Gli esseri umani non
si sono mai rassegnati ad essere semplicemente quello che sono: segnati
dal limite, dalla colpa, dal dolore, dalla morte, cercano nel culto,
nel mito, nell’ascesi, nella mistica, nel fare memoria e nel progettare,
delle vie verso un oltre rispetto a se stessi. Di tale oltre non
sanno molto, ma senza di esso non saprebbero realmente vivere. Una
forma contemporanea di tale impazienza nei confronti della condizione
umana è legata ai recenti sviluppi dell’intelligenza artificiale.
Internet ne è il simbolo.
Già oggi, e in modi assolutamente imprevedibili per una persona
anziana che ripensi alla propria giovinezza, l’uomo contemporaneo è
“aumentato” rispetto a quel che era. E – in non pochi ambiti – ha fin
d’ora superato se stesso. Ne è segno tangibile il rapporto con il tempo e
con lo spazio, ridotti l’uno e l’altro a una immediatezza un tempo
inimmaginabile, non soltanto per quanto riguarda le informazioni, ma
pure per quanto riguarda le decisioni. In questo senso, siamo già nel
“transumanesimo”: stiamo passando da una condizione umana a un’altra[1].
E sembra che non ci siano ragioni per le quali tutto questo dovrebbe
fermarsi, dato che le realizzazioni e le prospettive future
dell’intelligenza artificiale non presentano limiti. Sembrerebbe che
tutto consista nel trasferire le prestazioni di quest’ultima
all’interno dell’uomo stesso, offrendo così ad esso, attraverso le
risorse delle nano-scienze e delle nanotecnologie, una liberazione
completa da quelle condizioni contingenti che lo mantengono ancora
legato al proprio corpo (spazio), un corpo limitato nella sua longevità
(tempo) e, in ultima istanza, sottomesso alla morte. L’intelligenza
artificiale permette non solo di sviluppare il “transumano”, ma anche di
immaginare il “post-umano” e di intravedere ciò che viene chiamato la
“singolarità”, ovvero il momento in cui tutto sarà ribaltato in una
intelligibilità pura ed efficace, verso la quale fin d’oggi conducono
tutte le ricerche e le tecnologie più sofisticate. Si tratterebbe di
qualcosa di equivalente all’epopteia del Simposio di Platone o all’advaïta
dei pensatori indù, ma ottenuto attraverso lo sforzo degli esseri
umani; al punto che coloro che – tra questi ultimi – sono progrediti
maggiormente nella ricerca e nella prospettive future, collocano
l’avvenimento di tale “punto omega” in futuro molto prossimo.
Non penso si debba sorridere davanti a tale utopia transumanista, che
conferisce una forma contemporanea al desiderio essenziale – per quanto
spesso non cosciente – dell’uomo: il desiderio che la propria verità
stia oltre se stesso. A tale forma contemporanea si possono certo
obiettare i considerevoli pericoli legati alla messa in opera, concreta e
continua, delle formidabili risorse dell’intelligenza artificiale:
pericoli non solo per l’uomo in generale, ma anche per il pianeta e per
l’universo[2].
Mi limito soltanto a sottolineare quello che mi pare sia il “vizio”
celato in questa utopia: il suo individualismo. Ci si chiede come
l’uomo, autonomous individual, possa giungere al culmine delle
trasformazioni di cui è tecnicamente capace, e, pur non ignorando i
rischi di tale impresa, si tende a minimizzarli, non considerando come
“l’individuo autonomo” non esista affatto, non sia mai esistito, e come
l’essere umano in realtà sia, e sia sempre stato, con altri. I quali sono per lui essenziali.
In verità, la vita non è fatta per essere aumentata secondo le
possibilità di una ingegneria tecnica sempre più capace, ma per essere
ricevuta e donata. La massima evangelica “Chi perde la sua vita la
troverà” costituisce il solo paradosso capace di indicare il cammino di
un autentico “transumanesimo”. Se gli “altri” fanno parte di ciò che
concorre a un vero progresso umano, occorre ascoltarli, accogliere il
loro dono e le loro parole, e dunque trasformare il desiderio di “essere
sempre più” nel desiderio di “essere con”, di “essere per”: desiderando
che noi siamo, e non soltanto che io sia. Questo
significa, concretamente, “morire a se stesso” per rinascere con altri.
Gli eroi e i santi, uomini realmente “aumentati”, sono coloro che lo
hanno compreso e la cui memoria è benedizione.
Vorrei qui citare un breve testo che François Cheng ha scritto recentemente, facendo risuonare l’ultima strofa del Cantico delle creature
di san Francesco d’Assisi: “La morte, nella sua essenza, non è affatto
una fine assurda, una figura spaventosa che giunge dall’esterno.
Dall’esterno può giungere ogni possibile tipo di aggressione, ma la
morte in se stessa è la parte più intima di ciascuno, il frutto che
ciascuno porta in sé, frutto contenente carne, succo e semi, attraverso
il quale si potrà rinascere diversamente, accedendo a un diverso stato
d’essere”[3].
Cheng sta qui pensando alla morte corporale evocata da san Francesco.
Eppure non è forse ogni istante della nostra vita morte e risurrezione?
La rinuncia, nata dal prendersi cura dell’altro e di “se stesso come un
altro” (come diceva Paul Ricoeur) è un atto intimo continuamente sollecitato dalla vita, grazie al quale si accede a un differente stato d’essere.
Se si acconsente ad essa, momento per momento, quella morte corporale
che ci sarà a suo tempo data, sarà vissuta come il frutto maturo della
vita, come primizia di risurrezione. La morte e la risurrezione di Gesù,
di cui ho parlato in un post precedente in questo stesso blog, ne sono l’icona.
Questo non significa che dobbiamo rinunciare a ogni progetto
transumanista. Significa però che occorre preservare tale progetto dagli
aspetti fantascientifici che esso talvolta coltiva, e soprattutto
mantenerlo all’interno di una visione della vita dominata non dalle
aspirazioni incontrollate dell’individuo autonomo, ma dal tema della
morte e della risurrezione in quanto legate a una cura dell’altro che ne
costituisce la verità. In questo mondo e nell’altro.
(traduzione dal francese di Stefano Biancu)
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