La prima volta che apprendemmo che i nostri amici venivano macellati ci fu un grido d’orrore. Poi ne vennero massacrati cento.
Ma quando ne rimasero uccisi mille e il macello non finiva, si estese una coperta di silenzio. Quando il male arriva come la pioggia, nessuno urla: alt!
Quando i crimini si ammucchiano diventano invisibili.
Quando le sofferenze diventano insopportabili, le grida non si sentono più.
Anche le grida cadono, come pioggia d’estate.
Bertolt Brecht
sabato, gennaio 30, 2010
Gypsy holocaust Auschwitz song Latcho Drom
Dreiser Cazzaniga e la meraviglia
Eppure la meraviglia si trova intessuta a tutta la sua vicenda vitale. La meraviglia per la neve che sempre ritorna e che sembra cambiare il mondo per sempre. Poi se en va si scioglie e sembra che non ci sia mai stata. La meraviglia per la camminata di una ragazza sul marciapiedi davanti al bar in cui sta comprando il biglietto del treno e tante altre meraviglie di tipo minimalista come quelle di Amélie o del primo sorso di birra, insomma.
In realtá anche piú meravigliosa è la meraviglia oscura, la meraviglia per la testardaggine dei malvagi, per esempio, per la loro astuzia paziente, per la noncuranza dei violenti, per la viltá dei vinti, per la propria viltá.
La meraviglia oscura ebbe su Dreiser Cazzaniga un potere forse maggiore dell'altra. Questa è una affermazione dubbia perché effettivamente Dreiser fu sempre semplicemente schiacciato, annientato dalla meraviglia della natura. La meraviglia che sempre lo attendeva all'entrata di un sentiero nel bosco, alla scoperta di una radura, all'apparizione di una nuova sfumatuta dell'autunno.
Meraviglia e vergogna furono i due poli dell'anima rinsecchita di Dreiser Cazzaniga, almeno fino a quando non scoprí il sarcasmo e la frenesia dell'umorismo.
Un giorno la mamma comunicó solennemente al piccolo Dreiser Cazzaniga che il tempo era venuto per lui di scendere a giocare al patio con gli altri mocciosi e matotti di Briggio. Dreiser non sapeva che cosa fosse il patio, dalla finesta della cucina vedeva gli abeti sui fanchi dei monti che separavano Briggio dalla cittá che un grand'uomo batezzó Pastrufazio sventolare come manti d'avventura e rabbrividí di verde.
Il patio invece era un terreno tra i condomini recentemente innalzati, pieno di detriti metallici, mucchi di sabbia, pozze e scheletri di furgoni militari ianchi della lontana guerra dei padri rossi.
Accoccolato nella sabbia in un circolo col branco dei matotti Dreiser si sentí sereno, sicuro, concentrato a muovere un piccolo camion su strade immaginarie quando un moccioso scuro scuro chiamato Roberto gli gridó:
-ragno, ragno, sembra un ragno con quelle bianche gambette secche secche!
Dreiser non rispose la meraviglia gli colava in gola. Sorsi amari furono quelli. Perché, perché? Pensava e gli doleva il futuro troppo lungo e piano davanti alla sue mani incapaci di depredare.
a cura di genseki
venerdì, gennaio 29, 2010
Alamogordo
Le tue lacrime profumavano di miele
Come alcuni gelsomini sono latte
Le scostavi con una mano nuda
Come fossero cortina di pupilla
Entrava allora l'umido del lupo
Il roco alito del dirupo ventoso
E tante tante rose di caffé, sventate
Come fanciulle col primo completino di flanella
L'orbita sua era caverna al nostro tremare
Allo stringerci nei panni freschi dei tremuli
Pioppi
L'orizzonte era una sequenza di errori
Ritmati dai filari dei cactus.
genseki
giovedì, gennaio 28, 2010
Un amore di Dreiser Cazzaniga
Dreiser Cazzaniga passeggiava abbracciato a Stefi, la strizzava ma non la baciava, Stefi gli raccontava le pratiche sadomaso alle quali il fidanzato parmense era solito sottometterla nel fine settimana. Dreiser Cazzaniga non la vide mai nuda. Un volta lo invitó a dormire con lei nella sua casa di San Babila. Dreiser dormí sul divano lei gli versava il te in un bicchiere verde di quelli infrangibili avvolta in una camicia ibizenca dalle mille pieghe.
La mattina dopo Stefi gli raccontó che lo aveva sognato mentre entrava nella sua camera e le infliggeva larghe e profonde ferite slabbrate con un coltello da frutta arrugginito.
Dreiser Cazzaniga non la rivide mai piú.
genseki
Dialettica della memoria
Il “Giorno della memoria” è l'istituzionalizzazione della celebrazione rituale dell'unicitá e dell'eccezionalitá di quello che oggi viene comunemente chiamato “Olocausto”.
Il nazionalsocialismo tedesco segregó gli ebrei europei, li separó dalla comunitá umana li mise a parte come unici come eccezionali e giustificó in questo modo la necessitá del loro sterminio.
Proclamare oggi l'unicitá e l'eccezionalitá dello sterminio degli ebrei europei è assumere il punto di vista dei loro carnefici e consolidarlo.
Significa perpetuarlo attraverso la sua apparente negazione.
I nazisti commisero il genocidio perché considerarono gli ebrei a parte dell'umanitá, perché negarono il loro appartenere alla specie umana.
Proclamare l'unicitá dello sterminio degli ebrei relativamente a tutti gli altri stermini e genocidi che ritmano la millenaria preistoria umana è accettare questa loro separazione questa loro segregazione, significa fare proprio il punto di vista dei carnefici.
Lo sguardo con cui la vittima si guarda si confonde con quello con cui la guarda il suo carnefice.
Quello che si esecra è lo sterminio, ma si accetta la separatezza che en è la condizione teorica.
La negazione del nazismo sarebbe la negazione della separatezza, della segregazione sarebbe l'affermazione della comune dolente dignitá di tutte le vittime in quanto vittime e in quanto umane.
Affermare la natura unica e straordinaria dello sterminio significa accettare la logica che lo ha prodotto, perpetuarlo e quindi creare le condizioni per l'avvento e la giustificazioni di altri stermini, di altro orrore.
In questo senso la memoria è almento di odio sempre nuovo, condizione di possibilitá di altro orrore.
La perpetuazione della memoria non è la negazione dell'olocausto ne è la cattiva sintesi dialettica.
genseki
mercoledì, gennaio 27, 2010
Eduard Bagrickij (1895-1934)
*
Egli era considerato come la figura principale del "Romanticismo Rivoluzionario Sovietico" e si lodava soprattutto il suo indistruttibile ottimismo sovietico nonostante la salute molto compromessa e il suo impiego dei temi clasici della poesia popolare ucraina e di quella russa. In effettii nella sua poesia sono forti gli influssi di Robert Burns e del poeta nazionale ucraino Taras Shevchenko ma anche quelli dei Poeti Maledetti, dei parnassiani e dei romantici tedeschi.
Viktor Shklovskii scrisse:
Il poeta contemla l mondo attraverso lo stroboscopio del suo cuore...
Bagrickij morí a trentasette anni. I suoi capelli erano tutti grigi. Centocinquanta scalini separavano la sua stanza dal mondo. Adorava il sole, il sud, l'anguria, gli uccelli, il mare, la prmavera e tra lui e il mondo c'erano centocinquanta scalini.
Nella sua stanza c'era un pesce; il pesce nuotava in acqua azzurra. Il pese nell'acqua azzurra fu l0ultimo frammento di vita che poté vedere dal suo giaciglio.
Eduard Bagrickij (1895-1934)
L'ultima notte
Il fagiano esplose come un fuoco d'artificio
I pallini strapparono gli aghi dalle foglie.
L'uccello piomb'cometa di penne,
In uno scompiglio di albe primaverili.
L'Arciduca tornó a casa.
Si spoglió. Bevve del vino.
Il setter morbido gli si stese
Ai piedi, come una sfinge.
La pistola con cui fu ucciso
(Non ne ricordo il tipo)
Giaceva ancora dall'armaiolo
Fra una canna da pesca e un coltello.
Il futuro assasino sonnecchiava,
La testa reclinata
Sul duro pugno giovinetto
Coperto di bruno pelo.
A Odessa i castagni si vestivano di fumo
E quando scendeva la sera, il mare,
Ansando, si volgeva sul suo asse,
Simile a una ruota.
La mia finestra dava nel giardino
E nel crepuscolo, tra il fogliame,
Becchi di gas s'alzavano turchini
Sopra le insegne delle birrerie.
E su questa luce effevervescente
Rumoreggiando con un milione d'ali
Volavano gli stornelli a sfracellarsi
Contro i vtri e contro i cavi.
Primavera gl spingeva dalle rocce nere
Con la sferza ei venti di mare.
Uscii...
Dietro la porta mi si chiuse...
E la notte circondandomi
D'un moto d'ali, fiori e stelle,
Sorse in tutti gli angoli.
Oltrepasai le piccole case ebree.
Udivo il terribile ronfiare
Dei carrettieri stesi nei carri,
E nelle finestre si vedeva
Il sabato in parrrucca porporina
Che andava reggendo una candela.
Oltrepassai le piccole case ebree
Uscii al brillio delle rotaie
Al deposito tranviario si struggeva
Il lampione, circondato dalla grande primavera.
Avevo solo diciassette anni
E per questo certo la notte
Turbinava e respirava in me
E mi camminnava accanto.
Ero il suo specchio, il suo sosia,
Ero un secondo universo
I pianeti mi penetravano
Da parte a parte, come un bichier d'acqua,
E mi pareva che una luce leggera
Stillasse dai pori simile a sudore.
Oltrepassai il deposito tranviaruo
Dietro, imponderabile come il fumo
La via asfaltata, turbinando, volava
Ad occidente verso le onde del mare.
E d'un tratto udii un suono prolungato:
Sul mondo volava una tromba,
Languendo di passione. E io dissi
"Ecco le prime gru!"
Sulla polvere, sulla mia giovinezza
Passava echeggiando quella tromba,
E le stelle si gettavano da parte,
Con un palpito all'urto delle larghe ali.
...
trad. V. Strada
martedì, gennaio 26, 2010
Assente
Quando ti abbraccio stringo la tua assenza
Come tra i denti si asciuga lunga fame
Quando gli abeti si sfasciano a sciami
Mentre mi sfuggi respiro il tuo tepore
Viva presenza del tuo corpo in viaggio
Nelle contrade di granito e ghiaccio
Dove l'alloro è un sogno di metallo
E si stinge tra gli urti delle piume
La catastrofe oscura delle ciglia
Ti stringo assente come fossi pane
Per saziare la fame dei torrenti
Dorso d'anguilla lucida ti sciolgo
Perche mi sfugga all'orlo della bocca
Tutta la fresca estraneitá di un corpo
Che guizza e slitta dal mio deisderio.
genseki
lunedì, gennaio 25, 2010
Oltre
In cui l'animale alla soglia di se stesso
Sgorgava infine nel suo atto, nella negazione
Come sgorga il guanto dalle tua mano
E assume la casualitá della sua forma
Custodia del balenare tagliente
Delle tue unghie vere:
Il gatto dal nespolo transitava nel balzo
Per ricadere poi oltre se stesso
Con un cuore sanguinante e brandelli
Tra le fauci di un altro,
Mentre le tue unghie fredde
Azzurre ghigliottine delle pupille
Sorgevano incontro alla luna di settembre.
genseki
domenica, gennaio 24, 2010
La Bandiera Rossa
Nelle gallerie piú profonde del mio cuore ritroveró sempre l'andirivieni di quele innumerevoli lngue di fuoco alcune delle quali s attardavano a lambire uno stupendo fiore carbonizzato. Le nuove generazioni stentano a raffigurarsi uno spettacolo come quello di allora. In seno al proletariato non si erano ancora manifestati i dissidi di ogni tipo che hanno finito per lacerarlo.
Certo attorno alle bandiere nere le devastazioni fisiche erano piú sensibili, ma la passione aveva veramente traforato certi occhi lasciandovi dei punti indimenticabili di incandescenza, ra come se la fiamma fosse passata su tutti quegli uomini bruciandoli un po' di piú o un po' di meno...
André Breton
Da. "Arcano 17"
Antonio Porta
Lettera a Nina Lorenzini
21.12.1977
sabato, gennaio 23, 2010
Era un aprirsi
Di grandi foglie al fendere la ghiglia
L'impassibile palude della stanchezza
Soltanto un movimento di ventaglio
Negava il tempo e ne faceva perle
Una o due perle per ciascuna coppa
Da adesso a poi quindi da poi a prima
Era qualcosa come un dispiegarsi
Frullare forse schioccare da calice a calice
Dove il rumore si fondeva in luce
Liquida nelle bolle momentanee
Sfilare il tempo dalla guaina del desiderio
Era soltanto schiudersi di petali
Neri come campane di Bretagna
Quando il temporale gettava gli anni e i mesi
A manciate come stracci consunti
Sulle scogliere dove finiva il mondo
In un ansito asmatico di sputi.
genseki
Un circolo di circoli
Enciclopedia delle scienze filosofiche
Introduzione
Paragrafo 15
trad. B. Croce
venerdì, gennaio 22, 2010
Giocavamo alla luna
Giocavamo alla luna sulla lama delle colline
La luna che non c'era già piú la luna era nera
Scorreva la luna sulla tua schiena come scorre la luce
La luna al palmo della mia mano non osavi succhiarla
Eppure fu proprio la luna che ti accese lo sguardo
Quando ardeva la malaria come altre costellazioni
E ti consumava il mio fuoco come una perla
Sbucata da un vecchio guanto nell'armadio di nonna
Fino a rotolare tra i riccioli di formaggio
Le capriole delle scintille nel vecchio camino di Ippolito
Il paiolo della polenta che un poeta dialettale
Avrebbe invocato come la luna che si disfa nel feltro
Che tarme e falene sfarinano luna di febbraio
Luna spenta come paraffina con l'impronta
Dei nostri pollici unti.
genseki
giovedì, gennaio 21, 2010
Neve
Dalle orme dai voli spezzati nervature semi
Prima che tutte le ali fossero pietre
Lassú dove infine capovolto
Il cielo lasciava cadere i suoi corvi
Nel pozzo di strati infiniti del grigio
Corvi come stracci sbattuti qua e lá dal loro grido
Dal gracchiare che invano si sforzava
Di aprirsi in un segno rosso inesploso
O almeno di spezzarsi dolorosamente
In un cielo dai riflessi di cobalto
Il cobalto dell'avvento no! Il rosso
Non sgocciolava dalle colonne scistose
Che sorreggevano le volte vertiginosamente immobili
Dei grigi sovrapposti e la pioggia ancora non cadeva
A unire con i suoi fili i colori al loro significato
No! Non c'erano colori. C'era neve
Non c'erano significati negli schiocchi nelle orme
Dei passeri nelle righe delle ghiande come note
Sul pentagramma della radura
Un rintocco di rame sarebbe stato gelo
A rendere allora tutto piú giallo
Come occhio nell'uovo come uovo sognando
L'occhio pupilla di tuorlo
Le campane invece cigolarono grige
Come il bronzo nere come le aste dei campanili
Mentre il bianco pallido del sole
Soffiava sulla neve il suo alito di forfora
Sollevando in turbine spettrale
Frammenti di ali di farfalle screpolate dal gelo
Piume di albatros scacciate dalle antiche poesie
Caratteri dell'Olivetti lettera 32
Polvere di pneumatici fiori secchi d'ontano
Che furono dita delicatamente rose dal primo gelo
Di novembre
La neve fu il lenzuolo della scrittura
Il sudario del significato
La criniera gloriosa della terra
Ogni orma ogni traccia fu prova d'amore
genseki