il suo nome alla povertá del cast:
Sei tu che reciti tutte le parti.
Magari, sará l'ultima volta che lavoreremo insieme
L'angoscia che ti sveglia suona falsa
Rinunzi ad annotare nel tuo quaderno dei sogni
Questa cosa da nulla che riempirebbe cento pagine
L'analisi che alla fine
Sarebbe un'operazione di routine.
Buona notte Achille
Finalmente ce l'abbiamo fatta a prenderti nel tallone
La morte che fuggi
Correrá senza scomporsi accanto a te.
Buona notte, Achille
Sto per attraversare la barriera
Sto per attraversare la barriera
Dello specchio per vedere
Ció che non si puó vedere:
Come sarebbe il mondo
Se copiasse lo specchio
La realtá non al rovescio
Colma infine del suo nulla.
Siccome erano anni che mi detestavi
Sicome erano anni che mi detestavi
Perché a tuo insindacabile giudizio ero stato
Cattivo coniuge d'una amica tua
Mi scegliesti per farmi dir di tuo marito
Cose che ripetesti avendole inventate
Come se io le avesi dette di lui, tra amici comuni
In una casa precisa
“Un perfetto mediocre”
Volesti infliggergli questa ferita nel costato
Celebro qui tutta la precisione
Della femmine perversitá
Per fare ammenda dei miei eccessi in lode e per la gloria
Delle donne
Mi piacerrebe ascoltare la tua verione dei fatti un giorno o l'altro
Ma, naturalmente, dopo la morte.
Come se il sogno fosse scritto in strofe regolari
Come se il sogno fosse scritto in strofe regolari
Ogni risveglio notturno significa
Che il corpo si riabitua alla sua idea fissa: il nemico
Monta la guardia dentro di lui
Senza mai chiudere un occhio
Signore e padrone della cittadella conquistata.
Enrique Lihn
Trad genseki
Rue Fontaine 41
Rue Fontaine 41
Che è il nome adeguato per un nuovo blog o un nuovo diario o entrambe le cose, ancora non lo so, Rue Fontaine è da intendersi come l'indice, la localizazione geografica, e storica, in una certa misura del Barzakh. Una porta del Barzakh, insomma. E questo vuol dire che in realtá il mio modo di pensare mostra una continuitá che mi sorprende. La sorpresa dipende, credo, dal fatto che io mi sforzo di stare piú attento alle discontinuitá e alle variazioni che alla continuitá. l'anima, (che oggi si suole chiamare mente) è una successione di avvenimenti discreti e non continui, la continuitá è un'illusione. Questo equivale a dire che se si nega la continuitá dell'anima si finisce per riaffermarla come illusione, ovvero, una continuitá vi è e questa è la coninuitá dell'illusione che vi sia una continuitá, mentre la realtá è che i pensieri sorgono come bolle nell'acqua della marmitta in modo discreto, senza logica, senza relazioni e cosí come sono sorti ricompaiono e con i pensieri anche l'anima è sorta come una discontinutá e scoppierá come una bollicina confondendosi nell'acqua del tutto. Ora che ci penso mi pare che anche nel sorgere discreto dei pensieri ci sia una continuitá, la continuitá del loro stesso apparire: i pensieri e gli altri eventi che occorrono nell'anima, occorrono, appunto in modo continuo, non si possono mai arrestare. Sembra quindi che l'anima sia dotata di due ripi di continuitá, una la continuitá del'illusione e l'altra la continuitá della produzione.
Comunque alla soglia della vecchiaia comincio ad afferarmi come un naufrago ai tronchi marci di acqua salata alle occorrenze di continuitá. Volevo godermela questa mia vecchiaia cecando i semi a partire dai rami su cui le foglie giá hanno acquistato il colore del rame, avevo fatto, naturalemente, i conti senza il dolore e la debolezza che ora minacciano la mia capacitá di godere di qualsiasi cosa e meno ancora della vecchiaia. Cerco le origini delle mie convinzioni piú profonde, dei gesti e delle decisioni che hanno condizionato la mia vita e che la condizionano. La vecchiaia (incipiente) è come un altipiano. (Ovvero come l'illusione di un altipiano, sembra un altipiano perché è incipiente, poi giungerá a sembrare persino una parete, e credo che finira per apparire come uno strapiombo notturno con il trampolino dell'ultimo salto) da quassú si vedono tutti i sentieri che abbiamo percorso per arrivare fin quassú. (verso i ventanni pensavo che avrebbero finito per delineare una forma, un'immagine, una parola, che fosse il senso della vita, del percorso “Die Linien des Lebens sind verschieden”... ora temo che non sará cosí bello e nitido) e le loro intersezioni. Ho notato che le origini sono spesso un brano che lessi e dimenticai completamente, una poesia, una parola a volte, che non ricordavo ssolutamente piú e che si sono sviluppati come semi appunto in ramificati edifizi arborei. Io parto dalla fogliolina giallina lassú sul ramo tremolante e scendo nel tempo e nello spazio fino a trovare il seme che ha generato tutto questo e quando lo trovo sono sorpreso dalla casualitá di tutto il processo.
Che è il nome adeguato per un nuovo blog o un nuovo diario o entrambe le cose, ancora non lo so, Rue Fontaine è da intendersi come l'indice, la localizazione geografica, e storica, in una certa misura del Barzakh. Una porta del Barzakh, insomma. E questo vuol dire che in realtá il mio modo di pensare mostra una continuitá che mi sorprende. La sorpresa dipende, credo, dal fatto che io mi sforzo di stare piú attento alle discontinuitá e alle variazioni che alla continuitá. l'anima, (che oggi si suole chiamare mente) è una successione di avvenimenti discreti e non continui, la continuitá è un'illusione. Questo equivale a dire che se si nega la continuitá dell'anima si finisce per riaffermarla come illusione, ovvero, una continuitá vi è e questa è la coninuitá dell'illusione che vi sia una continuitá, mentre la realtá è che i pensieri sorgono come bolle nell'acqua della marmitta in modo discreto, senza logica, senza relazioni e cosí come sono sorti ricompaiono e con i pensieri anche l'anima è sorta come una discontinutá e scoppierá come una bollicina confondendosi nell'acqua del tutto. Ora che ci penso mi pare che anche nel sorgere discreto dei pensieri ci sia una continuitá, la continuitá del loro stesso apparire: i pensieri e gli altri eventi che occorrono nell'anima, occorrono, appunto in modo continuo, non si possono mai arrestare. Sembra quindi che l'anima sia dotata di due ripi di continuitá, una la continuitá del'illusione e l'altra la continuitá della produzione.
Comunque alla soglia della vecchiaia comincio ad afferarmi come un naufrago ai tronchi marci di acqua salata alle occorrenze di continuitá. Volevo godermela questa mia vecchiaia cecando i semi a partire dai rami su cui le foglie giá hanno acquistato il colore del rame, avevo fatto, naturalemente, i conti senza il dolore e la debolezza che ora minacciano la mia capacitá di godere di qualsiasi cosa e meno ancora della vecchiaia. Cerco le origini delle mie convinzioni piú profonde, dei gesti e delle decisioni che hanno condizionato la mia vita e che la condizionano. La vecchiaia (incipiente) è come un altipiano. (Ovvero come l'illusione di un altipiano, sembra un altipiano perché è incipiente, poi giungerá a sembrare persino una parete, e credo che finira per apparire come uno strapiombo notturno con il trampolino dell'ultimo salto) da quassú si vedono tutti i sentieri che abbiamo percorso per arrivare fin quassú. (verso i ventanni pensavo che avrebbero finito per delineare una forma, un'immagine, una parola, che fosse il senso della vita, del percorso “Die Linien des Lebens sind verschieden”... ora temo che non sará cosí bello e nitido) e le loro intersezioni. Ho notato che le origini sono spesso un brano che lessi e dimenticai completamente, una poesia, una parola a volte, che non ricordavo ssolutamente piú e che si sono sviluppati come semi appunto in ramificati edifizi arborei. Io parto dalla fogliolina giallina lassú sul ramo tremolante e scendo nel tempo e nello spazio fino a trovare il seme che ha generato tutto questo e quando lo trovo sono sorpreso dalla casualitá di tutto il processo.
mercoledì, dicembre 22, 2010
Memoria
Considerato, oggi, il passato mi appare come la faccia visibile della luna, con tutto quello che vi si voglia vedere di fantasmagorico e di impreciso. Luci, ombre, figure, La veritá, o quella cosa che si è abituati a chiamare veritá, proprio quella, io non la conosco, la dimentico, non la guardo, non so che cosa sia. Eppure io mo sento capacissimo di scrivere qualche cosa che si potrebbe chiamare un romanzo, una narrazione in cui non appaia assolutamente nessun essere del passato, nessun avvenimento accaduto, ma nel quale i fatti descritti da me e gli esseri che avró fatto agire saranno piú comparabili a ció che esistette che la loro fotografia fedelmente conservata nei ricordi e nei documenti...
Naturalmente tratteró di avvenimenti e faró delle dichiarazioni. Tuttavia non li considererño altro che vecchi vestiti, piú o meno amati di cui ci si ricorsda con una certa emozione, di viaggi compiuti, foto di un album di famiglia, parleró delle cose vissute con il sentimento di farmio capire.
Georges Ribemont-Dessaignes
Avant Dada
trad. genseki
Naturalmente tratteró di avvenimenti e faró delle dichiarazioni. Tuttavia non li considererño altro che vecchi vestiti, piú o meno amati di cui ci si ricorsda con una certa emozione, di viaggi compiuti, foto di un album di famiglia, parleró delle cose vissute con il sentimento di farmio capire.
Georges Ribemont-Dessaignes
Avant Dada
trad. genseki
martedì, dicembre 21, 2010
Preludio delle origini
Da cosa sei nato o poeta? Dal tempo e dallo spazio,
Senza principio né fine,
Senza padre e senza madre
Sorgente nel giardino delle origini.
Qualcuno chiede qual è la sua nascita?
Dall'acqua che sgorga dalla prima sorgente.
Oh fontana della memoria, fontana del gran centro della terra
Anche tu nascesti, tu che scorri sui ciottoli bianchi del ricordo,
Di ció che era senza essere, prima del sapere dell'esistenza?
Eccoti voluta arrotolata come una vipera
Sviluppata nella marea amica al sole e alla luna
E presto sfuggente alla mano che si bagna
Al piede che osa
Marciare sull'acqua
Da chi sono nato? Forse dal vento,
Dal gran vento senza pace, senza dimora
Anch'egli nato dagli orizzonti che mai raggiungono
Né la mano adulatrice
Né il piede del viaggiatore che per calmarlo meglio
Maschera la sua marcia in danza e la sua danza in volo.
Dal gran vento con criniera di giumenta
Con dita di foglie morte,
Con grida d'uccello migratore
Dal sonno senza riposo all'ombra dei camini,
Dallo sguardo di fumo,
Dall'amore crudele dei soli estivi
Nelle valli piú ampie,
Informato del sangue degli omicidi e delle lacrime dei lutti
Su pietre, polvere e sudore.
Forse sei nato dalla notte o dal fuoco?
È vero, ho visto le greggi transumanti
Dormire in uno spazio di pacifiche tenebre,
Mentre negli angoli cupi dimenticati dagli uomini
Risplendeva l'infimo miracolo dei versi lucenti.
Davvero ho visto sulle panchine della solitudine
Sulla lenta deriva dello zodiaco,
Intrecciarsi le mani, fondersi gli aliti
Aprirsi i cuori da dove sgocciolava
Un pianto straziante e divino.
Davvero ho visto danzare il fuoco sulla punta dell'erba
Correre sulle colline e godere della fuga del mistero,
Vegliare come l'amore in preda al ricordo
Nell'atrio del silenzio
Attorto dalle delizie del suicidio e i deliri,
Scaturito dal mio respiro con la fiamma che lo divora
E con cui nutre la sua fame di troni, sangue e contrade
Fino a vomitare da solo le proprie ossa, la pomice e lo zolfo
E la cenere della sua potenza.
Davvero in qualche eden di noncuranza
Ho visto lucciole accendersi tra balsami notturni
Fuochi fatui di assenza e mancanza
Sogno noncurante di raggiungere con due strilli il silenzio.
Forse, peró nacqui dalla terra,
Come un'erba, un grillo, una pietra
Come un¡eco da tempo dimenticata in un pozzo
Che germina di colpo quando la linfa cresce
E svapora sospiro promesso alla rugiada,
Liana virtuale aspirata dalle stelle,
Fuori dal tuo ventre, peso del cuore, terra mia.
Eccomi in equilibrio tra due forze
Danzatore effimero
Per un eterno giorno
Per un amore eterno,
Gioiello leggero impermanente
Per la vita eterna
Per la morte eterna
Ammutolisca la domanda posta!
Fratelli, sono ma giammai non naqui.
Georges Ribemont-Dessaignes
Trad. genseki
Senza principio né fine,
Senza padre e senza madre
Sorgente nel giardino delle origini.
Qualcuno chiede qual è la sua nascita?
Dall'acqua che sgorga dalla prima sorgente.
Oh fontana della memoria, fontana del gran centro della terra
Anche tu nascesti, tu che scorri sui ciottoli bianchi del ricordo,
Di ció che era senza essere, prima del sapere dell'esistenza?
Eccoti voluta arrotolata come una vipera
Sviluppata nella marea amica al sole e alla luna
E presto sfuggente alla mano che si bagna
Al piede che osa
Marciare sull'acqua
Da chi sono nato? Forse dal vento,
Dal gran vento senza pace, senza dimora
Anch'egli nato dagli orizzonti che mai raggiungono
Né la mano adulatrice
Né il piede del viaggiatore che per calmarlo meglio
Maschera la sua marcia in danza e la sua danza in volo.
Dal gran vento con criniera di giumenta
Con dita di foglie morte,
Con grida d'uccello migratore
Dal sonno senza riposo all'ombra dei camini,
Dallo sguardo di fumo,
Dall'amore crudele dei soli estivi
Nelle valli piú ampie,
Informato del sangue degli omicidi e delle lacrime dei lutti
Su pietre, polvere e sudore.
Forse sei nato dalla notte o dal fuoco?
È vero, ho visto le greggi transumanti
Dormire in uno spazio di pacifiche tenebre,
Mentre negli angoli cupi dimenticati dagli uomini
Risplendeva l'infimo miracolo dei versi lucenti.
Davvero ho visto sulle panchine della solitudine
Sulla lenta deriva dello zodiaco,
Intrecciarsi le mani, fondersi gli aliti
Aprirsi i cuori da dove sgocciolava
Un pianto straziante e divino.
Davvero ho visto danzare il fuoco sulla punta dell'erba
Correre sulle colline e godere della fuga del mistero,
Vegliare come l'amore in preda al ricordo
Nell'atrio del silenzio
Attorto dalle delizie del suicidio e i deliri,
Scaturito dal mio respiro con la fiamma che lo divora
E con cui nutre la sua fame di troni, sangue e contrade
Fino a vomitare da solo le proprie ossa, la pomice e lo zolfo
E la cenere della sua potenza.
Davvero in qualche eden di noncuranza
Ho visto lucciole accendersi tra balsami notturni
Fuochi fatui di assenza e mancanza
Sogno noncurante di raggiungere con due strilli il silenzio.
Forse, peró nacqui dalla terra,
Come un'erba, un grillo, una pietra
Come un¡eco da tempo dimenticata in un pozzo
Che germina di colpo quando la linfa cresce
E svapora sospiro promesso alla rugiada,
Liana virtuale aspirata dalle stelle,
Fuori dal tuo ventre, peso del cuore, terra mia.
Eccomi in equilibrio tra due forze
Danzatore effimero
Per un eterno giorno
Per un amore eterno,
Gioiello leggero impermanente
Per la vita eterna
Per la morte eterna
Ammutolisca la domanda posta!
Fratelli, sono ma giammai non naqui.
Georges Ribemont-Dessaignes
Trad. genseki
sabato, dicembre 18, 2010
Tra i fiori degli ontani
Altri vivrá forse di mercoledi altre mattine
Io i miei mercoledi gli ho persi con l'inverno
E con la solitudine. mercoledi di mercato
Senza treni, mercoledi al caffé pensando
Al tuo stupore di vedermi nello specchio
Dove custodisci tutte le prospettive
Mercoldi di fusarie e di anemoni
Mercoledi tra tricoloma e muscaria
Mercoledi stringendo la tua crinolina
Domando i tuoi fianchi sul materasso di rame
Mercoledi fiutando benzina all'angolo del sicomoro
Mercoledi spiando i tuoi piedi
Desiderosi di tacco e cerniera
Mercoledi pisciando nel lavabo
D'una stanza nemica senza rami
Il melo alla finestra era solo un fantasma
Tu cantavi tra i fiori degli ontani.
genseki
Io i miei mercoledi gli ho persi con l'inverno
E con la solitudine. mercoledi di mercato
Senza treni, mercoledi al caffé pensando
Al tuo stupore di vedermi nello specchio
Dove custodisci tutte le prospettive
Mercoldi di fusarie e di anemoni
Mercoledi tra tricoloma e muscaria
Mercoledi stringendo la tua crinolina
Domando i tuoi fianchi sul materasso di rame
Mercoledi fiutando benzina all'angolo del sicomoro
Mercoledi spiando i tuoi piedi
Desiderosi di tacco e cerniera
Mercoledi pisciando nel lavabo
D'una stanza nemica senza rami
Il melo alla finestra era solo un fantasma
Tu cantavi tra i fiori degli ontani.
genseki
Nel tuo fiume
Invano avevo cercato di guadarti
Coscienziosamente avvolgendomi i gins
Al di sopra la caviglia
Poi finivo sempre per inciampare e sommergermi in te
Nel tuo fiume
E andare in letargo come uno di quei caimani
Che avevano fatto indigestione di tartarughe
E non avevo abbastanza lacrime
Per confluire nel tuo fiume
Per esserti affluente del tuo corso torrentizio
Per fondermi nella tua corrente principale
Accarezzato dalle tue anguille
Avevo nausea invece, mi trascinavi,
Come un travicello per i tuoi mulinelli
Invano cercavo la pozza, lo stagno
Invano tendevo le mani ai rami degli ontani.
Ero grasso, maledizione, e nudo,
Ero la tua balena d'acqua dolce
Su di me si posavano anche gli aironi
Rosa e cinerini, non avevo mai avuto
La destrezza necessaria per farmi acqua
Cataratta delle tue angosce, cascata dei tuoi soprassalti
No poco a poco andavo evaporando
Tra le tife e i canneti nella carezza di quel sole
Che portava al pascolo tutte le sue nuvole.
genseki
Coscienziosamente avvolgendomi i gins
Al di sopra la caviglia
Poi finivo sempre per inciampare e sommergermi in te
Nel tuo fiume
E andare in letargo come uno di quei caimani
Che avevano fatto indigestione di tartarughe
E non avevo abbastanza lacrime
Per confluire nel tuo fiume
Per esserti affluente del tuo corso torrentizio
Per fondermi nella tua corrente principale
Accarezzato dalle tue anguille
Avevo nausea invece, mi trascinavi,
Come un travicello per i tuoi mulinelli
Invano cercavo la pozza, lo stagno
Invano tendevo le mani ai rami degli ontani.
Ero grasso, maledizione, e nudo,
Ero la tua balena d'acqua dolce
Su di me si posavano anche gli aironi
Rosa e cinerini, non avevo mai avuto
La destrezza necessaria per farmi acqua
Cataratta delle tue angosce, cascata dei tuoi soprassalti
No poco a poco andavo evaporando
Tra le tife e i canneti nella carezza di quel sole
Che portava al pascolo tutte le sue nuvole.
genseki
gemini e apollo
Cosa fosse poi quel nostro discorrere da un equivoco all'altro
Quando in fondo quello che cercavo
Era solo tepore, luce di un giorno feriale
Minestra sorbita lentamente col cucchiaio
A radio spenta le ciabatte della vicina di ballatoio
Le tue labbra sapevano allora di zinco, le tue dita
O le tue dita intorno a tutti quei bicchieri
Come fuscelli tirolesi mi richiamavano
Alle estati alpine dell'infanzia
Quando ero grasso e felice e solo come una felce
E gemini e apollo riempivano il cielo notturno
Da dove sei venuta fuori, da quale mattino
Da quale sciopero dei tram o dei treni
Da quale dei tanti miei mercoledi all'alba
Fragranti di soltudine tra i bagolari?
La tuta del mercoledí era davvero rosa?
I tuoi seni odoravano di posacenere
Di tappo di bottiglia di birra dell'infanzia
I tuoi capelli stingevano sul sofá
Nell'umiditá richiamo per i merli.
genseki
Quando in fondo quello che cercavo
Era solo tepore, luce di un giorno feriale
Minestra sorbita lentamente col cucchiaio
A radio spenta le ciabatte della vicina di ballatoio
Le tue labbra sapevano allora di zinco, le tue dita
O le tue dita intorno a tutti quei bicchieri
Come fuscelli tirolesi mi richiamavano
Alle estati alpine dell'infanzia
Quando ero grasso e felice e solo come una felce
E gemini e apollo riempivano il cielo notturno
Da dove sei venuta fuori, da quale mattino
Da quale sciopero dei tram o dei treni
Da quale dei tanti miei mercoledi all'alba
Fragranti di soltudine tra i bagolari?
La tuta del mercoledí era davvero rosa?
I tuoi seni odoravano di posacenere
Di tappo di bottiglia di birra dell'infanzia
I tuoi capelli stingevano sul sofá
Nell'umiditá richiamo per i merli.
genseki
Ontologia e caffé
Il caffé lo preferivi senza sale
L'ontologia dialettica
Scendevi le scale da anni nei miei sogni
E le tue ascelle erano il nido
O la tana tiepida del mio frugare
L'indivia nel tinello
L'odore di ammoniaco sul pianerottolo
Tutto quanto in una luce di sabato mattina
Vissuto al mercoledi, non pensavo nemmeno
A togliere i tuoi alluci dalle tasche del mio cappotto
Quando dovevo andare al Collegio Docenti
Gli accarezzavo mentre dormivo sul calorifero
Ma comprando il giornale mi dimenticavo il tuo nome
Il tuo indirizzo era quello di un altro portone
Se sventolavi lo facevi da un altro balcone
Il mio desiderio si perdeva tra le antenne
Poi ti incontravo in una nuova latteria
E era sempre una sorpresa vederti tra i ceci
E la mezzaluna fragrante della panissa
E non sapere come cominciare quel discorso
Che si era tane volte interrotto per sempre.
*
genseki
L'ontologia dialettica
Scendevi le scale da anni nei miei sogni
E le tue ascelle erano il nido
O la tana tiepida del mio frugare
L'indivia nel tinello
L'odore di ammoniaco sul pianerottolo
Tutto quanto in una luce di sabato mattina
Vissuto al mercoledi, non pensavo nemmeno
A togliere i tuoi alluci dalle tasche del mio cappotto
Quando dovevo andare al Collegio Docenti
Gli accarezzavo mentre dormivo sul calorifero
Ma comprando il giornale mi dimenticavo il tuo nome
Il tuo indirizzo era quello di un altro portone
Se sventolavi lo facevi da un altro balcone
Il mio desiderio si perdeva tra le antenne
Poi ti incontravo in una nuova latteria
E era sempre una sorpresa vederti tra i ceci
E la mezzaluna fragrante della panissa
E non sapere come cominciare quel discorso
Che si era tane volte interrotto per sempre.
*
genseki
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