lunedì, febbraio 14, 2011

Regola grammaticale

Regola grammaticale

La grammatica, come norma colettiva in poesia, non ha ragion d'essere. Ogni poeta forgia la propria grammatica personale e che non puo' essere trasferita, la propria sintassi, ortografia, analogia, prosodia, semantica. Basta che non esca dalle consuetudini di base dell'idioma. Il poeta può persino cambiare, in certo modo la struttura letterale e fonetica di una stessa parola, secondo i casi. E questo, lungi dal restringere la portata socialista e uniersale della poesia, come si potrebbe credere, la dilata all'infinito. Si sa che quanto più personale (ripeto, non dico individuale) è la sensibilità dell'artista, tanto la sua opera è più universale e collettiva.

César Vallejo

Otto Klemperer: Prelude to Richard Wagner's Lohengrin

Il nome

Il mio nome era tutto quello che volevi sapere
Elsa. Il mio nome.
All'Osteria del Gozzo tra una toma
E un gotto di Carcairone
Ti avvicinavi al mio ginocchio
Come la volpe alle uova del pavone
Ma nemmeno il mio ginocchio
Sapeva il mio nome,
Poi passeggiando ti indicavo
I gattici fioriti, gli arbusti della fusaria
E i fori delle mine fluviali
Profumavi di alga il mio nome
Lo chiedevi sulle unghie
Nel sorriso, nella curva del collo
Nella profondità del tuo tepore
Il mio nome pero' non lo conoscevo
Lo avevo perduto forse una volta in stazione
Mi era caduto di tasca mente cercavo
Di obliterare il biglietto nella fessura
Di quella macchina troppo gialla
La geografia delle tue mani non era
Mappa sufficiente per indovinare nemmeno la mia origine
Ritornammo passando per il lago
In Nissan
Come un grande cigno bianco


genseki

Il crepitare altissimo d'incendi

Il crepitare altissimo d'incendi
lassù sull'altipiano dove le nuvole di marmo
Ci oscuravano il respiro
Il vento delle lacrime ti scuoteva
Come i rami dell'abete
Il fumo si faceva più solido
Tu dipingevi quel melo dalla finestra del bagno
Ti osservavo dalla siepe
Tra gli altri alberi da frutto
Al congedarti odore di verderame
Poi fu sera, tramonto, oltre la curva fiamme
Come sfrigolavano cervi e miniature
Un istante di cenere il nostro
Con un occhio ai tuoi collant
Fissavo il rogo della cordigliera
Come un'immenso coniglio rosso
Scuotere sfrenato le orecchie
Davanti al parabrezza.

genseki

Juan Larrea

Juan Larrea

Spine quando nevica

Sognami sognami in fretta stella di terra
Coltivata dalle mie palpebre afferrami per i miei manici d'ombra
Inebriami di ali di marmo ardendo, ardendo stella stella tra le mie ceneri

Potere potere alla fine trovare sotto il mio sorriso la statua
Di una sera di sole i gesti a fior d'acqua
Gli occhi a fior di inverno

Tu che nell'alcova del vento stai vegliando
L'innocenza di dipendere dalla bellezza “volandera”
Che si tradisce nell'ardore con cui le foglie si voltano verso il petto più debole

Tu che assumi luce e abisso al borco di questa carne
Che cade fino ai miei piedi come vivezza ferita

Tu che in selva d'orrori avanzi smarrita

Supponi che nel mio silenzio vive una oscura rosa senza uscita e senza lotta

**

Il mare in persona

Eccolo il mare innalzato in un battito di ciglia
Il mare senza sogno come una grande paura di trifogli fioriti
Nella postura della terra sottomessa come sembra
Se ne vanno digià con le loro lane di evidenza sulla nube e sulla sua fatica
All'ombra di un olmo non c'è mai tempo da perdere

Credula squisita l'oscurità mi viene incontro
Nella mia fronte abita lo scorza di pane che mi porto dentro
Tagliato a picco su un uccello insicuro

Così mi allontano per azione del piano
Che mi cuce alle piante che precorrono il mare
Un cervo d'autunno scende a leccare la luna della tua mano
E ora sulla mia sponda il mondo comincia a spogliarsi
Per morire d'alberi in fondo ai miei occhi
I miei capelli si riempiono di pesci di penombra
Di scheletri di navi forzate

Senza andare più lontano
Sei fredda come l'ascia che abbatte il silenzio
Nella lotta tra il paesaggio e il suo colpo d'occhio

Poi quando il cielo esporta i suoi pianisti celebri
E la pioggia l'odore della mia persona
Come il tuo bel cuore si tradisce

Trad. genseki

Isola ti chiamavo

Isola ti chiamavo Elsa, Elisa
Tu mi chiamavi. Come mi chiamavo?
Non mi chiamavo, non avevo nome.
Tu sempre domandavi finché quasi
Volevo dirti di chiamarmi cigno
Nube, Callisto, Melibeo, Elosabad,
Islamey, Lohengrin, Ulisse. Zero.
Come mi chiamo? Ancora me lo chiedi?
Mi chiamero', mi chiamero' Tiamo.
Tu non smettevi pero' di domandare
Fino a rientrare nel tuo secondo sogno.

Gerardo Diego
Trad.genseki

San Sebastiano


Guido Reni

San Sebastiano

San Sebastiano

Legato a un tronco un corpo, torso bianco bersaglio.
Sibilo, volo, un bosco di saette.
Candore che oramai si scorge appena
Di bellissima pelle. Ombre
Di penne e di steli ecco oscurano
La lividezza così prepotente. Fiumi
Di sangue macchiano sul petto
Le bande della nobiltà nel Cristo.

Danzando fu la sua danza rapita.
Tronco non fu d'olivo in fiamma e nodo
Né fusto di betulla argentea lebbra.
Né torsione veementissima del sandalo
Che immobilizzi così sul proprio asse
L'alata varietà solo in un grido.

È Sebastiano il martire che vendica
La superbia oceanica, lo scoglio
Ove un titano incatenato canta
Nel fuoco e nella danza si scatena.
La fiamma non rubo' ma l'alimenta
Col suo sangue la esalta e la ridona
Al cielo che l'assorbe in nuovo incendio.

O bandiera di rossi e di violetti
E azzurri rapidissimi, o incolume
Sebastiano nell'asta, nel candore
Zebrato. Gia s'estraggono quei dardi
E nel sollievo tu canti in trionfo,
Danzi la fe di Cristo insanguinata.

Gerardo Diego
Trad. genseki

L'azzurro

Fu l'azzurro che garantì la nostra nascita
In dolcezza e celebrata promessa,
Poi qualcuni guardo' attraverso lo sguardo
Come affaciandosi da una finestra aperta
E un altro risuono' inclemente
Nel vuoto della voce:
L'anima esplose come reticolo
Come carosello di spore
Le mani le avevamo legate in mille nodi
Un nodo per ogni nome
Uno per lo sguardo, uno per chi origliava
Dalla stretta fessura delle orecchie
Il mondo si fece allora giardino
La speranza condannata a germogliare
Ognuno ha diritto ad almeno due vite
Una contiene se stessa e un'altra
La morte resta il seme piú fecondo.

genseki

Pelléas et Mélisande (Mes longs cheveux)

 
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Per ricordarmi dei tuoi capelli

Per ricordarmi dei tuoi capelli
Mi bastava fissare le mie dita
Le lune delle tue unghie, pure
Erano sciabole delle mie iridi.
Il segreto come decifrarlo?
O il tormento dei tuoi gesti,
Quando toglievi la mollica del pane
Scartavi il cuore delle mele
Ti chinavi ad accarezzare la caviglia
Con la tempia all'altezza della tavola preparata?
Il fiume dei tuoi capelli
Era come un firmamento
Un oceano di rame
Salato come il ghigno delle fiamme
Nell'inesanatura del caminetto.

genseki

L'azzurro

L'azzurro lo lasciai
Che aggredisse i miei occhi
Fino a farli leggeri come macchie
Fino a rendere l'ozono sonoro come la moneta
Che cade sullo zinco dell'acquisto
Perchè se di questo si trattava
Allora solo l'azzuro era la nostra lingua
Garanzia della vita ossigeno dell'essere
E i nostri corpi più liberi dei loro vestiti
Si sarebbero lasciati spogliare dall'anima
Dal vento
Per questo invocai l'azzuro sulle colline di cenere
Nei boschetti di ossa lo invocai
Con il flauto di sambuco accennando
melodie di miele
Perchè finalmente la mia voce perdesse
la sua pelle di polvere
E il solo senso fosse vuoto sguardo.

genseki

Bolañismi

Manuel Maples Arce, paseando por la Calzada del Cerro, bosque de
Chapultepec, México DF, agosto de 1976.
Este joven, Arturo Belano, vino a
verme para hacerme una entrevista. Sólo lo vi una vez. Lo acompañaban dos
muchachos y una muchacha, no sé sus nombres, casi no abrieron la boca, la
muchacha era norteamericana.
Le dije que abominaba del magnetófono por la misma razón que mi amigo
Borges abominaba de los espejos. ¿Usted fue amigo de Borges?, me preguntó
Arturo Belano con un tono asombrado un poco ofensivo para mí. Fuimos bastante
amigos, le respondí, íntimos, podría decirse, en los días lejanos de nuestra
juventud. La norteamericana quiso saber por qué Borges abominaba de los
magnetófonos. Supongo que porque es ciego, le dije en inglés. ¿Qué tiene que ver
la ceguera con los magnetófon dijo ella. Le recuerda los peligros del oído, le
respondí. Escuchar su propia voz, los pasos de uno mismo, los pasos del
enemigo. La norteamericana me miró a los ojos y asintió. No creo que conociera a
Borges demasiado bien. No creo que conociera mi obra en absoluto, aunque a mí
me tradujo John Dos Passos. Tampoco creo que conociera mucho a John Dos
Passos.
En fin, me pierdo. ¿En dónde estaba? Le dije a Arturo Belano que prefería
que no usara el magnetófono y que sería mejor que me dejara un cuestionario con
preguntas. Él accedió. Sacó una hoja y redactó las preguntas mientras yo le
enseñaba algunas habitaciones de la casa a sus acompañantes. Luego, cuando
tuvo terminado el cuestionario, hice que trajeran unas bebidas y estuvimos
hablando. Ya habían entrevistado a Arqueles Vela y a Germán List Arzubide.
¿Cree usted que alguien se puede interesar actualmente por el estridentismo?, le
pregunté. Por supuesto, maestro, dijo él, o algo parecido. Yo creo que el
estridentismo ya es historia y como tal sólo puede interesar a los historiadores de
la literatura, le dije. A mí me interesa y no soy un historiador, dijo él. Ah, bueno.
Esa noche, antes de acostarme, leí el cuestionario. Las preguntas típicas
de un joven entusiasta e ignorante. Hice, esa misma noche, un borrador con mis
respuestas. Al día siguiente lo pasé todo en limpio. Tres días más tarde, tal como
habíamos convenido, vino él a buscar el cuestionario. La criada lo hizo pasar pero
le dijo, por expresa instrucción mía, que yo no estaba. Luego le entregó el paquete
que yo tenía preparado para él: el cuestionario con mis respuestas y dos libros
míos que no me atreví a dedicarle (creo que hoy los jóvenes desdeñan estos
sentimentalismos). Los libros eran Andamios interiores y Urbe. Yo estaba al otro
lado de la puerta, escuchando. La criada dijo: esto le ha dejado el señor Maples.
Silencio. Arturo Belano debió de coger el paquete y mirarlo. Debió de hojear los
libros. Dos libros publicados hace tanto tiempo y con las páginas (excelente papel)
sin cortar. Silencio. Debió de mirar por encima el cuestionario. Después oí que
daba las gracias a la criada y se marchaba. Si vuelve a visitarme, pensé, estaré
justificado, si un día aparece por mi casa, sin anunciarse, para conversar conmigo,
para oírme contar mis viejas historias, para poner sus poemas a mi consideración,
estaré justificado. Todos los poetas, incluso los más vanguardistas, necesitan un
padre. Pero éstos eran huérfanos de vocación. Nunca volvió.
Roberto Bolaño
Los Detectives Salvajes

Manuel Maples Arce


Manuel Maples Arce

Prisma

Io sono un punto morto nel centro del momento
Equidistante al grido naufrago di una stella
Un parco
La luna senza corda
Mi opprime alle vetrate.

Margherite dorate
Che si sfogliano al vento.

Insorta la città di annunci luminosi
Galleggia in calendari,
E poi di sera in sera.
Per la strada stirata si dissangua il tranvai.

L'insonnia come fosse un rampicante,
Si avviluppa ai traliccci del telegrafo
Mentre vanno i rumori scardinando le porte
La notte si fa magra leccando il suo ricordo.

Il silenzio giallino mi risuona sugli occhi,
Prisma, diafana mia, come sentire tutto!

Le separai le mani,
Ma proprio in quel momento
Grigio delle stazioni
Le sue parole fradice mi si strinsero al collo,
E una locomotiva
Assetata di chilometri la strappo' dalle mie braccia.

Il suono delle sue parole oggi è più gelido che mai
E la locura di Edison a mani di pioggia!

Il cielo è un ostacolo al condominio inverso
Rifratto nelle lunule ombrose degli specchi;
I violini non crescono al modo del moscato,
E mentre van le orecchie esplorando il mattino
Rabbrividisce ossuto l'inverno in guardaroba.

Mi debordano i nervi
La stella del ricordo
Naufragava nell'acqua

Del silenzio

Tu de io

Ci incontrammo

Nella notte terribile,

Meditazione tematica
Che appassisce in giardini.

Locomotori, grida,
Arsenali, telegrafi,
E l'amor della vita
Son già sindacalisti,

E tutto si dilata in circoli concentrici.

Trad. genseki

Presunta foto di Duca o Buca Spadari

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Frammento

Ti sporgevi dai tuoi sogni come da una caverna
Ma il mio sonno era verde come quello dei cinghiali
Sognavo un sogno di lupo prigioniero
Nella magia di una miniera di carbone
E i tuoi piedi come due colombe
Frullavano sgraditi alle mie tempie
Le unghie delle tue mani erano firmamento
Nella notte dei bambù e dei denti ...

genseki

Unica Rovelli

Poi non seppi più nulla di Dreiser Cazzaniga e non rividi più, per lunghi anni, il comissario Fabro, cosi che finii per dimenticarmi del tutto di quell'incidente marginale e sgradevole. Fu inaspettatamente e per puro caso che rividi il commisario Fabro nella piccola latteria al lato della Cattedrale nella quale solevo cercare rifugio nei momenti di tranquilla serenità e solitudine che si facevano sempre più splendidi, frequenti e luminosi con l'avanzare della vecchiaia, amavo questo mio lungo tramonto, i miei passi che si facevano incerti, la stanchezza, l'insonnia che rendeva le notti un'avventura febbrile, gli antidolorifici e il loro tremolante sopore e le ultime latterie, specialmente quella al lato della cattedrale, con l'odore di limone e canella, i grandi contenitori di vetro con le perle di zucchero e le gocce di cioccolato, il frigorifero panciuto che era un'imitazione vecchissima di un modello ancora più vecchio di frigorifero statunitense che sarebbe stato perfettamente al suo posto in una casa marziana visitata da Bradbury. Una manona si appoggio' pesantemente con cordialità non gradita sulla mia spalla, e la voce pastosa e sfrigolante del comissario Fabro scivolo' nelle mie orecchie senza apparente sforzo: - Lermita! È dal tempo di Scoriosozzo che non la vedo, si ricorda, la manzottin? -
Come dimenticarla – dissi rabbrividendo involontariamente.
Si sieda Lermita, posso offrirle un caffe?
Non potevo fuggire perché la porta stava proprio dietro il comissario che en occupava tutta la larghezza, e non me la sentivo di tentare la fuga attraverso il retrobotega perché poi avrei avuto difficoltà a restare cliente di una latteria dalla quale ero fuggito per liberarmi della polizia. Mi sedetti e il gentile Fabro mi aggiorno' sul caso di Dreiser Cazzaniga. Risultava che Il Duca o Buca Spadaro non lo poterono reperire e quindi non fu interrogato. Attraverso vari riscontri si poté appurare che le scatole di carne manzottin erano state rubate dalla macchina di Buca o Duca Spadaro da Dunja Rabam Kosovara che ruppe il vetro posteriore con un mattone che portava nella borsa da Pristina. Dunja non aprì le scatolette perché temeva che fossero una trappola dei cristiani e che contenessero carne di maiale, così nonostante le proteste dei bambini le cambio' con due confezioni di pannolini giganti alla vecchia Gita che viveva davanti alle rovine dell'antica fabbrica Eterthanatos in cui Dunja aveva trovato rifugio con la famiglia dai rigori dell'inverno. La vecchia Gita aveva barattato le scatole di carne Simental con 15 kili di torba e 10 Kili di russule emetiche da Biotto Cèpedo, il viandante dei boschi che le aveva portate a valle da una delle sue lunghe escursioni sui fianchi poderosi del Mucrone. Biotto Cèpedo, alla fine en aveva usato il contenuto per preparare trappole per le volpi e gli sciacalli, nessuno sciacallo e nessunissima volpe si era degnata di farsi attrarre da quella pastura e Biotto Cèpedo aveva usato le scatole vuote per allontanare i passeri dal suo piccolo vigneto. Il telefono mobile di Dreiser Cazzaniga aveva registrato questo messaggio circa una settimana prima della sua morte: “Non voglio più parlare con te basta messaggi e telefonate, e lasciaci in pace”. Firmato Duca o Buca Spadaro. Il plurale. Chi era l'altro o gli altri che Dreiser Cazzaniga doveva lasciare in pace? Fu appurato che Duca o Buca Spadaro era stato visto nella valle e sui sentieri del Mucrone in compagnia di tale Unica Rovelli, ex-concubina di Bilbo il Chimico che Duca o Buca Spadaro aveva amato nell'adolescena e che per farlo ingelosire si era sposata con Bilbo il chimico e aveva visuto con lui circa trentanni geneando figli e figlie nella città alemanna di Francomorte. Unica Rovelli era facilmente riconoscibile dalla bocca, aveva una bocca larga, che si apriva da orecchia a orecchia come se la testa fosse stata tagliata in due poco sopra il mento e le due parti separate lasciate distrattamene appoggiate una sull'altra. La bocca di Unica Rovelli non era oscena. Questo no. Ma creava in quanti si imbattevano in lei una sensazione di doloroso disagio che risultava difficile da definire. Insomma, trattandosi di bocca era facile che la mente si immergesse in indecorose comparazioni, ma era più una ferita che una bocca e lo sguardo en percorreva i margini come volesse suturarla per recuperare il suo equilibrio in forza di un gesto pietoso verso tanta sventura. Unica Rovelli era per unanime testimonianza di quanti l'avevano conosciuta una creatura psicologicamente gelatinosa con l'anima di un'assassina piagnucolosa. Duca o Buca Spadaro e Unica Rovelli hanno fatto perdere le proprie tracce, alcuni miei collaboratori dubitano persino che siano esistiti, credono che siano una leggenda formatasi nei boschi del Mucrone, magari dalla fantasia avariata di Biotto Cèpedo dopo un'indigestione di muscaria e veicolata da carbonai e ortolane sulla base di qualche elemento reale. Magari Diuna aveva rubato davvero un paio di scatolette di carne manzottin dalla bicicletta di una vedova, una poveretta dalla bocca deforme aveva mangiato polenta scunsa in qualche piola della valle, e questi fatti avevano colpito la fantasia popolare. Dreiser Cazzaniga era morto e se la coppia Buca Unica era reale certo aveva avuto qualche responsabilità in questo avvenimento.
Furono di questo tenore le conclusioni del comissario Fabro e quella fu l'ultima volta che lo vidi e che sentii parlare di Dreiser Cazzaniga fino a quando conobbi genseki.
Tristano Lermita