Dileguandosi l'ombra, In lontananza d'anni, Quando non laceravano gli affanni,
L'allora, odi, puerile Petto ergersi bramato E l'occhio tuo allarmato Fuoco incauto svelare dell'Aprile Da un'odorosa gota.
Scherno, spettro solerte Che rendi il tempo inerte E lungamente la sua furia nota:
Il cuore roso, sgombra!
Ma potrà, mute lotte Sopite, dileguarsi da età, notte? Il. La sera si prolunga Per un sospeso fuoco E un fremito nell'erbe a poco a poco Pare infinito a sorte ricongiunga.
Lunare allora inavvertita nacque Eco, e si fuse al brivido dell'acque. Non so chi fu più vivo, n sussurrio sino all'ebbro rivo O l'attenta che tenera si tacque. III Ora il vento s'è fatto silenzioso E silenzioso il mare; Tutto tace; ma grido . Il grido, sola, del mio cuore , Grido d'amore, grido di vergogna Del mio cuore che brucia Da quando ti mirai e mi hai guardata E più non sono che un oggetto debole.
Grido e brucia il mio cuore senza pace Da quando più non sono Se non cosa in rovina e abbandonata. VII. Nella tenebra muta Cammini in campi vuoti dogni grano: Altero al lato tuo più niuno aspetti. VIII. Viene dal mio al tuo viso il tuo segreto; Replica il mio le care tue fattezze; Nulla contengono di più i nostri occhi E, disperato, il nostro amore effimero Eterno freme in vele d'un indugio. X. Non odi del platano Foglia non odi a un tratto scricchiolare Che cade lungo il fiume sulle selci?
Il mio declino abbellirò stasera; A foglie secche si vedrà congiunto Un bagliore roseo. XIII. Sceso dall'incantevole sua cuspide Se ancora sorgere dovesse Il suo amore, impassibile farebbe Numerare le innumere sue spine Spargendosi nelle ore, nei minuti. Spargendosi nelle ore, nei minutì XIV Per patirne la luce, Gli sguardi tuoi, che si accigliavano Smarriti ai cupidi, agl'intrepidi Suoi occhi che a te non si soffermerebbero Mai più, ormai mai più. Per patirne l'estraneo, il folle Orgoglio che tuttora adori, A tuoi torti con vana implorazione La sorte imputerebbero Gli ormai tuoi occhi opachi, secchi; Ma grazia alcuna più non troverebbero, Nemmeno da sprizzarne un solo raggio, Od una sola lacrima, Gli occhi tuoi opachi, secchi,
Opachi, senza raggi. XV. Non vedresti che torti tuoi, deserta, Senza più un fumo che alla soglia avvii Del sonno, sommessamente. XIX. Deposto hai la superbia negli orrori, Nei desolati errori.
Possa la strada venirti incontro; possa il vento soffiare sempre alle tue spalle; possa il sole splendere sempre sul tuo viso e la pioggia cadere soffice sul tuo giardino e fino a che non ci incontreremo di nuovo possa Dio tenerti nel palmo della Sua mano
Die Wise teaches the skills of dying, skills that have
to be learned in the course of living deeply and well. Not a seven step
coping strategy, not an out-clause for trauma or sorrow, Die Wise is
for everyone who, hell or high water, is not going to pull off eternity
after all. Dying is not the end of wisdom and wisdom not exhausted by
dying. Dying could be and must be the fullest expression and incarnation
of what you’ve learned by living. It’s a moral obligation to die well.
If you love somebody, if you care about the world that’s to come after
you, if you want somebody to be spared the lunacy of what you’ve seen,
you’ve got to die wise.
The Gospel contains a fairy-story, or a story of a larger kind which
embraces all the essence of fairy-stories. They contain many
marvels—peculiarly artistic, beautiful, and moving: ‘mythical’ in their
perfect, self-contained significance; and among the marvels is the
greatest and most complete conceivable eucatastrophe. But this story has
entered History and the primary world; the desire and aspiration of
sub-creation has been raised to the fulfillment of Creation. The Birth
of Christ is the eucatastrophe of Man’s history. The Resurrection is the
eucatastrophe of the story of the Incarnation. . . . To reject it leads
either to sadness or to wrath.
Tolkien, “On Fairy-Stories,” 155-56
domenica, dicembre 27, 2015
+ B A R T O L O M E O
PER GRAZIA DI DIO ARCIVESCOVO DI COSTANTINOPOLI
NUOVA ROMA E PATRIARCA ECUMENICO
A TUTTO IL PLEROMA DELLA CHIESA
GRAZIA, MISERICORDIA E PACE DA CRISTO SALVATORE
NATO A BETLEMME
Fratelli e Figli amati nel Signore,
La
dolcezza della Santa Notte di Natale avvolge ancora una volta il mondo.
E nel mezzo delle pene e delle sofferenze dell’umanità, della crisi e
delle crisi, delle passioni e delle inimicizie, delle insicurezze e
delle delusioni prevale con lo stesso fascino di sempre, reale e attuale
come mai, il mistero della incarnazione di Dio, che ci spinge a
“imparare la giustizia, noi abitanti della terra” (Is. 26,9), poiché
“per noi oggi è nato un Salvatore” (Lc. 2,11).
Purtroppo,
tuttavia, nella nostra epoca molti uomini pensano come quell’uccisore
di bambini, Erode, quell’ignobile e spietato, e annientano il loro
prossimo in svariati modi. La mente distorta dal proprio egocentrismo
del dominatore di tale mondo, che viene personificata nel volto omicida
di Erode, ha visto paradossalmente un pericolo per la propria
esistenza, la nascita di un bambino innocente. E come modo più opportuno
per proteggere il proprio potere mondano dal pericolo che gli ispirava –
dal suo punto di vista – la nascita del bambino, ha scelto di
annientarlo.
Per
salvarsi dalle intenzioni omicide, il Bambino Gesù, di cui ne hanno
parlato gli Angeli, fu obbligato a fuggire in Egitto, costituendo così,
diremmo secondo la terminologia della nostra epoca, “un rifugiato
politico”, unitamente a Maria, Sua Madre, la Santissima Madre di Dio e a
Giuseppe suo sposo.
Nella
nostra epoca, considerata come un’epoca di progresso, molti bambini
sono costretti a diventare profughi, seguendo i propri genitori, per
salvare la propria vita, vita che i loro molteplici nemici guardano con
sospetto. Tale fatto costituisce una ignominia per il genere umano.
Perciò
anche durante la Nascita del Bambino Gesù, il nostro vero redentore e
Salvatore, dal Santissimo Trono Ecumenico, Apostolico e Patriarcale
proclamiamo, che tutte le società devono assicurare una crescita serena
dei bambini e rispettare il loro diritto alla vita, alla educazione e
alla loro crescita sociale, che può essere loro assicurata dalla
alimentazione e dalla istruzione nell’ambito della famiglia
tradizionale, con base i principi dell’amore, della filantropia, della
pace, della solidarietà, beni che il Signore incarnato ci offre .
Il
Salvatore che è nato, chiama tutti ad accogliere questo messaggio di
salvezza degli uomini. E’ vero che lungo la storia dell’uomo, i popoli
hanno effettuato molte migrazioni ed insediamenti. Speravamo tuttavia
che dopo le due guerre mondiali e le dichiarazioni sulla pace di leader
ecclesiastici e politici e di organismi, le società odierne avessero
potuto assicurare la convivenza pacifica degli uomini nei propri paesi. I
fatti purtroppo deludono la speranza, in quanto grandi masse di esseri
umani, difronte alla minaccia del loro annientamento, sono obbligati a
prendere la via della migrazione.
Tale
situazione creatasi, con l’onda continuamente crescente dei profughi,
accresce la nostra responsabilità, quanti abbiamo ancora la benedizione
di vivere in pace e con qualche comodità, a non restare insensibili
davanti al dramma giornaliero di miglia di nostri fratelli, ma ad
esprimere loro la nostra tangibile solidarietà e amore, con la certezza
che ogni beneficenza verso di loro, giunge al volto del Figlio di Dio
che è nato ed ha preso carne, il Quale non è venuto al mondo come un re,
o come un dominatore, o come un potente, o come un ricco, ma è stato
generato come un bimbo ignudo ed inerme, in una piccola stalla, senza un
focolare, così come vivono in questo momento migliaia di nostri
fratelli, ed è stato obbligato nei primi anni della Sua vita terrena a
espatriare in una terra lontana, per salvarsi dall’odio di Erode.
Potremmo dire, che la terra ed il mare bevono il sangue innocente dei
bambini dei profughi di oggi, mente la anima insicura di Erode “ha
ricevuto il giudizio”.
Questo
divino fanciullo nato e portato in Egitto, è il reale difensore dei
profughi di oggi, dei perseguitati dagli Erode di oggi. Egli, il
Bambino Gesù, il nostro Dio, “si è fatto debole con i deboli” (1 Cor.
9,22), simile a noi, ai privi di forza, agli umiliati, a coloro che sono
in pericolo, ai profughi. L’assistenza ed il nostro aiuto verso i
perseguitati ed i nostri fratelli deportati, indipendentemente dalla
razza, stirpe e religione, saranno per il Signore che nasce, doni assai
più preziosi dei doni dei magi, tesori più onorabili “dell’oro,
dell’incenso e della mirra” (Mt. 2,11), ricchezza spirituale
inalienabile e unica, che non si rovinerà per quanti secoli passeranno,
ma ci attenderà nel regno dei Cieli.
Offriamo
dunque ciascuno di noi, quanto possiamo al Signore, che vediamo nel
volto dei nostri fratelli profughi. Offriamo al piccolo Cristo partorito
oggi a Betlemme, questi venerabili doni dell’amore, del sacrificio,
della filantropia, imitando la sua benevolenza, e prosterniamoci a Lui
con gli Angeli, i magi ed i semplici pastori, gridando “gloria a Dio nel
più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc.
2,14), assieme a tutti i Santi.
La grazia e la copiosa misericordia del profugo Bambino Gesù, siano con tutti voi!
"Per arroganza, dallo splendore decadde al disprezzo di tutte le cose
salvo se stesso, spirito funesto ed impietoso. Trasformò l'intellezione
in sottigliezza pervertendo alla propria volontà quanto poteva
servirgli, fino a che divenne un bugiardo privo di qualsiasi vergogna.
Cominciò con il desiderio della Luce, ma quando non riuscì a possederla
esclusivamente per sé, calò, tra fuoco e ira, dentro un grande incendio,
giù nell'Oscurità."
“… We turned our backs upon the Spirit and embrace all that is
material with excessive and unwarranted zeal. This new way of thinking,
which has imposed upon us its guidance, did not admit the existence of
intrinsic evil in man nor did it see any higher task than the attainment
of happiness on earth. It based modern Western civilization on the
dangerous trend to worship man and his material needs… Merely freedom
does not in the least solve all the problems of human life and it even
adds a number of new ones.”
Ma l’idea di comunismo non poteva essere un’idea materialista: è
l’interno dell’uomo, quello che il capitalismo uccide. Il capitalismo è
esattamente questo: l’eliminazione dell’interiorità e quindi della
libertà. Bisognerebbe rilanciare, soprattutto agli occhi delle nuove
generazioni la passione rivoluzionaria del contrasto con tutta intera
l’organizzazione del mondo attuale e il rifiuto di tutto intero
l’attuale modo di vita. Queste scaramucce quotidiane contro questo o
quell’aspetto del quotidiano, decreti governativi, mutamenti
istituzionali, sistema di partito, la stessa contestazione dell’ordine
economico-finanziario, sia esso in crisi o in sviluppo, non funzionano
come politica veramente altra se non li metti dentro una strategia di
guerra globale allo stato di cose presente. Guerra civilizzata, come
abbiamo imparato dalla grande storia del movimento operaio e come si è
disimparato dalle mediocri esperienze delle varie sinistre
contemporanee.
I. The time will soon come when we
will not be able to remember the horrors of September 11 without
remembering also the unquestioning technological and economic optimism
that ended on that day.
II. This optimism rested on the proposition that we were
living in a “new world order” and a “new economy” that would “grow” on
and on, bringing a prosperity of which every new increment would be
“unprecedented”.
III. The dominant politicians, corporate officers, and
investors who believed this proposition did not acknowledge that the
prosperity was limited to a tiny percent of the world’s people, and to
an ever smaller number of people even in the United States; that it was
founded upon the oppressive labor of poor people all over the world; and
that its ecological costs increasingly threatened all life, including
the lives of the supposedly prosperous.
IV. The “developed” nations had given to the “free market” the
status of a god, and were sacrificing to it their farmers, farmlands,
and communities, their forests, wetlands, and prairies, their ecosystems
and watersheds. They had accepted universal pollution and global
warming as normal costs of doing business.
V. There was, as a consequence, a growing worldwide effort on
behalf of economic decentralization, economic justice, and ecological
responsibility. We must recognize that the events of September 11 make
this effort more necessary than ever. We citizens of the industrial
countries must continue the labor of self-criticism and self-correction.
We must recognize our mistakes.
VI. The paramount doctrine of the economic and technological
euphoria of recent decades has been that everything depends on
innovation. It was understood as desirable, and even necessary, that we
should go on and on from one technological innovation to the next, which
would cause the economy to “grow” and make everything better and
better. This of course implied at every point a hatred of the past, of
all things inherited and free. All things superseded in our progress of
innovations, whatever their value might have been, were discounted as of
no value at all.
VII. We did not anticipate anything like what has now
happened. We did not foresee that all our sequence of innovations might
be at once overridden by a greater one: the invention of a new kind of
war that would turn our previous innovations against us, discovering and
exploiting the debits and the dangers that we had ignored. We never
considered the possibility that we might be trapped in the webwork of
communication and transport that was supposed to make us free.
VIII. Nor did we foresee that the weaponry and the war science
that we marketed and taught to the world would become available, not
just to recognized national governments, which possess so uncannily the
power to legitimate large-scale violence, but also to “rogue nations”,
dissident or fanatical groups and individuals – whose violence, though
never worse than that of nations, is judged by the nations to be
illegitimate.
IX. We had accepted uncritically the belief that technology is
only good; that it cannot serve evil as well as good; that it cannot
serve our enemies as well as ourselves; that it cannot be used to
destroy what is good, including our homelands and our lives.
X. We had accepted too the corollary belief that an economy
(either as a money economy or as a life-support system) that is global
in extent, technologically complex, and centralized is invulnerable to
terrorism, sabotage, or war, and that it is protectable by “national
defense”
XI. We now have a clear, inescapable choice that we must make.
We can continue to promote a global economic system of unlimited “free
trade” among corporations, held together by long and highly vulnerable
lines of communication and supply, but now recognizing that such a
system will have to be protected by a hugely expensive police force that
will be worldwide, whether maintained by one nation or several or all,
and that such a police force will be effective precisely to the extent
that it oversways the freedom and privacy of the citizens of every
nation.
XII. Or we can promote a decentralized world economy which
would have the aim of assuring to every nation and region a local
self-sufficiency in life-supporting goods. This would not eliminate
international trade, but it would tend toward a trade in surpluses after
local needs had been met.
XIII. One of the gravest dangers to us now, second only to
further terrorist attacks against our people, is that we will attempt to
go on as before with the corporate program of global “free trade”,
whatever the cost in freedom and civil rights, without self-questioning
or self-criticism or public debate.
XIV. This is why the substitution of rhetoric for thought,
always a temptation in a national crisis, must be resisted by officials
and citizens alike. It is hard for ordinary citizens to know what is
actually happening in Washington in a time of such great trouble; for
all we know, serious and difficult thought may be taking place there.
But the talk that we are hearing from politicians, bureaucrats, and
commentators has so far tended to reduce the complex problems now facing
us to issues of unity, security, normality, and retaliation.
XV. National self-righteousness, like personal
self-righteousness, is a mistake. It is misleading. It is a sign of
weakness. Any war that we may make now against terrorism will come as a
new installment in a history of war in which we have fully participated.
We are not innocent of making war against civilian populations. The
modern doctrine of such warfare was set forth and enacted by General
William Tecumseh Sherman, who held that a civilian population could be
declared guilty and rightly subjected to military punishment. We have
never repudiated that doctrine.
XVI. It is a mistake also – as events since September 11 have
shown – to suppose that a government can promote and participate in a
global economy and at the same time act exclusively in its own interest
by abrogating its international treaties and standing apart from
international cooperation on moral issues.
XVII. And surely, in our country, under our Constitution, it
is a fundamental error to suppose that any crisis or emergency can
justify any form of political oppression. Since September 11, far too
many public voices have presumed to “speak for us” in saying that
Americans will gladly accept a reduction of freedom in exchange for
greater “security”. Some would, maybe. But some others would accept a
reduction in security (and in global trade) far more willingly than they
would accept any abridgement of our Constitutional rights.
XVIII. In a time such as this, when we have been seriously and
most cruelly hurt by those who hate us, and when we must consider
ourselves to be gravely threatened by those same people, it is hard to
speak of the ways of peace and to remember that Christ enjoined us to
love our enemies, but this is no less necessary for being difficult.
XIX. Even now we dare not forget that since the attack of
Pearl Harbor – to which the present attack has been often and not
usefully compared – we humans have suffered an almost uninterrupted
sequence of wars, none of which has brought peace or made us more
peaceable.
XX. The aim and result of war necessarily is not peace but
victory, and any victory won by violence necessarily justifies the
violence that won it and leads to further violence. If we are serious
about innovation, must we not conclude that we need something new to
replace our perpetual “war to end war?”
XXI. What leads to peace is not violence but peaceableness,
which is not passivity, but an alert, informed, practiced, and active
state of being. We should recognize that while we have extravagantly
subsidized the means of war, we have almost totally neglected the ways
of peaceableness. We have, for example, several national military
academies, but not one peace academy. We have ignored the teachings and
the examples of Christ, Gandhi, Martin Luther King, and other peaceable
leaders. And here we have an inescapable duty to notice also that war is
profitable, whereas the means of peaceableness, being cheap or free,
make no money.
XXII. The key to peaceableness is continuous practice. It is
wrong to suppose that we can exploit and impoverish the poorer
countries, while arming them and instructing them in the newest means of
war, and then reasonably expect them to be peaceable.
XXIII. We must not again allow public emotion or the public
media to caricature our enemies. If our enemies are now to be some
nations of Islam, then we should undertake to know those enemies. Our
schools should begin to teach the histories, cultures, arts, and
language of the Islamic nations. And our leaders should have the
humility and the wisdom to ask the reasons some of those people have for
hating us.
XXIV. Starting with the economies of food and farming, we
should promote at home, and encourage abroad, the ideal of local
self-sufficiency. We should recognize that this is the surest, the
safest, and the cheapest way for the world to live. We should not
countenance the loss or destruction of any local capacity to produce
necessary goods
XXV. We should reconsider and renew and extend our efforts to
protect the natural foundations of the human economy: soil, water, and
air. We should protect every intact ecosystem and watershed that we have
left, and begin restoration of those that have been damaged.
XXVI. The complexity of our present trouble suggests as never
before that we need to change our present concept of education.
Education is not properly an industry, and its proper use is not to
serve industries, either by job-training or by industry-subsidized
research. It’s proper use is to enable citizens to live lives that are
economically, politically, socially, and culturally responsible. This
cannot be done by gathering or “accessing” what we now call
“information” – which is to say facts without context and therefore
without priority. A proper education enables young people to put their
lives in order, which means knowing what things are more important than
other things; it means putting first things first.
XXVII. The first thing we must begin to teach our children
(and learn ourselves) is that we cannot spend and consume endlessly. We
have got to learn to save and conserve. We do need a “new economy”, but
one that is founded on thrift and care, on saving and conserving, not on
excess and waste. An economy based on waste is inherently and
hopelessly violent, and war is its inevitable by-product. We need a
peaceable economy.
Gli esseri umani non
si sono mai rassegnati ad essere semplicemente quello che sono: segnati
dal limite, dalla colpa, dal dolore, dalla morte, cercano nel culto,
nel mito, nell’ascesi, nella mistica, nel fare memoria e nel progettare,
delle vie verso un oltre rispetto a se stessi. Di tale oltre non
sanno molto, ma senza di esso non saprebbero realmente vivere. Una
forma contemporanea di tale impazienza nei confronti della condizione
umana è legata ai recenti sviluppi dell’intelligenza artificiale.
Internet ne è il simbolo.
Già oggi, e in modi assolutamente imprevedibili per una persona
anziana che ripensi alla propria giovinezza, l’uomo contemporaneo è
“aumentato” rispetto a quel che era. E – in non pochi ambiti – ha fin
d’ora superato se stesso. Ne è segno tangibile il rapporto con il tempo e
con lo spazio, ridotti l’uno e l’altro a una immediatezza un tempo
inimmaginabile, non soltanto per quanto riguarda le informazioni, ma
pure per quanto riguarda le decisioni. In questo senso, siamo già nel
“transumanesimo”: stiamo passando da una condizione umana a un’altra[1].
E sembra che non ci siano ragioni per le quali tutto questo dovrebbe
fermarsi, dato che le realizzazioni e le prospettive future
dell’intelligenza artificiale non presentano limiti. Sembrerebbe che
tutto consista nel trasferire le prestazioni di quest’ultima
all’interno dell’uomo stesso, offrendo così ad esso, attraverso le
risorse delle nano-scienze e delle nanotecnologie, una liberazione
completa da quelle condizioni contingenti che lo mantengono ancora
legato al proprio corpo (spazio), un corpo limitato nella sua longevità
(tempo) e, in ultima istanza, sottomesso alla morte. L’intelligenza
artificiale permette non solo di sviluppare il “transumano”, ma anche di
immaginare il “post-umano” e di intravedere ciò che viene chiamato la
“singolarità”, ovvero il momento in cui tutto sarà ribaltato in una
intelligibilità pura ed efficace, verso la quale fin d’oggi conducono
tutte le ricerche e le tecnologie più sofisticate. Si tratterebbe di
qualcosa di equivalente all’epopteia del Simposio di Platone o all’advaïta
dei pensatori indù, ma ottenuto attraverso lo sforzo degli esseri
umani; al punto che coloro che – tra questi ultimi – sono progrediti
maggiormente nella ricerca e nella prospettive future, collocano
l’avvenimento di tale “punto omega” in futuro molto prossimo.
Non penso si debba sorridere davanti a tale utopia transumanista, che
conferisce una forma contemporanea al desiderio essenziale – per quanto
spesso non cosciente – dell’uomo: il desiderio che la propria verità
stia oltre se stesso. A tale forma contemporanea si possono certo
obiettare i considerevoli pericoli legati alla messa in opera, concreta e
continua, delle formidabili risorse dell’intelligenza artificiale:
pericoli non solo per l’uomo in generale, ma anche per il pianeta e per
l’universo[2].
Mi limito soltanto a sottolineare quello che mi pare sia il “vizio”
celato in questa utopia: il suo individualismo. Ci si chiede come
l’uomo, autonomous individual, possa giungere al culmine delle
trasformazioni di cui è tecnicamente capace, e, pur non ignorando i
rischi di tale impresa, si tende a minimizzarli, non considerando come
“l’individuo autonomo” non esista affatto, non sia mai esistito, e come
l’essere umano in realtà sia, e sia sempre stato, con altri.I quali sono per lui essenziali.
In verità, la vita non è fatta per essere aumentata secondo le
possibilità di una ingegneria tecnica sempre più capace, ma per essere
ricevuta e donata. La massima evangelica “Chi perde la sua vita la
troverà” costituisce il solo paradosso capace di indicare il cammino di
un autentico “transumanesimo”. Se gli “altri” fanno parte di ciò che
concorre a un vero progresso umano, occorre ascoltarli, accogliere il
loro dono e le loro parole, e dunque trasformare il desiderio di “essere
sempre più” nel desiderio di “essere con”, di “essere per”: desiderando
che noi siamo, e non soltanto che io sia. Questo
significa, concretamente, “morire a se stesso” per rinascere con altri.
Gli eroi e i santi, uomini realmente “aumentati”, sono coloro che lo
hanno compreso e la cui memoria è benedizione.
Vorrei qui citare un breve testo che François Cheng ha scritto recentemente, facendo risuonare l’ultima strofa del Cantico delle creature
di san Francesco d’Assisi: “La morte, nella sua essenza, non è affatto
una fine assurda, una figura spaventosa che giunge dall’esterno.
Dall’esterno può giungere ogni possibile tipo di aggressione, ma la
morte in se stessa è la parte più intima di ciascuno, il frutto che
ciascuno porta in sé, frutto contenente carne, succo e semi, attraverso
il quale si potrà rinascere diversamente, accedendo a un diverso stato
d’essere”[3].
Cheng sta qui pensando alla morte corporale evocata da san Francesco.
Eppure non è forse ogni istante della nostra vita morte e risurrezione?
La rinuncia, nata dal prendersi cura dell’altro e di “se stesso come un
altro” (come diceva Paul Ricoeur) è un atto intimo continuamente sollecitato dalla vita, grazie al quale si accede a un differente stato d’essere.
Se si acconsente ad essa, momento per momento, quella morte corporale
che ci sarà a suo tempo data, sarà vissuta come il frutto maturo della
vita, come primizia di risurrezione. La morte e la risurrezione di Gesù,
di cui ho parlato in un post precedente in questo stesso blog, ne sono l’icona.
Questo non significa che dobbiamo rinunciare a ogni progetto
transumanista. Significa però che occorre preservare tale progetto dagli
aspetti fantascientifici che esso talvolta coltiva, e soprattutto
mantenerlo all’interno di una visione della vita dominata non dalle
aspirazioni incontrollate dell’individuo autonomo, ma dal tema della
morte e della risurrezione in quanto legate a una cura dell’altro che ne
costituisce la verità. In questo mondo e nell’altro.