martedì, dicembre 23, 2008

Bordiga

A Janitzio la morte non fa paura


«In Messico, nel lago Patzcuaro, si trova la piccola isola di Janitzio. A 2.350 metri d'altezza, un paesaggio stupendo si spalanca davanti ai visitatori: acque tranquille, montagne dai fianchi tormentati, un cielo così vicino che sembra di poterlo toccare col dito. Discendenti da una razza fiera, gli indiani Tarascani combatterono contro gli Spagnoli «conquistadores». Furono vinti e adottarono la religione cristiana degli invasori; ma i santi che essi venerano hanno conservato i caratteri delle antiche divanità. Il Sole, l'Acqua, il Fuoco e la Luna. I Tarascani sono abili nel lavorare il cuoio, nello scolpire il legno, nel lavorare l'argilla e nel tessere la lana. Sono anche abilissimi pescatori. Quando ritirano le loro reti dalla strana foggia, somiglianti a grosse farfalle, sono sempre ricche di pesce. Ma anche se industriosi, i Tarascani sono ancora molto primitivi. Essi considerano infatti la vita come uno stato transitorio, un breve momento che bisogna passare per giungere alla beatitudine della morte. La morte non rappresenta più un'inesorabile fatalità; al contrario essa è considerata un bene, l'unico veramente inestimabile. Ecco perché «il giorno dei morti» non è, per gli abitanti di Janitzio, un giorno di dolore. La festa inizia di buon mattino. Le case vengono decorate a festa e tutte le immagini dei santi si arricchiscono di pizzi e fiori di carta. I ritratti dei defunti vengono esposti e illuminati da decine di ceri. Le donne preparano i piatti favoriti dai parenti defunti poiché essi, tornando a visitare i vivi, vi traggano consolazione.Nel cimitero, dietro la chiesa, si decorano anche le tombe che molto spesso non hanno nome. Non vi sono iscrizioni funebri a Janitzio! Ma non per questo si dimenticano i morti. La via che conduce dal cimitero al villaggio viene cosparsa di petali di fiori, affinché i defunti possano agevolmente trovare la strada di casa.Nel «giorno dei morti» le donne di Janitzio si fanno belle. Pettinano le lunghe trecce scure e si adornano di gioielli d'argento. Il costume si compone di una lunga sottana rossa bordata di nero a larghe pieghe. La camicetta ricamata scompare sotto il «rebozo» che ricopre la testa e le spalle e dal quale, spesso, spunta la testina dell'ultimo nato. A mezzanotte le donne vanno tutte insieme nel camposanto e si inginocchiano a pregare per i loro cari defunti. Accendono i ceri, i più grandi dedicati agli adulti e i più piccoli per coloro che se ne sono andati troppo presto da «questa valle di lacrime». Poi si abbandonano alla meditazione che, a poco a poco, si traduce in parole. Inizia così uno litania che non è di dolore, ma che esprime la comunione esistente tra i vivi e i morti.Intanto gli uomini rimasti al villaggio si riuniscono a bere vicino alla chiesa dove è stato elevato un catafalco nero dedicato ai morti che non hanno più nessuno che preghi per loro. Ritorneranno a casa verso l'alba, mentre le loro donne, che hanno vegliato tutta la notte al cimitero, vanno a sentire la messa seminascoste nel «rebozo». Trascorre così a Janitzio «la giornata dei morti». Sui volti degli abitanti del villaggio non si legge dolore, ma la festosa aspettativa di chi attende la visita delle persone più care».


Abbiamo ripresa tal quale e col suo titolo questa notiziola da un giornale italiano per i ragazzi. È una delle tante rifritture di materiale americano di «cultura» che passano di giornale in giornale e di rivista in rivista senza che pennaioli di servizio si accorgano di altro che del grado di effetto del pezzo che circola. Il ricopiatore ennesimo non si è nemmeno sognato il significato profondo che la sua diffusione nasconde, sia pur nella forma convenzionalmente conformista.
Le nobilissime popolazioni messicane, diventate cattoliche sotto il terrore spietato degli invasori spagnoli, mostrerebbero, col non avere terrore ed orrore della morte, di essere rimaste «primitive».
Erano, invece, quei popoli, eredi di una civiltà incompresa ai cristiani di allora e di oggi, e trasmessa dal comunismo antichissimo. L'insulso individualismo moderno non può che stupire beota se, pur nel testo scolorito, si legge di tombe senza iscrizione e di cibi che si apprestano ai morti che nessuno commemora. Veri «morti ignoti», non per retorica bolsa e demagogica, ma per possente semplicità di una vita che è della specie e per la specie, eterna come natura e non come sciocco sciame di anime vaganti negli extra-mondi, per la quale, e per il suo sviluppo, valgono le esperienze dei morti, dei vivi e dei non nati, in una serie storica il cui avvicendarsi non è lutto, ma gioia di tutti i momenti del ciclo materiale.
Anche nel simbolo, quei costumi sono più alti di quelli nostrani, ad esempio in quelle donne che si fanno belle per i morti e non per il più danaroso dei vivi, come nella società mercantile, fogna in cui noi siamo immersi.
Se sotto le spoglie degli squallidi santi cattolici vive ancora la forma antichissima delle divinità non inumane, come il Sole, ciò ricorda le notizie - quanto giunte a noi travisate! - della civiltà Incas, che Marx ammirava. Non erano primitivi e feroci tanto da immolare i più begli esemplari della specie giovane al Sole che chiedeva sangue umano, ma splendide di un intuito possente, quelle comunità che riconoscevano il fluire della vita nella energia, che è la stessa quando il Sole la irradia sul pianeta e quando fluisce nelle arterie dell'uomo vivo e diventa unità ed amore nella specie una, che fino a quando non cade nella superstizione dell'anima personale col suo bilancio bigotto di dare ed avere, soprastruttura della venalità monetaria, non teme la morte e non ignora che la morte della persona può essere inno di gioia, e contributo fecondo alla vita dell'umanità.
Nel comunismo naturale e primigenio, anche se l'umanità è sentita nel limite dell'orda, il singolo non ha scopi che consistano nel sottrarre bene al fratello ma è pronto ad immolarsi per il sopravvivere della grande fratria senza alcuna paura. Sciocca leggenda vede in questa forma il terrore del dio che si plachi col sangue.
Nella forma dello scambio, della moneta, e delle classi, il senso della perennità della specie sparisce, e sorge quello ignobile della perennità del peculio, tradotta nella immortalità dell'anima che contratta la sua felicita fuori natura con un dio strozzino che tiene questa banca e pesa. In queste società che pretendono di essere salite da barbarie a civiltà si teme la morte personale e ci si prostra alle mummie, fino ai mausolei di Mosca, dalla storia infame.
Nel comunismo, che non si e avuto ancora, ma che resta certezza di scienza, si riconquista la identità del singolo e della sua sorte con quella della specie, distrutta entro essa tutti i limiti di famiglia, razza e nazione. Con questa vittoria finisce ogni timore della morte personale, ed allora soltanto ogni culto del vivo e del morto, essendo per la prima volta la società organizzata sul benessere e la gioia e sulla riduzione al minimo razionale del dolore della sofferenza e del sacrificio, togliendo ogni carattere misterioso e sinistro alla vicenda armoniosa del succedersi delle generazioni, condizione naturale del prosperare della specie
.

Source: «Il Programma Comunista» N. 23 - 15-29 Dicembre 1961
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Natale 2008


Ancora una volta il Fuoco ha penetrato la Terra.
Non si è schiantato con strepito come un fulmine sulle montagne. Forse il Signore deve forzare la porta per entrare nella sua casa?
Senza sismi, senza tuoni, appare la fiamma che ha illuminato ogni cosa dall'interno.
Dal cuore dell'infimo tra gli atomi fino all'energia delle leggi piú universali,
ha invaso con assoluta naturalezza, ogni individuo, e nel suo insieme, ogni elemento, ogni modello, ogni unione del nostro cosmo, tanto che potrebbe credersi che esso abbia spontaneamente preso fuoco.
In ogni nuova Umanitá che oggi si genera,
il Verbo ha prolungato l'atto senza fine
della sua nascita, e in virtú della sua immersione nel seno del Mondo, le grandi acque della Materia, senza nemmeno un brivido, si sono riempite di vita.
Apparentemente nulla ha tremato, per l'ineffabile trasformazione. Tuttavia, misteriosamente e realmente, al contatto con la parola sostanziale, lUniverso, immensa ostia si è fatto carne.
Da allora ogni materia si è incarnata, Dio mio, per opera della tua incarnazione.

Pierre Teilhard de Chardin
Inno dell'Universo
Trad. genseki

lunedì, dicembre 22, 2008

César Vallejo


Ciro Alegria

César Vallejo come l'ho conosciuto

Parte I

Un signore circospetto, carico di anni e di sapienza, era in visita a casa una domenica sera, e fu allora che udii per la prima volta il nome di César Vallejo e le discussione che provocava. Si parlava del fatto che il lunedí avrei dovuto cominciare ad andare a scuola.

- Se avessi un figlio – suggerí questo Signore – lo manderei al Seminario. È una scuola di preti ed è molto conveniente.

Io ascoltavo attentamente questa conversazione dalla quale dipendeva il mio destino di studente. Mia nonna rispose con dignitá:

- In realtà suo padre mi ha scritto che lo mandi alla Scuola Nazionale di San Giovanni. È quello che ha detto definitivamente. Tutti gli uomini della famiglia sono stati educati li -.

- Che classe frequenterá?

- Quest'anno va in prima.

Il vecchio fece quasi un salto e poi disse con molta concitazione:

- Ma signora! Qui non si tratta di Scuole, si tratta di buon senso ... Ma lei lo sa chi insegna in prima alla Scuola di San Giovanni? Lo sa? Ebbene, quel Cesare Vallejo, quello che crede di essere un poeta e gli manca qualche rotella ... -

- Vabbé, ma per insegnare in prima... - disse la nonna per calmarlo un po'.

Ma il nostro ospite sembrava deciso a salvare dal pericolo quel povero innocente che io ero e argomentó:

- No, signora! Questo Vallejo se non è un idiota è sicuramente un pazzo. Non potrebbe farlo entrare in seconda. Entrando ho visto che il bambino stava leggendo il giornale ...-

Il mio presunto salvatore fece una smorfia sconsolata quando la nonna gli disse:

- Si, sa giá leggere e scrivere ma non le altra materie che si insegnano in prima -.

Il vecchio era peró determinato a spendere tutte le sue risorse per liberare il mio povero cervello da influenze perturbatrici, e prese una direzione piú condiscendente:

- Tuttavia signora, lei non mi negherá che in quanto all'educazione e specialmente a quella religiosa il seminario è il collegio migliore. Il suo prestigio va crescendo ... -

E la nonna:

- anche nel piano di studi del San Giovanni c`è religione e non sono per niente anticattolici ...-

Il vecchio si arrese. Forse per consolarsi, peró, si mise a esporre alcune considerazioni fatali per il modernismo e per tutta una serie di altri ismi e poi fece lampi e tuoni di ordine estetico contro l'arte del mio maestro, ma io non ci capivo niente. Finalmente se en andó con un'espressione abbastanza contrariata e non senza farmi gli auguri di buona fortuna in un modo tra disperato e compassinevole.
Mi riuscí difficile conciliare il sonno nel mezzo delle inquietudini che si impadronivano di un bambino che domani aspettava il suo primo giorno di scuola e pensava al suo maestro, che si diceva fosse un poeta e che il vecchio severo aveva chiamato pazzo o forse idiota.
Un mio compagno di viaggio che studiava in quella stessa scuola mi ci accompagnó.

- Voi non entrate da qui – mi disse quando giungemmo ad una grande porta sulla quale si leggeva l'iscrizione: dio e patria, - questa porta è per noi, quelli delle medie. Passiamo di lá -.
Camminammo verso l`angolo della strada, e quando lo svoltammo, si aprí a metá la porta che usavano i maestri e gli alunni delle elementari. Ci fermammo di colpo e mio zio mi presentó a quello che sarebbe stato il mio maestro. Accanto alla porta, immobile c'era Cesare Vallejo, magro, giallognolo, quasi ieratico, mi parve un albero che avesse perso le sue foglie. Il suo vestito era scuro, come scura la sua pelle. Per la prima volta vidi la luce intensa dei suoi occhi quando si inclinó per domandarmi, con tenera attenzione, come mi chiamassi. Scambió poi alcune parole con mio zio e quando questi se en andó mi disse “vieni di qua” Entrammo in un piccolo cortile dove stavano giocando molti bambini. La classe di prima era su uno dei lati. Allora si mise ad aprire i banchi per vedere se ce en fosse uno libero in base al fatto che vi fossero o no abiti al suo interno, poi me en indicó uno dicendo:
- Ti siederai qui, metti le tue cose, no, non così, devi essere ordinato, prima la lavagnetta che è piú grande, sopra il tuo libro e il berretto -.

Trad. genseki

Jimmy Giuffre

venerdì, dicembre 19, 2008

Celan





Io ho scritto poesie, cosa altro posso dire?


Paul Celan

Huerta

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Obaku

Huang-Po
Insegnamenti

I

Il maestro disse a Pei Siu:
Tutti i Budda e tutti gli esseri viventi non sono altro che uno spirito solo: altro metodo spirituale non v'è.
Da tempi senza inizio, questo spirito, che non è mai nato, non ha mai cessato di esistere, non è giallo e non è neppure azzurro, non possiede forma alcuna nè aspetto, non dipende dall'essere e neppure dal non essere, non è antico e non è nuovo, nè lungo, nè corto, nè grande nè piccolo, oltre ogni delimitazione e ogni denominazione: Eccolo, realtá intriseca.
Ma quando si fanno delle considerazioni si finisce per divagare... illimitato e insondabile, sembra lo spazio vuoto
Questo spirito è il Budda e tra il Budda e gli esseri viventi non c'è differenza. Tuttavia gli esseri viventi cercano sempre altrove afferrandosi a caratteri peculiari, e mentre van cercando avviene che perdono tutto, perché inviando la loro idea di Budda alla ricerca del Budda e il loro spirito alla ricerca dello spirito, anche senza mai tirare il fiato per interi kalpa, non possono arrivare da nessuna parte, ignorando, come ignorano che`proprio il Budda è gli esseri viventi tutti.
Quando è essere vivente, questo spirito non risulta in nulla sminuito e quando è Budda non per questo deve apparire come accresciuto. Così avviene che le sei trascendenze e l'infinitá delle pratiche come i meriti piú numerosi che i granelli di sabbia del Gange vi si trovino riuniti fondamentalmente al completo senza che un esercizio temporaneo ve li abbia aggiunti. Quando l'occasione si presenta ecco che allora , essi si esprimono, se no, se ne restano tranquilli.
Se non credete fermamente che questo spirito è il Budda e se volete praticare aggrappandovi a caratteri particolari per ottenere meriti siete preda di un equivoco grave e finirete per abbandonare la Via.
Questo spirito è il Budda e non v'è altro Budda e neppure altro spirito. Questo spirito chiaro e puro è simile allo spazio vuoto, in nessun punto avendo forma particolare alcuna.
Suscitare un particolare stato dello spirito per mezzo dei pensieri significa allontanarsi dalla sostanza delle cose e afferrarsi a caratteristiche particolari. Ora, fin dai tempi senza inizio, non vi fu mai un “Budda attaccato alle particolaritá”. Esercitarsi nelle sei trascendenze e nell'nfinitá di pratiche per diventare Budda significa intraprendere una via graduale e mai si vide un Budda graduale. Basta risvegliarsi a questo spirito uno per non “avere piú la menoma veritá da trovare”, tale è l'autentico Budda.
Il Budda e gli essere viventi non sono distinti nello spirito uno, che come lo spazio vuoto non è mai confuso e mai si degrada. Infatti, guardate il sole che illumina la terra intera. Al suo sorgere la luce si diffonde su tutta la terra ma non per questo lo spazio è reso piú luminoso. Quando tramonta e le tenebre ricoprono la terra non si fa per questo piú oscuro.
Luce e oscuritá reciprocamente si scacciano, immutato e vuoto resta lo spazio nella natura sua. Lo stesso avviene per questo spirito del Budda e degli esseri viventi.
Havvi chi suol considerare il Budda provvisto di segni particolari come la purezza, la luminositá e la libertá, e gli esseri viventi con i segni dell'impuritá, dell'oscuritá e dell'essere incatenati al samasara. Eppur coloro che in siffatto modo credono, neppure al trascorrere di kalpa innumerevoli potranno entrare nel porto del risveglio, essendo essi come afferrati ai caratteri particolari.
In questo spirito uno, dunque non resta la menoma realtá da trovare, posto che lo spirito è il Budda. Ai giorni nostri, i discepoli che non si sono risvegliati a questo spirito, nella sostanza loro altro non fanno che produrre pensieri, uno dopo l'altro affannosamente, cercando il Budda all'esterno e praticare aggrappandosi ai caratteri particolari; si tratta di un metodo malvagio e non della Via del Risveglio
trad. genseki

giovedì, dicembre 18, 2008

Il prezzo di un sorso d'acqua

E trovansi nel diserto di Azoad due sepolture fatte di non so che sasso, nel quale sono intagliate alcune lettere che dicono ivi esser seppelliti due uomini, uno de' quali fu ricchissimo mercante, e passando per quel diserto infestato dalla sete comperó dall'altro che era vetturale, una tazza d'acqua per diecimila ducati: ma tuttavia morí della sete e il mercatante che cmpró l'acqua e il vetturale che gliela vendé.

Leone Africano
Descrizione dell'Africa

mercoledì, dicembre 17, 2008

Equivalenti Matematici del Dogma

Lucian Blaga
L'Eone Dogmatico

La matematica piú recente include alcune costruzioni, come, per esempio, quelle dei “transfiniti” (il simbolo Aleph di Cantor) attraverso dei quali si fanno, involontariamente, alcune concessioni al pensiero dogmatico, cosí importanti, da poter essere chiamate, senza mezzi termini “equivalenti matematici del dogma". Il simbolo Aleph designa una grandezza transfinita che si mantiene identica a se stessa qualunque grandezza finita venga ad essa sottratta. Ricordiamo qui la affermazione di Filone secondo il quale la sostanza prima non soffre nessuna diminuzione a causa delle emanazioni originate da essa. Tra il simbolo Aleph e la formula di Filone c'è una perfetta somiglianza strutturale (la differenza consiste nel fatto che il dogma paral di essenze e di processi comsologici, mentre l'Aleph è puramente matematico). Cantor e (altri con lui) giunse, per successioni logiche di calcoli e di considerazioni a stabilire le diverse antinomie del transfinito. La questione principale a questo livello non è in che modo i matematici giunsero a queste antinomie, bensí come pensano di risolverle. Le antinomie, in generale, si possono risolvere per differenziazione logica di concetti, per differenziazioni applicabili senza restrizioni non solo in un mabito trascendente ma anche in uno logico-concreto. (“Dio è uno e molteplice” è un'antinomia. Essa puó risolversi attraverso una differenziazione logica di concetti, valida senza restrizioni in qualunque dominio come, per esempio, attraverso i concetti di sostanza e di manifestazione; sulla base di questa differenziazione la antinomia si risolverebbe in modo logico: Dio è uno in quanto sostanza e molteplice nelle sue manifestazioni). Abbiamo visto che a volte si cercó la soluzione alle antinomie non attraverso la differenziazione logica di concetti, bensí attraverso la separazione di concetti solidali. (Dio è uno in quanto essere e molteplice in quanto persona) Come si risolvono le antinomie del transfinito? Attraverso una distinzione di concetti e più esattamente attraverso una distinzione tra i concetti di potenza e di somma di un insieme (Menge). Ma bisogna esaminare quale sia la natura di questa distinzione. Cantor ottiene il concetto di potenza (Mächtigkeit) per mezzo di un'astrazione della possibilitá di coordinazione (Zuordnung) reciproca degli elementi di due insiemi. Quando i due insiemi di elementi coordinati sono finiti, la potenza di ciascuno coincide con la somma di ciascuno. Potenza è quindi un concetto piú astratto di quello di somma mentre dal punto di vista delle sue caratteristiche matematiche (piú esattamente per quello che si riferisce alle sue relazioni di eguaglianza, di più e di meno) reciprocamente solidale con quello di somma. Se due insiemi sono uguali come potenza lo sono anche come somma e all'inverso. Ma quando questi due concetti si applicano all'ambito del transfinito la solidarietá aritmetica sparisce. Due transfiniti possono avere la stessa potenza pur rappresentando somme differenti. Perché Cantor suppone che la solidarietá di potenza e somma cessi nell'ambito del transfinito? Per le stesse antinomie del transfinito. Queste antinomie sono quelle che obbligano l'intelletto a postulare una separazione di concetti che l'intelletto non concepise altrimenti che come che come in relazione solidale. (Questo postulato, una volta ammesso, rende possibile tutta una matematica dei transfiniti, di articolazioni assolutamente logiche). Per la soluzione delle antinomie del transfinito, Cantor sceglie il cammino della separazione dei concetti solidali: potenza e somma. Le antinomie ottenute in questo modo conducono, tanto per calcoli come per considerazioni logiche, alla postulazione di un determinato dominio di una separazione di concetti solidali nell'ambito logico-concreto. Noiabbiamo seguito questo procedimento, quando abbiamo analizzatole formule dogmatiche, il procedimeno di “trasfigurazione delle antinomie”.
Si deve approfondire se apparirono, tra le costruzioni piú recenti della scienza, altre idee, piú o meno vicine strutturalmente, alla formula dogmatica e alla antinomia trasfigurata.

Trad. genseki

martedì, dicembre 16, 2008

la leyenda del tiempo-camaron

La leggenda del tempo

Sopra il tempo va il sogno
Come fosse un veliero
Nessuno sguscia semi
Dentro il cuore del sogno

Sopra il tempo va il sogno
Sepolto fino al collo
Oggi e domani mangiano
Fiori oscuri di lutto

Sulla stessa colonna
Sogno e tempo abbracciati
Il pianto del bambino
Nella lingua del vecchio

Sopra il tempo va il sogno

Se il sogno finge muri
Nelle lande del tempo
Il tempo gli fa credere
Ch'è nato il quel momento

Sopra il tempo va il sogno

Federico Garcia Lorca
trad. genseki

Per Maresa


Come chi s'è perduto


Come chi s`è perduto nella selva profonda
Lungi dalle radure dai sentier dalle genti;
Come colui che in pelago mosso da forti venti,
Si vede preda omai del turbinio dell'onda;


Come chi a passi lenti va mesurando il campo
Quando la notte al mondo ogni chiarezza tolle,
I' luce e rotta persi ed a modo di folle
Persi a lungo l'oggetto ove il mio ben accampo.


Ma quando vedi (e' mali più non ti stanno attorno)
Nel bosco, in mar al campo, e meta e porto e giorno;
Il ben presente credi maggior dei mali feri;


Ed io che in vostra assenza sofferto ho tal dolore
Dimentico, al veder vostro chiaro splendore,
Bosco, tormenta e notte lunghi rabbiosi e neri.


Etienne Jodelle (1532-1573)


trad genseki

La Sinagoga

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Gaspard de la nuit


La barba a punta

Chi non marcia a testa alta
Con la barba ben fresata
de il baffo torciglione
Di dama non trova considerazione


Le poesie di d'Assouci


Era festa nella Sinagoga tenebrosamente stellata di lucignoli argentati, i rabbini coi paramenti e i quevedos baciavano o loro talmud, norbottavano canticchiavano per il naso, sputavano e si soffiavano il naso, gli uni seduti e gli altri no.

Ma ecco che, all'improvviso, in mezzo a cotante barbe ora rotonde, ora ovali ora quadrate che ricciolavano o allisciavan esalando aromi d'ambra e benzoino, fu avvistata una barba a punta.

Un dottore chiamao Elébotham, che portava sul capo una mola scintillante di gioielli a modo di cappello si alzó e disse: “Profanazione! C'è qui una barba a punta!
Una barba luterana! - Un mantell corto! - A morte il Filisteo.” - E la folla ribolliva di rabbia nei banchi tumultuosi mentre il sacrificatore strepitava: “Sansone! A me una mascella d'asino!"

Ma il cavalier Melchiorre aveva srotolato una pergamena autenticata dal sigillo imperiale: “Si ordina, lesse ad alta voce, di arrestare il macellaio Isaac van Eck, per essere l'assasino impiccato, lui porco giudeo tra due porci fiamminghi”.

Trenta alabardieri si staccarono a passi pesanti e ticchettanti dall'ombra del corridoio.
- “Me ne infischio dei vostri alabardieri!” ghignó il macellaio Issac. E da una finestra si gettó nel Reno.
Louis Bertrand
trad. genseki

Mansur al-Hallaj

Kitab at-tawasin

Il tasin della lampada profetica

a cura di genseki

Una lampada apparve dalla luce dell'invisibile, una lampada piú luminosa di ogni altra. Era la Signora delle lune che manifestava il suo splendore sulle altre lune. Era una stella dell'empireo. Allah lo chiamó “illetterato” a causa della concentrazione della sua ispirazione, lo chiamó “consacrato” per la maestá della sua benedizione e “Makkan” perché risiede nella Sua prossimitá.

Egli gonfió il petto e accrebbe il suo potere e sollevó il peso che pesava sulle tue spalle e così impose la sua autoritá. ... la sua lampada brilló dalla sorgente di ogni divina magnificenza.

Egli non riferì nulla che non fosse in accordo alla sua visione interiore, e non comandó nulla a coloro che seguono il suo esempio che non fosse in accordo con la veritá della sua condotta. Restò alla presenza di Allah e condusse altri alla Sua Presenza. Disse. quando spiegó chi egli fosse, che era stato inviato come guida per definire i limiti della condotta.

Nessuno è capace di intendere il suo vero significato, se non il Sincero, che lo accompagna, convinto della sua autenticitá, fino a che non resta nessuna differenza tra di loro.

Nessuno lo conosce senza ignorare la sua vera qualitá. La sua qualitá è rivelata solo a coloro a cui Allah ha deciso di aprirla. ...

La luce della profezia apparve dalla sua luce a la sua luce sorse da quella del Mistero. Nessuna luce è piú luminosa, piú manifesta, piú increata che la luce del Signore della Generosità.

La sua ispirazione precedette qualsiasi altra ispirazione, la sua esistenza precedette la non esistenza, il suo nome precedette la Penna perché esisteva anteriormente. Non vi era nulla sull'orizzonte, oltre l'orizzonte o sotto l'orizzonte di più bello, nobile e giusto, di piú benevolo e simpatetico di colui che ebbe questo ruolo. Il suo titolo è Signore della Creazione, il suo nome è Ahmad, il suo attributo è Muhammad. Il suo comando è il più sicuro, la sua essenza la piú eccellente, i suoi attributi i piú gloriosi, e la sua aspirazione è unica.

Oh meraviglia! Che cosa è piú manifesto, piú visibile, piú grande, pú famoso, piú luminoso, piú poderoso e piú saggio di lui. Egli è de era conosciuto prima della creazione delle cose e degli esseri. Egli fu e continua essendo prima del prima e dopo il dopo, prima di qualitá e di sostanza. La sua sostanza è pura luce, la sua parola è profetica, la sua conoscenza celestiale, la sua lingua l'arabo la sua tribú non è dell'Oriente e nemmeno dell'Occidente, la sua genealogia quella dei patriarchi, la sua missione la conciliazione e il suo titolo “Illetterato”.

Gli occhi furono aperti grazie ai suoi segni e i segreti svelati dalla sua presenza, fu Allah che lo fece articolare la Sua Parola, e essendone la Prova lo confermó. Fu Allah che lo invió. Egli è la prova e il provato. È lui che disseta la sete del cuore tanto assettato, è il portatore della parola increata che non è pronunziata dalla lingua, che non è prodotta. Essa è unita ad Allah senza separazione, e sorpassa il concepibile, essa annunzia la fine e le fini e le fini delle fini.

Si eleva alle nubi e si dirige alla Casa Sacra. Egli è il limite, l'eroico guerriero, Egli è colui che ricevette l'ordine di rompere gli idoli e colui che condusse l'umanitá a stermirnarli.

Sopra di lui una nube luminosa, una nube luminosa sotto di lui, da esse cade la pioggia che genera frutti, Tutta la conoscenza è una goccia del suo oceano, tutta la spaienza è appena una manciata della sua corrente e tutto il tempo è appena un'ora della sua vita.

Allah è con lui e con lui è la realtá. Egli è il primo nell'unione e l'ultimo dei profeti, egli è dentro la realtà e fuori è la gnosi.

Nessuno studioso mai raggiunse la sua conoscenza e nessun filosofo la sua comprensione.
Allah non concesse la sua Reltá alla sua creazione, perché lui e lui e il suo esserci è Lui, e Lui è Lui.

Nulla uscí dalla M di MHMD, e nulla entró nella H e la H è unita alla seconda M e la D è come la prima M. D è perpetuitá, M è rango, H è stato spirutuale cosí come la seconda M.

Allah rese manifesta la sua parola, ampliò la sua azione e confermó la sua prova. Inviò Furqan su di lui, rese adeguata la sua lingua e spendente il suo cuore. Rese i suoi contemporanei incapaci di imitarlo e ne esaltó la gloria.

Se fuggi dai suoi dominii, che strada prenderai senza una guida o povero infermo? Le massime dei filosofi sono come un mucchio di sabbia di fronte alla sua sapienza.

***

venerdì, dicembre 12, 2008

Canto espiatorio di cacciatori numidi

Era scontento il nostro Dio
E non riuscivamo a sapere perché
Più ormai non si compiaceva
Di immergersi nell'Oceano
Sulle cui acque fluttuava
La sua pancia enorme
Iridata come una perla molle
Lucida come la luna piena sulle dune
Non conduceva più al pascolo
Le sue greggi di tonni dal dorso d'argento
Né si dilettava giacendo con le contadinotte
In forma di capro o di fagiolo cornuto
Non appariva, come soleva, nelle grandi vasche
Di rame brunito per le purificazioni
Lustrali degli amanti
Facendo bollire di colpo l'acqua azzurra.
Era alga, ora, ora muschio
Ora prateria di placton
Piaga dell'ascella delle fave
Goccia putrida sulla pelle di rospo
Dei meloni.

Era scontento il nostro Dio
Per questo l'acqua fermentava
Nelle caldaie di bronzo
I cetrioli si inturgidivano alla vista
Degli orifizi delle zucche
E i tacchini ammonivano segale e zecche
Dignitosi predicatori di un pestilente evangelio.

E in noi, in si andava spegnendo
Poco a poco
La poesia
Che era il santo complemento della caccia
Il balsamo di dolcezza dopo lo stupro
La Numidia rossa di bacche, distesa di cespugli spinosi
Giaceva sterile
Distesa silente di brume febbrili
Nella viscosa pace di novembre.

giovedì, dicembre 11, 2008

Lichenology

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Cuor di Vascello

Se del corpo della poesia
Vuoi aprire il cuore come di vascello
Cerca oltre la carena, fuori della stiva
Tra le vele sta il cuore bianco
Battito di vento, fiato
Polso della tramontana che monda
Le onde la spuma la luna e loda
Il volo appena un po' scabroso
delle api oceaniche, si le api di Teti -
Quella del mito -
Intente a cercare polline di placton
Nelle fratture dei capoversi
Nei sibili delle frombole, tra le froge delle balene
Che nitriscono come immense cavalle azzure
Tra le vele laggiú
E la luna del cuore.

Gilles de Rais III


A Tiffauges risiede tutto il clero di una metropoli, decano, vicari, tesorieri, chierici e diaconi scolari e coristi; ci è giunto il rendiconto delle spese per le , le stole e le casuble.
Gli ornamenti sacerdotali abbondano, qui incontriamo i teli vermigli dei paramenti di un altare, cortine di seta smeraldina, una cappa di velluto cremisi, viola con un telo d’oro , un’altra in tessuto di damasco aurora, dalmatiche di satin per i diaconi, baldacchini decorati a figure a uccelli d’oro cipriota, là piatti, calici, cibori, lavorati col martello, borchiati, cosparsi di gemme, reliquari tra i quali la testa in argento di Sait Honoré, un mucchio di ori incandescenti che un artista stabilitosi nel castello cesella secondo i suoi gusti.
E tutto era a portata di tutti; la sua tavola era aperta ad ogni ospite; da tutti gli angoli della Francia lunghe carovane si dirigevano verso questo castello in cui gli artisti, i poeti, gli scienziati trovavano un’ospitalità principesca, semplici agi, doni di benvenuto e omaggi alla loror partenza.
Già indebolita per i salassi profondi praticati dalla guerra la sua fortuna vacillò sotto queste spese; allora egli imboccò la strada terribile degli usurai, chiese prestiti ai peggiori borghesi, ipotecò i castelli alienò le proprietà, in certi momenti si ridusse a impegnare gli arredi del culto, i suoi gioielli, i suoi libri.
Una memoria che gli eredi di Gilles rivolsero al Re ci rivela che la sua immensa fortuna disparve in meno di otto anni.
Un giorno sono le signorie di Confolens, di Chabannes, di Chateaumourant, di Lombert che vengono cedute a un capitano d’armigeri a vil prezzo; un altro è il feudo de Fontaine-milon, le terre di Grattecuisse che compera il Vescovo d’Angers, la fortezza di Saint-Etienne de Mer Morte acquistata da Guillaume Le Ferron per un pezzo di pane; un altro ancora è il castello di Blaison e di Chemillé che un tal Guillaume de la Jumelière ottiene a forfait e che non paga. Tutta una lista poi di castellanie e foreste, saline e prati, un lungo foglio di carta sul quale egli aveva minuziosamente annotato gli acquisti e le vendite.
Spaventata da queste follie, la famiglia del maresciallo supplicò il Re d’intervenire; e, in effetti, nel 1436, Carlo VII°, “Convinto – come dice del cattivo comportamento del sire De Rais” gli vietò nel Gran Consiglio e con lettere datate da Amboise di vendere o alienare qualsivoglia fortezza, castello o terra.
Questa ordinanza, in realtà non fece altro che affrettare la rovina dell’interdetto.
trad genseki

Alcuni Maestri

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Alfonso Cortés (1893-1969

Finestra

Un frammento d'azzurro ha maggiore
Intensità del cielo intero
Sento che là vive quel fiore
Estasi del mio aneloVento di spiriti passa
Alla finestra, così lontano
Soffio nel quale si spezzacarne d'angelica diana
E nell'allegria dei gesti
Ebbri d'azzurro, fluenti
Odo il fermento di folli pretesti,
Di là mi chiama,
Più non lo sento.

*

Passi

Quando fra il tumulto della terra
Gli esseri sentiran la solitudine
Avrà tregua eterna la guerra
Del rumore e spingeranno i passi
L'Uomo e la Donna nell'eternità
Fino a percorrere le rughe della fronte
Di Dio, donde si innalza
L'estasi del passato in vapore incessante
Gli amanti resteranno, a due a due,
Come fossero svegli
Fisso lo sguardo ai pori
Sacri, impregnati d'eterni sudori,
Della divina fronte corrugata.

*
Aria

Suona l'aria d'un bimbo dietro il muro, la piazza
Guida pattuglie d'estasi antiche alle mie stanze
Canto di bimbo a passettini lassi
Trascorre come un oboe sopra i tetti,
Riempie di un'estasi crepuscolare
Tutto il giardino gonfio d'angoscia
Vuole parlare le sue parole
Che tra le foglie ha mormorate…
Si contorcono, allora, nella bruma
Con la letizia di folli moti
Le bianche pieghe come di spuma
D'anima appena sfiorata dai fiati.

*

Occaso

Occaso bianco d'estasi trattieni
Solo un momento nell'azzurro il tuo passo,
Non affrettare il tuo bene tranquillo,
Occaso,
L'ora triste del tempo, fa risorgere,
La visione potente di Betlemme;
Il notturno levriero sta latrando,
E nel silenzio di tempi passati
A lontani orizzonti van calando
lente le ombre di corpi ignorati...

*
La pace del sole

Io sono il vino, l'uomo la semente
Accumuliamo terra in mezzo ai rami
D'un'immutabile domenica di palme
Per proteggere Dio eternamente.
E' giunta la mia terra ad occidente
Dell'esser mio sigillo e prolunghiamo
Nuda d'ore una sera in cui restiamo
Volti all'eternità del fuoco ardente.
Vano è lo scriver poi che nessun scrive
E l'esser nostro ha soltanto il potere
Di dettare all'amor quel che concepe
Sol basta un buon silenzio, ben del dire:
ogni cosa è così come la brami
Naufrago Iddio di questa nostra plancia.

*

Fior di frutto

Nel silenzio dei fiori si nasconde
Un sacro amore che al futuro invita:
L’essere è meta al suo stesso cammino
Se vi è una grazia che profuma e tace.
Il dolce sangue che scoppia nella bocca
Quando si schiaccia la polpa di un frutto
E’ la parola viva ed assoluta
Ove saggia ogni pianta sua virtute.
Arbor mistico l’uomo solo a stento
Comprende Spazio e Tempo se si muta
Dell’alma sua nel fiore, frutto delle sue vene;
Che da sua doppia essenza non confusa
Traggono miele le api della Morte
E profumo le rose della Vita.

*
Anime sporche

Apro per il silenzio della fluida
Distanza sconosciuta tra l'una e l'altra vita
E dietro cui ci osservano, le cose che guardiamo.
Elencherò le vaste essenze che conservano
Il silenzio dei sogni nel loro petto enorme
E vi unirò i dettagli di forma, luce, accento
Che unifica la pallida lontananza del vento;
Perché in basso, nel mezzo, nei cieli la distanza
E' quell'idea medesima che pone la fragranza
di unite relazione sottili come lastre
Che tacciono, Oh! L'inerzia, anima delle cose.
*

mercoledì, dicembre 10, 2008

Un popolo di poeti

Né è da tacere che la maggior parte degli arabi di Numidia sono versificatori e compongono lunghi canti descrivendo in quelli le loro guerre e le loro caccie e anche cose d'amor, con grande eleganzia e dolcezza, e i lor versi son fatti con rima nel modo de' versi vulgari d'Italia.

Leone Africano
Descrizione dell'Africa

martedì, dicembre 09, 2008

Fede e Volontá

Nemo credere potest nisi volens

Paolo di Tarso

Col cuore si crede così da giungere alla giustizia: e con la bocca si fa la confessione che conduce alla salvezza.
Romani X,1o

*

Commento di Tomaso d'Aquino.

Ció significa che si crede con lavolontá. Altre cose che appartengono al culto esterno di Dio possono essere fatte da uno anche senza un atto di volontá. Ma nessuno puó credere se non vuole credere (Nemo credere potest nisi volens). L'intelletto del credente, infatti, non è determinato a dare l'assenso alla veritá in forza dell'argomento (ex necessitate rationis) come nel caso della mente di chi conosce. Ecco perché la giustificazione non è questione di conoscenza ma di fede, perché la giustificazione avviene nella volontá.
*
Thomas Merton
Solo quando la fede, sotto l'impulso della volontá, si traduce in caritá e prende pieno possesso del nostro essere, la cosiddetta "luce della fede" diventa qualche cosa che si potrebbe chiamare un'esperienza.
Nell'ordine della fede la luce viene solo per l'intermediario della volontá.
O.C.
p. 59
*
a cura di genseki

Huerta

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Dante e l'Islam

Dhû'l-Nun al-Misri

“Sufi è colui il cui linguaggio, quando egli parla, riflette la realtá del sustrato, ovvero che nulla dice che egli non sia, e, quando è silenzioso, la sua condotta spiega il suo stato, e il suo stato proclama che egli ha spezzato ogni legame col mondo.
Hujwîrî

***

Dante

E io a lui: “I' mi son un che quando
amor mi spira noto e a quel modo
ch'ei ditta dentro vo significando
Purgatorio
Canto XXIV, 53-54


a cura di genseki

venerdì, dicembre 05, 2008

La tour de Montaigne


Montaigne in blog


Michel de Montaigne

Alla fine, davvero, dopo una serena riflessione ho deciso di porre anche Montaigne che da tantissimi anni non fequentavo più, tra i lari di questo blog.
Per quali ragioni?
Eccone alcune qui di seguito:

"Io, che ultimamente mi sono ritirato in casa deciso, per quanto dipende dalla mia volontá a passare riposatamente e in solitudine quel piccolo resto di vita che ancora mi tocca, parvemi non poter fare cosa piú grata all'anima mia che lasciarla libera, pienamente, abbandonata alle sue proprie forze, affinché ella si fermasse ove lo ritenesse maggiormente profittevole, sperando cosí che potesse per l'avvenire acquisire un grado maggiore di maturazione, tuttavia, cred'io che siccome
Variam semper dant otia mentem
quello che occorre è l'opposto. Cavallo che solo se en fugge corre cento volte piú rapido di quando alcun fantino lo governa, lo spirto mio ozioso tante chimere genera, tanti mostri fantastici senza tregua e senza riposo, senza ordine e senza armonia veruna, che per poter contemplare comodamente la debolezza e bizzarria di essi tutti
mi avvenne di ponerli per iscritto, sperando che col tempo gli sia causa di vergogna contemplare simiglianti spropositi." (trad. genseki) Montaigne Essais I,6

Che è la definizione esatta della ragion d'essere di questo blog.
genseki

giovedì, dicembre 04, 2008

Kohlart II

art
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Egemonia

La riflessione di Gramsci sull'egemonia è prima di tutto una riflessione su una struttura storica determinata: Il Partito leninista, ovvero lo strumento politico elaborato e impiegato da Lenin nella Rivoluzione di Ottobre.
Questa riflessione è anche amaramente critica ma non vi è nessun dubbio che l'orizzonte nel quale si muove è questo.

Il Partito di Lenin è considerato da Gramsci come un apparato di egemonia su piani differente, da quello economico a quelli sovrastrutturali tra cui il piano culturale. Certamente Gramsci concentra la sua riflessione in modo significativo sull'egemonia culturale. L'interesse a questa particolare forma di egemonia e al ruolo degli intellettuali mi sembra, implicitamente dipendere dall'ansia di comprendere come la macchina del partito di Lenin abbia potuto trasformarsi nell'incubo barbarico scita dello stalinismo.

Nonostante quest'ansia la nozione di egemonia resta in Gramsci sempre all'interno della nozione di Partito considerato come avanguardia necessaria di ogni movimento storico progressivo:
“Elementi di storia etico-politica nella filosofia della praxis: concetto di egemonia, rivalutazione del fronte filosofico, studio sistematico della funzione degli intellettuali nella vita statale e storica, dottrina del partito politico come avanguardia di ogni movimento storico progressivo.” 1235

Il Partito che, come è noto, Gramsci descrive come il nuovo Principe, è lo strumento nuovo, che forgiato da Lenin nella forma di un intellettuale-militante collettivo ha il compito di realizzare la famosa tesi di Marx a proposito di Feurbach e della filosofia.
Certamente uno degli antecedenti del Partito è stata la Compagnia di Gesú di Ignazio da Loyola.

Come si vede c'è davvero poco che possa servire al no-globalismo, o ai manifestanti anti-gelmini.
Mi sembra che una delle cose piú negative di quella che si pretende ancora una sinistra antogonista è aver perduto la nozione di quanto lavoro sia necessario, quanto tempo, quanto studio e soprattutto quante, quante sconfitte e amarezze, per creare una qualunque forma di opinione organizzata che permetta di introdurre cambiamenti, appunto, radicali nelle societá odierne.

Il compito principale di una simile struttura, oggi, poi, sarebbe quello di sopravvivere e di riprodursi salvaguardando il patrimonio di conoscenze e di pratica politica che è venuta accumulando nel tempo.
La qual cosa non sigifica ritirarsi dalla politica in un isolamento settario, ma essere presenti nel conflitto politico senza rinnegare mai per nessuna ragione nessun principio.
La battaglia politica sui principi è la sola forma conosciuta di selezionare militanti de intellettuali che costituiscano l'embrione di una futura possibile egemonia:

“La proposizione contenuta nell'introduzione alla Critica dell'economia che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura nel terreno delle ideologie deve essere considerata come un'affermazione di valore gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teorico politico dell'egemonia ha anch'esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l'apporto teorico massimo di Ilici alla filosofia della praxis. Ilici avrebbe fatto progredire la filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico.” 1249-1250 Quaderno X – XXXIII

“Ho accennato altrove all'importanza filosofica del concetto e del fatto di egemonia dovuto a Ilici. L'egemonia realizzata significa la critica reale di una filosofia, la sua reale dialettica”.
882
**
L'egemonia è appunto la realizzazione di quanto è stato pensato nella storia filosofia.
È la filosofia diventata pratica.
Il concetto di egemonia è dunque molto, molto vicino a quello di fine della storia come viene letto da Kojève in Hegel.
L'egemonia è la forma della fine della storia nel pensiero di Gramsci. Naturalmente Gramsci ovviamente avrebbe piuttosto parlato di iniszio della Storia e di fine della preistoria.
Infine, l'egemonia si colloca in una visione della storia che ha nella lotta di classe e nella lotta di classe sul piano economico il suo asse:

“... se ne deduce che il contenuto dell'egemonia politica del nuovo gruppo sociale che ha fondato il nuovo tipo di stato deve essere prevalentemente di ordine economico: si tratta di riorganizzare la struttura e i rapporti reali tra gli uomini e il mondo economico o della produzione. Gli elementi di superstruttura non possono che essere scarsi e il loro carattere sará di previsione e di lotta, ma con elementi di piano ancora scarsi: il piano culturale sarà soprattutto negativo, di critica del passato, tenderá a far dimenticare e a distruggere...”

Tutte le letture post-moderniste, e noglobaliste di Gramsci sembrano davvero molto poco legittime alla luce delle linee precedenti.
L'egemonia non si riduce solo all'egemonia culturale e per egemonia culturale si intende soprattutto egemonia sul ceto intellettuale.
Ma l'egemonia non è una proposta teorica alla quale omologare la realtá.
Il concetto di egemonia è uno strumento di analisi della storia e della pratica di costituzione e di perpetuazione del dominio di classe.
La teoria di Gramsci dell'egemonia è la descrizione scientifica di come la borghesia costruisce il suo domino e di come lo mantiene.
Questa descrizione è fatta al fine di fornire alla classe antagonista gli strumenti perfezionati e coscienti che le permettano di costruire una nuova egemmonia e di subentrare agli antichi dominatori:

“Ogni rapporto di egemonia è necssariamente un rapporto pedagogico e si realizza non solo all'interno di una nazione, tra le diverse forze che la compongono, ma nell'intero campo internazionale e mondiale, tra complessi di civiltá nazionali e mondiali.”
1331

Riduzione a politica di tutte le filosofie speculative, a momento della vita storico-politica; la filosofia della praxis concepisce la realtá dei rapporti umani di conoscenza come elemento di “egemonia” politica.
1245

Le domanda da porsi quindi sarebbe:

È ancora possibile e in che termine è possibile riproporre qualche cosa di simile al Partito di Lenin?
Perché dalla risposta a questa domanda dipende l'attualitá della figura dell'egemonia gramsciana.
Da questa risposta dipende se la storia è finita nel regno dell'animale consumatore o se quella che si avvicina alla fine è la preistoria della specie umana.

I numeri delle pagine si riferiscono all'edizione Einaudi Tascabili dei Quaderni a cura di Valentino Gerratana. 2001
a presto
genseki

mercoledì, dicembre 03, 2008

Kohlart

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La dialettica di Paco Yunque


Il racconto per bambini Paco Yunque di César Vallejo che fu rifiutato da diversi editori perché considerato, probabilmente, oltraggiosamente senza speranza, puó essere letto come un'illustrazione pedagocica della dialettica.
La poesia di Vallejo e segnatamente i “Poemas humanos” puó essere interpretata, certamente come un gigantesco sforzo di creare una dialettica poetica.
Paco Yunque fu scritto intorno al 1931, quando Vallejo era giá seriamente impegnato in una convinta militanza marxista.

La relazione che intercorre tra Paco Yunque il giovane andino e il bambino inglese Humberto Grieve è una relazione servo-padrone.
Humberto Grieve dice subito ai compagni di classe che Paco Yunque è il suo “muchacho” e per questo puó obbligarlo a sedere nel banco che decide lui e costrigerlo a lasciarsi picchiare e umiliare a suo arbitrio.
La relazione tra Paco Yunque e Humberto Grieve pare essere accettata senza nessun problema dalle autoritá: il maestro.
Non è accettata in modo altrettanto acritico dai compaghi di Paco come Fariña e i gemelli Zuniga che cercano di rendere Paco cosciente di una qualche anomalia della sua condizione servile e di spingerlo alla ribellione mostrandogli affetto naturale e spontaneo sostegno.
Paco Yunque non puó accettare la ribellione perché ha paura, paura del dolore sprattutto che Humberto Grieve puó decidere di infliggergli o forse perché non intravede la possibilitá di una relazione diversa come qualche cosa di reale.
Nel mondo da cui proviene tutti sono servi o padroni. Egli e la sua famiglia appartengono alla famiglia di Umberto Grieve: sono servi!
Servo e suo padre che accetta come naturale qualsiasi umiliazione gli venga dal Signor Grieve, seserva è sua madre che accetta con rassegnazione che il gioco preferito di Umberto Grieve sia quello di picchiare crudelmente suo figlio.
La servitú per Paco Yunque è un fatto naturale.
La scuola non è il mondo di Paco Yunque. La scuola è una soglia, il limbo di una nuova forma della coscienza.
Il mondo della servitú è per Paco anche il mondo della madre. Il mondo in cui vi è tenerezza e amore.
Servitù, dolore, paura, amore sono i sentimenti contradditori che si agitano nell'anima del bambino che poco a poco diviene cosiente di essi per il fatto stesso di aver varcato la soglia, per il fatto di trovarsi nel limbo della scuola.

Per Hegel, nella “Fenomenologia dello Spirito” la dialettica servo-padrone, è una figura del processo di formazione dell'autocoscienza. Il Signore è colui che sfida la morte e il dolore e per questa sua capacitá di sfida finisce per subordinare coloro che non sono in grado di affrontare queste realtá con altrettanta forza. Il Signore, peró, una volta costituitosi come tale dipende dal lavora del servo. È il servo che lo nutre e gli permette di restare in vita e nello stesso tempo e il servo che lo separa dalla realtá, dalle condizioni reali della sua stessa riproduzione nel tempo come individuo. Il padrone non puó piú fare a meno del servo.

Questo schema del pensiero hegeliano è chiaramente semplificato nella relazione tra Paco e Humberto.

Humberto ha assoluto bisogno di Paco per sopravvivere nella scuola. Ha necessitá che Paco stia nel suo stesso banco. È costretto a dipendere da Paco per poter svolgere i compiti e per poter avere un quadro accettabile della realtà. Humberto dice al maestro che in casa sua i pesci vivono sul tappeto del salotto di casa perché suo padre ha molto denaro e quindi in casa sua i pesci non hanno bisogno dell'acqua. Humberto non ha quindo quasi nessun rapporto con la realtá del mondo. Paco sa cosa è un pesce, sa che cosa è la morte e sa che cosa è il dolore. Per questo Humberto ha bisogno di Paco per poter sopravvivere nello spazio limbico della scuola.
È Humberto che ha bisogno di Paco e non Paco di Humberto. È Humberto che dipende da Paco.
A questo punto la relazione servo-signore, come in Hegel, risulta invertita. Invertita peró in modo dialettico. Nel cortile o nell'aula della scuola la relazione tra Paco e Humberto si inverte pur restando anche sempre la stessa. Restando cioè anche quella che è fuori della scuola.
Paco si trova preso nel compito di conseguire la consapevolezza di questa realtá e le sue lacrime alla fine del racconto sono il primo paso in questa direzione.

Paco Yunque non si chiude dunque su una nota disperata ma si apre su di un processo di liberazione e di conquista della dignitá nella sua fase embrionale.
genseki

lunedì, dicembre 01, 2008

likenart

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Argerich Gaspard de la Nuit - Scarbo

Guardó sotto il letto, nel camino e nella credenza: nessuno. Non riuscí a capire da dove fosse entrato e da dove, poscia, se ne fosse uscito.
Hoffmann
Notturni

Oh! Quante volte ho visto e udito Scarbo, quando a mezzanotte la luna brilla nel cielo come uno scudo d'argento su una bandiera di lapislazzulo costellata di api dorate.

Quante volte l'ho udito ronzare, il suo riso, nell'ombra della mia alcova e stridere la sua unghia sulla seta delle cortine del mio letto.!

Quante volte l'ho visto scendere dal soffitto, fare le capriole con un piede solo e rotolare per la camera come il fuso caduto dalla conocchia di una strega!

Credevo che fosse svenuto? Cresceva, il nano, tra me e la luna come fosse il campanile di una cattedrale gotica, un sonaglio d'ro in movimento sul berretto appuntito.

Presto, peró, il suo corpo azurrava, trasparente come la cera d'una candela, il suo volto impallidiva come la cera di un lumicino, e - di colpo si spegneva.

A. Bertrand
trad. genseki

Gaspard de la nuit


Lo scolaro di Leida


Le precauzioni non sono mai abbastanza con i tempi che corrono, soprattutto da quando i falsari si sono stabilito nel nostro paese.


L'assedio di Berg-op-zoom


***


Si siede nella sua poltrona di velluto di Utrecht, Mastro Bissio, il mento nel suo colletto finemento ricamato, come un pollo che il cuoco abbia arrostito in un tegame di ceramica.


Si siede al suo banco per registrare la moneta di mezzo fiorino; io, povero scolaro di Leida, non ho che un berretto e un par di braghe bucati, e resto dritto su un piede solo come una gru su di un palo.


Ecco il bilancino che esce dalla sua custodia di lacca decorata di strane figurine cinesi, come un ragno, che ripiegando le sue braccine lunghe si rifugia in un tulipano dalle sfumature di mille colori.


Dalla sua faccia allungata, dal tremito delle sue dita secche secche che saggiano i pezzi d'oro, Mastro Bessio sembrerebbe propio un ladro colto sul fatto e obbligato con una pistola puntata alla gola a restituire a Dio ció che gudagnó come mercede del diavolo.


Il mio fiorino che esamini con la tua lente è meno equivoco e meno losco che il tuo occhietto grigio che fuma come uno stoppino mal spento.
Il bilancino è rientrato nella sua scatolina di lacca su cui brillano le figurine cinesi, Mastro Bessio si soleva un pochino dalla sua poltrona di velluto di Utrecht, e io, povero scolaro di Leida con le scarpe e le calze bucate, mi inchino fino al suolo e esco come un gambero.


trad genseki

Preghiera prima della studio

Tomaso d'Aquino

O Creatore ineffabile, che con il tesoro della tua sapienza hai tre gerarchie angeliche e le hai disposte sul cielo empireo in un ordine meraviglioso, tu che hai dsistribuito con suprema eleganza gli elementi dell'universo. Ti che sei detto fonte della luce e della sapienza, principio supereminente, degnati di illuminare con i raggi del tuo chiaro splendore le duplici oscure tenebre del mio intelletto, con le quali sono nato, ovvero il peccato e l'ignoranza. Tu che conferisci alla lingua degli infanti la facoltá di parlare, istruisci la mia lingua e poni sulle mie labbra il dono della tua benedizione.
Concedimi l'acume dell'intelligenza, la capacitá di assimilare, metodo efacilitá nell'apprendere, intuizione nell'interpretare, e una fluente eloquenza. Veglia sulla preparazione, dirigi il progresso e conserva il frutto. Tu che sei vero Dio e vero uono e vivi nei secoli dei secoli. Amen.
trad genseki
***
CREATOR ineffabilis, qui de thesauris sapientiae tuae tres Angelorum hierarchias designasti et eas super caelum empyreum miro ordine collocasti atque universi partes elegantissime distribuisti: Tu, inquam, qui verus fons luminis et sapientiae diceris ac supereminens principium, infundere digneris super intellectus mei tenebras tuae radium claritatis, duplices, in quibus natus sum, a me removens tenebras, peccatum scilicet et ignorantiam. Tu, qui linguas infantium facis disertas, linguam meam erudias atque in labiis meis gratiam tuae benedictionis infundas. Da mihi intelligendi acumen, retinendi capacitatem, addiscendi modum et facilitatem, interpretandi subtilitatem, loquendi gratiam copiosam. Ingressum instruas, progressum dirigas, egressum compleas. Tu, qui es verus Deus et homo, qui vivis et regnas in saecula saeculorum. Amen

domenica, novembre 30, 2008

Epistola sul metodo di studio


Tomaso D’Aquino


Epistola sul metodo di studio


Carissimo Giovanni, amico mio in Cristo, siccome mi hai chiesto in che modo tu debba impegnarti per acquisire il tesoro della scienza ti do questo consiglio: scegli di bagnarti prima nei ruscelli e non subito nel mare, perché occorre giungere alle cose più difficili passando per quelle più facili. Questo è il mio insegnamento e la tua istruzione: ti ordino di non essere precipitoso nel parlare, lentro ad entrare nei discorsi; difendi la purezza della coscienza. Non tralasciare di dedicarti alla preghiera. Ama la tua cella se vuoi entrare in quella che custodisce il vino. Mostrati amabile con tutti; non chiedere mai nulla che riguardi i fatti degli altri; non mostrare molta familiarità, perché la familiarità eccessiva genera il disprezzo e fornisce pretesti per sottrarsi allo studio; non intrometterti in nessun modo nelle parole e nei fatti dei laici; evita soprattutto di andare a zonzo senza scopo; non trascurare di imitare l’esempio dei santi e dei buoni; non distoglierti da quello che odi, ma custodisci nella memoria tutte le cose buone che vengono dette; cerca di capire ciò che odi o leggi; cerca di chiarificare i dubbi; datti da fare per riporre nello scrigno della mente tutto quello che potrai come se volessi colmarne il vaso; non cercare cose più alte. Seguendo questo sentiero produrrai frutti fecondi e le tue fronde si estenderanno nella vigna del Signore Sabaoth per tutti i giorni della tua vita. Se seguirai queti insegnamente potrai giungere a ciò che aspiri.


Trad. genseki


***

sabato, novembre 29, 2008

Gilles de Rais II


Le armate inglesi si congiungevano, inondavano il paese, si estendevano sempre di più, invadevano il Centro. Il re pensava a ripiegare nel Sud, ad abbandonare la Francia; fu allora che apparve Giovanna D’Arco.
Gilles ritorna allora presso Carlo che gli affida la guardia e la difesa della Pulzella. Egli la segue dovunque, l’assiste nelle battaglie, anche sotto le mura di Parigi, è accanto a lei a Reims nel giorno della consacrazione, quando il Re a motivo del suo valore lo crea Maresciallo di Francia a venticinque anni!
Come si comportò Gilles de Rais con Giovanna D’Arco? Non abbiamo informazioni. Vallet de Viriville l’accusa di tradimento senza però portare nessuna prova. L’abate Bossard afferma al contrario che gli fu fedele e che lealmente vegliò su di lei portando ragioni plausibili a suffragio della propria opinione. Quello che è certo è che si trattava di un uomo la cui anima era saturata di idee mistiche come prova tutta la sua storia. Visse a fianco di questa fanciulla straordinaria le cui avventure sembrano attestare che un intervento divino negli avvenimenti di quaggiù è veramente possibile.
Assiste al miracolo di una contadinotta che piega una corte di cialtroni e di banditi, rianima un Re vile e in procinto di fuggire. Assiste all’incredibile episodio di una vergine che conduce come un gregge docile al suo gesto dei tipi come La Hire, Xaintrailles, Beaumanoir, Chabannes, Dunois e Goncourt vecchie belve che belano al suo comando e rivestono l vello degli agnelli. Anche lui, come loro bruca l’erba bianco delle prediche, fa la comunione, venera Giovanna come una santa. Vede infine che la Pulzella mantiene le sue promesse. Toglie l’assedio di Orléans, fa consacrare il Re a Reims e dichiara, allora, ella stessa che la sua missione è terminata, domandando la grazia di potersene tornare a casa.
E’ facile scommettere che un tale ambiente abbia potuto esaltare il misticismo di Gilles; ci troviamo di fronte ad un uomo la cui anima è divisa tra l’ussaro e il monaco.
La Pulzella aveva portato a termine la sua missione. Che cosa avvenne di Gilles dopo ch’ella fu catturata, dopo la sua morte? Nessuno lo sa. Tutt’al più viene segnalata la sua presenza nei dintorni di Rouen quando viene istruito il processo; ma da questo non si può concludere, come fanno certi suoi biografi ch’egli nutrisse l’intenzione di salvarla.
Comunque, dopo aver perduto le sue tracce lo ritroviamo chiuso a ventisei anni nel suo castello di Tiffauges.
Il vecchio soldato che che era in lui scompare. Nello stesso tempo in cui iniziano i delitti cominciano a svilupparsi in Gilles l’artista e il letterato, debordano, lo incitano perfino, sulla spinta di un misticismo capovolto, alle più sapienti crudeltà, ai crimini più raffinati. E’ quasi isolato al tempo suo il barone de Rais! I suoi pari non sono che dei bruti, lui cerca le appassionate raffinatezze dell’arte, sogna una letteratura e lontana, compone persino un trattato sull’arte di evocare i demoni, adora la musica ecclesiastica, vuole circondarsi soltanto di oggetti introvabili, di cose rare.
Erudito latinista, conversatore spiritoso, amico generoso e fedele. Possedeva una biblioteca straordinaria per quei tempi in cui la lettura restava chiusa nei limiti della teologia o delle vite dei santi. Possediamo la descrizione di alcuni dei suoi manoscritti: Svetonio, Valerio Massimo, un Ovidio pergamenaceo, rilegato di cuoio rosso con fermaglio di vermiglio e chiave.
Era pazzo di questi libri e li portava con sé dovunque andasse; aveva assunto un pittore chiamato Thomas che li decorava con lettere miniate, lui stesso dipingeva smalti che uno specialista scovato con grande fatica incastonava nell’oro delle rilegature, I suoi gusti in fatto d’arredamento erano strani e solenni; restava senza fiato davanti alle stoffe abbaziali, alle voluttuose sete, alle tenebre dorate degli antichi broccati. Amava i piatti accuratamente speziati, i vini ardenti, resi cupi dagli aromi; sognava gioielli insoliti, metalli spaventosi, pietre di follia. Era il Des Esseintes del XV° secolo!
Ma tutto questo costava caro, anche se meno caro di quanto non costasse la corte fastosa che lo circondava a Tiffauges e rendeva questa corte un luogo unico. Aveva una guardia di più di duecento uomini, cavalieri, capitani, scudieri, paggi e tutti avevano a loro volta i propri servitori magnificamente equipaggiati a spese di Gilles. Il lusso della sua cappella e della collegiata tendevano positivimente alla demenza.
Traduzione e montaggio genseki

venerdì, novembre 28, 2008

césar vallejo - trilce

Trilce

Il racconto: “Al di lá della Vita e della Morte” configura un centro tematico e simbolico attorno al quale si organizzano molti dei testi di Trilce.
Il viaggio che è un “nostos” e una “nekuya” andini, la porta serrata, la casa vuota, la vertigine della natura minerale, sono elementi che generano un certo numero di testi importanti della seconda raccolta di Vallejo.
Eccone alcuni:


XLVI

Il vespro culinario si trattiene
Alla mensa alla qualte ti nutristi
Morto di fame viene il tuo ricordo
Senza neppure bere di tristezza
Ma come sempre umile accconsenti
Che ti si offra la bontá più triste.
Gustare tu non vuoi se sai chi viene
Come figlio alla mensa ove mangiasti
Il vespro culinario ti scongiura
Ti piange nel grembiale tanto sudicio
Che ci comincia a piangere di udirci
Anch'io mi sforzo perché non c'è piú
Corraggio per servirsi questo pollo.
Ahi che non ci serviremo piú di nulla.

*

XXIII

Forno rovente di quei miei biscotti
Puro tuorlo infantile, innumerevole madre
I tuoi quattro colletti. paurosamente
Mal pianti, madre: i tuoi mendichi
Le due sorelline. Miguel che è morto
E io che ancora trascino
Una treccia per ogni lettera del abecedario.
Nella sala di sopra ci spartivi
Quelle tue ostie così ricche di tempo
Perché ci avanzassero ora
Gusci d'orologio in flessione di mezzanotte
Fermi in orario.
Madre, e ora! Ora in qual alveolo
Resteresti, in che germoglio capillare,La briciola che oggi si lega al mio collo
Passare non vuole. Oggi quando persino
Le tue pure ossa saranno farina
Di cui non si fará pasta
Dolce pasticcera d'amore,
Anche nell'ombra cruda, anche nel gran molare
La cui gengiva pulsa nella lattea fossetta
Che occulto si prepara pulllante! Quanto lo hai visto!
Nelle manine novelle strette strette,
Anche la terra udrá nel tuo silenzio
Come tutti ci chiedano l'affitto
Del mondo in cui ci abbandoni
E il prezzo del pane inesauribile.
Ce lo fanno pagare, quando, eravamo piccini
Allora, come sai,
Non lo avevamo portato via
A nessuno; ce lo hai dato tu,
Mamma! Non è vero?

Trad genseki

Ibn Masarra di Almeria



parte I


Ibn Masarra


Pare che fosse un gigante biondo. Sicuramente un uomo piú alto e corpulento della media. In Africa lo ritenevano un siciliano. Forse per l'azzurro degli occhi.
Di lui non ci è pervenuta nessua opera, nessuna frase. Anche la memoria del suo nome andó perduta per molti secoli e fu riesumata da un dotto Castigliano, acuto, cattolico, miope e sprezzante come Asin Palacios.
Delle sue opere non ci sono giunti nemmeno i titoli, forse, solo di due possiamo ricostruirli con una certa sicurezza: “Kitâb al-tabsira” e Kitab al-horûf”.
Ibn Masarra fu un maestro precoce appena diciassettenne nell'anno 899 giá pare potesse contare su di un congruo numero di discepoli con cui viveva ritirato in una proprietá della Sierra di Cordova.


Il Viaggio in Oriente


Con due di questi discepoli intraprese un lungo viaggio in Oriente, giunse fino a Medina e fino alla Mecca dove incontrò molti importanti maestri dalla cui esperienza apprese la necessitá e le forme di un rigoroso esoterismo.
L'Islam viveva in quegli anni un rigoglioso periodo creativo. Secondo quanto scrive Garaudy Ibn Masarra venne a contatto, nel corso di questo viaggio, soprattutto con il pensiero di Al-Razhi che fu un avversario dell'aristotelismo e del fanatismo religioso allo stesso tempo. Tra le sue opere vi è una “Critica della Religione”. Al-Rhazi puó essere considerato un filosofo della natura nel senso presocratico.
“L'anima è il movimento che orienta ogni essere verso il suo fine. È il progetto di essere. E se si svia da questo fine non sará mai capace di pretendere l'eternitá non essendo niente altro che un progetto abortito”. Al-Razhi considerava necessaria una interpretazione simbolica delle scritture e riconosceva il valore di tutte le religioni.”


I fratelli della purezza


A Bassora studió il razionalismo mo'tazilita e fu influenzato dai “Fratelli della purezza” (ikhwan as-safá) che cercavano una sintesi tra la scienza del tempo e la religione.
Secondo questa scuola rigorosamente esoterica:


“Tutti i profeti annunciano la stessa religione. La religione di tutti i profeti mostra lo stesso cammino e invita in una stessa direzione: il perfezionamento dell'anima umana, la liberazione dal mondo della generazione e della corruzione e l'entrata nel sentero che conduce alla vita eterna”.


La maggior parte degli uomini, peró: “confonde la religione (dîn) con la legge (Sharia)”. La prima non è soggetta a nessuna imposizione.


I “Fratelli della Purezza”sono riconducibili all'ambito ismailita e il loro insegnamento fu esposto in una vera e propria enciclopedia consistente in 52 lettere (Rasa'il Ikhwan as-Safa). La confraternitá si riuniva regolarmente secondo un caledario prestabilito, sembra tre volte al mese: la prima dedicata all'insegnamento, la seconda all'osservazione astronomica e astrologica e la terza alla composizione de esecuzione di inni dal contenuto filosofico. La scuola era organizzata in una gerarchia basata, non rigidamente sull'etá. I gradi gerarchici erano quattro:



  • Gli artigiani: a partire da 15 anni
    I dirigenti politici: a partire da 30 anni
    I re: a partire da 40 anni
    I profeti e i filosofi: a partire da 50 anni. Si trattava del grado angelico (al-martabat al-malkiyya).


I membri della scuola si riferivano a se stessi come: “coloro che dormono nelle grotte”.


Non sappiamo se e quanto dei principi che reggevano questa importante scuola siano stati adottati da Ibn Masarra e applicati nella direzione della comunitá della Sierra di Cordova.
I “Fratelli della Purezza” come gli altri gruppi ismailiti consideravano l'ambito della Rivelazione, anzi l'ambito delle rivelazioni come lo spazio proprio della libertá e dello sviluppo dell'Uomo nella sua interezza.
Questo spazio oggi è andato perduto. Le Rivelazioni si sono chiuse su se stesse, amputando l'anima umana di una parte forse decisiva del suo mondo.
Certamente questa libertá e questo spazio furono il tesoro che Ibn Masarra portó con sé da Bassora a Cordova.


Duh'l Nun l'Egiziano


Sempre secondo Garaudy Ibn Masarra conobbe in Egitto Duh'l Nun, un grande maestro Sufi che viveva asceticamente nel deserto ossessionato dal desiderio dell'unione don Dio.
Attraverso di lui Ibn Masarra conobbe lo gnosticismo neoplatonico. Questo pensiero si era diffuso nel mondo islamico attraverso due opere apocrife: “La teologia di Aristotele” che è una compilazione delle Enneadi di Plotino , precisamente della IV, V, VI e una raccolta di scritti attribuiti ad Empedocle che contenvano, invece, una sintesi del pensiero dei neoplatonici alessandrini. Il tema di queste opere 'e la ricerca dell'Unitá con l'Uno. Duh'l Nun definiva l'unitá con Dio nel modo seguente:


“L'autentica conoscenza dell'Uno è il cuore illuminato da Dio stesso”,


commentando cosí un importante hadith del Profeta:


“Quando amo il mio servo, Io, il Signore, sono le sue orecchie, affinché egli possa udire per mezzo mio; la sua lingua perché possa parlare per mezzo mio, e la sua mano, perché per mezzo mio possa agire”.


Il Ritorno a Cordova


Ritornato nella Sierra di Cordova riprese il suo insegnamento avvolto in uno spesso manto di simboli esoterici. Organizzó la sua scuola in senso strettamente gerarchico, ponendo tutta la sua attenzione nella scelta di pochi discepoli e nella loro direzione spirutuale. Qui egli realizzó la prima sintesi filosofica delle tradizioni mistiche dell'Asia e dell'Africa.
Nella Sierra di Cordova morí, a soli cinquant'anni, circondato dall'ostilitá dei religiosi ortodossi.


A cura di genseki

mercoledì, novembre 26, 2008

Huerta

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Il cristianesimo di Kojève



Nella “natura umana” del Cristo l’essenza umana è legata in modo biunivoco e necessario al corpo umano. Fatto che obbliga ad ammettere che questo legame è definitivamente necessario anche in tutti gli uomini, essendo lo stesso dovunque e sempre.
Ti p. 340
*
In assenza del dogma dell’Incarnazione e quindi della Trinità, i teologi ebrei e mussulmani non poterono opporsi alla filosofia (paritetica) pagana che proponendo al suo posto soltanto il dogma della Creazione. Ora, questo dogma afferma il carattere arbitrario di tutti i legami di cui si parla ed esclude così la Filosofia in quanto tale, dal momento che rende impossibile parlare del Concetto. È per questo che non c’è mai stata in nessun luogo una filosofia giudaica o islamica ma soltanto una teologia (monoteista). Soltanto il Cristianesimo ha potuto enunciare (per bocca di Kant) una Paratesi (sintetica) filosofica, grazie all’introduzione nel discorso filosofico dell’equivalente del dogma dell’Incarnazione. Ma è solo nel momento in cui il dogma della Trinità fu anch’esso introdotto nel discorso filosofico (da Hegel), cioè nel momento in cui l’insieme del discorso teologico (cristiano) fu trasformato in un solo e medesimo discorso filosofico, che questo si trasforma (per questo stesso fatto) nel sistema del sapere hegeliano.
Ti p. 341
*
Dalla sua origine , il Cristianesimo si presenta come una specie di Paratesi, che si situa nell’Universo tra la tesi ellenica e l’Antitesi ebraica. San Paolo proclama la saggezza cristiana come una doppia negazione delle tesi contrarie (“Follia per i Greci, scandalo per gli Ebrei”).
Ma se la mistica radicale sembra aver accettato in un sol colpo il Silenzio a cui equivale la negazione paolina della copia antitetica, il Cristianesimo discorsivo si è sforzato fin dall’inizio di sostituire al ne…ne di S. Paolo la paratesi classica del e…e, cioè della doppia affermazione parziale e più parziale delle tesi contraddittorie che supponeva il discorso cristiano.
D’altra parte il Cristianesimo si inserisce, fin dal principio nel quadro ellenistico nel senso che il dogma ebraico si esprime discorsivamente, in quanto dottrina cristiana in un Universo dominato dal discorso ellenico. In altri termini, in e per la paratesi cristiana, l’antitesi giudaica suppone come posta la tesi pagana enunciata dai Greci. È dunque negando il Paganesimo che il cristianesimo si afferma. Ma si distingue dal Giudaismo in quanto compromesso paritetico, ove il Paganesimo tetico è negato solo parzialmente, con l’obiettivo di integrarlo da quanto conserva del Giudaismo antitetico. La proporzione dell’uno e dell’altro variò nel corso del tempo, mano a mano che si esplicitava la “contraddizione in termini” inerente al Cristianesimo preso e compreso quale paratesi discorsiva.
Dal punto di vista che ci interessa qui, due miti giudaici escludevano la possibilità di qualsiasi filosofia. Da un lato il mito della creazione del mondo ex nihilo per un atto di volontà “libero” dell’uno-completamente-solo” di Parmenide affermava, (almeno implicitamente), il carattere arbitrario del legame tra l’Essenza e il Corpo in tutto ciò che esiste empiricamente in quanto oggetto. D’altra parte, il mito della creazione del Discorso ad opera di Adamo, che chiamava tutti gli oggetti come gli pareva, stabilisce (esplicitamente) il carattere arbitrario del legame tra Senso e Morfema nella Nozione “in generale”. Ora se tutte le relazioni sono arbitrarie, ha tanto senso parlare di Concetto come se fossero necessarie. E nella misura in cui il dogma tetico della Scienza greca affermava il carattere necessario di tutte le relazioni, la negazione totale di questa necessità (cioè “l’affermazione” della non-necessità di tutte le relazioni) ad opera del dogma della teologia ebraica costituiva un’autentica antitesi. TI p. 191-192
*
Se per assurdo, si potesse eliminare Dio nel Giudaismo, tutte le relazioni del mondo sarebbero per questo giudaismo ateo tanto necessarie quanto lo sono per la Scienza “laica” dei Greci.
Detto altrimenti, basterebbe sottomettere a una “legge” necessaria la volontà del solo Dio, perché il dogma “giudaico” coincida con il dogma scientifico dei Greci. Inversamente, basta introdurre nella “legge bronzea” (“ananke” riconosciuta da quest’ultimo un elemento di “volontà libera” – oppure di azione “cosciente e volontaria” -) perché questa dogma assuma una colorazione (più o meno) “giudaica” (cioè teologica). E questo è precisamente quello che cerca di fare la dogmatica paritetica cristiana.
Ma se il monoteismo predestinava il Giudaismo (religioso) a subire un “compromesso” paritetico con il Paganesimo (scientista), la cristologia incitava il cristianesimo (moralizzante) a promuovere questo compromesso. In effetti, a parte qualche “miracolo”, il giudaico incarnato (in quanto Logos) subiva la necessità delle relazioni in questo mondo e le consacrava in quanto necessaria. Nella durata-estensione del Mondo, le essenze si collegavano in modo biunivoco e necessario ai loro rispettivi corpi in tutti gli oggetti, nella stessa misura in cui questo insieme era il mondo in cui viveva il dio incarnato, o doveva diventare un tale mondo, o già lo era stato. Detto altrimenti, il Mondo cristiano ove ha vissuto incarnato il Dio giudaico è un Cosmos della scienza greca che ha ricevuto un fine, cioè uno scopo e un termine finali, determinanti il suo proprio inizio. TI p. 192-193

Trad. genseki

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Dans la "nature humaine" du Christ, l’essence humaine est liée d’une façon bi-univoque et nécessaire au corps humain. Ce qui fait admettre que ce lien est tout aussi nécessaire dans tous les hommes quels qu’ils soient, étant le même partout et toujours. TI p340
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En l’absence du dogme de l’Incarnation et donc de la Trinité, les théologiens juifs et musulmans ne purent s’opposer à la philosophie (parathétique) païenne qu’en proposant à sa place le seul dogme de la Création. Or, ce dogme affirme le caractère arbitraire de toutes les liaisons dont on parle et exclut ainsi la Philosophie en tant que telle, puisqu’il rend impossible de parler du Concept. C’est pourquoi il n’y a jamais eu nulle part de philosophie judaïque ou islamique mais seulement une théologie (mono-théiste). Seul le Christianisme a pu énoncer (par la bouche de Kant) une Parathèse (synthétique) philosophique, grâce à l’introduction dans le discours philosophique de l’équivalent du dogme de l’Incarnation. Mais ce n’est qu’au moment où le dogme de la Trinité fut lui aussi introduit (par Hegel) dans le discours philosophique, c’est-à-dire au moment où l’ensemble du discours théologique (chrétien) fut trans-formé en un seul et même discours philosophique, que celui-ci se trans-forme lui-même (de ce fait même) en Système du Savoir hégélien. TI p341
*
Dès son origine, le Christianisme se présente lui-même comme une sorte de Para-thèse, qui se situe dans l’Univers entre la Thèse hellène et l’Anti-thèse hébraïque. Saint Paul proclame la sagesse chrétienne comme une double négation des thèses contraires ("folie pour les Grecs, scandale pour les Hébreux"). Mais si la mystique radicale semble avoir accepté d’emblée le Silence auquel équivaut la négation paulinienne du couple antithétique, le Christianisme discursif s’est efforcé dès le début de substituer au ni-ni de saint Paul la Para-thèse classique du et-et, c’est-à-dire de la double affirmation partielle et plus ou moins partiale des thèses contra-dictoires que sup-posait le discours chrétien.
Par ailleurs, le Christianisme s’insère dès le début dans le cadre hellénistique en ce sens que le dogme hébreu s’exprime discursivement, en tant que doctrine chrétienne, dans un Univers dominé par le discours hellène. En d’autres termes, dans et par la Para-thèse chrétienne, l’Anti-thèse du Judaïsme suppose comme posée la Thèse païenne énoncée par les Grecs. C’est donc en niant le Paganisme que le Christianisme s’affirme. Mais il se distingue du Judaïsme en tant que compromis para-thétique, où le Paganisme thétique n’est nié que partiellement, en vue d’être complété par ce qui est retenu du Judaïsme antithétique. La proportion de l’un et de l’autre ayant d’ailleurs varié au cours du temps, au fur et à mesure que s’explicitait la "contradiction dans les termes" inhérente au Christianisme pris et compris en tant que Para-thèse discursive.
Du point de vue qui nous interresse ici, deux mythes judaïques excluaient la possibilité de toute philosophie quelle qu’elle soit. D’une part, le mythe de la création du monde ex nihilo par un acte de volonté "libre" de l’Un-tout-seul parménidien affirmait (du moins implicitement) le caractère arbitraire du lien entre l’Essence et le Corps dans tout ce qui existe-empiriquement en tant qu’Objet. D’autre part, le mythe de la création du Discours par Adam, qui nommait comme bon lui semble tous les objets quels qu’ils soient, établit (explicitement) le caractère arbitraire du lien entre le Sens et le Morphème dans la Notion "en général". Or si toutes les liaisons sont arbitraires, il y a tout aussi peu de sens de parler du Concept que si toutes les liaisons sont nécessaires. Et dans la mesure où le dogme thétique de la Science hellène affirmait le caractère nécessaire de toutes les liaisons quelles qu’elles soient, la négation totale de cette nécessité (c’est-à-dire l’ "affirmation" de la non-nécessité de toutes les liaisons) par le dogme de la Théologie hébraïque constituait une anti-thèse authentique. TI 191-192
*
Si l’on pouvait par impossible, éliminer Dieu dans le Judaïsme, toutes les liaisons dans le Monde seraient pour ce Judaïsme athée tout aussi nécessaires qu’elles le sont pour la Science "laïque" des Grecs. Autrement dit, il suffirait de soumettre à une "loi" nécessaire la volonté du seul Dieu, pour que le dogme "judaïque" coïncide avec le dogme scientifique des Hellènes. Inversement, il suffit d’introduire dans la "loi d’airain" ("ananke" reconnue par ce dernier un élément de "volonté libre" (ou d’action "consciente et volontaire") pour que ce dogme prenne une coloration (plus ou moins) "judaïque" (c’est-à-dire théologique). Et c’est précisèment ce qu’essaye de faire la dogmatique parathétique chrétienne.
Mais si le monothéisme prédestinait le Judaïsme (religieux) à subir un "compromis" parathétique avec le Paganisme (scientiste), la christologie incitait le christianisme (moralisant) à promouvoir ce compromis. En effet, à quelques "miracles" près, le Dieu judaïque incarné (en tant que Logos) subissait la nécessité des liaisons dans ce monde et consacrait en quelque sorte celles-ci en tant que nécessaires. Dans l’ensemble de la durée-étendue du Monde, les essences se liaient d’une façon bi-univoque et nécessaire à leur corps respectifs dans tous les objets quels qu’ils soient, dans la mesure même où cet ensemble était le monde où vivait le Dieu incarné, ou devait devenir un tel monde, voire l’a déjà été. Autrement dit, le Monde chrétien où a vécu incarné le Dieu judaïque est un Cosmos de la science hellène qui a reçu une "fin", c’est-à-dire un but et un terme final, déterminant son propre commencement. TI 192-193
*