giovedì, marzo 17, 2016

Benedizione del viaggiatore, San Patrizio

Possa la strada venirti incontro;
possa il vento soffiare
sempre alle tue spalle;
possa il sole splendere
sempre sul tuo viso
e la pioggia cadere
soffice sul tuo giardino
e fino a che non ci
incontreremo di nuovo
possa Dio tenerti
nel palmo della Sua mano 

Benedizione del viaggiatore, San Patrizio


mercoledì, marzo 09, 2016

Per Marcos

Per Marcos che é nato il 5 di Marzo.

Quando un giorno ti lascia
Pensa all'altro che spunta.

Ê sempre pieno di promesse il nascere
Sebbene sia straziante
E l'esperienza d'ogni giorno insegna
Che nel legarsi, sciogliersi o durare
Non sono i giorni se non vano fumo.

Ungaretti




mercoledì, gennaio 13, 2016

Die Wise

Die Wise teaches the skills of dying, skills that have to be learned in the course of living deeply and well. Not a seven step coping strategy, not an out-clause for trauma or sorrow, Die Wise is for everyone who, hell or high water, is not going to pull off eternity after all. Dying is not the end of wisdom and wisdom not exhausted by dying. Dying could be and must be the fullest expression and incarnation of what you’ve learned by living. It’s a moral obligation to die well. If you love somebody, if you care about the world that’s to come after you, if you want somebody to be spared the lunacy of what you’ve seen, you’ve got to die wise.

Orphan Wisdom

ΑΞΙΟΝ ΕΣΤΙΝ ΗΧΟΣ ΠΛΑΓΙΟΣ ΤΟΥ ΠΡΩΤΟΥ (το Πατριαρχικόν)

domenica, gennaio 03, 2016

Tolkien

The Gospel contains a fairy-story, or a story of a larger kind which embraces all the essence of fairy-stories. They contain many marvels—peculiarly artistic, beautiful, and moving: ‘mythical’ in their perfect, self-contained significance; and among the marvels is the greatest and most complete conceivable eucatastrophe. But this story has entered History and the primary world; the desire and aspiration of sub-creation has been raised to the fulfillment of Creation. The Birth of Christ is the eucatastrophe of Man’s history. The Resurrection is the eucatastrophe of the story of the Incarnation. . . . To reject it leads either to sadness or to wrath.

 Tolkien, “On Fairy-Stories,” 155-56

domenica, dicembre 27, 2015

+ B A R T O L O M E O
PER GRAZIA DI DIO ARCIVESCOVO DI COSTANTINOPOLI
NUOVA ROMA E PATRIARCA ECUMENICO
A TUTTO IL PLEROMA DELLA CHIESA
GRAZIA, MISERICORDIA E PACE DA CRISTO SALVATORE
NATO A BETLEMME


Fratelli e Figli amati nel Signore,


La dolcezza della Santa Notte di Natale avvolge ancora una volta il mondo. E nel mezzo delle pene e delle sofferenze dell’umanità, della crisi e delle crisi, delle passioni e delle inimicizie, delle insicurezze e delle delusioni prevale con lo stesso fascino di sempre, reale e attuale come mai, il mistero della incarnazione di Dio, che ci spinge a “imparare la giustizia, noi abitanti della terra” (Is. 26,9), poiché “per noi oggi è nato un Salvatore” (Lc. 2,11).

Purtroppo, tuttavia, nella nostra epoca molti uomini pensano come quell’uccisore di bambini, Erode, quell’ignobile e spietato,  e annientano il loro prossimo in svariati modi. La mente distorta dal proprio egocentrismo  del dominatore di tale mondo, che viene personificata nel volto omicida di Erode, ha visto paradossalmente un pericolo per la propria esistenza, la nascita di un bambino innocente. E come modo più opportuno per proteggere il proprio potere mondano dal pericolo che gli ispirava – dal suo punto di vista – la nascita del bambino, ha scelto di annientarlo.

Per salvarsi dalle intenzioni omicide, il Bambino Gesù, di cui ne hanno parlato gli Angeli, fu obbligato a fuggire in Egitto, costituendo così, diremmo secondo la terminologia della nostra epoca, “un rifugiato politico”, unitamente a Maria, Sua Madre, la Santissima Madre di Dio e a Giuseppe suo sposo.

Nella nostra epoca, considerata come un’epoca di progresso, molti bambini sono costretti a diventare profughi, seguendo i propri genitori, per salvare la propria vita, vita che i loro molteplici nemici guardano con sospetto. Tale fatto costituisce una ignominia per il genere umano.

Perciò anche durante la Nascita del Bambino Gesù, il nostro vero redentore e Salvatore, dal Santissimo Trono Ecumenico, Apostolico e Patriarcale proclamiamo, che tutte le società devono assicurare una crescita serena dei bambini e rispettare il loro diritto alla vita, alla educazione  e alla loro crescita sociale, che può essere loro assicurata dalla alimentazione e dalla istruzione nell’ambito della famiglia tradizionale, con base i principi dell’amore, della filantropia, della pace, della solidarietà, beni che il Signore incarnato ci offre .

Il Salvatore che è nato, chiama tutti ad accogliere questo messaggio di salvezza degli uomini. E’ vero che lungo la storia dell’uomo, i popoli hanno effettuato molte migrazioni ed insediamenti. Speravamo tuttavia che dopo le due guerre mondiali  e le dichiarazioni sulla pace di leader ecclesiastici e politici e di organismi, le società odierne avessero potuto assicurare la convivenza pacifica degli uomini nei propri paesi. I fatti purtroppo deludono la speranza, in quanto grandi masse di esseri umani, difronte alla minaccia del loro annientamento, sono obbligati a prendere la via della migrazione.

Tale situazione creatasi, con l’onda continuamente crescente dei profughi, accresce la nostra responsabilità, quanti abbiamo ancora la benedizione di vivere in pace e con qualche comodità, a non restare insensibili davanti al dramma giornaliero di miglia di nostri fratelli, ma ad esprimere loro la nostra tangibile solidarietà e amore, con la certezza che ogni beneficenza verso di loro, giunge al volto del Figlio di Dio che è nato ed ha preso carne, il Quale non è venuto al mondo come un re, o come un dominatore, o come un potente, o come un ricco, ma è stato generato come un bimbo ignudo ed inerme, in una piccola stalla, senza un focolare, così come vivono in questo momento migliaia di nostri fratelli, ed è stato obbligato nei primi anni della Sua vita terrena a espatriare in una terra lontana, per salvarsi dall’odio di Erode. Potremmo dire, che la terra ed il mare bevono il sangue innocente dei bambini dei profughi di oggi, mente la anima insicura di Erode “ha ricevuto il giudizio”.

Questo divino fanciullo nato e portato in Egitto, è il reale difensore dei profughi di oggi, dei perseguitati dagli Erode di oggi. Egli,  il Bambino Gesù, il nostro Dio, “si  è fatto debole con i deboli” (1 Cor. 9,22), simile a noi, ai privi di forza, agli umiliati, a coloro che sono in pericolo, ai profughi. L’assistenza ed il nostro aiuto verso i perseguitati ed i nostri fratelli deportati, indipendentemente dalla razza, stirpe e religione, saranno per il Signore che nasce, doni assai più preziosi dei doni dei magi, tesori più onorabili “dell’oro, dell’incenso e della mirra” (Mt. 2,11), ricchezza spirituale inalienabile e unica, che non si rovinerà per quanti secoli passeranno, ma ci attenderà nel regno dei Cieli.

Offriamo dunque ciascuno di noi, quanto possiamo al Signore, che vediamo nel volto dei nostri fratelli profughi. Offriamo al piccolo Cristo partorito oggi a Betlemme, questi venerabili doni dell’amore, del sacrificio, della filantropia, imitando la sua benevolenza, e prosterniamoci a Lui con gli Angeli, i magi ed i semplici pastori, gridando “gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra  agli uomini che egli ama” (Lc. 2,14), assieme a tutti i Santi.

La grazia e la copiosa misericordia del profugo Bambino Gesù, siano con tutti voi!

Natale 2015
Il Patriarca di Costantinopoli
Fervente intercessore presso Dio per tutti voi.

venerdì, dicembre 25, 2015

Valaquenta

"Per arroganza, dallo splendore decadde al disprezzo di tutte le cose salvo se stesso, spirito funesto ed impietoso. Trasformò l'intellezione in sottigliezza pervertendo alla propria volontà quanto poteva servirgli, fino a che divenne un bugiardo privo di qualsiasi vergogna. Cominciò con il desiderio della Luce, ma quando non riuscì a possederla esclusivamente per sé, calò, tra fuoco e ira, dentro un grande incendio, giù nell'Oscurità."



sabato, dicembre 12, 2015

Solzhenitsyn

… We turned our backs upon the Spirit and embrace all that is material with excessive and unwarranted zeal. This new way of thinking, which has imposed upon us its guidance, did not admit the existence of intrinsic evil in man nor did it see any higher task than the attainment of happiness on earth. It based modern Western civilization on the dangerous trend to worship man and his material needs… Merely freedom does not in the least solve all the problems of human life and it even adds a number of new ones.”

Solzhenitsyn

martedì, novembre 24, 2015

Mario Tronti

Ma l’idea di comunismo non poteva essere un’idea materialista: è l’interno dell’uomo, quello che il capitalismo uccide. Il capitalismo è esattamente questo: l’eliminazione dell’interiorità e quindi della libertà. Bisognerebbe rilanciare, soprattutto agli occhi delle nuove generazioni la passione rivoluzionaria del contrasto con tutta intera l’organizzazione del mondo attuale e il rifiuto di tutto intero l’attuale modo di vita. Queste scaramucce quotidiane contro questo o quell’aspetto del quotidiano, decreti governativi, mutamenti istituzionali, sistema di partito, la stessa contestazione dell’ordine economico-finanziario, sia esso in crisi o in sviluppo, non funzionano come politica veramente altra se non li metti dentro una strategia di guerra globale allo stato di cose presente. Guerra civilizzata, come abbiamo imparato dalla grande storia del movimento operaio e come si è disimparato dalle mediocri esperienze delle varie sinistre contemporanee.

martedì, novembre 17, 2015

Thoughts in the Presence of Fear







I. The time will soon come when we will not be able to remember the horrors of September 11 without remembering also the unquestioning technological and economic optimism that ended on that day.
II. This optimism rested on the proposition that we were living in a “new world order” and a “new economy” that would “grow” on and on, bringing a prosperity of which every new increment would be “unprecedented”.
III. The dominant politicians, corporate officers, and investors who believed this proposition did not acknowledge that the prosperity was limited to a tiny percent of the world’s people, and to an ever smaller number of people even in the United States; that it was founded upon the oppressive labor of poor people all over the world; and that its ecological costs increasingly threatened all life, including the lives of the supposedly prosperous.
IV. The “developed” nations had given to the “free market” the status of a god, and were sacrificing to it their farmers, farmlands, and communities, their forests, wetlands, and prairies, their ecosystems and watersheds. They had accepted universal pollution and global warming as normal costs of doing business.
V. There was, as a consequence, a growing worldwide effort on behalf of economic decentralization, economic justice, and ecological responsibility. We must recognize that the events of September 11 make this effort more necessary than ever. We citizens of the industrial countries must continue the labor of self-criticism and self-correction. We must recognize our mistakes.
VI. The paramount doctrine of the economic and technological euphoria of recent decades has been that everything depends on innovation. It was understood as desirable, and even necessary, that we should go on and on from one technological innovation to the next, which would cause the economy to “grow” and make everything better and better. This of course implied at every point a hatred of the past, of all things inherited and free. All things superseded in our progress of innovations, whatever their value might have been, were discounted as of no value at all.
VII. We did not anticipate anything like what has now happened. We did not foresee that all our sequence of innovations might be at once overridden by a greater one: the invention of a new kind of war that would turn our previous innovations against us, discovering and exploiting the debits and the dangers that we had ignored. We never considered the possibility that we might be trapped in the webwork of communication and transport that was supposed to make us free.
VIII. Nor did we foresee that the weaponry and the war science that we marketed and taught to the world would become available, not just to recognized national governments, which possess so uncannily the power to legitimate large-scale violence, but also to “rogue nations”, dissident or fanatical groups and individuals – whose violence, though never worse than that of nations, is judged by the nations to be illegitimate.
IX. We had accepted uncritically the belief that technology is only good; that it cannot serve evil as well as good; that it cannot serve our enemies as well as ourselves; that it cannot be used to destroy what is good, including our homelands and our lives.
X. We had accepted too the corollary belief that an economy (either as a money economy or as a life-support system) that is global in extent, technologically complex, and centralized is invulnerable to terrorism, sabotage, or war, and that it is protectable by “national defense”
XI. We now have a clear, inescapable choice that we must make. We can continue to promote a global economic system of unlimited “free trade” among corporations, held together by long and highly vulnerable lines of communication and supply, but now recognizing that such a system will have to be protected by a hugely expensive police force that will be worldwide, whether maintained by one nation or several or all, and that such a police force will be effective precisely to the extent that it oversways the freedom and privacy of the citizens of every nation.
XII. Or we can promote a decentralized world economy which would have the aim of assuring to every nation and region a local self-sufficiency in life-supporting goods. This would not eliminate international trade, but it would tend toward a trade in surpluses after local needs had been met.
XIII. One of the gravest dangers to us now, second only to further terrorist attacks against our people, is that we will attempt to go on as before with the corporate program of global “free trade”, whatever the cost in freedom and civil rights, without self-questioning or self-criticism or public debate.
XIV. This is why the substitution of rhetoric for thought, always a temptation in a national crisis, must be resisted by officials and citizens alike. It is hard for ordinary citizens to know what is actually happening in Washington in a time of such great trouble; for all we know, serious and difficult thought may be taking place there. But the talk that we are hearing from politicians, bureaucrats, and commentators has so far tended to reduce the complex problems now facing us to issues of unity, security, normality, and retaliation.
XV. National self-righteousness, like personal self-righteousness, is a mistake. It is misleading. It is a sign of weakness. Any war that we may make now against terrorism will come as a new installment in a history of war in which we have fully participated. We are not innocent of making war against civilian populations. The modern doctrine of such warfare was set forth and enacted by General William Tecumseh Sherman, who held that a civilian population could be declared guilty and rightly subjected to military punishment. We have never repudiated that doctrine.
XVI. It is a mistake also – as events since September 11 have shown – to suppose that a government can promote and participate in a global economy and at the same time act exclusively in its own interest by abrogating its international treaties and standing apart from international cooperation on moral issues.
XVII. And surely, in our country, under our Constitution, it is a fundamental error to suppose that any crisis or emergency can justify any form of political oppression. Since September 11, far too many public voices have presumed to “speak for us” in saying that Americans will gladly accept a reduction of freedom in exchange for greater “security”. Some would, maybe. But some others would accept a reduction in security (and in global trade) far more willingly than they would accept any abridgement of our Constitutional rights.
XVIII. In a time such as this, when we have been seriously and most cruelly hurt by those who hate us, and when we must consider ourselves to be gravely threatened by those same people, it is hard to speak of the ways of peace and to remember that Christ enjoined us to love our enemies, but this is no less necessary for being difficult.
XIX. Even now we dare not forget that since the attack of Pearl Harbor – to which the present attack has been often and not usefully compared – we humans have suffered an almost uninterrupted sequence of wars, none of which has brought peace or made us more peaceable.
XX. The aim and result of war necessarily is not peace but victory, and any victory won by violence necessarily justifies the violence that won it and leads to further violence. If we are serious about innovation, must we not conclude that we need something new to replace our perpetual “war to end war?”
XXI. What leads to peace is not violence but peaceableness, which is not passivity, but an alert, informed, practiced, and active state of being. We should recognize that while we have extravagantly subsidized the means of war, we have almost totally neglected the ways of peaceableness. We have, for example, several national military academies, but not one peace academy. We have ignored the teachings and the examples of Christ, Gandhi, Martin Luther King, and other peaceable leaders. And here we have an inescapable duty to notice also that war is profitable, whereas the means of peaceableness, being cheap or free, make no money.
XXII. The key to peaceableness is continuous practice. It is wrong to suppose that we can exploit and impoverish the poorer countries, while arming them and instructing them in the newest means of war, and then reasonably expect them to be peaceable.
XXIII. We must not again allow public emotion or the public media to caricature our enemies. If our enemies are now to be some nations of Islam, then we should undertake to know those enemies. Our schools should begin to teach the histories, cultures, arts, and language of the Islamic nations. And our leaders should have the humility and the wisdom to ask the reasons some of those people have for hating us.
XXIV. Starting with the economies of food and farming, we should promote at home, and encourage abroad, the ideal of local self-sufficiency. We should recognize that this is the surest, the safest, and the cheapest way for the world to live. We should not countenance the loss or destruction of any local capacity to produce necessary goods
XXV. We should reconsider and renew and extend our efforts to protect the natural foundations of the human economy: soil, water, and air. We should protect every intact ecosystem and watershed that we have left, and begin restoration of those that have been damaged.
XXVI. The complexity of our present trouble suggests as never before that we need to change our present concept of education. Education is not properly an industry, and its proper use is not to serve industries, either by job-training or by industry-subsidized research. It’s proper use is to enable citizens to live lives that are economically, politically, socially, and culturally responsible. This cannot be done by gathering or “accessing” what we now call “information” – which is to say facts without context and therefore without priority. A proper education enables young people to put their lives in order, which means knowing what things are more important than other things; it means putting first things first.
XXVII. The first thing we must begin to teach our children (and learn ourselves) is that we cannot spend and consume endlessly. We have got to learn to save and conserve. We do need a “new economy”, but one that is founded on thrift and care, on saving and conserving, not on excess and waste. An economy based on waste is inherently and hopelessly violent, and war is its inevitable by-product. We need a peaceable economy.

Wendell Berry
 
Wendell Berry lives and works with his wife, Tanya Berry, on their farm in Port Royal, Kentucky. An essayist, novelist, and poet, he is the author of more than thirty books. Berry has received numerous awards, including the T. S. Eliot Award, the John Hay Award, the Lyndhurst Prize, and the Aiken-Taylor Award for Poetry from The Sewanee Review. His books include the classic The Unsettling of America, Andy Catlett: Early Travels, and The Selected Poems of Wendell Berry.

venerdì, novembre 13, 2015

Transumanesimo e risurrezione



Gli esseri umani non si sono mai rassegnati ad essere semplicemente quello che sono: segnati dal limite, dalla colpa, dal dolore, dalla morte, cercano nel culto, nel mito, nell’ascesi, nella mistica, nel fare memoria e nel progettare, delle vie verso un oltre rispetto a se stessi. Di tale oltre non sanno molto, ma senza di esso non saprebbero realmente vivere. Una forma contemporanea di tale impazienza nei confronti della condizione umana è legata ai recenti sviluppi dell’intelligenza artificiale. Internet ne è il simbolo.
Già oggi, e in modi assolutamente imprevedibili per una persona anziana che ripensi alla propria giovinezza, l’uomo contemporaneo è “aumentato” rispetto a quel che era. E – in non pochi ambiti – ha fin d’ora superato se stesso. Ne è segno tangibile il rapporto con il tempo e con lo spazio, ridotti l’uno e l’altro a una immediatezza un tempo inimmaginabile, non soltanto per quanto riguarda le informazioni, ma pure per quanto riguarda le decisioni. In questo senso, siamo già nel “transumanesimo”: stiamo passando da una condizione umana a un’altra[1]. E sembra che non ci siano ragioni per le quali tutto questo dovrebbe fermarsi, dato che le realizzazioni e le prospettive future dell’intelligenza artificiale non presentano limiti. Sembrerebbe che tutto consista nel trasferire le prestazioni  di quest’ultima all’interno dell’uomo stesso, offrendo così ad esso, attraverso le risorse delle nano-scienze e delle nanotecnologie, una liberazione completa da quelle condizioni contingenti che lo mantengono ancora legato al proprio corpo (spazio), un corpo limitato nella sua longevità (tempo) e, in ultima istanza, sottomesso alla morte. L’intelligenza artificiale permette non solo di sviluppare il “transumano”, ma anche di immaginare il “post-umano” e di intravedere ciò che viene chiamato la “singolarità”, ovvero il momento in cui tutto sarà ribaltato in una intelligibilità pura ed efficace, verso la quale fin d’oggi conducono tutte le ricerche e le tecnologie più sofisticate. Si tratterebbe di qualcosa di equivalente all’epopteia del Simposio di Platone o all’advaïta dei pensatori indù, ma ottenuto attraverso lo sforzo degli esseri umani; al punto che coloro che – tra questi ultimi – sono progrediti maggiormente nella ricerca e nella prospettive future, collocano l’avvenimento di tale “punto omega” in futuro molto prossimo.
Non penso si debba sorridere davanti a tale utopia transumanista, che conferisce una forma contemporanea al desiderio essenziale – per quanto spesso non cosciente – dell’uomo: il desiderio che la propria verità stia oltre se stesso. A tale forma contemporanea si possono certo obiettare i considerevoli pericoli legati alla messa in opera, concreta e continua, delle formidabili risorse dell’intelligenza artificiale: pericoli non solo per l’uomo in generale, ma anche per il pianeta e per l’universo[2]. Mi limito soltanto a sottolineare quello che mi pare sia il “vizio” celato in questa utopia: il suo individualismo. Ci si chiede come l’uomo, autonomous individual, possa giungere al culmine delle trasformazioni di cui è tecnicamente capace, e, pur non ignorando i rischi di tale impresa, si tende a minimizzarli, non considerando come “l’individuo autonomo” non esista affatto, non sia mai esistito, e come l’essere umano in realtà sia, e sia sempre stato, con altri. I quali sono per lui essenziali.
In verità, la vita non è fatta per essere aumentata secondo le possibilità di una ingegneria tecnica sempre più capace, ma per essere ricevuta e donata. La massima evangelica “Chi perde la sua vita la troverà” costituisce il solo paradosso capace di indicare il cammino di un autentico “transumanesimo”. Se gli “altri” fanno parte di ciò che concorre a un vero progresso umano, occorre ascoltarli, accogliere il loro dono e le loro parole, e dunque trasformare il desiderio di “essere sempre più” nel desiderio di “essere con”, di “essere per”: desiderando che noi siamo, e non soltanto che io sia. Questo significa, concretamente, “morire a se stesso” per rinascere con altri. Gli eroi e i santi, uomini realmente “aumentati”, sono coloro che lo hanno compreso e la cui memoria è benedizione.
Vorrei qui citare un breve testo che François Cheng ha scritto recentemente, facendo risuonare l’ultima strofa del Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi: “La morte, nella sua essenza, non è affatto una fine assurda, una figura spaventosa che giunge dall’esterno. Dall’esterno può giungere ogni possibile tipo di aggressione, ma la morte in se stessa è la parte più intima di ciascuno, il frutto che ciascuno porta in sé, frutto contenente carne, succo e semi, attraverso il quale si potrà rinascere diversamente, accedendo a un diverso stato d’essere”[3]. Cheng sta qui pensando alla morte corporale evocata da san Francesco. Eppure non è forse ogni istante della nostra vita morte e risurrezione? La rinuncia, nata dal prendersi cura dell’altro e di “se stesso come un altro” (come diceva Paul Ricoeur) è un atto intimo continuamente sollecitato dalla vita, grazie al quale si accede a un differente stato d’essere. Se si acconsente ad essa, momento per momento, quella morte corporale che ci sarà a suo tempo data, sarà vissuta come il frutto maturo della vita, come primizia di risurrezione. La morte e la risurrezione di Gesù, di cui ho parlato in un post precedente in questo stesso blog, ne sono l’icona.
Questo non significa che dobbiamo rinunciare a ogni progetto transumanista. Significa però che occorre preservare tale progetto dagli aspetti fantascientifici che esso talvolta coltiva, e soprattutto mantenerlo all’interno di una visione della vita dominata non dalle aspirazioni incontrollate dell’individuo autonomo, ma dal tema della morte e della risurrezione in quanto legate a una cura dell’altro che ne costituisce la verità. In questo mondo e nell’altro.
(traduzione dal francese di Stefano Biancu)

Perché discutere?

« Discuter est un exercice narcissique où chacun fait le beau à son tour : très vite, on ne sait plus de qui on parle. Ce qui est très difficile, c’est de déterminer le problème auquel telle ou telle proposition répond. Or si l’on comprend le problème posé par quelqu’un, on n’a aucune envie de discuter avec lui : ou bien on pose le même problème, ou bien on en pose un autre et on a plutôt envie d’avancer de son côté
Comment discuter si l’on n’a pas un fonds commun de problèmes et pourquoi discuter si l’on en a un ? »

Félix Guattari