sabato, novembre 10, 2012

La rugiada sulla pelle

La rugiada sugli zucchini
Come una lacrima sulla pelle del rospo
Le murene le avevamo nutrite di funghi
I loro denti sibilavano adesso
Come carta vetrata.

genseki

I ceci

I ceci li avevamo condivisi
Con altri roditori
Ma era la luce che ci feriva
Il freddo scorreva lungo il vetro
Come fossero tanta tante sfere:
Nessuna aveva una forma.
Sotto la sferza della luna
Cercavamo di essere noi stessi
Come lupi scorticati
Fiutavamo la nostra pelle.

genseki

mercoledì, novembre 07, 2012

Rimbalzavano le perle

Rimbalzavano le perle sul mogano
Proprio come componevo le parole
Cosí banali che certo nessuno
Le avrebbe volute comprare
Al mercato della menzogna.

Nudi miei cani

Nudi miei cani, piú nudo ancora
Nel fango arcaico della bughiera
L'alito si condensava in sogno,
Tepore della carne straziata;

Latravano tra i rovi, l'erica;
La luna era una groviglio di spine.
Inoronato di denti frugavo
Tra le viscere della veglia.

lunedì, novembre 05, 2012

Discorso sopra lo stato ...

In queste righe di Leopardi basta soltanto sostituire "conversazioni" con "web o rete" per avere una perfetta descrizione del perché è perfettamente impossisbile commentare su blog, facebook e riviste online senza essere massacrato di insulti e "railleries".

Gl’Italiani posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente e di se pousser à bout colle parole, più che alcun’altra nazione. Il persifflage degli altri è certamente molto più fino, il nostro ha spesso e per lo più del grossolano, ed è una specie di polissonnerie, ma con tutto questo io compiangerei quello straniero che venisse a competenza e battaglia con un italiano in genere di raillerie. I colpi di questo, benché poco artificiosi, sono sicurissimi di sconcertare senza rimedio chiunque non è esercitato e avvezzo al nostro modo di combattere, e non sa combattere alla stessa guisa. Così un uomo perito della scherma è sovente sconcertato da un imperito, o uno schermitore riposato da un furioso e in istato di trasporto. Gl’Italiani non bisognosi passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue. Come altrove è il maggior pregio il rispettar gli altri, il risparmiare il loro amor proprio, senza di che non vi può aver società, il lusingarlo senza bassezza, il procurar che gli altri sieno contenti di voi, così in Italia la principale e la più necessaria dote di chi vuole conversare, è il mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi.

Sono incalcolabili i danni che nascono ai costumi da questo abito di cinismo, benché per verità il più conveniente a uno spirito al tutto disingannato e intimamente e praticamente filosofo, e da tutte le sovraespresse condizioni e maniere del nostro modo di trattarci scambievolmente. Non rispettando gli altri, non si può essere rispettato. Gli stranieri e gli uomini di buona società non rispettano altrui se non per essere ripettati e risparmiati essi stessi, e lo conseguono. Ma in Italia non si conseguirebbe, perché dove tutti sono armati e combattono contro ciascuno, è necessario che ciascuno presto o tardi si risolva e impari d’armarsi e combattere, altrimenti è oppresso dagli altri, essendo inerme e non difendendosi, in vece d’essere risparmiato. È anche necessario ch’egli impari ad offendere. Tutto ciò non si può conseguire prima che uno contragga un abito di disistima e disprezzo e indifferenza somma verso se stesso, perché non v’è cosa più nociva in questo modo di conversare che l’esser dilicato e sensibile sul proprio conto. Oltre che allora tutti i ridicoli piombano su di voi, si è sempre timido e incapace di offendere per paura di non soffrire altrettanto e provocarsi maggiormente gli altri, incapace di difendersi convenientemente perché la passione impedisce la libertà e la franchezza del pensare e dell’operare e l’aggiustatezza e disinvoltura delle difese. E basta che uno si mostri sensibile alle punture o abitualmente o attualmente perché gli altri più s’infervorino a pungerlo e annichilarlo. Oltre di ciò in qualunque modo il vedersi sempre in derisione per necessità produce una disistima di se stesso e dall’altra parte un’indifferenza a lungo andare sulla propria riputazione. La quale indifferenza chi non sa quanto noccia ai costumi? E certo che il principal fondamento della moralità di un individuo e di un popolo è la stima costante e profonda che esso fa di se stesso, la cura che ha di conservarsela (né si può conservarla vedendo che gli altri ti disprezzano), la gelosia, la delicatezza e sensibilità sul proprio onore. Un uomo senz’amor proprio, al contrario di quel che volgarmente si dice, è impossibile che sia giusto, onesto e virtuoso di carattere, d’inclinazioni, costumi e pensieri, se non d’azioni.
         Di più quanto v’ha di conversazione in Italia (ch’è la più parte ne’ caffè e ridotti pubblici, piuttosto che appresso i privati, appo i quali propriamente non si conversa, ma si giuoca, o si danza, o si canta, o si suona, o si passeggia, essendo sconosciute in Italia le vere conversazioni private che s’usano altrove); quel poco, dico, che v’ha in Italia di conversazione, essendo non altro che una pura e continua guerra senza tregua, senza trattati, e senza speranza di quartiere, benché questa guerra sia di parole e di modi e sopra cose di niuna sostanza, pure è manifesto quanto ella debba disunire e alienare gli animi di ciascuno da ciascuno, sempre offesi nel loro amor proprio, e quanto per conseguenza sia pestifera ai costumi divenendo come un esercizio per una parte, e per l’altra uno sprone dell’offendere altrui e della nimicizia verso gli altri, nelle quali cose precisamente consiste il male morale e la perversità dei costumi e la malvagità morale delle azioni e de’ caratteri. Ciascuno combattuto e offeso da ciascuno dee per necessità restringere e riconcentrare ogni suo affetto ed inclinazione verso se stesso, il che si chiama appunto egoismo, ed alienarle dagli altri, e rivolgerle contro di loro, il che si chiama misantropia. L’uno e l’altra le maggiori pesti di questo secolo. Così che le conversazioni d’Italia sono un ginnasio dove colle offensioni delle parole e dei modi s’impara per una parte e si riceve stimolo dall’altra a far male a’ suoi simili co’ fatti. Nel che è riposto l’esizio e l’infelicità sociale e nazionale. E questa è la somma della pravità e corruzion de’ costumi. Ed anche all’amore e spirito nazionale è visibile quanto debbano nuocere tali modi di conversare per cui trattiamo e ci avvezziamo a trattare e considerar gli altri sì diversamente che come fratelli, ed acquistiamo o intratteniamo ed alimentiamo uno spirito ostile verso i più prossimi. Laddove presso l’altre nazioni la società e conversazione, rispettandovisi ed anche pascendovisi per parte di tutti l’amor proprio di ciascheduno, è un mezzo efficacissimo d’amore scambievole sì nazionale che generalmente sociale; in Italia per la contraria cagione la società stessa, così scarsa com’ella è, è un mezzo di odio e di disunione, accresce esercita e infiamma l’avversione e le passioni naturali degli uomini contro gli uomini, massime contro i più vicini, che più importa di amare e beneficare o risparmiare; tanto che al paragone sarebbe assai meglio che ella non vi fosse affatto, e che gli italiani non conversassero mai tra loro se non nel domestico, e per li soli bisogni, come alcune nazioni poco polite e molto bisognose, o molto occupate e industriose. Certo la società che avvi in Italia è tutta di danno ai costumi e al carattere morale, senza vantaggio alcuno.

mercoledì, ottobre 31, 2012

Enantiodromia

La nada es menos que el frío
la nada o menos que nada
es como si Dios riera al ver
fracasar el poemma

Leopoldo Maria Panero

Macbeth

Il sonno mi tortura
Con la lama dei sogni
Ho ucciso tutti i coltelli
Non mi potró destare

genseki

Il problema azzurro

Mi hai messo in un problema azzurro
Che mai sapró risolvere
Mi hai meso in un poema al freddo
Lá fuori a pascolare
In un deserto febbrile di volpi
Come se fossi io la crepa
La fenditura nella sabbia
Che granello a granello
Divora anche il dolore.

genseki


Pioggia

La pioggia mi aveva lasciato
Piú quieto in passato
Maturava allora
D'acero in acero
Oppure tra i faggi in fitto colloquio
Una sfida:
Goccia dopo goccia
Orecchio gemente
Come una perla ascoltava
Le scariche nel muschio
Poi la rivolta vana ammutoliva
In gocce di vetro verde
Veggenti

genseki

Leopoldo Maria Panero

Da Jot Down Magazine

Leopoldo Maria Panero




Como la vida del verso es una partida
de ajedrez con el horror
y el poema es peor que la muerte.


Da: Teoria del miedo

martedì, ottobre 30, 2012

Il vento tra gli olivi

Il vento tra gli olivi
Screpola la banchisa: graffi di acqua nera,
Trema appena la fiammella di un cero.
Sotto la volta romanica
Il muschio divora le pietre
Fin dove si estingue la brughiera.

martedì, ottobre 23, 2012


De senectute

V'è in me un'immagine della vecchiaia che ha a che vedere, con i lupi, l'inverno, Parigi e la neve. Insomna con Villon.
La presa di coscienza, "l'Insight" della vecchiaia è in me associata da tanto tempo con la miniatura immaginaria di un inverno medioevale, con un interno povero, scomodo, sporco ma abbastanza scaldato da un allegro braciere da rendere piacevole il contrasto con la notte fredda e fiera che morde la città.
Invecchiare è questione di un istante. Tutto comincia e finisce in un istante e in quell'attimo la vita prende ad allontantarsi nel passato.
Il passato diventa allora qualche cosa che ha molto piú a che fare con la geografia che con la cronologia. Una delle possibilitá che offre la vecchiaia è quella di cartografare la vita.
Si tratta di osservare la vita come una mappa, o come chi scruta un vasto paesaggio di pianura e basse colline da una montagna, o da una mongolfiera.
Ecco la landa allontanarsi vertiginosamente verso il basso e ampiarsi l'orizzonte fino a che i particolari: quel fienile, il cortile di quella scuola, il lupo che fiuta la traccia, la fuga zigzagante della lepre sull'ultima neve di primavera, finiscono per confondersi in verde e luce.
Ma torniamo a Villon. La vecchiaia ha bisogno di un fuoco, un bracere, un camino, una stufa insomma.
Ne ha bisogno per difendersi dal suo proprio inverno, cioè, in ultima istanza, per difendersi da se stessa, perché la vecchiaia è inverno.
Essa è peró anche rifugio.La vecchiaia a essa stessa a se stessa rifugio.Il calore accumulato in tutta una vita vissuta in modo appena dignitoso è sufficiente a conseguire un tepore e una protezione ragionevolmente confortevoli quando la fuori sibila l'inverno dell'annientamento. L'equilibrio che rende preziosa la vecchiaia è solo questo.
La mia povera vita non mi ha permesso di accumulare grandi ricchezze spirituali, no ne sono stato capace, non ho saputo rendermene degno. Quel poco che ho savato da tante procelle di cui fui naufrago basta comunque a scaldarmi. In questo tepore mi acccoccolo con gusto.
La vecchiaia non si sporge sulla morte, non ha finestro che diano immediatamente sul cortile del cimitero.
La vecchiaia è vecchiaia, la morte è morte.
In una prospettiva politica la vecchiaia ci permette di non essere giovani senza destare sospetti polizieschi. Ci libera dalla gioventú coatta che è la sola condizione permessa ai sudditi del capitale. Da questo incubo, infine, ci è consentito svegliarci. Non è detto che ci si riesca. Il successo resta dubbio, la tentazione è, tuttavia, luminosa. Occorre che invecchiando si resti prigionieri della gioventú coatta, si è allora il "ritratton di Dorian Grey di se stessi". Il Capitale è il pittore. Anzi questo orrore è la condizione comune dei sudditi del Capitale. Io sono ben deciso a invecchiare come un vecchio. Ho impiegato tutta la gioventú per premararmi a questa sfida. Sono deciso a espiare il peccato di gioventú: essere stato per tutta la giovinezza imperdonabilmente giovane.
genseki

lunedì, ottobre 22, 2012

Deleuze

“poiché la razza votata all'arte o alla filosofia non è quella che si pretende pura, ma quella oppressa, bastarda, inferiore, anarchica, nomade, irrimediabilmente minore..."
 Deleuze – Guattari.

venerdì, ottobre 19, 2012

Alberi


Questa è una poesia di Bolls Corracha caratteristica del periodo del suo lungo soggioro a Jeve e dell'amicizia povera e spoglia con Jules Lapache.
genseki


 Questa poesia è dedicata agli alberi
Nella stagione in cui sono più tristi
La scrivo infatti il 31 Dicembre,
di notte prima che finisca l’anno

Privi di foglie lavati dalla pioggia
Avvolti nella nebbia
Intirizziti
Ora paiono antenne di metallo
Lance d’acciaio dai riflessi grigi
Che attendono tremando irrigiditi
Il bacio lieve, bianco della neve
Che li rivesta come morte spose
Del suo lino di gelo
Che simuli sui rami fantasmatici
La gioia spenta della fioritura.

Ché non c’è inverno
Privo di ricordi
Anche se non ululano più i lupi
Tra le file di tronchi fitte e scure
E non c’è morte senza che si disfi
L’ombra della speranza delle fronde.

Per questo scrivo gli alberi d’inverno
Quando le chiome sono solo d’ombra
Anche gli abeti sono fiamme nere
Profonde come il vento della notte.

Ritorneranno i boccioli arancione
E gialli per l’ardore d’esser verdi ?
Ora che il sogno dolce delle foglie
E’ un tappeto di linee che cancella
la pioggia grigia col fango vischioso ?

Foglie peltate, rotonde, reniformi
Digitate lobate bipennate
Forme di cuori d’asce di coltelli
di corna e zampe vive verdi orme
tenere carte tarocchi della vita
Ritorneranno a incarnare la luce
nella forma più verde del suo gioco
Nelle chiome che fremono di suoni
Chiome piramidali o arrotondate
Ombrelliformi oppure colonnari
Chiome candele di resina e di linfa
Chiome di latte e sperma vegetale ?

Ora le chiome sono solo un sogno
Ora la vita è nuda e trasparente
Raggi di vento ed aghi di cristallo
La trafiggono come fosse assente

Per questo scrivo gli alberi d’inverno
nella stagione in cui sono più tristi
Il 31 Dicembre: Capodanno.

Bolls Corracha
a cura di genseki

Jean Grosjean